Teoria
Rivista di filosofia
fondata da Vittorio Sainati
XXXVI/2016/2 (Terza serie XI/2)
Etiche applicate
Applied Ethics
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Indice
Luca Bertolino
Premessa/Premise, p. 5
Gianluca Cuozzo
Etica ed ecologia: agire contro i tempi,
tra sistema e creatività, p. 11
Andrew Linzey
Religione e sensibilità per la sofferenza degli animali, p. 27
Luisella Battaglia
Zoopolis. Una sfida per la bioetica animale, p. 37
Maurizio Mori
Bioetica, p. 53
João Maria André
Da un’antropologia della solitudine a un’etica della cura, p. 71
Luca Bertolino
Questioni di etica applicata per le pratiche filosofiche, p. 89
Eva De Clercq
Guardare attraverso il “genere”: una lente per scoprire
un nuovo mondo etico?, p. 105
Adriano Fabris
Etica delle macchine, p. 119
Giovanni Scarafile
Etica delle immagini, spectatorship e la questione ingenua
dell’oggettività della rappresentazione, p. 137
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Indice
Veronica Neri
Etica della comunicazione pubblicitaria. Mondi immaginari
e strategie della pubblicità commerciale, p. 149
Roberto Burlando
Etica ed economia, p. 165
Robert Audi
L’etica della virtù come risorsa nel mondo degli affari, p. 181
Enrico Donaggio
Etica e crisi. La critica sociale come passione, p. 211
Maurizio Ferraris
Dalla mobilitazione totale all’azione esemplare, p. 223
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Etiche applicate
Etica ed economia
Roberto Burlando
Ethics teaches that virtue is its own reward,
economics teaches that reward is its own virtue1
Il rapporto tra etica ed economia ha una storia lunga e complessa, che
rende il discuterne in uno spazio limitato sempre problematico e parziale. In questa occasione il tema è demarcato dal riferimento agli elementi
più attualmente significativi di questo lunghissimo confronto – sviluppato
in Occidente fin da Platone e soprattutto Aristotele attraverso un itinerario
che passa dalla scolastica ad Adam Smith, al marginalismo, per proseguire
in anni più recenti con John Rawls, Amartya Sen e Martha Nussbaum, Hans
Jonas e Michael Sandel –, ma ciò facilita la scelta solo attraverso l’evidenziazione di alcuni dei suoi necessari limiti.
Le riflessioni seguenti promanano dalla prospettiva di un economista da
sempre interessato alle intersezioni di questa disciplina con diverse altre
(soprattutto ma non solo in ambito umanistico) e che da anni si occupa del
rapporto con l’etica2 cercando di sollevare dubbi costruttivi sia sulle proposte teoriche che riguardano le due discipline sia sulla realtà contemporanea. Così facendo, ho incontrato spesso significative resistenze – quando non sostanziale ostilità (la forma, per gli economisti, quando si parla
di filosofia tende a essere meno drastica dei contenuti) – da parte di vari
colleghi economisti e invece una buona dose di curiosità da parte di alcuni
1 Si tratta di una delle molte battute a proposito dell’economia che circola tra gli addetti della
disciplina. Una collezione di esse si trova sul sito: http://www.economistjokes.com/jokes (consultato il 31 maggio 2016).
2 Cfr. Burlando, 1998, 2001, 2004, 2005, 2008a, 2008b e 2014.
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Roberto Burlando
filosofi morali, con alcuni dei quali abbiamo avviato un dialogo che continua a sfidare le divisioni disciplinari reintrodotte dalle recenti (contro)
riforme dell’università.
La principale ragione di ciò è (a mio avviso) abbastanza evidente a chi
conosce l’atteggiamento prevalente (fortunatamente ci sono significative eccezioni, anche se tendenzialmente marginalizzate nell’ambito della disciplina) degli economisti nei confronti della filosofia morale, caratterizzato da un
modesto interesse – basato sul convincimento che l’economia abbia ormai
risolto da decenni (se non dai tempi di Jeremy Bentham!) l’antica dipendenza e trovato una propria strada, sostanzialmente indipendente da questa. Gli
atteggiamenti più diffusi sembrano variare dalla quasi sorpresa nei confronti
delle proposte di attenzione al rapporto tra le due («ci è stato insegnato che
le due sono disgiunte, nettamente separate, e l’idea di collegarle appare una
novità»)3 alla valutazione che la teorizzazione economica moderna sia “tecnica” e prescinda da considerazioni etiche (le funzioni di utilità sono ormai uno
strumento analitico e come tale eticamente e teoricamente neutre, non implicano alcuna rilevante dimensione etica), avendo finalmente trovato una versione assiomatizzata (in particolare la teoria della scelta razionale, che consente di evitare almeno formalmente ogni riferimento etico e/o psicologico).
