Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XIII (2007), pp. 237-285 ISSN 1824-3770 (online) © 2008 Firenze University Press Raymond Aron teorico della società industriale Daniele Bronzuoli This essay shows the Raymond Aron’s theory of Industrial society in a coherent and organic way. It particularly points out the links between the author’s philosophical theory of history and his political and sociological positions during the period of the Cold War. The concept of the «autonomy of political», and the related theory of the «primacy of political», must be considered as the logic consequences of his reflections about conditions and limits of historical and social knowledge. Keywords: critical philosophy of history, theory of action, industrial society, politics Premessa Filosofo, sociologo, teorico della politica e delle relazioni internazionali, critico delle ideologie, senza dimenticare la sua attività di giornalista e commentatore politico, Raymond Aron rappresenta senza dubbio una delle personalità più affascinanti e controverse dell’intero panorama intellettuale francese ed europeo del XX secolo. La sua carriera di studioso ebbe inizio negli anni Trenta quando, laureatosi in filosofia all’Ecole Normale di Parigi con una tesi su Kant, ottenne una borsa di studio che gli consentì di soggiornare in Germania in qualità di assistente all’università di Colonia. Durante questo arco di tempo, compreso tra il 1930 e il 1932, Aron ebbe modo di scoprire e approfondire il dibattito filosofico tedesco sulle scienze storico-sociali, venendo in contatto con il pensiero di Dilthey, Simmel, Rickert, Tönnies, Alfred Weber e Max Weber e finendo con l’assumere la tesi di fondo dello storicismo tedesco contemporaneo, ovvero il rifiuto della concezione positivista dell’unità delle scienze. L’influenza di Max Weber in particolar modo, parallelamente all’osservazione diretta dell’inizio del dramma europeo che, di lì 238 Daniele Bronzuoli a poco, avrebbe condotto allo scoppio della seconda guerra mondiale, risulteranno decisivi nello svolgimento complessivo della vicenda intellettuale aroniana che, a partire all’incirca dagli anni Quaranta, subirà un sostanziale mutamento di interesse a favore della sociologia e della politologia. Tale evoluzione non è del resto troppo dissimile da quella che interessò buona parte degli intellettuali francesi del tempo – si pensi a Sartre e Merleau-Ponty – per i quali, esattamente come per Aron ma con esiti diversi, l’esperienza della guerra, dell’occupazione tedesca e della successiva spartizione dell’Europa in due sfere d’influenza distinte e contrapposte rappresentò una tragica occasione per ripensare, in maniera inedita, l’economia dei propri interessi, il profilo generale delle proprie aspirazioni e il senso complessivo del proprio ruolo all’interno della collettività. Tornato infatti in patria dopo avere ricoperto la funzione di redattore capo de «La France Libre», giornale di ispirazione gollista con sede a Londra e rappresentante i ‘fuoriusciti’ in disaccordo con la politica collaborazionista del maresciallo Pétain, Aron rifiutò prima la cattedra a Tolosa, dove era stato nominato nell’agosto del 1939, poi quella di Bordeaux, dove gli era stata offerta la stessa cattedra di sociologia che, nel 1896, era stata ricoperta da Emile Durkheim. Nello stesso tempo – siamo nel 1946 – dà vita assieme ad Albert Camus al giornale «Combat», mentre si consuma progressivamente il suo distacco da «Les Temps Modernes», rivista che pure aveva contribuito a fondare assieme a JeanPaul Sartre e Maurice Merleau-Ponty e che, sotto la direzione politica di quest’ultimo, cominciava sempre più nitidamente a diventare l’organo degli esistenzialisti di sinistra. A questo periodo appartengono anche i primi lavori di critica ideologica, tra i quali il più significativo risulta essere senza dubbio L’opium des intellectuels. Redatto tra il 1952 e il 1954 e concepito in parte come pamphlet di carattere polemico, in parte come saggio di sociologia culturale, l’opera ricostruisce in maniera critica i principali argomenti di cui si nutre alla metà degli anni Cinquanta la sinistra intellettuale occidentale nella sua polemica contro l’Occidente e la democrazia capitalistica. In essa l’autore può anche regolare i conti con Sartre e Merleau-Ponty che, amici di gioventù, ex-normaliens e legati a doppio filo a quella tradizione filosofica tedesca della fenomenologia e dell’esistenzialismo che proprio Aron aveva avuto il merito di esportare in Francia, scel- Sull’importante ruolo di Aron nell’evoluzione degli studi storici cfr. R. Aron, Leçons sur l’histoire, Éditions de Fallois, Paris 1989 (trad. it. Lezioni sulla storia, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 33-34). Altre preziose testimonianze in tal senso sono offerte da H.I. Marrou, De la connaissance historique, Éditions du Seuil, Paris 1954 (trad. it. La Raymond Aron teorico della società industriale 239 gono, nell’immediato dopoguerra, la strada del fiancheggiamento del comunismo sovietico. Sorto quasi sull’onda della contingenza offerta dal dibattito politico internazionale, che vedeva l’opposizione tra ‘progressisti’ e ‘atlantisti’ sui meriti e demeriti del regime sovietico e della democrazia americana, il dialogo tra Sartre, Merleau-Ponty e Aron acquista rapidamente, nella penna di quest’ultimo, lo spessore di un confronto concernente la capacità veritativa dei concetti sociologici, il ruolo dell’analisi empirica nello studio dei fenomeni sociali e le possibilità teoriche di una filosofia della storia. L’opium des intellectuels detiene, da questo punto di vista, l’indubbio merito di testimoniare il livello del dibattito politico dell’epoca, illustrando nello stesso tempo la pluralità dei registri attraverso i quali Aron è in grado di esercitare la sua critica. La capacità di analisi dell’autore conosce infatti una articolazione e una flessibilità che devono senza esitazione essere ricondotte alla vastità della sua cultura e alla poliedricità della sua figura di studioso. Da una parte infatti egli ricorre ad alcune delle fondamentali acquisizioni della riflessione metodologica weberiana al fine di decostruire il senso del ‘privilegio storico’ accordato dagli intellettuali francesi all’impresa sovietica, mentre dall’altra, facendo leva su una lettura del marxismo inteso sostanzialmente come filosofia deterministica della storia, rileva l’incoerenza del progetto di Sartre e, soprattutto, di MerleauPonty, di fondare una teoria dell’engagement attraverso l’integrazione teorica di esistenzialismo e marxismo. Non solo. L’interesse per la figura e l’opera di Vilfredo Pareto, che in Aron si manifesta già in alcuni scritti composti all’inizio del secondo conflitto mondiale, è lì a testimoniare la conoscenza storica, Il Mulino, Bologna 1988, p. 15) e da S. de Beauvoir, La force de l’âge, Gallimard, Paris 1960 (trad. it. L’età forte, Einaudi, Torino 1961, p. 122). A quest’ultimo testo fa indirettamente riferimento lo stesso Aron nelle sopra citate Leçons sur l’histoire. Sullo stesso argomento si veda anche l’importante lavoro di G. Camardi, Individuo e storia. Saggio su Raymond Aron, Morano, Napoli 1990, p. 73. Cfr. R. Aron, Mémoires, Juillard, Paris 1983 (trad. it. Memorie, Mondadori, Milano 1984, p. 317). Cfr. J.P. Sartre, Le fantôme de Staline, «Les Temps Modernes», nn. 129-131, 19561957, poi in Id., Situations, vol. 7, Gallimard, Paris 1965 (trad. it. Il fantasma di Stalin, in Id., Il filosofo e la politica, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 97). Cfr. R. Aron, L’opium des intellectuels, Calmann-Lévy, Paris 1955 (trad. it. L’oppio degli intellettuali, Ideazione Editrice, Roma 1998, p. 112). Cfr. M. Merleau-Ponty, Humanisme et Terreur, Paris 1947 (trad. it. Umanesimo e Terrore, Sugarco, Milano 1978). Dello stesso autore si veda anche Sens et non sens, Nagel, Paris 1948 (trad. it. Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 122-165). Cfr. Aron, L’oppio degli intellettuali, cit., pp. 63-69. Sull’ argomento si veda anche R. Aron, D’une Sainte Famille à l’autre. Essais sur les marxismes imaginaires, Gallimard, Paris 1969 (trad. it. Marxismi immaginari, Franco Angeli, Milano 1972). Cfr. R. Aron, Machiavel et les tyrannies modernes, Éditions de Fallois, Paris 1993 240 Daniele Bronzuoli volontà dell’autore di conferire alle vicende politiche della contemporaneità, soprattutto all’esperienza del totalitarismo sovietico, una valutazione manifestamente distante dalle prospettive evoluzionistiche offerte dalla filosofia marxista, specialmente nella versione ‘scolastica’ e ‘sclerotizzata’ che essa assume in qualità di ideologia ufficiale del regime sovietico e nella gretta interpretazione staliniana. Sono presenti, nell’Opium des intellectuels, richiami ad alcuni principi cardine della riflessione di Pareto – distinzione tra massa ed élite, teoria della circolazione delle élites – che costituiscono, nell’economia generale dell’opera, il veicolo fondamentale di passaggio da un livello astratto di critica ideologica a una più concreta sociologia del potere, storicamente radicata, alla quale l’autore delega la funzione di allestire il banco di prova delle cosiddette «religioni politiche», in particolar modo di quella marxista. Convinto assertore dell’uniformità degli istinti umani e della costanza delle passioni, che definisce ‘residui’, Pareto costituisce anche valida pezza d’appoggio a una visione della storia, quella aroniana, fortemente orientata alla limitazione dell’idea di progresso entro un dominio puramente tecnico, ovvero concernente consecuzioni evolutive capaci di incrementare o migliorare i mezzi diretti al raggiungimento di uno scopo.10 Alla luce di questo presupposto Aron è portato a interpretare la trasposizione marxista dell’idea di progresso entro la sfera delle «valutazioni ultime», ovvero dei giudizi sul senso e la finalità del divenire storico, come una forma di secolarizzazione della visione cristiana della storia, nella quale alcune funzioni svolte nel passato dalle «religioni della salvezza» vengono assunte da parte di «determinati movimenti sociali».11 Il concetto di «religione secolare»12 costituirà – come vedremo – elemento fondamentale nell’analisi aroniana del totalitarismo, particolarmente perché il carattere specificamente distintivo di quest’ultimo regime verrà fatto risiedere dall’autore nell’ipotesi politica rivoluzionaria di collocazione nel mondo terreno del «compimento della vocazione umana»13 e nella (trad. it. Machiavelli e le tirannie moderne, SEAM, Roma 1998). R. Aron, Pareto e il machiavellismo del XX secolo, in Id., Machiavelli e le tirannie moderne, cit., p. 162. Cfr. Id., L’oppio degli intellettuali, cit., p. 55. 10 Cfr. R. Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, Gallimard, Paris 1962, p. 149. 11 R. Aron, Mélanges en l’honneur d’Éric Voegelin, 1981 (trad. it. Riflessioni sulla gnosi leninista, in Id., Machiavelli e le tirannie moderne, cit., p. 405). Sul tema si veda anche Aron, L’oppio degli intellettuali, cit., p. 77. 12 R. Aron, L’avenir des religions séculières, «La France Libre», luglio-agosto 1944 (trad. it. L’avvenire delle religioni secolari, in S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004, p. 4). 13 Ivi, p. 3. Raymond Aron teorico della società industriale 241 volontà della minoranza detentrice del potere politico e degli strumenti di persuasione di trasformare l’esistente in funzione di un’ideologia.14 Siamo così a un punto di svolta. La critica filosofica e ideologica prepara e scivola naturalmente nell’analisi sociologica e questa conduce l’autore al progetto autonomo e quasi sistematico di definizione e messa a punto di una teoria della società moderna. Siamo a metà degli anni Cinquanta, precisamente nel 1955, e Aron torna alla sua vecchia Sorbona, alla cattedra di sociologia, dalla quale terrà, nei primi tre anni di insegnamento, quei corsi dedicati alla ‘società industriale’ che, sette anni più tardi, diventeranno le Dix-huit leçons sur la société industrielle, La lutte des classes e Démocratie et totalitarisme, dei quali ci occuperemo nel presente saggio. Prima di procedere all’indagine della trilogia sopra citata, occorre tuttavia svolgere alcune riflessioni introduttive. 1. Dalla filosofia critica della storia alla sociologia Finora abbiamo inteso evidenziare i legami logici esistenti tra la critica filosofica e ideologica del secondo dopoguerra e l’emergere in Aron di una riflessione più concreta e storicamente orientata, volta alla chiarificazione del ruolo svolto dalle minoranze dirigenti nella caratterizzazione dei sistemi politici. A convalidare una simile interpretazione intervengono anche numerose testimonianze dell’autore il quale, in più di un’occasione, ha potuto sottolineare come l’idea dominante dell’intera trilogia sulla società industriale sia sorta da una meditazione sul confronto istituito tra Marx e Pareto.15 Se tale lettura, peraltro corretta, fosse l’unica possibile, dovremmo concludere che il discorso sociologico aroniano poco aggiunge alle acquisizioni già maturate dai teorici neomachiavellici come Mosca, Michels e, ovviamente, Pareto, i quali, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, organizzarono attorno al concetto di élite la loro critica delle ideologie politiche, mostrando come fosse possibile estendere agli ideali socialisti e alla concezione socialista della storia lo stesso trattamento che Marx aveva riservato alle altre ideologie.16 In altri termini, se volessimo fare di Aron soltanto un neomachiavellico, ci si potrebbe limitare alla considerazione per la quale egli, interpretando la contemporaneità politica alla luce del confronto tra Marx e Pareto, finisce 14 Cfr. R. Aron, Démocratie et totalitarisme, Gallimard, Paris 1965 (trad. it. Teoria dei regimi politici, Edizioni di Comunità, Milano 1973, p. 239). 15 Cfr. Id., Memorie, cit., p. 410. 16 Cfr. J. Burnham, The Machiavellians: Defenders of Freedom, Putnam & Co., London 1943. Sullo stesso argomento si veda anche l’importante lavoro di H.S. Hughes, Consciousness and Society, Alfred A. Knopf, New York 1958 (trad. it. Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930, Einaudi, Torino 1967, pp. 244-271). 242 Daniele Bronzuoli col dare credito al sociologo italiano piuttosto che all’autore de Il Capitale, valutando la rivoluzione sovietica non come «fine della preistoria», bensì come «sostituzione violenta di un’élite con un’altra».17 Sulla base di questa esegesi sarebbe anche lecito ripensare il peso del condizionamento esercitato dal dibattito politico-ideologico del secondo dopoguerra come motivazione cogente della struttura complessiva dell’analisi sociologica aroniana che, nella trilogia sulla società industriale, viene articolandosi attorno alla comparazione tra i regimi democratici occidentali e quelli monopartitici totalitari.18 Simili traduzioni, tutte legittime nella loro parzialità, rischierebbero comunque di operare nel senso di una volgarizzazione della figura e del pensiero di Aron, da una parte appiattendo la sua opera su di un versante meramente ideologico – quello della polemica anticomunista –, dall’altra amputando poco accortamente la sua attività di sociologo della complessità di istanze critiche e filosofiche che su di essa convergono. Dietro l’apparente dispersione di energie intellettuali adombrata dalla vastità dei suoi interessi, l’opera di Aron svela infatti una unità e una compattezza che, in maniera evidente, possono essere ricondotte ai postulati filosofici che l’autore adotta nella fase pre-bellica della sua carriera e che mantiene pressoché inalterati lungo tutto il corso della sua esistenza. Innanzitutto l’interesse per la filosofia marxista, che abbiamo visto rappresentare la dimensione ideologica attraverso la cui critica l’autore delinea i primi contorni di una ancora acerba sociologia del potere, data almeno al 1925, anno di iscrizione di Aron alla SFIO, la sezione francese dell’Internazionale operaia. Dapprima abbracciato, poi assunto come punto di riferimento critico e oggetto di interrogazioni che finiranno col provocarne il superamento, il marxismo rappresenta inoltre l’‘angolo visuale’ dal quale l’autore incrocia la riflessione filosofica sulla natura, le possibilità e i limiti della conoscenza storica.19 Del 1937 è il tentativo, in Politique et économie dans la doctrine marxiste, di accreditare una versione ‘storicista’ o ‘comprensiva’ della filosofia marxista, rifiutando il suo proporsi come determinismo totale e rivalutandone la funzionalità come criterio orientativo della ricerca storico-sociale.20 Aron, L’oppio degli intellettuali, cit., p. 55. Questa tesi è sostenuta da P.P. Portinaro ne Il problema della comparazione nella sociologia di Raymond Aron, in P. Rossi (a cura di), La storia comparata. Approcci e prospettive, Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 291-310. 