Queste ultime pur brevi considerazioni evidenziano un intreccio problematico tra le dimensioni etiche e metodologiche nell’ambito della teoria
economica, in particolare quello tra individualismo metodologico e riduttivismo, da un lato, e individualismo etico, dall’altro. Del resto considerazioni analoghe valgono anche per altre discipline che perseguono un’analoga
traiettoria, come evidenzia la seguente riflessione di Miguel Benasayag:
La biologia molecolare e quelle che vengono chiamate “neuroscienze” si presentano come se partissero da una posizione “quasi” senza ipotesi. Si tratterebbe
di studiare empiricamente quel che esiste nel modo in cui esiste [...]. L’attuale
tendenza dominante nella ricerca pretenderebbe, in tal modo, di operare senza
modelli, senza “a priori”, ma questa è appunto un’illusione, e si tratta di una illusione pericolosa visto che è impossibile lavorare senza una ipotesi di partenza
[...][;] in realtà, i modelli che oggi pretenderebbero di essere neutri – poiché sono
semplicemente quantitativi – eclissano o ignorano la sua [della ricerca] ipotesi di
base (Benasayag, 2015; trad. it. 2016: 15)4.
3 Tra i testimoni di posizioni di questo genere – che possono apparire così originali da far
dubitare della loro realtà – cito l’esimio collega Andrea Poma, che ne è stato colpito quanto me.
4 Non a caso diversi economisti paiono attratti da queste elaborazioni e la “neuroeconomia”
si è consolidata come area specialistica all’interno della disciplina.
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Gli economisti, si sa, non amano le complicazioni inutili (tranne quando
giocano con la matematica e l’econometria, ma queste generano un’impressione di rigore e scientificità che spesso aiuta ad autoconvincersi e poi a
convincere anche altri)5 e quindi neppure le discussioni su questi assiomi,
che sono stato il faticoso risultato di anni di riflessioni teoriche e battaglie
ideologiche e politiche e dunque possono/debbono essere considerati come
risultati ormai acquisiti.
La maggioranza degli economisti (ma ci sono diverse rilevanti eccezioni) adotta dunque di fatto – con le argomentazioni di cui sopra o senza
porsi il problema di averne – una “visione” di filosofia morale assai specifica, una varietà peculiare dell’utilitarismo che nel tempo è stata depurata
di alcuni degli elementi più rilevanti di questa tradizione di pensiero e
in particolare dell’universalismo. L’assunto è che ciascuno massimizza la
propria utilità – che può eventualmente contenere quella di qualcun altro,
parente o comunque qualcuno il cui benessere accresca quello del soggetto che massimizza (skin altruism) –, mentre la dimensione universalistica
è ridotta alla “composizione” degli interessi individuali, “esternalizzata”,
demandata a una mitica “mano invisibile”, un non meglio precisato meccanismo di mercato che assolve alle tipiche funzioni del deus ex machina6.
L’altra dimensione cruciale in cui la tendenza summenzionata viene
esercitata è appunto quella dell’interpretazione del ruolo e del funzionamento dello strumento principe – se non addirittura, in alcune tradizioni
teoriche, unico – nella visione economica predominante: il mercato. Poiché
questa ha importanti implicazioni (come credo sia facile riconoscere per
quel che riguarda il ruolo dei mercati in generale ma forse un po’ meno per
le considerazioni etiche che ne derivano) ne considereremo alcuni aspetti
cruciali per i temi qui in discussione.
Anziché concentrarsi sull’analisi concreta delle implicazioni del funziona5 Almeno finché non si pone la questione – come notoriamente fece la Regina d’Inghilterra
pochi anni fa – delle ragioni della mancata previsione dei rischi e delle crisi finanziarie ed economiche. Il discorso su questi aspetti è però troppo lungo per poter essere adeguatamente considerato
in questa sede.
6 Tutti i tentativi di precisare questo meccanismo e il suo funzionamento, centrati essenzialmente sulle variazioni dei prezzi relativi, si sono arenati in una qualche visione mitizzata, dalla
famosa “mano invisibile” di Adam Smith (che secondo una attendibile interpretazione sarebbe di
natura divina: cfr. Evensky, 1993) alla ingegnosa ma anche fondamentalmente ingenua metafora
del banditore d’asta di Léon Walras, ai teoremi di esistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio
economico generale – le cui condizioni di dimostrazione ne evidenziano l’assoluta distanza dalla
realtà, come soleva puntualizzare uno dei suoi teorici, Frank Hahn (ad esempio in diversi saggi
contenuti nel suo Equilibrium and Macroeconomics del 1984).