19 Cfr. Aron, Marxismi immaginari, cit., p. 9. Sul ruolo svolto dal marxismo nell’itinerario intellettuale dell’autore si veda anche Aron, Lezioni sulla storia, cit., pp. 33-36. 20 Cfr. R. Aron, Politique et économie dans la doctrine marxiste, in Id., Etudes politiques, Gallimard, Paris 1972, pp. 85-103 (trad. it. Politica ed economia nella dottrina marxista, in Id., La politica, la guerra, la storia, a cura di A. Panebianco, Il Mulino, 17 18 Raymond Aron teorico della società industriale 243 Gli studi compiuti in Germania a contatto col pensiero dei filosofi neokantiani e neoidealisti dovranno tuttavia condurre Aron lontano dalle suggestioni proprie delle totalizzazioni filosofiche di matrice ottocentesca.21 Il confronto diretto con i testi di Marx, in particolar modo con Il Capitale, condotto durante il soggiorno a Colonia, nonché l’inasprimento del dibattito politico-ideologico successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale, faranno irreversibilmente maturare in Aron l’urgenza di rivedere l’eredità del filosofo tedesco alla luce di una prospettiva diversa,22 lontana sia dalle già ricordate letture fenomenologicoesistenzialiste di Sartre e Merleau-Ponty, sia da quelle di Louis Althusser, impegnato, attorno agli anni Sessanta, a definire in «maniera scientifica» l’impianto categoriale del discorso marxista.23 Ove si guardi bene, nella tesi secondaria di dottorato, La philosophie critique de l’histoire (1938), è già all’opera un’interpretazione sostanzialmente funzionalista della dialettica marxista, nella misura in cui si sottolinea che questa, per quanto, a differenza di quella hegeliana, possa diventare cosciente, «[…] è, per origine e natura, sovraindividuale».24 Niente di male, se non fosse che Aron, ne La sociologie allemande contemporaine del 1935, criticando la «fisica sociale» di Durkheim e radicalizzando al massimo il contrasto tra questi e Max Weber, sottolineava come la sociologia tedesca di matrice storicista e fenomenologica fosse di «tendenza spiritualista», mentre quella francese, appiattita sui procedimenti propri delle scienze della natura, fosse di «tendenza positivista».25 Precisando poi il senso di questa definizione, aggiungeva che, contrariamente alla regola di metodo formulata da Durkheim (trattare i fatti sociali come cose), la sociologia tedesca ha sviluppato un approccio «comprensivo» alle condotte umane, alla vita, alle motivazioni.26 Attraverso tale scelta analitica Aron poteva già manifestare la sua distanza dal «sociologismo»27 durkheimiano e la sua preferenza per una sociologia che tenga al centro dei suoi interessi i fatti umani e il presupposto della libertà del volere. Proprio la questione della libertà del volere, principio cardine dell’intera opera aroniana e fondamento filosofico Bologna 1992, pp. 135-155). Sul punto si veda anche Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 250. 21 Cfr. R. Aron, La philosophie critique de l’histoire, Vrin, Paris 1950, p. 15. 22 Cfr. R. Aron, Les étapes de la pensée sociologique, Gallimard, Paris 1967 (trad. it. Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 2003, p. 142). 23 Cfr. Id., Marxismi immaginari, cit. 24 Id., La philosophie critique de l’histoire, cit., p. 263. 25 R. Aron, La sociologie allemande contemporaine, Alcan, Paris 1935 (trad. it. Introduzione alla sociologia tedesca contemporanea, Messapica, Lecce 1980, p. 130). 26 Ivi, p. 131. 27 Ivi, p. 130. 244 Daniele Bronzuoli di quell’«autonomia della politica» che verrà a configurarsi insieme come presupposto e logica conclusione della trilogia sulla società industriale, è anche il nocciolo problematico e il punto di convergenza delle riflessioni metodologiche condotte nell’Introduction à la philosophie de l’histoire (1938), la tesi principale di dottorato, che traduce in termini speculativi le analisi storiche de La philosophie critique de l’histoire. Dopo aver rilevato la specificità dell’indagine storica sull’uomo attraverso il confronto con altre discipline scientifiche che, come la biologia, procedono anch’esse attraverso operazioni di «inferenza dal presente al passato», Aron può ‘liberare’ la storia da quei legami con l’ordine o con il divenire naturale a cui era stata vincolata dalle filosofie di Cournot28 e Bergson29 e procedere a una fondazione della storicità intesa sostanzialmente come presenza e azione dell’uomo nel tempo e nel mondo. Solo l’uomo «[…] ha una storia, perché la sua storia fa parte della sua natura, o meglio, è la sua natura».30 L’opposizione tra ‘storia naturale’ e ‘storia umana’ viene pertanto definita attraverso «la conservazione e la ripresa cosciente del passato»31 e, ricordando una formula di Hegel, Aron sottolinea che solo le comunità veramente storiche «[…] elaborano una scienza del loro divenire».32 Una volta chiarito il concetto di storia come risultato di un’attività umana tesa fra la ripresa del passato e la realizzazione del futuro, rimangono da approntare gli strumenti teorici utili alla comprensione di quella che appare, in tutto e per tutto, il prodotto di una logica dell’atto libero, incapace pertanto di essere ridotta a una mera spiegazione di tipo causale. Il primo problema che si pone è senza dubbio quello di conciliare la ricognizione della fondamentale spontaneità dell’agire umano con l’esigenza scientifica di rintracciare uniformità e generalizzazioni in grado di assolvere una qualche funzione esplicativa. In altri termini, la posta in gioco è sia la definizione di uno spazio ontologico per la libertà umana, per l’iniziativa che rompe una catena di predeterminazioni causali, sia la messa a punto di una metodologia delle scienze storico-sociali in grado di definire parametri formali di obiettività e di orientare la ricerca verso adeguati processi di verificazione. Ed è su questo terreno che Aron incrocia la riflessione di Weber. In maniera del tutto simile al sociologo tedesco, Aron opta infatti per una soluzione di tipo sostanzialmente criticista, consistente nell’in28 1851. Cfr. A. Cournot, Essai sur les fondements des nos connaissances, Hachette, Paris Cfr. H. Bergson, L’évolution créatrice, Alcan, Paris 1937. Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 38. 31 Ivi, p. 40. 32 Ivi, p. 44. 29 30 Raymond Aron teorico della società industriale 245 terpretare il determinismo completo non metafisicamente, come statuto oggettivo e intemporale della realtà naturale, storica o sociale, ma come uno schema conoscitivo attraverso cui il soggetto, che vive nel tempo, estende il suo controllo razionale sul mondo e nella storia. Di qui l’adesione aroniana a un modello pragmatico, non normativo, del criterio di découpage della realtà storico-sociale,33 capace di tenere a distanza tanto le varie declinazioni del determinismo sociale – dal funzionalismo durkheimiano alla dialettica marxista – quanto il trascendentalismo di Rickert, che sulla relazione ai valori intendeva fondare l’oggettività della scienza storica.34 La posizione di Aron è tuttavia più complessa di quanto non appaia da queste prime battute. È infatti noto che Weber, nella sua duplice polemica contro la filosofia positivista o ‘naturalista’ e i canoni convenzionali del pensiero idealistico, con la sua negazione delle possibilità dell’indagine scientifica nel campo della cultura umana, avesse tentato di introdurre elementi di rigore intellettuale in un ambito dove, fino ad allora, avevano dominato incontrastati l’intuizione o l’ingenuo interesse per i ‘fatti’.35 A questo scopo egli affidava all’operazione a posteriori di verifica causale il compito di superare il vincolo soggettivistico della relazione ai valori, tentando per questa strada di assicurare obiettività all’indagine storicosociale e adottando in definitiva un sistema di accertamento che, pur con cautele e temperamenti, restava concettualmente uguale a quello delle scienze sperimentali.36 Proprio sul metodo weberiano di gestione della teoria della causalità nel corso del processo di verifica si appuntano le principali rimostranze di Aron, il quale mette in dubbio sia che l’accertamento dei rapporti di causalità, una volta assunto il carattere arbitrario della relazione ai valori, possa svolgersi su un terreno di pura obiettività, sia che questa possa approdare a una analisi causale esaustiva, o quanto meno soddisfacente, di un fenomeno complesso, ossia costituito da diverse serie causali integrate. Da una parte infatti, dal punto di vista metodologico, una serie sufficientemente lunga di casi omogenei da cui estrarre una legge non sembra essere la premessa fattuale di base su cui innestare la ricerca, ma piuttosto il risultato di precedenti operazioni teoriche di selezione (e dunque dipende anch’essa da un découpage legato alle scelte di valore dei ricercatori o, quanto meno, non riesce a Cfr. Aron, La philosophie critique de l’histoire, cit., p. 227. Ivi, pp. 132-140. Cfr. anche Aron, Introduzione alla sociologia tedesca contemporanea, cit., pp. 91-92. 35 Cfr. Hughes, Coscienza e società, cit., p. 295. 36 Cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 275. 33 34 246 Daniele Bronzuoli sottrarsi al suo condizionamento);37 dall’altra invece, e da un punto di vista ontologico, la realtà umana sembra attraversata da un «determinismo lacunoso»38 nel quale il gioco delle volontà individuali, delle azioni collettive e l’intersezione delle serie causali fra loro indipendenti non si ricompongono certo in una totalità suscettibile di «sistemazione causale».39 La delegittimazione del processo di verifica potrebbe così condurre verso derive potenzialmente scettiche la riflessione metodologica di Aron il quale, schiacciando entrambi i poli dell’epistemologia weberiana su di un versante sostanzialmente relativistico, rischia di far saltare il fragile schema interpretativo ipotizzato dal sociologo tedesco, lasciando soltanto un cumulo di macerie. Ma l’andamento del pensiero aroniano subisce qui una curvatura che, conducendo l’autore verso la ricerca di un percorso intermedio tra la nozione positivista di rigore scientifico e la sensibilità tedesca per la storia e la filosofia, costituirà premessa teorica non solo di tutte le successive rivisitazioni dell’opera di Weber, ma anche – come vedremo – della sua teoria sociologica. Ipotizzando infatti un percorso di integrazione fra i procedimenti della comprensione e della spiegazione, egli si propone sia di recuperare il potere esplicativo presente nel concetto positivistico di legge, sia di trasformare in chiave operativa e positiva il condizionamento esercitato dall’atto di selezione.40 Senza sovraccaricare di aspettative razionalistiche o idealistiche il tema della selezione attraverso i valori, Aron prevede la possibilità che la comprensione, da strategia di intendimento del «senso vissuto» dei protagonisti storici, «[…] si elevi all’interpretazione dello spirito, della qualità, o del senso permanente»41 e anche che essa giunga ad afferrare la logica e l’evoluzione delle idee legate causalmente allo «spirito oggettivo» di una società. Afferma inoltre che, purché ci si sottometta alle «regole del vero», «[…] la riflessione sulle condizioni nelle quali noi conosciamo la storia non è essenzialmente relativa».42 Si configura dunque l’evenienza che l’operazione di découpage, piuttosto che legarsi erraticamente alla soggettività dei valori che limita e compromette la presunta obiettività autonoma del sapere nomologico, sorga invece da categorie interpretative e valori condivisi da ogni società, appoggiandosi, per così dire, su idee e regole teoriche formatesi storicamente e incorporate nella cultura filosofica e scientifica. La «strada dell’obiettività» Cfr. Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 133. Ivi, p. 42. 39 Ivi, p. 282. 40 Sul tema cfr. anche Camardi, Individuo e storia, cit., p. 135. 41 Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 96. 42 Ivi, p. 303. 37 38 Raymond Aron teorico della società industriale 247 passerebbe, in questo senso, «attraverso la teoria»,43 nella misura in cui questa, conservando una sua autonomia rispetto alla spiegazione scientifica che doveva fondarne la validità, supplisce alla frammentarietà dei rapporti causali e ne offre un’immagine più coerente. Procedendo così verso la restaurazione di un rapporto abbastanza tradizionale fra filosofia e verità, poggiante sull’asse dell’integrazione storica fra valori e idee a un livello teoretico, Aron accompagna la parabola dello storicismo tedesco contemporaneo al di fuori delle autodissolutorie tendenze scettiche che in essa si annidano, orientando da una parte la propria riflessione verso lo stemperamento della struttura fondamentalmente antinomica della metodologia weberiana e garantendo dall’altra solide basi teoriche a un’indagine della società e della storia che non escluda dalla sua matrice possibilità di giudizi di valore.44 Senza dubbio dobbiamo far rientrare all’interno di questo percorso di progressivo allontanamento dalle tendenze relativistiche di Weber45 la preoccupazione etico-politica dell’autore di rendersi indipendente da un abito di ‘neutralità valutativa’ che lo costringerebbe, nell’ambito della comparazione fra tipologie di società industriale, a porre su di uno stesso livello normativo democrazia e totalitarismo.46 Non è un caso infatti che Aron incroci, in parte condividendola, la critica di Leo Strauss a Weber47 verso la fine degli anni Cinquanta, quando cioè più forte si fa in lui l’urgenza di convalidare in ambito filosofico prese di posizione alle quali la situazione politica internazionale non lasciava molti margini di ambiguità. Il discorso può essere tuttavia esteso dal livello teoretico che abbiamo appena esaminato al livello pratico-politico, dove il sociologo tedesco aveva posto la divaricazione tra scienza e decisione. E ancora una volta è alla dinamicità implicita nell’idea diltheyana di ‘spirito oggettivo’ che Aron ricorre nella manovra di ricucitura della metodologia di lavoro weberiana. Se infatti è possibile individuare nella realtà umana una sorta di «comunità» di valori e modalità di giudizio che, almeno in una dimensione 43 Aron, Science et consciènce de la socièté, in Id. Etudes Politiques, cit., p. 9-37; trad. it. Scienza e coscienza della società, in Id.; La politica, la guerra, le storie, cit. p. 593. 44 Id. Scienza e coscienza della società, cit., p. 596. 45 Tali tendenze sono, invero, attribuibili più alla ‘metodologia esplicita’ che alla ‘pratica’ del sociologo tedesco (cfr. ivi, p. 597). Sullo stesso punto si veda anche Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 97 e Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 519. 46 Cfr. D.J. Mahoney, The Liberal Political Science of Raymond Aron, Rowman & Littlefield Publishers, Boston 1992, p. 6. 47 Cfr. L. Strauss, Natural Right and History, The University of Chicago Press, Chicago 1953. 248 Daniele Bronzuoli preriflessiva, viene creata in ciascuno dalla «priorità» delle rappresentazioni collettive sullo «spirito individuale»,48 diviene allora possibile pensare anche lo spazio logico per una teoria dell’agire politico che, distante dai tentativi di risolvere in sede scientifica i problemi ultimi della condotta, possa tuttavia misurarsi con criteri di carattere normativo.49 Non solo, ma il recupero della riflessione diltheyana sul mondo storico, con la sua capacità di esprimere dialetticamente le relazioni fra l’individuo e gli «insiemi organici»50 senza postulare tra questi alcun tipo di connessione metafisica, costituisce anche premessa teorica di una sociologia, quella aroniana, che intende muoversi su più livelli di interpretazione, senza limitarsi a quell’approccio individualistico proprio, ad esempio, degli economisti classici, che riconosce come oggetto di indagine soltanto la realtà degli individui e delle loro scelte intenzionali. Da un punto di vista eminentemente logico è infatti possibile sostenere, come fa Hayek in difesa del liberismo economico,51 che i sistemi di rappresentazione collettiva e le forme di organizzazione sociale esistano soltanto in funzione dell’«intermediazione di concetti» o di «teorie», e che possano per ciò stesso essere interpretati solo come effetti di composizione delle condotte degli «atomi sociali».52 Tuttavia, è altrettanto innegabile che il comportamento individuale degli attori storici sia determinato, a sua volta, dalle «relazioni stabili» che essi reciprocamente intrattengono e che, una volta cristallizzatesi nella struttura sociale, finiscono col riprodursi indipendentemente dalla volontà degli individui e, talvolta, nonostante gli sforzi profusi in senso contrario.53 Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 74. Cfr. R. Aron, Introduction a Max Weber. Le savant et la politique, Plon, Paris 1959 (trad. it. Max Weber. L’uomo di scienza e la politica, in Id., Il ventesimo secolo, a cura di A. Panebianco, Il Mulino, Bologna 2003, p. 242). Su questo punto si vedano anche B.C. Anderson, Raymond Aron: the Recovery of the Political, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers, Boston 1997; S. Mesure, Valore e verità. Storia e politica in Raymond Aron, in «Studi Perugini», anno III, n. 6, luglio-dicembre 1998, p. 37; A. Bolaffi, Aron interprete di Max Weber, in A. Campi (a cura di), Pensare la politica. Saggi su Raymond Aron, Ideazione, Roma 2005, p. 577). 50 Aron, Introduction à la philsophie de l’histoire, cit., p. 77. 51 Cfr. F.A. Hayek, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, The Free Press, United States 1952 (trad. it. L’abuso della ragione, SEAM, Roma 1997). 52 Aron, Lezioni sulla storia, cit., p. 297. 53 Cfr. ivi, p. 472 e Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 77. Sull’argomento si vedano anche i fondamentali: J.P. Sartre, Critique de la raison dialectique, Tomo I: Théorie des ensembles pratiques, Gallimard, Paris 1960 (trad. it. Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963); P. Bordieau e J.C. Passeron, La reproduction. Eléments pour une théorie du système d’enseignement, Minuit, Paris 1970 (trad. it. La riproduzione, Guaraldi, Rimini 1974). 48 49 Raymond Aron teorico della società industriale 249 Di nuovo è sul problema ontologico della libertà umana che vengono a convergere le considerazioni aroniane sulla struttura del mondo storico e sulle possibilità, i limiti e le condizioni di una sua conoscenza. Da una parte, infatti, vi è una specificità dei fenomeni macroscopici – Aron ne conviene soprattutto con Sartre – che, mentre non viene eliminata dalla loro esplicabilità teorica per mezzo dei fenomeni microscopici, illustra chiaramente la necessità di un approccio metodologico allo studio delle realtà umane in grado di confrontarsi con più dimensioni d’analisi o più strutture interpretative.54 Dall’altra parte, la pluralità dei modelli di spiegazione dei fenomeni sociali altro non è se non il riflesso, a un livello metodologico, di una dialettica costantemente in atto nella realtà umana tra i determinismi parziali creati dalle oggettivazioni delle relazioni fra soggetti e la natura intenzionale della praxis individuale. Posta in questi termini la questione, il determinismo macroeconomico o macrosociologico «[…] non si trova affatto in contraddizione con quella che resta la decisione individuale»,55 ma serve invece a disegnare un margine ideale, costruito all’interno dei movimenti fondamentali della realtà, nel quale la libertà umana penetra e agisce a contatto con la struttura della causalità storica. Ciò che dunque Aron ha in mente è sia il superamento della contrapposizione tra «sincronia» e «diacronia» nell’ambito delle scienze umane,56 sia l’approdo a una sociologia insieme storica e sistematica, capace di tradurre nell’analisi dei fatti una concezione dell’universo storico nella quale i processi socioeconomici di lunga durata vivano in un rapporto di reciproca dipendenza con le deliberazioni e le azioni particolari degli attori storici. Ed è esattamente a questo punto che Aron incontra – siamo a ridosso delle lezioni sulla società industriale – la tradizione della «scuola francese di sociologia politica» i cui fondatori sono, a suo dire, Montesquieu e Tocqueville.57 Al primo Aron attribuirà, facendola sostanzialmente coincidere con l’elaborazione weberiana del tipo ideale, quell’innovazione che avrebbe reso possibile la genesi della sociologia dall’alveo della filosofica politica classica e che egli definisce come «analisi significativa» o «comprensiva»;58 il secondo, da parte sua, fornirà all’autore il modello di una sociologia che, sebbene attenta all’illustrazione dei fondamentali processi in atto, rifiuta di sopprimere la storia assorbendo nel piano della necessità il ruolo che in essa vi giocano gli uomini e le Ivi, p. 298. Ivi, p. 472. 56 Ivi, p. 470. 57 Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 276. 58 R. Aron, Dix-huit leçons sur la société industrielle, Gallimard, Paris 1962 (trad. it. La società industriale, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 54). 54 55 250 Daniele Bronzuoli loro azioni.59 Proprio questa dialettica di libertà e necessità costituisce la trama profonda, il significato filosofico di un’indagine sociologica, quella aroniana, che muove dai processi, comuni a tutte le società industriali, posti in essere dalle dinamiche dello sviluppo economico, per poi pensare, in opposizione alle teorie classiche dell’industrialismo, la dipendenza delle caratteristiche di ciascun regime non già in relazione all’organizzazione dei processi di produzione e distribuzione della ricchezza, ma in rapporto alle modalità di esercizio dei pubblici poteri e alla struttura dell’apparato statale. È dunque nella messa in discussione degli assunti di fondo delle teorie ottocentesche sulla società industriale – con la loro tesi circa il progressivo uniformarsi della struttura sociale, la prognosi dell’inevitabile estinzione dello stato e la disattenzione nei confronti delle questioni legate alla dimensione delle relazioni internazionali – che va pensata l’originalità della riflessione sociologica di Aron rispetto a quella di Auguste Comte, della quale tuttavia è debitrice nella fondamentale intuizione del rapporto tra scienza e industria quale carattere specificamente distintivo della società moderna e, soprattutto, rispetto a quella di Karl Marx, di cui riprende la riflessione giustificandone l’uso in sede metodologica e contestandone la pretesa di imporsi come filosofia deterministica della storia.60 Ma la doverosa delucidazione dei motivi di originalità della meditazione aroniana sull’industrialismo rispetto alla sociologia classica sull’argomento non esaurisce certo la complessità dei temi e delle questioni che in essa convergono, e che devono invece essere vagliati tenendo presente sia il percorso intellettuale che conduce l’autore a porre il problema della relazione tra industrialismo e agire politico – che in parte abbiamo già ricostruito – sia la cornice storico-culturale nella quale l’analisi di tale problema si inserisce. L’insistenza posta, attraverso la contrapposizione tra società industriali di tipo capitalistico e di tipo socialistico, sulla centralità delle determinazioni propriamente politiche e sulla loro sostanziale irriducibilità ad altro da sé, significherà infatti anche il tentativo di riabilitare nel senso dell’equilibrio sociale quella funzione della politica che sia la teoria del liberalismo classico – con la convinzione che la complessità delle moderne dinamiche sociali non fosse suscettibile di essere armonizzata dall’azione disciplinatrice dello stato – sia quella neo-liberale della scuola austriaca – con le preoccupazioni aggiunte di 59 Cfr. Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., pp. 239; 250-251. Sullo stesso punto, si veda anche R. Aron, Essais sur les libertés, Calmann-Lévy, Paris 1977 (trad. it. Delle libertà, Sugarco, Milano 1990, p. 13). 60 Cfr. Id., La società industriale, cit., pp. 46-51. Raymond Aron teorico della società industriale 251 possibili cedimenti ideologici alle dottrine socialiste e di derive totalitarie61 – tendevano fortemente a ridimensionare.62 Appare dunque chiaro come sia mediante la duplice operazione di ricostruzione del percorso filosofico dell’autore e di precisazione della sua posizione attraverso il confronto con autori a lui contemporanei che diviene possibile comprendere la natura dell’indagine sociologica aroniana sulle moderne società industriali. Se da una parte infatti il metodo sociologico di Aron sembra per intero derivare dalla visione della storia e dagli assunti di carattere epistemologico maturati dall’autore nella fase giovanile della sua carriera intellettuale, dall’altra, al fine di enucleare alcuni motivi di originalità presenti nella sua meditazione sulla contemporaneità, risulta imprescindibile collocare la sua figura all’interno di quel dibattito che, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, si andava articolando attorno al problema fondamentale del rapporto tra la struttura sociale e il regime politico delle moderne società industriali, coinvolgendo intellettuali di diversa formazione filosofica e culturale. 2. La sociologia comparata: premesse teoriche e definizione del problema Il mutamento di prospettive intervenuto nella vicenda intellettuale di Aron a partire dagli anni Quaranta, che – come abbiamo visto – si concretizza in un sostanziale spostamento del baricentro degli interessi dell’autore dalla speculazione attorno ai criteri veritativi delle scienze umane alla ricerca sociologica e alla politologia, non si accompagna a una meccanica marginalizzazione della meditazione filosofica, rappresentando piuttosto questa uno dei momenti di maggiore unità e continuità dell’opera aroniana.63 Per la precisione, ciascuno dei tre volumi che compongono la trilogia sulla società industriale è preceduto da un’attenta introduzione di carattere filosofico e metodologico, volta a chiarire i limiti e le condizioni nelle quali un’indagine che assume come proprio oggetto di analisi gli «insiemi organici»64 della realtà storico-sociale può dirsi legittima. Vi 61 Cfr. F.A. Hayek, The Road to Serfdom, The University of Chicago Press, Chicago 1944 (trad. it. La via della schiavitù, Rusconi, Milano 1995). Dello stesso autore si veda anche The Constitution of Liberty, The University of Chicago Press, Chicago 1960 (trad. it. La società libera, SEAM, Roma 1998). 62 Sulla critica aroniana al liberalismo cfr. Aron, Delle libertà, cit., pp. 97-113; Id., La définition libérale de la liberté, in Id., Etudes politiques, cit., pp. 195-215 (trad. it. La definizione liberale della libertà, in R. Aron, Il concetto di libertà, Ideazione, Roma 1997, pp. 35-76) e Id., Lezioni sulla storia, cit.. 63 Cfr. P. Manent, Raymond Aron éducateur, «Commentaire», 28/29, 1985, pp. 155167 ; G. Fessard, La philosophie historique de Raymond Aron, Juillard, Paris 1980. 64 Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 77. 252 Daniele Bronzuoli sono almeno due motivi, ritengo, per i quali tale incedere delle lezioni sociologiche aroniane non deve sorprendere. Il primo è legato al particolare ruolo che – come si è visto – il procedimento della ‘comprensione’ viene a ricoprire nell’economia complessiva della metodologia di ricerca di Aron, in base al quale esso non si configura più, come voleva – almeno in linea teorica – Weber, come il frutto di una costruzione arbitraria, ma rappresenta piuttosto la condizione dell’oggettività del sapere storico-sociale.65 Il secondo motivo è invece strettamente connesso all’ambizione di Aron di elaborare una metodologia d’indagine che sia suscettibile di essere condizionata in modo decisivo da questioni di carattere filosofico senza per questo uscire dall’ambito di una conoscenza che si vuole «empirica e oggettiva».66 La sociologia infatti «[…] vuol essere una scienza particolare e, nel contempo, analizzare e comprendere la società nel suo insieme».67 Se da una parte la volontà di rigore scientifico può condurre alla «preoccupazione esclusiva della dimostrazione», con l’inevitabile e irragionevole rischio di «sacrificare l’interessante al dimostrato»,68 dall’altra l’intenzione di generalità che presiede allo studio dei fenomeni sociali può facilmente scivolare in quello che viene comunemente definito «sociologismo», ovvero la «volontà di spiegare tutti i fenomeni, compresi quelli spirituali – morale o conoscenza – partendo dalla società».69 Ora, è innegabile che la sociologia, a differenza della storia, aspiri a interpretare i fenomeni sociali attraverso categorie generali e, nel caso estremo, a scoprire leggi.70 Questa particolare attitudine rimanda, del resto, all’oggetto d’indagine che le è proprio, ovvero «il confrontare società, il collocare alcuni fenomeni sociali all’interno di ciascuna collettività, il situare alcune diversità sociali in un sistema più grande».71 Ove si consideri, ad esempio, l’opera di Lévi-Strauss Les structures fondamentales de la parenté, è facile vedere come l’autore dimostri che la diversità estrema delle forme di parentela, le modalità di proibizione dell’incesto costituiscono variazioni su di un piccolo numero di temi costanti. In maniera non dissimile Aron tenterà, 65 Cfr. R. Aron, Max Weber et Michael Polanyi, in Id., Etudes politiques, cit., pp. 104-124 (trad. it. Max Weber e Michael Polanyi, in Aron, La politica, la guerra, la storia, cit., pp. 157-179). 66 R. Aron, La lutte des classes. Nouvelles leçons sur les sociétés industrielles, Gallimard, Paris 1964 (trad. it. La lotta di classe, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 263). 67 Aron, La società industriale, cit., p. 15. 68 Id., Max Weber e Michael Polanyi, cit., p. 166. 69 Id., La società industriale, cit., p. 18. 70 Su questo punto cfr. anche Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 190. 