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mento delle diverse forme di mercato (che sono per altro un classico tema
della microeconomia) e dei possibili interventi per garantirne il funzionamento a vantaggio di tutti (riconoscendone anche i limiti, come per ogni strumento per quanto utile), la maggior parte degli economisti di scuola neoclassica preferisce adottare a livello macroeconomico l’ipotesi che la concorrenza
perfetta sia non già una descrizione adeguata (che del resto non è necessaria se si adotta l’approccio metodologico dell’economia positiva à la Milton
Friedman, nella quale non è considerata rilevante neppure la capacità di
spiegare i meccanismi causali implicati7 ma solo quella previsiva8), ma una
buona approssimazione teorica del funzionamento della realtà nella quale viviamo (anche attraverso l’escamotage teorico della cosiddetta contendibilità)9,
spesso giustificata anche dalla semplicità di analisi che consente.
In realtà l’ipotesi di concorrenza perfetta è essenziale nel consentire due
operazioni piuttosto cruciali per la costruzione teorica neoclassica e le sue
implicazioni di politica economica.
Da un lato questa condizione è necessaria per garantire che il sistema
economico sia caratterizzato da rendimenti di scala costanti e quindi dalla possibilità di sostenere, nel quadro della teoria della produzione, che i
fattori produttivi vengono allocati ottimalmente attraverso la scelta di massimizzazione del profitto, che induce a retribuirli al livello della loro produttività marginale (l’incremento di produzione dovuto al solo incremento
unitario di quel fattore specifico). Questa è l’unica giustificazione che richiama un qualche principio “etico” (sia pur specifico e non necessariamente condiviso, la remunerazione legata al contributo produttivo) nella
distribuzione del reddito, ma si scontra con la distanza tra l’ipotesi teorica
e la realtà dei mercati, inclusa la condizione che in essi, in lungo periodo,
l’extraprofitto sia nullo e il profitto corrisponda alla produttività marginale
7
Cfr. Friedman, 1953; Guala, 2006.
Ironicamente una delle argomentazioni più cogenti contro la cosiddetta monetarist black
box è emersa proprio dal lavoro di un “monetarista della seconda generazione” come Robert Lucas,
che nelle sue note critiche evidenzia la necessità di riconoscere nei modelli economici ciò che è
invariante rispetto a ciò che può mutare a causa di variazioni nei regimi di politica economica o
comunque per ragioni esogene rispetto alle variabili del modello (cfr. Lucas, 1976; Guala, 2006:
81 ss.).
9 Ovvero dell’assunzione che in date condizioni possa bastare la possibilità di entrata di
concorrenti a rendere il comportamento delle imprese equivalente a quello che si darebbe in caso
di effettiva concorrenza (cfr. Baumol et al., 1982). Lo stesso William Baumol (1982: 2) peraltro
scriveva che «i mercati perfettamente contendibili non popolano il mondo reale» e che il concetto
«non serve in primo luogo a descrivere la realtà» bensì «come punto di riferimento» teorico.
8
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(incalcolabile) dell’attività imprenditoriale10.
Ancora più significativamente l’assunzione di concorrenza perfetta – unitamente alle ipotesi (altrettanto “eroiche”) di completezza dei mercati11, di
esistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio economico generale – è necessaria per dimostrare che un sistema di mercati decentrati può raggiungere
una condizione di “ottimo” sociale12. Qualunque allontanamento da queste
condizioni, estremamente restrittive, rappresenta una causa di “fallimento”
dei mercati, ovvero una ragione per cui essi non riescono autonomamente a
garantire l’allocazione ottima delle risorse, che dunque richiede interventi
di politica economica.
Il dissolversi dell’illusione “naturalistica” della configurazione allocativa ottimale prodotta dai mercati trascina però con sé nella caduta anche la
pretesa autonomia e indipendenza della costruzione teorica dell’economia
neoclassica, aprendo ampi spazi per riflessioni sull’economia stessa e sui
comportamenti in ambito economico da parte di altre discipline, segnatamente della filosofia morale. Non che questi non esistessero comunque,
come abbiamo già cercato di evidenziare, ma certo questo “fallimento” ne
mostra alcuni forse più evidenti anche a chi non ne cerca e dunque pare
coinvolgere una più ampia attenzione.