71 Id., La società industriale, cit., p. 17. Raymond Aron teorico della società industriale 253 nell’analisi delle società industriali, di ritrovare i caratteri comuni a tutte le economie moderne per poi ‘comprendere’ il tipo di economia pianificata e quello capitalistico come «due variazioni sullo stesso tema o due specie dello stesso genere».72 Questo non significa tuttavia che tale lettura sia imprescindibile ai fini di una interpretazione della modernità: […] il concetto di società industriale non si impone in modo imperativo, non sapremmo dimostrare che si deve considerarlo centrale, ma non mancano ragioni per giustificare la scelta e la giustificazione del termine.73 La sociologia resta pertanto una scienza particolare al fianco delle altre, il cui contributo risulta prezioso nella sua parzialità e all’interno di un contesto, quello del mondo storico-sociale, in cui vige il principio euristico della «pluralità dei sistemi d’interpretazione»,74 che non deve assolutamente essere confuso con quello del relativismo. Quest’ultimo infatti ammette che non vi sia verità altro che «in rapporto al punto di vista di una determinata persona»,75 mentre la pluralità ermeneutica può applicarsi solo sul presupposto di una comune realtà storica e cioè sull’assunto di un fondamento parzialmente razionale della realtà. Tra la scienza sociologica e il «sociologismo» vi è dunque, schematicamente, lo stesso scarto che esiste tra lo sforzo teso ad analizzare le condizioni sociali di uno sviluppo intellettuale e l’interpretazione di questo in quanto «essenzialmente espressione della realtà sociale».76 Alla stessa stregua, un’interpretazione della società che, come quella proposta da Marx nella prefazione a Zur Kritik der Politischen Ökonomie,77 assume come punto di partenza i regimi economici, è legittima soltanto se la si presenta come una tra le tante possibili. Se invece essa volesse, con pretese di scientificità, ricondurre tutto ai fenomeni economici, cesserebbe per ciò stesso di esserlo, in quanto «[…] presterebbe alla realtà sociale una struttura semplificata che essa non possiede».78 Tale concezione, che appare conformarsi integralmente alla teoria della conoscenza weberiana con il suo precetto «nominalista» di una Ibidem. Ivi, p. 283. 74 Cfr. Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., pp. 90-96. Sullo stesso tema si veda anche Id., Lezioni sulla storia, cit., p. 415. 75 Id., Lezioni sulla storia, cit., p. 415. 76 Id., La società industriale, cit., p. 18. Sul punto si vedano anche Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 365 e R. Aron, Liberté, libérale ou libertaire?, in Id., Etudes politiques, cit., pp. 235-274 (trad. it. Libertà, liberale o libertaria?, in Id., Il concetto di libertà, cit., p. 122). 77 Cfr. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993. 78 Aron, La società industriale, cit., pp. 22-23. 72 73 254 Daniele Bronzuoli radicale separazione tra «ideale» e «reale», «pensiero» e «cose»,79 si distingue tuttavia da essa in quanto rifiuta il postulato neokantiano della sostanziale informità e frammentarietà del dato storico. È infatti noto che, per il sociologo tedesco, ogni realtà sociale rappresenta un coacervo di fatti incoerenti che solo il punto di vista soggettivo e in fondo arbitrario dell’osservatore può aggregare in un’unità dotata di senso. Attraverso siffatta dottrina della scienza Weber intendeva ricordare, a livello teoretico, la libertà del ricercatore di costruire, di ogni individualità storica e a monte del sistema di relazioni causali, una molteplicità di concetti ideali secondo la direzione della sua curiosità e, a livello antropologico, il diritto di ciascuno di decidere autonomamente il proprio sistema di valori di fronte ai processi di razionalizzazione attuati dalla scienza, dall’amministrazione e dalla gestione rigorosa delle imprese economiche.80 Ora, a giudizio di Aron, è possibile mantenere, a livello teoretico, il principio della determinazione soggettiva dell’oggetto d’indagine da parte del ricercatore senza essere costretti ad ammettere né il nominalismo «un po’ semplicista»81 dell’impianto metodologico weberiano, né l’ipotesi rickertiana della datità storica come «accumulazione o dispersione di fatti non connessi».82 Come il determinismo macroeconomico o macrosociologico non si trova in contraddizione con l’intenzionalità dell’agire individuale, così la «tesi dell’obiettivismo diltheyano», che postula l’immanenza al mondo storico degli «insiemi d’azione» (Wirkungszusammenhang),83 non esclude affatto la «molteplicità di ordini di spiegazione» interna alla logica storica.84 Anzi, il riconoscimento di «totalità parziali» in grado di condizionare e circoscrivere la libertà dell’osservatore prefigura produttivamente la possibilità astratta di una trasmutazione del relativismo weberiano in una coerente teoria della pluralità ermeneutica.85 Fin da un primo approccio infatti la realtà presenta «molteplici ordini parziali» che, pur non essendo riconducibili a un qualsivoglia «ordine to79 Id., La philosophie critique de l’histoire, cit., p. 232. Su questo punto si veda anche Id., Introduzione alla sociologia tedesca contemporanea, cit., p. 94. 80 Cfr. Id., Introduzione alla sociologia tedesca contemporanea, cit., pp. 127-128. Sul tema della razionalizzazione in Weber, si vedano anche Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., pp. 513-514; P. Rossi, La teoria della razionalità in Weber, in G. Duso (a cura di), Weber: razionalità e politica, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1980, pp. 11-38; F. Bianco, Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, Laterza, Roma-Bari 1997. 81 Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 135. 82 Id., La società industriale, cit., p. 23. Cfr. anche Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 135. 83 Id., Lezioni sulla storia, cit., p. 469. 84 Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 135. Su questo punto si veda anche P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, cit., p. 282. 85 Aron, La società industriale, cit., p. 23. Raymond Aron teorico della società industriale 255 tale», sono inscritti nel sistema, motivo per cui «[…] il sociologo non crea arbitrariamente la logica delle condotte sociali che analizza».86 Quando, ad esempio, si osserva un sistema economico, si evidenzia un ordine che è interno alla società e non sovrapposto dall’osservatore; tuttavia, tale ordine non è univoco e non vi è un solo modo per interpretarlo. Quanto più il sociologo mira a formulare una visione d’insieme, tanto più corre il rischio «[…] d’esprimere l’intenzione politica che l’ha animato fin da principio o di scoprire il sistema filosofico verso cui tende come punto d’arrivo».87 Ora – e qui arriviamo al punto più delicato del discorso epistemologico aroniano – se l’analisi sociologica non può poggiare, per così dire, su un coerente sistema filosofico in grado di certificarne la veridicità (pena il rischio di cadere nel «dogmatismo»),88 donde trae essa la sua obiettività? E come si giustifica, in sede teorica, la scelta di un modello di analisi piuttosto che di un altro? E ancora, nell’economia generale della riflessione aroniana quest’ultimo problema viene per intero rimesso all’autonomia della facoltà umana di riflessione o decisione, oppure è possibile individuare, all’interno di idee e teorie filosofiche formatesi nella storia della cultura, possibili principi di organizzazione e di giudizio capaci di documentare l’attualità della teoria? Per quanto riguarda il primo problema, abbiamo già avuto modo di vedere come l’autore ritenga che la costruzione di un insieme intelligibile dipenda da un quadro teorico entro il quale i fatti vengono a disporsi secondo una gerarchia di connessioni.89 A proposito invece della questione concernente la legittimità e la capacità veritativa degli insiemi teorici deputati a conferire obiettività alle inchieste storiche o sociologiche, la posizione di Aron si fa più ambigua e, per certi aspetti, contraddittoria. Da alcune riflessioni contenute nei capitoli introduttivi delle Dix-huit leçons sur la société industrielle si ha come l’impressione che l’autore, riprendendo alcune linee direttrici dell’Introduction à la philosophie de l’histoire, guardi allo sviluppo delle teorie sociologiche come a una ricerca e progressiva accumulazione della verità.90 Come illustrato dalla dialettica simmeliana tra vita e forme,91 le idee, attraverso la ripetizione del loro uso in contesti culturalmente e storicamente diversi, tengono in moto il processo di accrescimento del sapere e, su questa base, potrebbero candidarsi a rappresentare un Ivi, p. 24. Ibidem. 88 Ibidem. Cfr. anche Aron, La lotta di classe, cit., p. 263. 89 Sul punto cfr. anche Id., Scienza e coscienza della società, cit., p. 598. 90 Cfr. Id., La società industriale, cit., p. 25. 91 Cfr. Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 76. 86 87 256 Daniele Bronzuoli criterio di validità dell’indagine storico-sociale più efficace dei tipi ideali weberiani, una infrastruttura rigorosa e obiettiva ottenuta attraverso un processo di selezione storica atta a disciplinare e a rendere confrontabili dottrine e imprese scientifiche diverse, volta per volta costituite a partire da eterogenee e differenti posizioni valutative. In questo caso, non solo i valori determinerebbero l’assetto delle teorie, ma anche queste, svolgendo un’azione di feed-back, influirebbero sulla formazione dei valori e delle decisioni che presiedono all’impresa scientifica. Si tratterebbe – com’è stato osservato – di una parziale rivincita di Dilthey su Weber,92 dal momento che il nesso specifico fra stato della cultura e valori della scelta scientifica potrebbe essere compreso solo alla luce di un’analisi tipicamente storico-filosofica e non da una analitico-esistenziale. Tuttavia non è questa la soluzione definitiva adottata da Aron. Altrove egli ricorda come le inchieste sociologiche siano fondamentalmente orientate «dalla curiosità dell’osservatore, dalle sue preferenze filosofiche o politiche», oltre che «dalla diversità insita nella realtà stessa»,93 lasciando così alla riflessione individuale la prerogativa di risolvere in ultima istanza il problema dell’obiettività.94 Lungi dal ricomporsi in una sintesi filosofica priva di contraddizioni, questi due momenti della riflessione aroniana rimangono come due poli giustapposti sullo sfondo di una teoria sociologica che, dal punto di vista empirico, è in grado di tracciare chiare coordinate e fermi punti di riferimento, mentre dal punto di vista dei criteri ultimi giustificativi sembra come arrestarsi sul punto di compiere il passo decisivo, abbandonando il piano speculativo per curvare decisamente verso i problemi concernenti la pura metodologia d’indagine. Vediamo come. Per definire il problema che sta all’origine dell’intero corso sulla società industriale è necessario, secondo Aron, rifarsi a tre teorie della società sviluppatesi nella prima metà dell’Ottocento, ovvero a quelle di Auguste Comte, di Tocqueville e di Marx. Le riflessioni di questi autori erano dominate da due «fatti capitali», la rivoluzione francese e lo sviluppo delle prime fabbriche, ed è proprio in relazione al significato attribuito alla distruzione della monarchia francese e al rovesciamento 92 Cfr. Camardi, Individuo e storia, cit., p. 142. Sull’eredità congiunta di Dilthey e Weber nella teoresi aroniana si veda anche A. Panebianco, Introduzione all’edizione italiana in Aron, La politica, la guerra, la storia, cit., pp. 16-29. 93 Aron, La lotta di classe, cit., p. 58. Sul punto si veda anche Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 337. 94 Su questa base Morra riconosce una sostanziale equivalenza tra il metodo sociologico di Weber e quello di Aron, nonostante le «critiche parziali» che quest’ultimo non manca di rivolgere al sociologo tedesco. (Cfr. G. Morra, Raymond Aron: per una sociologia europea, in Campi [a cura di], Pensare la politica, cit., p. 44). Raymond Aron teorico della società industriale 257 della gerarchia sociale che è possibile definire le teorie sociologiche della prima metà del XIX secolo. Il punto di partenza della sociologia di Comte (e di Saint-Simon) è l’opposizione tra due tipi di società: da un lato, una società – quella medievale – essenzialmente politica e gerarchica, cementata dalla fede nel trascendente e caratterizzata dal predominio dell’attività militare; di contro, una società – quella moderna – fondamentalmente economica o industriale, ove i responsabili dell’organizzazione collettiva sono i capi dell’industria, gli scienziati, gli ingegneri e i tecnici. Questa prima distinzione non definisce tuttavia adeguatamente il problema di Saint-Simon e di Comte ed esige di essere completata con il significato che quest’ultimo attribuisce alla rivoluzione francese. Per Comte la rivoluzione francese è espressione di uno spirito che egli definisce «metafisico» o «critico» e che, in quanto tale, «[…] è incapace di ricostruire un ordine sociale».95 Compito della sociologia è dunque quello di contribuire a fondare nuovamente il «consenso sociale» su un insieme di credenze comuni: nessuna società può infatti vivere se tutti i suoi membri non condividono una medesima «scala di valori».96 Ora, questo sistema di valori è stato distrutto dallo spirito metafisico e critico, di cui il pensiero degli economisti classici e liberali, con la sua pretesa di fare dell’economia una scienza autonoma e isolata dall’insieme della filosofia sociale, è fulgida espressione.97 Se da una parte è impossibile ristabilire le credenze comuni nella loro antica forma, dall’altra si rende necessario crearne delle nuove capaci di costituire il presupposto etico della nuova società industriale, la quale si presenta, in un primo momento, come un ordine essenzialmente economico, privo di fondamento religioso. Per Tocqueville invece il fatto più importante, da cui dipende il divenire storico, è il «movimento democratico», che egli concepisce come la decomposizione della gerarchia aristocratica, «la sparizione degli ordini privilegiati, la cancellazione delle distinzioni di stato e, fra uomo e uomo, la tendenza ad un’eguaglianza economica, a una uniformità del modo di vivere».98 Posto che tale processo investe e accomuna tutte le società cristiane e occidentali, quale sarà la natura di queste società? Quale stato, quale regime politico si imporrà a collettività nelle quali le differenze di condizioni tenderanno a scomparire? Anche la riflessione di Marx, infine, prende le mosse dal fenomeno del livellamento giuridico delle condizioni degli individui, sebbene per Aron, La società industriale, cit. p. 30. Ibidem. 97 Sulla critica comtiana alla filosofia liberale si veda Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., pp. 93-94. 98 Id., Delle libertà, cit., p. 16. Cfr. anche Id., La società industriale, cit., pp. 30-31. 95 96 258 Daniele Bronzuoli rilevare la contraddizione tra l’«universalità» implicita nella nozione di cittadinanza sancita dalla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793 e la «particolarità» nella quale è ripiegato l’individuo della società civile, impegnato nel lavoro, nell’industria e nel commercio.99 Nelle sue opere giovanili Marx vede un primo conflitto tra una società nuova e uno stato tradizionale, incapace di integrare la società nuova, e un secondo conflitto, all’interno di questa stessa società, tra classi sociali antagoniste. Di conseguenza per il filosofo tedesco l’unità della società (Gesellschaft) e dello stato (Staat) non può essere ricomposta «[…] finché non sarà ricostituita all’interno della società stessa l’unità o la comunanza».100 Dagli interrogativi posti da Comte, Tocqueville e Marx muove Aron per definire il nucleo problematico da cui si origina la sua indagine sul rapporto tra politica ed economia nelle moderne società industriali. La rivisitazione del pensiero e dell’opera di questi tre pensatori non appare tuttavia, nel discorso sociologico aroniano, come un omaggio di maniera alla tradizione dei classici o come una direzione di ricerca fondamentalmente esterna alla natura degli obiettivi che l’autore si propone di perseguire in fase dimostrativa, in quanto essa si configura, fin dal primo momento, come funzionale alla chiarificazione e alla illustrazione di un tema che Aron sviluppa e articola in maniera fondamentalmente autonoma.101 Se l’eredità di Comte e di Marx fornisce all’autore lo spunto per pensare il tipo ideale della società industriale a partire dai movimenti a lungo termine intervenuti al livello delle unità produttive, la meditazione tocquevilliana sulla «rivoluzione democratica» e sugli esiti da essa prodotti102 pone Aron di fronte all’aspetto più propriamente politico della modernità. Mentre Comte e Marx vedono nell’industrialismo l’orizzonte insuperabile della società uscita dalla disgregazione dell’ordine feudale,103 99 Cfr. K. Marx, Zur Judenfrage, «Deutsche-Französiche Jahrbücher», Paris 1844 (trad. it. Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano 2007). Sul punto cfr. anche Aron, Delle libertà, cit., p. 31. 100 Aron, La società industriale, cit., p. 31. 101 A tal proposito Paugam afferma, giustamente, che è possibile «[…] analizzare il pensiero sociologico di Aron attraverso la sua analisi del pensiero altrui». (S. Paugam, Il pensiero sociologico di Raymond Aron, in «Studi Perugini», cit., p. 166). 102 Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, BUR, Milano 1999. Sulle idee politiche e la visione della storia di Tocqueville si vedano anche R. Aron, Les idées politiques et la vision historique de Tocqueville, «Revue française de science politique», 1960 (trad. it. Idee politiche e visione storica di Tocqueville, in Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., pp. 567-580). Una versione in lingua italiana del saggio è presente anche in Id., La politica, la guerra, la storia, cit., pp. 205-223. 103 Secondo l’autore, questi due pensatori sono entrambi riconducibili a una «comune matrice saintsimoniana» (Aron, Memorie, cit., p. 406) Sul punto si vedano anche Raymond Aron teorico della società industriale 259 per Tocqueville la «variabile principale» da cui non è possibile prescindere nell’interpretazione dell’epoca moderna è invece la legittimità democratica. Ciò significa che, indipendentemente dalla pur fondamentale modalità nella quale è operata la sua traduzione a livello istituzionale, il principio della «sovranità popolare» viene a rappresentare il criterio di legittimità al quale sono portati a richiamarsi tutti gli ordinamenti politici contemporanei.104 Non solo, ma l’accostamento della lezione di Marx, Comte e Tocqueville, si configura da subito, in Aron, come il primo momento fondamentale di un percorso di integrazione tra due modelli di spiegazione scientifica. L’uno, proprio dei teorici dell’industrialismo e – come vedremo tra poco – degli studiosi della crescita economica, orientato sostanzialmente a leggere la storia alla luce delle tendenze di lungo periodo che in essa si attuano; l’altro, deducibile ad esempio dalla lettura di De la démocratie en Amérique, maggiormente capace di illustrare quella dialettica tra «azione umana» e «necessità», «dramma» e «processo», sulle cui dinamiche sembra innestarsi la trama della «storia reale».105 Se Comte e Marx hanno infatti avuto il merito di cogliere nel primato del lavoro, della scienza applicata alle tecniche di produzione e nel conseguente aumento delle risorse collettive l’originalità della società moderna rispetto alle società tradizionali, entrambi hanno tuttavia ignorato l’alternativa posta da Tocqueville tra i due possibili sviluppi – liberale o dispotico – della società commerciale e industriale a tendenza egualitaria. Così facendo essi hanno misconosciuto «l’autonomia parziale dell’ordine politico», la persistenza, dietro e a monte dei processi storici di lunga durata, della storia tradizionale intesa come «azione», come teatro di «decisioni prese da persone in un luogo e in un tempo precisi».106 La stessa lettura del fenomeno totalitario – proposta dall’autore già dagli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale e poi giunta a più coerente maturazione in Démocratie et totalitarisme – risente in maniera decisiva, come vedremo, di questa visione della storia concepita sia come il «processo» orientato di accumulazione di «sapere e Id., Les sociologues et les institutions répresentatives, in Id., Etudes politiques, cit., pp. 275-290 (trad. it. I sociologi e le istituzioni rappresentative, in Id., La politica, la guerra, la storia, cit., pp. 359-375). 104 Cfr. Id., La lutte des classes, cit., p. 24. Su questo tema si vedano anche R. Aron, Introduction à la philosophie politique. Démocratie et révolution, Éditions de Fallois, Paris 1997 (trad. it. Introduzione alla filosofia politica. Democrazia e rivoluzione, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005, p. 53); Id., Teoria dei regimi politici, cit., p. 50. 105 R. Aron, L’aube de l’histoire universelle, in Id., Dimensions de la conscience historique, Plon, Paris 1985, pp. 225-254 (trad. it. L’alba della storia universale, in Id., Il ventesimo secolo, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 141-170). 106 Id. L’alba della storia universale, cit., pp. 148-149. A tal proposito cfr. anche Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire,cit., p. 179. 260 Daniele Bronzuoli potere», sia come il «dramma» perpetuamente rinnovato «degli imperi, degli eserciti e degli eroi».107 Se da un lato infatti il totalitarismo può essere interpretato alla luce degli inediti contesti strutturali nei quali si colloca, ovvero quelli della società industriale che mette a disposizione delle minoranze coercitive mezzi di persuasione e tecniche di azione psicologica sconosciute ai regimi politici del passato, dall’altro esso rappresenta anche un momento di quel fenomeno di «circolazione delle élites» in base al quale la storia può essere considerata come l’incessante movimento di minoranze privilegiate che si formano, lottano, giungono al potere giustificando il loro dominio attraverso un’«ideologia della legittimità»108 e poi decadono per essere sostituite da altre minoranze.109 Tutte le rivoluzioni autoritarie del XX secolo appaiono, sotto questo profilo, come una mirabile illustrazione dell’influenza determinante che alcuni uomini possono esercitare sulle «pretese forze obiettive»: qualunque sia la teoria della storia che si adotti, a un certo punto diviene necessario «tener conto degli individui».110 Ancora una volta, dunque, è alla delicata questione del rapporto tra libertà e determinismo che dobbiamo tornare se vogliamo comprendere sia il senso ultimo dell’indagine sociologica dell’autore, sia la scelta dei criteri di fondo chiamati a orientarla.111 E ancora una volta, in Aron, la relazione tra struttura del mondo storico e libera iniziativa dell’agire umano viene risolta in un rapporto di reciproca implicazione,112 sul cui presupposto l’autore può pensare la politica e l’economia entro una dimensione di mutua dipendenza, senza cioè addivenire ad alcuna teoria della determinazione unilaterale dell’insieme sociale da parte di un settore della realtà collettiva.113 Una simile conclusione rischia tuttavia di generare Ivi, p. 149. Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 420. 109 Cfr. R. Aron, Classe sociale, classe politique, classe dirigeante, «Archives européennes de sociologie», I (1960), 2, pp. 260-281 (trad. it. Classe sociale, classe politica, classe dirigente, in Id., La politica, la guerra, la storia, cit., pp. 308-309). Su questo specifico aspetto dell’analisi aroniana del totalitarismo si vedano anche le seguenti opere, citate in ordine cronologico: Aron, Machiavelli e le tirannie moderne, cit.; Id., L’avvenire delle religioni secolari, cit.; Id., Teoria dei regimi politici, cit.; Id., Machiavel et Marx, in Id., Etudes politiques, cit., pp. 56-74 (trad. it. Machiavelli e Marx, in Id., La politica, la guerra, la storia, cit., pp. 115-134). 110 Id., Teoria dei regimi politici, cit., p. 247. 111 Su questo aspetto della sociologia aroniana, si veda anche Mahoney, The Liberal Political Science of Raymond Aron, cit., pp. 45-72. 112 Cfr. Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 277. 113 Cfr. Id., Teoria dei regimi politici, cit., p. 31. Sullo stesso tema si vedano anche Id., La società industriale, cit., p. 51; Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., pp. 282; 291; Id., L’opium des intellectuels, cit., pp. 145-146. 107 108 Raymond Aron teorico della società industriale 261 notevoli difficoltà sul piano dell’efficacia esplicativa dei sistemi teorici, dal momento che, rifiutando in partenza qualsivoglia determinazione unilaterale della società da parte di un fenomeno ritenuto come decisivo, si rischia di moltiplicare all’infinito le relazioni causali senza riuscire a ricavare, dalla diversità delle manifestazioni storiche concrete, «la logica sotterranea della vita in comune».114 E ciò contravverrebbe non solo alla natura stessa dei fenomeni sociali, i quali sono caratterizzati dal loro carattere «complessivo»115 e non possono pertanto risultare da ricerche settoriali, ma anche allo spirito stesso dell’inchiesta sociologica, la quale esige di rintracciare, dietro la differenza delle soluzioni, «i problemi comuni»116 ad ogni forma di organizzazione sociale. Una soluzione intermedia tra una sociologia rigorosamente analitica e una totalmente sintetica, sul modello di quella marxista, è possibile trarla, a giudizio di Aron, da una riflessione sull’opera di Montesquieu. In quanto sociologo, infatti, l’autore dell’Esprit des lois sostiene implicitamente la pluralità indefinita delle spiegazioni parziali, mostrando la complessità e la molteplicità delle determinanti alle quali è possibile ricondurre i diversi aspetti della vita collettiva. Nello stesso tempo tuttavia egli cerca il modo di superare la pura giustapposizione delle spiegazioni parziali individuando, nel concetto di «spirito generale» di un popolo o di una nazione, il principio unificatore dei vari insiemi sociali. Nel tentativo di passare «dal dato incoerente a un ordine intelligibile»,117 Montesquieu adotta quindi il procedimento proprio del sociologo e, nello specifico, ricalca – anticipandolo – il metodo weberiano dei tipi ideali. Non solo, ma affermando che la condotta umana, in quanto relativa a un essere dotato d’intelligenza, non è sottoposta alle stesse leggi di causalità necessaria alle quali è sottoposta la natura inorganica, l’autore dell’Esprit des lois suggerisce indirettamente sia la non totale conformità della realtà storica alle rappresentazioni schematizzate offerte dalle scienze storicosociali, sia l’opportunità di attribuire alle norme e ai concetti sociologici una funzione prevalentemente euristica all’interno del fondamentale orientamento individualizzante della conoscenza storica.118 Anche per questa tendenza a rendere intelligibile la diversità inesauribile della realtà storico-sociale senza pretendere di riprodurre autenticamente la struttura del dato empirico – oltre che per la capacità di combinare l’analisi dei regimi politici con quella delle organizzazioni sociali – l’interpretazione Id., La società industriale, cit., p. 22. Ivi, p. 16. 116 Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 288. 117 Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 36. 118 Cfr. Id., La società industriale, cit., p. 55. 114 115 262 Daniele Bronzuoli della sociologia implicita nell’opera di Montesquieu appare senza dubbio «più moderna»119 di quella di Auguste Comte, che pure della disciplina è considerato il fondatore, o di quella di Marx, il quale, al fine di delineare le dinamiche concrete del movimento storico, fu condotto a estendere al piano ontologico, cioè inerente alla morfologia concreta del reale, nozioni la cui legittimità è circoscritta al solo utilizzo «critico» e «metodologico».120 Vi è poi da aggiungere che, mentre il marxismo tenta di superare la spiegazione deterministica dei fatti sociali appellandosi all’idea di una liberazione dell’uomo attraverso la storia, Montesquieu cerca di oltrepassare la visione deterministica del rapporto fra uomo e realtà (sia essa naturale o sociale) ricorrendo a criteri universali di carattere formale. Il suo lavoro resta così caratterizzato dallo sforzo di combinare le istanze universalistiche del giusnaturalismo con quelle particolaristiche di una sociologia alla ricerca dei fattori determinanti lo sviluppo di singole particolarità storiche.121 Il richiamo alle leggi universali della ragione operato da Montesquieu viene così a legarsi all’esigenza aroniana di porre – kantianamente – le regole formali della moralità «al di sopra della relatività storica»122 rappresentando, nello stesso tempo, il momento di maggiore distanza tra l’autore dell’Esprit des lois e Max Weber, prima accostati sul piano della metodologia scientifica. Ma se il riferimento a principi che, a un alto livello di astrazione, siano capaci di mediare e condurre a sintesi l’evidente pluralità delle soluzioni storico-concrete, costituisce punto di convergenza tra il postulato montesquieiano della pensabilità di una natura umana metastorica e il formalismo etico di Raymond Aron, allora la distanza che intercorre tra la filosofia di Montesquieu e quella di Max Weber è la stessa che intercorre, di nuovo, tra quest’ultimo e Aron stesso. L’accostamento condotto da Aron tra l’«analisi significativa» attribuita a Montesquieu e l’elaborazione dei tipi ideali propria del sociologo tedesco non deve pertanto essere letto nei termini di una disinvolta assimilazione delle due metodologie di ricerca, ma deve piuttosto essere recepito nel contesto di quell’argomentazione complessivamente critica nei confronti della Wissenschaftlehre weberiana che, presente già – come si è visto – nell’Introduction à la philosophie de l’histoire, ricorre ancora nelle Dix-huit leçons sur la société industrielle123 per poi trovare un ulteriore approfondimento nei saggi epistemologici composti dall’autore attorno Id., Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 35. Ivi, p. 180. Sul punto cfr. anche Anderson, Raymond Aron, cit. 121 Cfr. Aron, La società industriale, cit., pp. 53-54. 122 Id., Max Weber. L’uomo di scienza e la politica, cit., p. 236. A tal proposito si veda anche Id., Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 336. 123 Cfr. Id., La società industriale, cit., pp. 22-23. 119 120 Raymond Aron teorico della società industriale 263 agli anni Sessanta,124 quando le riserve da lui maturate circa le possibili «implicazioni nichiliste»125 della teoria weberiana incontrano sia le critiche rivolte al sociologo tedesco da Leo Strauss,126 sia le riflessioni di Michael Polanyi sui rapporti di reciproca implicazione esistenti tra i sistemi di rappresentazione collettiva e l’impresa scientifica.127 Attraverso la riflessione sulla sociologia di Montesquieu Aron ritiene dunque, in conclusione, di poter acquisire un metodo che da un lato gli consenta di analizzare i fenomeni sociali combinando in un modello teorico unitario un piccolo numero di variabili, e dall’altro lo metta in condizione di cogliere l’individualità storica di ogni società senza cadere nell’illusione positivistica di poter codificare un sistema di leggi astratte: l’analisi sociologica comparata riposa infatti su un’obiettività eminentemente «ipotetica»,128 condividendo in ciò il destino di tutte le tipologie di relazioni causali poste in luce dall’indagine scientifica. Il riferimento alle regole formali della morale kantiana, e soprattutto una lettura non necessariamente relativista del processo di razionalizzazione subito dalle società occidentali parallelamente all’imporsi della scienza moderna quale organo fondamentale di ricerca e perseguimento della verità,129 permetteranno poi ad Aron di spiegare la diversità delle istituzioni conservando, nello stesso tempo, il diritto di pronunciare un giudizio su tale diversità. 