Più in generale, il tentativo di ridurre lo spazio delle considerazioni morali in ambito economico alla sola considerazione di un principio distributivo o alla necessità sociale di interventi redistributivi quando quelli “di
mercato” risultassero socialmente inaccettabili, propone una visione limitata e riduttiva delle motivazioni umane, ridotte alla sola dimensione del
consumo o reddituale13.
10 Per il breve periodo le ipotesi possibili sono diverse, molte delle quali incentrate sul carattere innovativo delle attività che generano per gli imprenditori un guadagno maggiore (extraprofitto).
11 Che richiede di escludere – o di assumere riguardo a essi ulteriori ipotesi problematiche –
l’esistenza di esternalità, beni pubblici, comuni e comunque non strettamente “privati” in senso
tecnico, nonché costi di transazione e asimmetria informativa (cfr. Acocella, 2007: cap. 6, spec.
145-147).
12 Un “ottimo” comunque peculiare, che quand’anche esistesse sarebbe costituito essenzialmente dalla disponibilità di beni di consumo al prezzo più basso compatibile con le condizioni di
produzione (in lungo periodo il minimo dei costi medi). Per quanto si possa considerare significativo
questo aspetto – se rappresentasse una condizione realistica del funzionamento dell’economia –, credo molti dubitino della sua sufficienza come tratto che caratterizza unicamente l’idea di “condizione
ottimale”. Di questo però si tratta in effetti, perché ogni altra considerazione possibile trova spazio
solo in quanto ulteriore articolazione concepibile e compatibile con le condizioni imposte su questo
piano. Su questi aspetti si vedano anche Singer, 1993; Frey, 1997; Diwan, 2000.
13 Esempio classico di questa visione sono i lavori di Gary Becker (cfr. emblematicamente
Becker, 1976). Sui limiti di tale visione vi è un’ampia letteratura, cui hanno contribuito anche
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Se è difficile negare che vi sono persone i cui comportamenti corrispondono a questa tipologia, è almeno altrettanto difficile sostenere che questa è un’attitudine generalizzata o anche solo propria della maggior parte delle persone. Detto altrimenti, le assunzioni di materialismo (in senso
psicologico)14 e di egoismo generalizzato15 sovra-rappresentano la percentuale di individui egoisti a discapito di quelle di altri tipi di soggetti, che esistono e che paiono ritenere di avere robuste ragioni per le loro scelte16. Queste
considerazioni sono state sviluppate, specie negli ultimi decenni, in particolare nell’ambito dell’economia sperimentale (una sorta di sub-disciplina che
utilizza, appunto, metodi sperimentali per mettere alla prova ipotesi teoriche
e non solo), la quale ha evidenziato sia l’esistenza di una fondamentale eterogeneità degli agenti17 sia la disponibilità di molti a rinunciare a una quota
del proprio reddito per punire comportamenti egoistici o non reciprocativi18.
Esiste anche, soprattutto in ambito di economia sperimentale e di psicologia cognitiva ed economica, una letteratura critica sulla teoria della scelta
razionale e anche su quella dell’utilità attesa, ma la maggior parte degli economisti non ha familiarità con essa, spesso sa solo della sua esistenza ed è
pragmaticamente scettica, in attesa che l’esito di questi filoni si condensi e
“percoli” dal livello specialistico a quello più generale di disciplina19.
diversi economisti. Essendo troppo ampia per citarne anche solo alcuni esempi mi limito qui a
riferire il lettore alla sua parte che ha trattato negli ultimi anni il tema della felicità (cfr. Easterlin,
1995; Bruni e Porta, 2004, a cura di), nonché al rapporto della Commission on the Measurement of
Economic Performance and Social Progress (CMEPSP, 2009) che evidenzia i limiti degli indicatori
economici tradizionali, in primis il prodotto interno lordo (PIL). Si vedano anche Burlando, 2008a,
2008b e 2012. Nel seguito, invece, saranno considerate brevemente riflessioni che muovono da
diverse prospettive di filosofia morale rispetto all’utilitarismo.
14 Cfr. Webley et al., 2002, e l’ampia bibliografia ivi citata.
15 Per una sintesi interessante, anche se un po’ datata, delle analisi sui comportamenti egoistici o meno cfr. ad esempio Caporael et al., 1989, e la letteratura successiva che si riferisce a
questo lavoro.