3. La società industriale e il primato della politica La teoria della società industriale non rappresenta, nell’economia generale dell’opera di Aron, un mero concetto sociologico: essa agisce anche e principalmente come una vera e propria categoria dell’interpretazione storico-politica.130 Il profilo complessivo dell’indagine sociologica aroniana riflette infatti, in maniera limpida, la visione della storia e le idee sulle possibilità e i limiti della conoscenza scientifica dapprima maturate dall’autore attraverso il confronto con i temi dello storicismo tedesco contemporaneo e poi ritrovate, verso la metà degli anni Cinquanta, nei 124 cit. Cfr. Id., Scienza e coscienza della società, cit.; Id., Max Weber e Michael Polanyi, Id., Max Weber. L’uomo di scienza e la politica, cit., p. 236. Cfr. Strauss, Natural Right and History, cit. 127 Cfr. M. Polanyi, Personal Knowledge. Towards a post-critical philosophy, Routledge & Kegan Paul, London 1958 (trad. it. La conoscenza personale. Verso una filosofia postcritica, Rusconi, Milano 1990, p. 345). 128 Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire, cit., p. 289. 129 Cfr. R. Aron, Trois essais sur l’âge industriel, Plon, Paris 1966, pp. 104-106. 130 Sull’argomento cfr. J.M. Cano, Raymond Aron e il machiavellismo politico, in Campi (a cura di) Pensare la politica, cit., pp. 475-515. 125 126 264 Daniele Bronzuoli metodi d’indagine tipici delle opere di Montesquieu e Tocqueville. Si potrebbe quasi affermare che l’importanza di questi due autori all’interno dell’impianto complessivo della teoresi aroniana consista nella capacità di riequilibrio esercitata dal loro modello d’analisi sulla potenziale tendenza di Aron a vedere nel fenomeno dell’industrialismo il «tratto distintivo» dell’epoca contemporanea.131 Nella sua indagine sulla struttura delle società moderne Aron muove infatti dall’analisi delle forze produttive, sebbene per rivolgere la sua attenzione non al fenomeno dell’accumulazione del capitale – come voleva Marx – bensì a quello, giudicato saliente, dello «sviluppo economico».132 Tale modo di impostare la questione, che serve ad evitare in partenza l’opposizione tra capitalismo e socialismo e a ricondurre entrambe le esperienze storiche ad un comune denominatore socioeconomico,133 viene in qualche modo consegnata all’autore sia da una meditazione sulla sociologia di Saint-Simon e Auguste Comte, sia da quella letteratura sulla crescita economica che, inaugurata nel 1940 dal celebre The conditions of economic progress dell’economista britannico Colin Clark,134 verrà poi ripresa e migliorata in Francia a firma di Jean Fourastié,135 suggerendo già di per sé «la storia – o magari, più modestamente, il concetto di società industriale».136 Entrambe queste suggestioni – come avremo modo di verificare – saranno riprese e rielaborate da Aron alla luce di quella visione del mondo storico che, espressa filosoficamente nell’Introduction à la philosophie de l’histoire nel concetto di «determinismo lacunoso», condurrà naturalmente, in ambito sociologico, all’affermazione di un rapporto di reciproco condizionamento tra i processi economici e le dinamiche dell’agire politico. L’idea poi che l’analisi delle forze produttive suggerisse già, di per sé, l’ipotesi di una lettura comparata delle vicende del comunismo storico e del capitalismo storico veniva avanzata, all’incirca negli stessi anni in cui Aron tiene alla Sorbona le sue lezioni sulla società industriale, da vari sociologi francesi, tra i quali vale sicuramente la pena di menzionare Maurice Duverger, con la sua tesi sulla progressiva convergenza verso un regime «socialista democratico»137 Cfr. Aron, Memorie, cit., p. 407. Id., La società industriale, cit., p. 22. 133 Ivi, p. 42. 134 Cfr. C. Clark, The conditions of economic progress, Mac Millan, Londra 1951. 135 Cfr. J. Fourastié, Machinisme et bien-être, Ed. de Minuit, Paris 1951. Nella letteratura sulla crescita economica si veda anche il fondamentale testo di W.W. Rostow, The stages of economic growth. A non communist manifesto, University Press, Cambridge 1960 (trad. it. Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962). 136 Aron, Memorie, cit., p. 405. 137 Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 131. 131 132 Raymond Aron teorico della società industriale 265 delle società sovietiche e delle società occidentali, e François Perroux, con i suoi studi sulle connessioni tra la qualità dello sviluppo economico e l’assetto della dominanza politica. Quest’ultimo, in particolar modo, veniva sempre più chiaramente rilevando come le contraddizioni che Marx – e i marxisti – imputano al problema giuridico della proprietà privata siano in realtà consustanziali alla dialettica industriale fra «padroni e servitori delle macchine» e, come tali, suscettibili di riprodursi anche in una fase successiva alla «socializzazione dei mezzi di produzione».138 Sullo stesso tema – e in diretto confronto con la teoria marxiana dell’alienazione – si pronuncia Aron osservando come «la separazione tra il lavoratore e gli strumenti di lavoro, tra i produttori e il loro prodotto» costituisca «un carattere strutturale della civiltà industriale»139 in quanto vincolato più alle necessità tecniche dell’organizzazione produttiva che allo statuto giuridico-sociale della proprietà dei mezzi di produzione.140 Né dunque la contraddizione tra capitale e lavoro – come voleva Marx – appare essere il tratto costitutivo delle società capitalistiche, né – come sostiene Naville – «l’universalità del salariato» costituisce «la sola realtà fondamentale dei rapporti economici, la logica di tutte la società»,141 dal momento che l’accrescimento esponenziale dei mezzi di produzione e lo stravolgimento radicale delle condizioni di vita e di lavoro, che Marx osservava e di cui rendeva merito alla classe detentrice degli strumenti di produzione, hanno sì accompagnato storicamente il regime economico salariale, ma non possono «[…] essere dedotti dalla nozione stessa di capitalismo».142 Ciò che nell’analisi di Naville costituisce punto di forza e originalità è quel momento di parziale rottura rispetto allo schema classico marxista in virtù del quale egli riesce a prendere coscienza sia del progressivo uniformarsi dello stato delle forze produttive in paesi appartenenti a regimi socioeconomici diversi, sia della persistenza del fenomeno della differenziazione sociale successivamente al mutamento della forma di proprietà. Tuttavia è manifestamente contrario alla logica assumere una modalità d’organizzazione del lavoro, quella salariale, come caratteristica di una fase storica, se tale modalità è rintracciabile in contesti tra loro lontanissimi e può caratterizzare tanto l’economia di 138 F. Perroux, Industrie et création collettive, Presses Universitaires de France, Paris 1964 (trad. it. Industria e creazione collettiva, A.V.E., Roma 1974, p. 54). 139 R. Aron, Les désillusions du progrès. Essai sur la dialectique de la modernité, Calmann-Lévy, Paris 1969 (trad. it. Le delusioni del progresso. Saggio sulla dialettica della modernità, Armando, Roma 1991, p. 170). 140 Cfr. Id., La lotta di classe, cit., pp. 32-33. 141 P. Naville, Le salaire socialiste. Les rapports des production, Anthropos, Paris 1970 (trad. it. I rapporti di produzione nelle società socialiste, Jaca Book, Milano 1971, p. 20). 142 Aron, Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 90. 266 Daniele Bronzuoli un paese moderno quanto quella di uno in via di sviluppo.143 Avevano pertanto avuto ragione Saint-Simon e Comte nel considerare l’interazione tra scienza e industria – e non l’opposizione tra forze e rapporti di produzione – come il «fatto capitale» da cui muovere sia per spiegare la specificità delle società moderne in rapporto a quelle tradizionali, sia per rendere ragione dei mutamenti strutturali che investono i diversi settori – dall’economia all’amministrazione – delle collettività dominate dalla forma di produzione industriale.144 Il concetto di «società industriale» può dunque dirsi ‘scientifico’ non solo perché attraverso di esso diviene possibile caratterizzare la natura delle forme moderne di organizzazione umana rispetto alle altre tipologie di convivenza storicamente conosciute, ma anche perché il particolare rapporto che in esse si viene a instaurare tra scienza e tecnica rappresenta, in maniera evidente, la condizione indispensabile di tutti quei fenomeni relativi al prolungamento della vita umana, alla crescita regolare del prodotto nazionale e alla razionalizzazione intellettuale e sociale che, correntemente attribuiti alle società contemporanee, erano stati – almeno in parte – posti in evidenza anche dai teorici della crescita. C’è da dire che mentre questi ultimi hanno avuto l’indubbio merito di ricordare che le economie moderne «[…] sono essenzialmente progressive» e che la progressione «[…] si definisce col progresso tecnico o con l’accrescersi del rendimento del lavoro»,145 il limite fondamentale della loro analisi è che essa constata i risultati dello sviluppo economico «[…] senza analizzare sempre i meccanismi che hanno portato a questi risultati».146 Colin Clark, ad esempio, rileva che il ritmo del progresso tecnico varia secondo i settori economici e che la crescita consiste nel modificare l’importanza relativa di ciascuno di essi, da una parte dal punto di vista della ripartizione della manodopera, dall’altra dal punto di vista della redistribuzione del reddito nazionale e, in terzo luogo, dal punto di vista del valore prodotto da ciascun lavoratore. Va da sé che una tale analisi si limita a fissare con metodo statistico i risultati dello sviluppo economico senza riuscire a individuare le condizioni che sono alla base della crescita stessa. Se infatti questa può essere misurata, dal momento che si configura a prima vista come un fatto quantitativo, nondimeno i fenomeni che la determinano risultano essere essenzialmente «qualitativi», cioè legati a «un certo modo di essere e di pensare degli uomini».147 Tutte Cfr. Id., La società industriale, cit., pp. 88-89. Cfr. Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., pp. 133-134. 145 Id., La società industriale, cit., p. 141. 146 Ivi, p. 134. 147 Ivi, p. 154. 143 144 Raymond Aron teorico della società industriale 267 le società infatti hanno storicamente dovuto fare i conti con il problema della scarsità delle risorse materiali e hanno pertanto dovuto risolvere un problema che noi moderni definiamo ‘economico’. Questo non significa tuttavia che tutte le società abbiano, o abbiano avuto, «coscienza del problema economico», cioè «dell’amministrazione razionale dei mezzi rari».148 Nelle forme arcaiche di organizzazione umana, ad esempio, la scelta dei mezzi deputati alla sopravvivenza o al soddisfacimento delle necessità elementari non costituisce «l’oggetto di un calcolo alternativo»; «[…] i bisogni o gli scopi sono ampiamente determinati, una volta per tutte, dal costume o dalle credenze religiose».149 Riprendendo gli studi giovanili weberiani sulla storia economica e sociale dell’antichità,150 Aron intende qui corroborare la distinzione tra società antiche, alimentate da un sistema economico «pressoché stazionario» e società moderne, nelle quali l’economia può essere adeguatamente definita soltanto tenendo presente il suo carattere progressivo. Nelle prime la ricchezza rappresentava una quantità generalmente costante, essendone la terra, i metalli preziosi e i benefici commerciali l’«origine principale e il contenuto stesso», mentre nelle seconde il volume dei beni a disposizione della collettività varia soprattutto in relazione alla «qualità» e all’«efficacia del lavoro».151 Fino a questo punto la riflessione aroniana non si discosta molto da quanto già acquisito dalle meditazioni di Auguste Comte sull’originalità della società tecnico-scientifica rispetto a quella teologica e militare caratteristica dell’ordinamento feudale. Il problema che però si pone a chi voglia svelare l’elemento qualitativo sotteso ai mutamenti evidenziati dai teorici della crescita è, sostanzialmente, quello di ricostruire la genesi della razionalità economica moderna e, a questo scopo, il soccorso di Weber – ma anche di Marx152 e di Karl Polanyi – è senza dubbio fondamentale. Nelle società antiche l’attività economica non è separata dall’insieme sociale e, per questo motivo, l’utilizzo umano dei «mezzi rari» appare marcatamente condizionato da credenze che, almeno ai moderni, appaiono come «extraeconomiche».153 Se volessimo utilizzare la terminologia di Karl Polanyi, potremmo dire che le economie antiche rappresentavano un complesso di istituzioni «incorporate» e «integrate» in differenti Ivi, p. 152. Ivi, p. 83. 150 Cfr. M. Weber, Ograrverhältnisse in Altertum, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Sozial und Wirtschaftgeschicte, Tubingen 1924 (trad. it. Storia economica e sociale dell’antichità, Editori Riuniti, Roma 1981). 151 Aron, Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 37. 152 Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976. 153 Aron, La società industriale, cit., p. 83. 148 149 268 Daniele Bronzuoli sottoinsiemi sociali e quindi mai percepibili autonomamente.154 In altri termini, «[…] tutte le società hanno un’economia in sé, ma non tutte hanno un’economia per sé»,155 dal momento che tutte le collettività umane hanno un’economia e risolvono i problemi ad essa relativi, ma non tutte li pongono esplicitamente in termini economici. Conformemente al precetto weberiano che prescrive la necessità di muovere dal contenuto di coscienza degli uomini nello studio dei fenomeni sociali, Aron assume dunque come fattore determinante della crescita un particolare «atteggiamento dei soggetti economici».156 La differenza sostanziale tra le società arcaiche e le moderne società «tecniche» o «scientifiche» è infatti data dal mutamento sociale, «di cui le cifre sono l’espressione»: «[…] ciò che cambia sono gli uomini, il loro modo di pensare, di lavorare».157 Tale atteggiamento sembra poi comportare un triplice aspetto, che spiega le diverse versioni che si sono date dello spirito della civiltà industriale moderna: «la mentalità scientifica e tecnica, la mentalità del calcolo economico e, in terzo luogo, la mentalità e il gusto dell’avanzamento, del cambiamento, dell’innovazione».158 L’insieme di questi elementi – che compongono i caratteri tipici della razionalità economica occidentale – si nutre a quella che Aron definisce la «fonte della modernità», intendendo con essa l’«ambizione prometeica» di «[…] diventare padroni e possessori della natura grazie alla scienza e alla tecnica».159 Ora, la scienza e la tecnica che presiedono alla modernizzazione sociale sono legate a una visione del mondo e «a un certo atteggiamento nei confronti della natura, organica e inorganica».160 Senza l’idea di un mondo fatto di materia o di esseri a disposizione degli uomini, destinati a essere utilizzati, trasformati, consumati e privi, dunque, di ogni seduzione carismatica, non si può infatti comprendere quella che costituisce la caratteristica più visibile, se non essenziale, delle società industriali moderne, ovvero «il prodigioso sviluppo della scienza, dei mezzi di lavoro, della capacità produttiva».161 In maniera non molto dissimile da Weber, anche Aron sembra quindi rintracciare l’origine della razionalità moderna in quel processo di «disin- 154 Cfr. K. Polanyi, The livehood of man, Academic Press Inc., New York 1977 (trad. it. La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche, Einaudi, Torino 1983). 155 Aron, La società industriale, cit., p. 83. 156 Ivi, p. 162. 157 Ivi, p. 152. 158 Ivi, p. 162. 159 Aron, Le delusioni del progresso, cit., p. 260. 160 Ivi, p. 294 161 Ivi , p. 258. Raymond Aron teorico della società industriale 269 cantamento del mondo» (Entzauberung der Welt), il cui esito pare essere costituito dalla rottura sia del «conservatorismo ritualistico», sia degli stretti legami tra carisma e cose che distinguevano i modi di vita e la Weltanschauung delle comunità primitive.162 Dalla prospettiva di un universo inerte, plasmabile attraverso la tecnica perché privato dalla scienza del carattere sacro attribuitogli dalle società arcaiche, si origina quell’idea di progresso su cui sono basate, più o meno consciamente, tutte le collettività moderne.163 Lo stesso utilizzo, nel linguaggio economico, di concetti come ‘sviluppo’ e ‘sottosviluppo’ denuncia proprio l’adesione, almeno implicita, a una concezione del divenire storico non molto dissimile da quella suggerita dalle grandi dottrine del secolo XIX, per le quali «[…] le storie approdano a una storia» e «[…] tutte le società finiscono per costituire una società nel momento stesso in cui tutte applicano le stesse idee fondamentali».164 Da questo punto di vista, è lecito affermare che le società moderne guardano più verso l’avvenire che verso il passato: esse sono dominate dal senso di una rottura tra loro stesse e le società preindustriali; il loro ordine, sempre provvisorio, non è tanto in movimento, quanto un movimento.165 Le stesse dottrine sociali scaturite dall’orizzonte aperto dalla società industriale, ovvero il socialismo e il liberalismo,166 rappresentano proprio i due tentativi principali di dare una risposta agli interrogativi concernenti il senso sia del divenire sia del processo di differenziazione che animano le società moderne. Sia il socialismo che il liberalismo muovono infatti da quella problematica, morale e umana, generata dal trapasso da una società tradizionale, legata dalla condivisione intima e profonda di valori trascendenti, a una società razionalizzata, basata sul diritto contrattuale e sul riconoscimento delle libertà individuali.167 Da una parte l’ideologia marxista «[…] scopre un ordine del divenire sotto la cieca accozzaglia di interessi»: ognuno obbedisce soltanto a se stesso ma tutti gli uomini insieme producono ciò che avrebbe dovuto volere un’intelligenza superiore. Dall’altra, secondo la teoria classica del liberalismo, «[…] il mercato perfetto, come l’astuzia hegeliana della Ragione, utilizza l’egoismo dei singoli per ottenere un maggiore benessere per tutti».168 Entrambe le filosofie promuovono l’utilizzazione ottimale delle risorse Cfr. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 498. Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., pp. 26; 92. 164 Ivi, p. 92. 165 Cfr, Aron, Le delusioni del progresso, cit., p. 38. 166 Cfr. J. Freund, Les trois types d’economie, in Id., Politique et impolitique, Sirey, Paris 1987, pp. 379-384. 167 Cfr. Aron, Introduzione alla sociologia tedesca contemporanea, cit., pp. 133136. 168 Id., L’oppio degli intellettuali, cit., pp. 266-267. 162 163 270 Daniele Bronzuoli naturali, esaltano il lavoro, il progresso, confidano nella scienza e nella ragione e «[…] si rifiutano di accettare passivamente l’ordine secolare delle società».169 Le risposte offerte dalla teoria marxista e da quella liberale alle sfide poste dall’industria e dalla democrazia equivalgono così a un dialogo, «[…] appartengono ad un medesimo universo di civiltà».170 La manovra di riconduzione delle dottrine del socialismo e del liberalismo all’alveo comune del razionalismo moderno, consente ad Aron – principalmente – due tipi di operazione: da un lato egli può procedere in maniera più incisiva sulla strada della comparazione delle esperienze del capitalismo e del comunismo storico, suffragando altresì tale procedimento attraverso la ricognizione della presenza di fenomeni comuni di differenziazione e stratificazione sociale direttamente riconducibili al problema della crescita; dall’altro – come vedremo – egli potrà proporre una lettura del fenomeno totalitario in larga parte originale e distante dalla prospettiva offerta, ad esempio, da Karl August Wittfogel nel celebre Oriental despotism del 1957.171 Ove si accetti l’analisi dei fattori della crescita che assume come centro l’atteggiamento dei soggetti economici, il problema dello statuto giuridico della proprietà dei mezzi di produzione perderà infatti necessariamente rilievo ai fini della ricostruzione delle condizioni e delle dinamiche dello sviluppo economico. E ciò per due ordini di motivi. Il primo, di carattere epistemologico, concerne l’impossibilità teorica – già riconosciuta, come si è visto, nell’Introduction à la philosophie de l’histoire – di stabilire la causa determinante all’interno di una realtà disomogenea come quella storico-sociale. Per isolare in modo rigoroso l’influenza del regime sulla crescita, «[…] bisognerebbe elencare i diversi fattori che la determinano, e precisamente se i fattori permangono gli stessi da società a società, allo scopo di enucleare, infine, l’azione del regime». Ora, questo isolamento del regime è, di fatto, «impossibile».172 Il secondo, di natura più schiettamente sociologica, rileva quanto osservavamo in precedenza descrivendo i contorni generali della polemica aroniana con Pierre Naville, e cioè che concetti come quelli di pianificazione e di mercato, o come quelli di proprietà individuale e di proprietà collettiva dei mezzi di produzione, non si riferiscono direttamente al problema della crescita e non consentono di stabilire se un regime è favorevole o no allo sviluppo economico.173 Sia nei regimi Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 210. Id., Le delusioni del progresso, cit., p. 295. Sul punto cfr. anche Id., La lotta di classe, cit., pp. 136-137. 171 Cfr. K.A. Wittfogel, Oriental despotism. A comparative Study of Total Power, 1957 (trad. it. Il dispotismo orientale, Sugarco, Milano 1980). 172 Aron, La società industriale, cit., p. 160. 173 Sul punto cfr. anche Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 90. 169 170 Raymond Aron teorico della società industriale 271 economici pianificati, sia in quelli di libera concorrenza è infatti possibile osservare la presenza di quegli elementi e di quei caratteri – modificazione nella ripartizione della manodopera, della produzione e dei valori prodotti secondo i settori, una particolare divisione del lavoro, aumento della produzione globale e aumento della quantità di valore prodotto per abitante – che i teorici della crescita indicavano come specifici dei paesi in via di sviluppo e che Aron ritiene consustanziali alle società industriali, concepite essenzialmente come un ordine di eterogeneità. Questo riconoscimento dell’esistenza di almeno due modelli di crescita economica rappresenta la controprova fattuale sia dell’infondatezza delle dottrine ottocentesche dell’industrialismo proposte da Marx e da Comte – con la loro idea di una marcia progressiva e inarrestabile dell’umanità verso un tipo di società universale e omogenea – sia della fondamentale inadeguatezza metodologica di ogni teoria dello sviluppo che pretenda di delimitare in maniera rigida delle ‘fasi di crescita’ capaci di imporsi sulla indefinita molteplicità delle particolarità storico-concrete. Proprio contestando all’economista americano Walt Whitman Rostow174 il tentativo di ritrovare, in maniera un po’ grossolana, «la route commune à toutes les économies en voie de modernisation»,175 Aron ha modo di osservare che lo sviluppo dell’economia […] n’est pas automatique qu’il est ralenti ou accéléré par de multiples facteurs et que la progression, plus ou moins régulière, suggérée par les statistiques de produit national ou de revenu par tête, donne une idée inexacte de la complexité et du caractère parfois dramatique du développement.176 Ci sembra di poter affermare senza indugio che, anche in questa occasione, lo strumento privilegiato di critica ad ogni visione unilaterale dello svolgimento della vicenda umana sia costituito, in Aron, da quella concezione dell’universo storico in base alla quale i processi di lunga durata vivono e si attuano in un intreccio costante e inestricabile con il carattere drammatico e imprevedibile degli eventi e dei casi. Questa concezione, che abbiamo ritrovato nell’Introduction à la philosophie de l’histoire nel concetto di «determinismo lacunoso» e in alcuni saggi della maturità attraverso l’illustrazione della dialettica tra «dramma» e «processo», interviene ora a riproporre, in maniera diretta, il ruolo della politica come fattore condizionante le alternative nella differenziazione delle società industriali.177 Cfr. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, cit. Aron, Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 44. 176 Ivi, p. 89. 177 Cfr. Aron, Teoria dei regimi politici, cit., p. 28. 174 175 272 Daniele Bronzuoli Dalla ricognizione della sussistenza di una reciproca implicazione tra processi economici di lunga durata e la quasi ‘circolarità’ delle dinamiche proprie dell’agire politico, sulla base della quale Aron sembrava aver dedotto un principio di semplice, e parziale, autonomia della dimensione politica rispetto alle altre sfere dell’esistenza collettiva, sembra infatti scaturire l’idea di un vero e proprio «primato dei fenomeni politici nei confronti di quelli economici».178 Sebbene da una parte l’autore neghi, in linea di principio, ogni teoria della determinazione della società da parte di un insieme parziale della realtà collettiva, tentando di circoscrivere il concetto del «primato della politica» entro un significato eminentemente etico,179 dall’altra egli non può fare a meno di constatare come, nel tipo di società detta industriale, tutto funzioni come se fosse la politica «a determinare le diverse specie».180 Mentre la logica della società industriale tende a creare problemi comuni a tutte le forme di convivenza umana, la struttura del regime politico, rendendo differenti i modi di reclutamento e di organizzazione delle categorie dirigenti, determina tutte le differenze principali, dalla organizzazione dei conflitti sociali al problema della circolazione delle élites, che avviene con ritmi e modalità radicalmente diversi nei due tipi di sistema politico. La sociologia aroniana non muove dunque dall’assunto – comune a tutti gli esponenti della teoria positivistica della società industriale – della «negazione del conflitto come elemento decisivo della vita sociale»,181 ma legge piuttosto – e in questo risiede l’elemento decisamente originale degli studi dell’autore sulle società contemporanee – le dinamiche degli antagonismi tra gruppi sociali e della lotta delle minoranze per l’accesso al governo alla luce del problema riguardante l’organizzazione e la struttura del potere politico.182 Nella tesi che «[…] la caratteristica di ogni tipo di società industriale dipende dalla politica» Aron vede altresì riaffacciarsi un’intuizione fondamentale di Tocqueville, ovvero quella in base alla quale tutte le società moderne sono democratiche, cioè conducono alla abolizione progressiva delle distinzioni di condizione o di stato personale, ma queste società «[…] possono essere organizzate secondo una modalità dispotica o tirannica e secondo una liberale».183 Ed è proprio dall’alternativa posta dall’autore di De la démocratie en Amérique che scaturisce l’idea aroniana di interpretare, in opposizione alla dottrina del materialismo storico, l’articolazione delle moderne società industriali Ibidem. Ivi, pp. 32-34. 180 Ivi, p. 32. 181 P. Rossi, Positivismo e società industriale, Loescher, Torino 1973, p. 35. 182 Cfr. Aron, Teoria dei regimi politici, cit., p. 30. 183 Ivi, p. 32. 178 179 Raymond Aron teorico della società industriale 273 alla luce di determinanti prevalentemente politiche e di affidare a una organica sociologia del potere il compito di individuare – a dispetto dei processi di omologazione sociale messi in atto dall’industrialismo – le direzioni alternative dello sviluppo economico. Vedremo anche come, in soccorso all’analisi politica comparata dei due principali regimi della società industriale, verranno richiamate categorie proprie sia della filosofia politica classica sia, soprattutto, della sociologia di Montesquieu. In linea più generale, l’intera opera sociologica aroniana rimane, sia sul versante metodologico che su quello concernente l’impostazione complessiva dei problemi, largamente debitrice nei confronti dei classici.184 Ma in questo monumentale sforzo di attualizzazione dell’eredità del pensiero politico e sociale del passato è in realtà possibile cogliere, oltre che un elemento, magari sui generis, di originalità, anche una convinzione filosofica profonda e, sotto certi aspetti, indubbiamente persuasiva, ovvero quella secondo la quale la questione della convivenza tra uomini – problema politico par excellence – può essere ricondotta «ad un piccolo numero di problemi fondamentali». I diversi regimi politici possono infatti essere considerati «come risposte diverse ad un problema unico» e il passaggio da un sistema politico a un altro non equivale a una transizione «da un male ad un bene», ma al trapasso «da una soluzione ad un’altra, ognuna con certi vantaggi e certi inconvenienti».185 Tale declinazione del rapporto tra storia e politica, che esclude quest’ultima da ogni ordine di progressione scientifica e tecnica per legarsi a una antropologia filosofica fondata, in ultima analisi, sulla relativa immodificabilità della natura umana,186 rende ragione e giustifica il ricorso agli argomenti e agli interrogativi dei classici da parte di un autore certo più capace di esercitare con acume l’arte dell’analisi e della critica che di elaborare sistemi logico-concettuali definitivi. Niente di sorprendente, dunque, se nell’esame delle diverse specie in cui trova concretizzazione storica il tipo ideale della «società industriale», Aron muove dalla distinzione, sviluppata da Auguste Comte e classica nella sociologia sull’argomento, tra potere temporale e potere spirituale, per definire e porre a giudizio le differenti società «[…] in base al rapporto che in esse si stabilisce tra la minoranza che dice ciò che è vero e ciò che è bene» e l’altra minoranza, quella che ordina perché ha «[…] la capacità o il diritto di servirsi degli 184 Questa è la tesi sostenuta, in chiave polemica, da Portinaro (cfr. Portinaro, Il problema della comparazione nella sociologia di Raymond Aron, cit., p. 299). 185 Aron, La società industriale, cit., p. 69. Sullo stesso argomento cfr. anche R. Aron, Thucydide et le récit historique, in Id., Dimensions, cit., pp. 111-147 (trad. it. Tucidide e il racconto storico, in Id., Il ventesimo secolo, cit., pp. 171-205). 186 Cfr. Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., pp. 77-79. 