16 Al contrario di quel che assume, tipicamente, la letteratura del filone della scelta razionale,
che ammette l’esistenza di soggetti dal comportamento difforme dai propri canoni, ma li classifica
come “irrazionali” e ritiene costituiscano una minoranza di scarso rilievo dal punto di vista del
comportamento “medio”, cui è interessata (cfr. Hargreaves Heap, 1989).
17 Cfr. Burlando e Guala, 2005, e la letteratura successiva. Merita anche ricordare un altro
filone di letteratura che evidenzia le diversità di comportamento collegandole a differenti nazionalità, e quindi culture: cfr. Burlando e Hey, 1997, e la letteratura successiva.
18 Si veda ad esempio Fehr e Gächter, 2000.
19 Sugli ostacoli, teorici e ideologici, di questo percorso la letteratura in ambito della filosofia
e sociologia della scienza è vasta (a partire dalla famosa frase di Thomas Kuhn: «Nella scienza [...]
la novità emerge soltanto con difficoltà, che si manifesta attraverso la resistenza, in contrasto con
un sottofondo costituito dalla aspettazione» – 1962; trad. it. 1969: 88) e certo l’economia presenta
ulteriori cogenti ragioni che spingono in questa direzione.
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Occorre, infatti, rilevare come ormai l’economia (come del resto anche
altre discipline) appaia sempre più frammentata in derive specialistiche,
spesso tra loro poco comunicanti (e le responsabilità in questo delle scelte
dei criteri di pubblicazione e selezione sono pesantissime, per quanto poco
considerate), alcune fondate su assunti discutibili ma che sono trattati come “normali”20 al loro interno anche per periodi lunghi, per essere poi sostituiti da versioni più plausibili della stessa «retorica»21 o ideologia. Molti
tra gli economisti che si rifanno al mainstream non solo adottano la visione
standard sintetizzata in precedenza, ma tendono anche a considerare posizioni differenti da essa come eresie, forme di “estremismo teorico”.
Tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso – e poi ancora, anche se decisamente con minor vigore – diversi economisti si interessarono di filosofia
della scienza, alla ricerca di riflessioni da un lato sul metodo adeguato per
la propria disciplina22 – anche per l’insoddisfazione crescente nei confronti dello strumentalismo metodologico di Friedman (cui si è già fatto cenno) – e dall’altro sulla possibilità di costruire anche per essa un approccio
meta-metodologico, mentre i tentativi di applicazione del falsificazionismo
popperiano e la discussione sui suoi sviluppi creavano una parentesi nel
diffuso orientamento neopositivista23. In misura meno rilevante questa
aspirazione venne estesa anche all’ambito etico, sull’onda del fascino esercitato dalla metaetica analitica. A parere di chi scrive una evoluzione di
questa ricerca è stato il tentativo di proporre un rovesciamento dei termini
classici del rapporto tra etica ed economia, cercando di individuare come
l’economia potesse aiutare a definire, almeno sul piano formale, le caratteristiche essenziali dell’etica24.
A queste tendenze – e in particolare all’approccio assiomatizzato e
all’isolazionismo25 e imperialismo economico nelle scienze sociali (e non
solo) – si contrappongono però le riflessioni di autori di varie discipline,
20
Si veda Colander, 2005, e la letteratura relativa.
McCloskey, 1985.
22 Si veda la ricostruzione di questo percorso proposta, tra gli altri, in Caldwell, 1982, la quale
va sul piano filosofico dal positivismo logico a Imre Lakatos e su quello interno all’economia da
Lionel Robbins a Paul Samuelson. Un altro noto libro del tempo, dall’impostazione critica, è quello
di Boland, 1982.
23 Echi di queste posizioni si levano ancora oggi, sia nel riduttivismo che caratterizza la concezione in applicazione dell’individualismo metodologico in economia sia negli approcci definiti evidence-based (forse per evitare il riferimento diretto al processo induttivo nei quali spesso ricadono).
24 Fin dal titolo, l’opera più esemplificativa di questo approccio è il lavoro di John Broome,
Ethics out of Economics, del 1999.
25 Cfr. Hausman, 1992.
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inclusi economisti ma soprattutto filosofi che si interessano anche di economia, che non solo rigettano queste tendenze, ma propongono anche superamenti e/o alternative all’utilitarismo e al riduzionismo neopositivista26.
Il più noto, non solo tra gli economisti, tra i filosofi morali del secolo
scorso estranei all’utilitarismo è di certo John Rawls27. Curiosamente gli
economisti ne conoscono il nome e il principio del maximin (che riprende
un termine della teoria dei giochi e quindi pare un concetto familiare), ma
tendono a considerarlo più come un riformatore dell’utilitarismo (certo un
po’ estremista con la sua insistenza sul considerare essenzialmente i miglioramenti solo di chi sta peggio) che non un suo oppositore, che mostra e
dichiara un’ascendenza kantiana.
Più complesso e difficile è invece il loro rapporto con un economista, tra
i più noti di questi ultimi decenni, che è anche filosofo: Amartya Sen28. Sen
è un premio Nobel per l’economia e anche per questo gode da un lato di
grande reputazione tra molti colleghi, ma dall’altro è considerato con grande sospetto da un numero elevato di essi, per le critiche all’utilitarismo e
all’approccio della razionalità strumentale e per la proposta di un approccio alternativo, quello delle capacità (capability approach), di chiaro stampo
aristotelico (evidenziato in modo anche più esplicito dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum29, considerata co-fondatrice dell’approccio).
Sen e Nussbaum riprendono la lezione di Rawls, pur criticandone fortemente in particolare l’idealismo trascendentale, e insistono sulla libertà
personale come obiettivo centrale sia delle scelte pubbliche che di quelle individuali30. Essi contrappongono alla concezione solo negativa della
libertà dell’approccio economico neoclassico e monetarista (simboleggiato
in particolare dalla visione proposta da Friedman in Free to Choose, del
1980) la considerazione congiunta di questa con quella positiva, con la sua
attenzione alla libertà di essere parte della comunità e di partecipare ai
suoi processi deliberativi. Anch’essi criticano fortemente l’utilitarismo, tra
l’altro per il suo paternalismo e per la sua pretesa di ridurre tutte le dimen26 Su questo secondo aspetto si rinvia alle considerazioni e alle proposte dell’approccio sistemico e ai tanti lavori (troppi per poterli inserire in una già estesa bibliografia, ma fortunatamente
i nomi che seguono sono ben noti) di Gregory Bateson, Humberto Maturana e Francisco Varela,
Edgar Morin, Ilya Prigogine, Ervin László, Mario Bunge.
27 Noto specialmente per l’opera A Theory of Justice, del 1971, ma si veda anche Rawls, 1993.
28 Si vedano in particolare, tra i tanti lavori rilevanti di questo autore, Sen, 1977, 1987 e 2009.
29 Cfr. Nussbaum, 2003a, 2003b e 2011.
30 Emblematico è il titolo di un volumetto in italiano del 2007 che raccoglie la traduzione di
due saggi di Sen, La libertà individuale come impegno sociale.
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sioni della vita umana a un unico termine31, sia esso l’utilità o il reddito.
Paradossalmente proprio l’attenzione a diverse capacità e lo sviluppo, nel
contesto di indagini applicate32, di indicatori relativi a esse, ha portato anche a un uso strumentale dell’approccio che tende a dimenticarne la fondamentale alterità rispetto all’utilitarismo. Sen e Nussbaum invece insistono sulla necessità di promuovere la realizzazione delle capacità individuali
nelle varie dimensioni della vita, per l’uno tradotte in concreti «funzionamenti» nel contesto sociale diappartenenza e per l’altra (similmente a parere di chi scrive) in «capacità individualizzate».
Particolarmente significativo dal punto di vista della teoria economica
e della politica economica è il fatto che entrambi rigettano il semplice approccio indiretto alle scelte sociali, per il quale gli ordinamenti sociali devono emergere dalla sola aggregazione delle preferenze individuali. Come
già Aristotele, essi ritengono le preferenze un riferimento in sé e per sé erroneo (si direbbe rilevante esclusivamente in quanto tra i possibili punti di
partenza di un ben più lungo percorso di riflessione, personale e pubblica,
sui fini) e l’idea che un ordinamento sociale giusto possa emergere dalla
semplice aggregazione di esse assolutamente inadeguata e pericolosa, in
quanto applicazione meccanica di un approccio falsamente liberale (tra
l’altro perché tratta come uguali i diseguali). Su questo tema Nussbaum
propone invece l’approccio dei principî, che sono una sorta di “traduzione”
delle capacità personali sul piano delle scelte sociali e costituiscono uno
strumento essenziale per promuoverle concretamente. La filosofa evidenzia
(tra l’altro in Who Is the Happy Warrior?, del 2008, e poi nel 2011 in Creating Capabilities) come questi siano valori che trovano espressione nelle
Costituzioni dei Paesi democratici, e dunque siano il frutto dei relativi cruciali processi costituzionali, e propone il consenso per intersezione33 come
31 Sen e Nussbaum insistono su questi aspetti in vari loro lavori e sono tra i propugnatori dello
Human Development Index, che propone la considerazione congiunta di tre diversi fattori: il PIL
pro capite, l’alfabetizzazione e la speranza di vita. In realtà Nussbaum propone una lista più ampia
di capacità fondamentali (variamente specificabili e declinabili a seconda dei contesti), mentre
Sen, pur affermando che la questione della lista è secondaria, preferisce rinviare la specificazione
delle capacità fondamentali al dibattito pubblico (public reasoning) nei tempi e luoghi rilevanti.
32 In particolare sia in progetti di sviluppo in Paesi a povertà diffusa sia in contesti particolari
come quelli legati a soggetti diversamente abili.
33 Questo approccio appare da un lato molto interessante per la capacità di produrre una convergenza e un consenso su principî e valori universalmente riconosciuti fondamentali, consentendo di pensare più concretamente a possibili percorsi di loro implementazione, ma dall’altro, così
facendo, evita di affrontare il problema – posto dall’approccio kantiano – dei fondamenti dell’etica
e della distinzione cruciale che da essi scaturisce tra pluralismo e relativismo.
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strumento per arrivare a convergere su di essi.
Sui limiti di una concezione solo negativa della libertà insistono anche
le prospettive critiche avanzate da Elizabeth Anderson34 e poi da Michael
Sandel35, che evidenziano come l’operare corrente dei mercati tende a trattare tutto ciò che viene scambiato in essi come merce. Questo funziona adeguatamente nei confronti di beni che hanno per conto proprio questa natura
(in gergo economico i beni privati come le automobili, i cellulari, l’abbigliamento, ecc.), ma non nei confronti di beni di cui si riconosce una natura
differente e valenze non riducibili a termini di prezzo e reddito. Il dibattito
su questi temi, com’è noto, è antico e non ha mai trovato una soluzione definitiva universalmente accettata (probabilmente per la diversità tra esseri
umani evidenziata in precedenza), ma pare necessario almeno riconoscere
che per molte persone esistono ancora differenze fondamentali relativamente ai beni personali (come l’amicizia, la sessualità e in generale modalità di
relazioni personali che coinvolgono dimensioni di gratuità e reciprocità distanti da quello scambio di equivalenti che caratterizza invece generalmente i beni privati), a quelli politici e/o di democrazia (in tutti gli ordinamenti
democratici è vietato il voto di scambio), nonché a quelli pubblici e comuni.
Anche vicende recenti ripropongono l’attenzione, seppure ancora di troppo pochi, su questi aspetti. Sulla scorta di ragioni esclusivamente reddituali
– ancorché tutte da dimostrare nella loro convenienza per tutti a differenza
che per i pochi che spingono per la loro realizzazione – qualche anno fa una
grande banca multinazionale (J.P. Morgan)36 ha infatti esplicitato come nella sua prospettiva i Paesi europei dovrebbero modificare addirittura le loro
Costituzioni, eccessivamente “garantiste” di diritti civili37, e in questi mesi
si sta discutendo, a livello di politica internazionale, di un trattato commerciale (il TTIP e i suoi collegati) i cui dettami avrebbero la prevalenza su
quelli delle Carte costituzionali dei Paesi sottoscrittori.
In questi casi lo scontro tra interessi economici di pochi e “cultura”
consumistica (soggetta a tutte le influenze e manipolazioni che conosciamo) da un lato e diritti umani38 e civili fondamentali dall’altro pare ad34
Cfr. Anderson, 1990 e 1993.
Si vedano in particolare Sandel, 2009 e 2012.
36 Cfr. Barr e Mackie, 2013.
37 Non a caso il noto sociologo Luciano Gallino ha definito siffatti orientamenti come tentativi
di «colpo di Stato» (Gallino, 2013).
38 Ne va della stessa tutela della salute, diversamente garantita in Paesi diversi, perché i singoli Stati sarebbero costretti ad adeguarsi e ad adottare solo le misure meno vincolanti, e dunque
meno costose per i produttori di beni e servizi, tra quelle previste dai diversi Stati aderenti.
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dirittura frontale e l’esito non scontato, tanto che sui termini dello stesso
trattato si mantiene una significativa segretezza, secondo parecchi oppositori proprio nel timore che i suoi termini risveglierebbero in molti Paesi
europei grande opposizione39.
Secondo diversi critici della realtà economica attuale (prima ancora che
della teoria che la sostiene), infatti, ci troviamo ormai in una situazione di
progressiva concentrazione del potere economico – sia in termini di reddito
che di ricchezza –, aumentata moltissimo dopo gli anni ’70 del secolo scorso40, che crea gravissimi problemi di democrazia a livello dei diversi Stati41
ma anche a quello mondiale. Tali elementi andrebbero sommati, in questa
prospettiva, a due gravi fattori aggiuntivi: da un lato quella che è stata definita «la ribellione delle élite»42, che sarebbero da alcuni decenni passate a occuparsi solo dei propri interessi, anche a danno di quelli altrui e della stessa
democrazia, abbandonando il ruolo propositivo e civilizzatore svolto in passato, e dall’altro «la cultura del narcisismo»43, che dovrebbe anche essere caratterizzata come cultura della ricerca del guadagno e del potere a ogni costo.
Questo insieme di fattori getta prospettive inquietanti sul nostro futuro44,
già fortemente compromesso dall’aggravarsi delle crisi ambientali e in particolare dal cambiamento climatico45, il cui progredire senza che si adottino
adeguate misure di contenimento delle emissioni di gas serra potrebbe proprio costituire la più evidente conseguenza della irresponsabilità e miopia
della attuale organizzazione politica e culturale a livello planetario.
A conclusione di questo breve e assai parziale excursus viene una richiesta di attenzione e di aiuto da parte dell’economista ai filosofi morali,
39 Il tema, infatti, è non solo controverso ma anche abbastanza “oscuro”, in quanto gran parte
della documentazione tecnica riguardo al trattato in questione non è messa a disposizione del
pubblico, malgrado le molte dichiarazioni di esponenti politici al riguardo.
40 Si vedano i dati riportati in diversi studi recenti, come il noto libro di Piketty, 2013 (bestseller negli USA per diversi mesi), ma anche in pubblicazioni già di qualche anno fa e persino di
note istituzioni internazionali, come quella dell’OCSE 2008. Per una analisi di altri aspetti della
svolta economico-sociale degli ultimi anni si rinvia invece alle riflessioni (in svariati libri degli
ultimi anni) del già citato Gallino.
41 Relativamente agli USA, Martin Gilens e Benjamin Page scrivono: «L’analisi multivariata
indica che le élite economiche e i gruppi organizzati che rappresentano interessi commerciali
hanno un impatto sostanziale sulla politica del governo degli Stati Uniti, mentre i cittadini medi e
i gruppi di interesse di massa hanno poco o nessuno influsso» (Gilens e Page, 2014: 564).
42 Lasch, 1995.
43 Così, tra altri, Lasch, 1979.
44 Si vedano, ad esempio, le analisi di Daly, 1996 (a titolo paradigmatico tra i suoi diversi
lavori); Diamond, 2005; Tainter, 1988.
45 Cfr. Walker e King, 2008.
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nella forma dell’invito a cercare di dialogare maggiormente con gli economisti, consapevoli di disporre di una conoscenza che a questi ultimi può
spesso parere di ridotta rilevanza (in quanto poco produttiva) ed eccessivamente critica (anche quando essa è in realtà solo il riconoscimento dell’esistenza di visioni e “scuole” etiche diverse, che nessun filosofo potrebbe
negare per quanto critico egli possa essere nei confronti di tradizioni diverse da quella a cui personalmente si richiama). Non si tratta solo di contribuire a rompere l’isolamento (pur cercato) di una disciplina differente,
ma attraverso questo di concorrere a modificare una traiettoria culturale,
sociale e politica che sembra presentare gravi rischi per il futuro di tutti.
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English title: Ethics and economics.
Abstract
This paper suggests some critical notes on the evolution of the relationship between ethics and economics in the recent decades. It highlights the
quite modest attention of most economists toward the debates in moral philosophy and their unquestioned acceptance of the rather narrow version of utilitarianism or of its axiomatic versions, expected utility and rational choice,
embedded in the predominant view. The crucial role of these theories and of
the assumptions of perfect competition and completeness of markets for the
neo-liberalistic (free-market) approach is pinpointed, together with some of
their main shortcomings. A quick glance at some critical development is then
provided with references to the contribution of John Rawls, to the capability
approach developed by Amartya Sen and Martha Nussbaum and to the discussion of the ethical limits to the working of the markets raised in particular by Elizabeth Anderson and Michael Sandel. Some considerations on the
relevance of these issues for the current situation concludes this contribution.
Keywords: instrumental rationality; rational choice; capabilities; ethical
limits to the market; social ordering.
Roberto Burlando
Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis”
Università degli Studi di Torino
[email protected]
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