274 Daniele Bronzuoli strumenti di forza».187 Questa distinzione potrebbe poi essere complicata dall’aggiunta di un terzo tipo di potere, utilizzando le idee di uno storico delle religioni, Georges Dumézil, il quale dimostra che le società indoeuropee sono caratterizzate dalla divisione ternaria tra sacerdoti, guerrieri e lavoratori. Questa divisione, che si applica all’insieme della società e non soltanto alla minoranza che governa, fornisce un criterio utile al riconoscimento di tre tipi di posizioni di comando all’interno delle società industriali moderne, nelle quali il lavoro è considerato l’attività principale: quella occupata dai detentori del potere spirituale, quella occupata dai titolari del potere politico e, infine, i dirigenti del lavoro. Su questa base diviene possibile caratterizzare le società industriali di tipo democratico come collettività nelle quali «[…] il potere spirituale, il potere politico e quello economico sono separati, e i gruppi che esercitano questi tre tipi di comando sono in uno stato di permanente rivalità».188 Se dunque Auguste Comte poteva ritenere patologiche le società post-rivoluzionarie perché prive di quell’unità spirituale che, nelle società medievali, era data dalla fede nel trascendente, le società tecniche e «scientifiche»189 dell’Occidente sono, dal punto di vista spirituale, probabilmente ancor più divise di quanto lo fossero all’inizio del secolo XIX. Allora l’origine della dissociazione era rappresentata dal conflitto o, per lo meno, dalla separazione tra le religioni tradizionali che pretendevano di affermare la «verità suprema, o trascendente»190 e gli uomini di cultura che facevano appello alla scienza. A distanza di un secolo non soltanto i due modi di pensare esistono ancora, ma c’è anche una terza incarnazione del potere spirituale, rappresentata da coloro che, forti di una dottrina, «[…] pretendono a volte di insegnare una verità, se non proprio superiore, per lo meno eguale alla verità religiosa e alla verità scientifica».191 È il caso, ad esempio, delle élites di governo dei regimi totalitari, ma anche dei sostenitori in genere del materialismo dialettico, i quali assimilano la loro teoria «[…] a una verità scientifica che determina in modo rigoroso le tappe che percorre e percorrerà la storia dell’umanità». Per il marxismo, infatti, la salvazione dell’umanità è nella storia e, in virtù di questo principio – che lo fa essere una «religione secolare» – esso entra direttamente in conflitto con le religioni tradizionali.192 Ove si consideri invece la struttura del potere politico, è facile riconoscere come esso sia parimenti diviso nelle società industriali democratiche. Id., La lotta di classe, cit., p. 123. Ibidem. 189 Aron, Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 80. 190 Id., La lotta di classe, cit., p. 124. 191 Ibidem. 192 Ibidem. 187 188 Raymond Aron teorico della società industriale 275 Coloro che lo detengono sono infatti uomini politici, civili, che affrontano la concorrenza dei partiti e ottengono i suffragi dei loro concittadini. Essi hanno altresì bisogno di una legittimità, ovvero devono poter fare appello a una «formula»193 che giustifichi il loro potere mediante l’accordo tra il modo nel quale sono stati designati e il principio della designazione legittima. Nelle società democratiche questo principio è l’elezione e, di conseguenza, i capi politici sono capi di partito: il governo è pertanto esercitato da uomini che non rappresentano la totalità dei cittadini, ma, nel migliore dei casi, la maggioranza. Diverso è invece il caso dei funzionari, che governano guidati da un tipo di razionalità che definiremmo – parafrasando Weber – strettamente ‘formale’ e «[…] pretendono di rappresentare l’universalità della collettività».194 La distinzione tra queste due categorie è pertanto fortemente radicata nella cultura delle società democratiche moderne, la cui «formula» – come si è detto – è l’elezione, la quale implica rivalità tra individui e gruppi. L’eletto rappresenta coloro che lo hanno scelto, una frazione del tutto, ed è per ciò stesso un uomo «di parte». Da ciò derivano una sorta di «tensione virtuale tra funzionari e uomini politici» e «il sogno di un potere integralmente razionale», cioè «non subordinato a interessi particolari o a preoccupazioni elettorali».195 Quest’ultima idea tuttavia è niente più che «un’illusione», giacché il funzionario non detiene alcuna legittimità, «[…] è fatto per obbedire agli ordini e deve riceverli da uomini politici che, a loro volta, hanno bisogno della delega dei cittadini ai governanti».196 L’aspirazione a subordinare il disegno politico alle preoccupazioni di efficienza tecnico-burocratica, che rappresenta il cuore della visione tecnocratica del governo delle società complesse,197 è fondamentalmente basata sul misconoscimento della distinzione weberiana tra «azione razionale in rapporto allo scopo» e «azione razionale in rapporto al valore» e, per questo stesso motivo, essa mira a sostituire la decisione di tipo politico e discrezionale, generalmente fondata sulla base di criteri prudenziali e morali, con quella di tipo scientifico, frutto di calcoli e previsioni e sostanzialmente orientata da mere considerazioni di efficacia. In questo senso, essa tende a eliminare la distinzione classica tra politica come «regno dei fini» e tecnica come «regno dei mezzi» e a dimenticare 193 Aron riprende esplicitamente tale espressione da Gaetano Mosca (cfr. G. Mosca, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, Loescher, Torino 1884). 194 Aron, La lotta di classe, cit., p. 125. 195 Ibidem. 196 Ibidem. 197 Cfr. J. Meynaud, La technocratie. Myte ou réalité?, Payot, Paris 1964 (trad. it. La tecnocrazia: mito o realtà?, Laterza, Bari 1966). 276 Daniele Bronzuoli che «[…] ogni società umana implica un principio di legittimità»,198 non essendo in alcun modo la razionalità burocratica uno di essi. Il problema della legittimità dell’ordinamento politico, punto sul quale Aron si discosta tanto dalla tradizione classica liberale quanto da quella definita in maniera più o meno approssimativa «realista», ritorna nelle pagine di Démocratie et totalitarisme sullo sfondo di una polemica con quella corrente del pensiero occidentale che l’autore definisce indifferentemente «cinica» o «machiavellica» e nella quale riconosce l’«ultima tappa della dissoluzione della filosofia politica classica o della concezione morale della politica».199 Se da una parte il pensiero di Machiavelli, che Aron ha cura di distinguere dal più generico – e volgare – «machiavellismo», ha avuto l’indubbio merito di arrivare fino in fondo a una contraddizione a livello logico insolubile, ovvero quella tra etica e politica,200 nondimeno una sociologia che della politica non vede altro che l’aspetto legato alla lotta per il potere e i vantaggi che esso offre implica una «filosofia del non-senso» e la negazione del senso «[…] non è più obiettivamente o scientificamente dimostrata dell’affermazione».201 Il pensiero cinico è dunque pervaso da una grande illusione, ovvero quella consistente nel credere che si possa rinnegare l’aspetto della realtà legato alla ricerca del potere legittimo, dell’autorità riconosciuta, del regime migliore: quando si studia la politica si assume come oggetto d’indagine una realtà che è umana e di cui la coscienza della realtà stessa, così come la ricerca di un’autorità giustificata, sono parti integranti. Ancora discutendo la pretesa tecnocratica di amputare il reale di quanto non è quantificabile e manipolabile – e di espungere, quindi, dalla vita degli uomini tutto quanto afferisce alla relazione a valori e principi –, Aron torna a sottolineare come, nel governo di una società, non si saprebbe fare a meno degli uomini politici, «incarnazione della legittimità e della giustificazione del potere», nella stessa misura in cui «[…] non si saprebbe scegliere un modo di governare senza tener conto di quello che pensano gli uomini».202 I tecnici infatti, o i funzionari, non determinano né il bene né i fini delle società industriali, mentre i «tecnocrati» dimenticano che gli obiettivi che potrebbe fissarsi un’amministrazione efficace sono multipli, indeterminati. Fino a che punto, ad esempio, conviene, in un dato momento, sacrificare il consumo agli investimenti? E quali sono gli 198 R. Aron, Note sur la stratification du pouvoir, «Revue française de science politique», IV (1954), 3, pp. 469-483 (trad. it. Sulla stratificazione del potere in Id., La politica, la guerra, la storia, cit., p. 347). 199 Id., Teoria dei regimi politici, cit., p. 45. 200 Cfr. Id., Machiavelli e Marx, cit., p. 132. 201 Id., Teoria dei regimi politici, cit., pp. 45-46. 202 Id., Sulla stratificazione del potere, cit., p. 347. Raymond Aron teorico della società industriale 277 investimenti più utili? In altri termini, la razionalità «incontestabile» è «strettamente strumentale»,203 nel senso che essa concerne il rapporto oggettivo e formale tra mezzi e scopi, mentre la determinazione dello scopo medesimo, propedeutica al momento della decisione, è oggetto di una valutazione il cui statuto non è dimostrabile con la forza dell’obiettività scientifica. Essa dipende da una visione del mondo, da un sistema di valori che, non direttamente deducibili dai fatti, rimandano o – come voleva Weber – alla sfera delle preferenze individuali, oppure – alla maniera in cui Dilthey pensava il concetto di «spirito oggettivo» – all’accordo che in ogni epoca si viene a stabilire tra una maggioranza di uomini su ciò che è preferibile o «auspicabile».204 L’essenza dell’ordinamento politico mantiene dunque una sostanziale estraneità dalla razionalità di tipo amministrativo, e se lo stato democratico può, a differenza di quello totalitario, essere considerato uno «stato laico» perché non definito da alcuna ideologia ufficiale, esso non deve tuttavia essere confuso né con lo stato neutrale nel senso della critica schmittiana allo stato liberale e pluralista («neutrale ed agnostico»),205 che si astiene davanti a qualsiasi rappresentazione del bene comune, né con quella visione neutralistica e proceduralistica del politico che, sostenuta in vario modo dagli esponenti della scuola austriaca, tendeva a modellare sul paradigma della razionalità economica, intesa come adeguamento del rapporto mezzi-fini, il problema della relazione tra libertà individuali e autorità collettiva. Friedrich Von Hayek, ad esempio, muove dalla definizione negativa di libertà come «assenza di costrizione» per affermare il principio in base al quale la proprietà privata rappresenterebbe la condizione necessaria per l’indipendenza dell’individuo di fronte allo stato. In questo modo egli ritiene da una parte di poter fondare filosoficamente l’«ideale sociale»206 del liberalismo puro e, dall’altra, di stabilire una sorta di equivalenza tra i processi di pianificazione, o socializzazione, integrale, e il dispotismo, o la tirannide, del partito unico. Ora, la definizione univoca della libertà mediante l’assenza di costrizione e il riconoscimento della costrizione medesima come un fenomeno obiettivamente individuabile all’interno di una situazione non appare del tutto convincente, dal momento che essa trascura «[…] di prendere in considerazione il problema della libertà interiore»,207 lasciando intendere che sia possibile analizzare e definire un fatto sociale prescindendo dal vissuto di coscienza degli attori storici. Ciò che offre la misura Id., Trois essais sur l’âge industriel, cit., p. 93. Ivi, p. 99. 205 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 175. 206 Aron, La definizione liberale della libertà, cit., p. 55. 207 Ivi, p. 63. 203 204 278 Daniele Bronzuoli effettiva della libertà che caratterizza una determinata società è infatti «il rapporto tra il contenuto degli obblighi e dei divieti, da un lato, e le attese legittime degli individui, dall’altro».208 Il problema delle libertà individuali non può dunque essere trattato – e su questo punto l’opinione di Aron è perfettamente coincidente con quella di Michael Polanyi209 – facendo astrazione dai sistemi di rappresentazione collettiva e dai comuni criteri di organizzazione e prassi sociale, in quanto essa deriva da e presuppone l’esistenza e l’accettazione di valori comunemente condivisi.210 Quando poi gli esponenti della scuola austriaca tentano di stabilire un rapporto di reciproca implicazione tra la pianificazione economica e la soppressione delle libertà politiche, essi suggeriscono, più o meno esplicitamente, che la proprietà dei mezzi di produzione determina i rapporti di classe e la natura del regime. Certo non è necessaria un’analisi approfondita per scoprire l’impossibilità di combinare «un’economia pianificata e un potere del tutto impotente»,211 ma, storicamente, la pianificazione totale «[…] è stata l’effetto di una presa del potere, non è mai stata lo sbocco finale di una semipianificazione operata da un partito».212 Questa constatazione ci riconduce direttamente a quel concetto dell’«autonomia della politica» – o forse, meglio, del primato della dimensione politica sulle altre realtà parziali dell’organizzazione sociale – che i filosofi neoliberali sembrano ignorare quando vedono l’insieme della collettività, istituzioni politiche e stili di vita «determinato dalla normativa sulla proprietà».213 Come i «marxisti ortodossi» essi finiscono così con l’appoggiare una particolare versione del determinismo economico, ovvero quella che pone l’accento sulla legislazione riguardante la proprietà piuttosto che sulle tecniche di produzione. Sia i marxisti che i liberali negano infatti «[…] che le diverse società della civiltà industriale, a parità di sviluppo, presentino un maggior numero di similitudini che non di differenze, a prescindere dal fatto che i mezzi di produzione appartengano ufficialmente a determinati individui, a determinati gruppi o allo stato».214 In un simile errore sembra incorrere James Burnham che, nel tentativo di combinare la concezione marxista della relazione tra struttura Ivi, p. 56. Cfr. anche Aron, La società industriale, cit., p. 103. Cfr. M. Polanyi, The logic of liberty. Reflections and rejoinders, The University of Chicago Press, Chicago 1951 (trad. it. La logica della libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002). 210 Aron, La definizione liberale della libertà, cit., p. 66. 211 Id., La società industriale, cit., p. 103. 212 Id., Delle libertà, cit., p. 97. 213 Id., Espoir et peur du siècle, Colmann-Lévy, Paris 1957; trad. it., Saggio sulla destra, Guida, Napoli 2006, p. 79. 214 Ivi, p. 80. 208 209 Raymond Aron teorico della società industriale 279 economica e sovrastruttura politico-istituzionale con la tesi paretiana della centralità delle élites di governo nella caratterizzazione delle organizzazioni umane, veniva affermando – attorno agli anni Quaranta – la tesi in base alla quale ogni classe dirigente sarebbe caratterizzata dal predominio di un gruppo o di un tipo di uomo. Nel secolo diciannovesimo si trattava del «borghese capitalista», mentre nel secolo successivo la modificazione decisiva si riassumerebbe nella formla «sostituzione dei managers o organizzatori ai proprietari»,215 la quale comporta la trasformazione della dialettica sociale tipica dell’Ottocento (il conflitto tra il lavoro e la proprietà o il capitale) nell’antagonismo tra la proprietà e il sapere.216 Alla base di questo processo di trasformazione si collocherebbe la modificazione delle imprese personali tipiche del secolo XIX nelle grandi società moderne, proprietà anonime di centinaia di migliaia di azionisti che perdono la loro funzione nel momento stesso in cui è un’oligarchia di direttori ad assicurare la gestione. Occorre subito rilevare che l’analisi di Burnham si inserisce ed è conseguente a un percorso di rottura compiuto dall’autore nei confronti del bolscevismo, al quale egli, da trotskista, era stato precedentemente legato. Fu in particolar modo reagendo alle tesi di Trockij sulla degenerazione burocratica dello stato sovietico che Burnham si schierò infatti su posizioni che, contrariamente a quanto diagnosticato dal rivoluzionario russo, davano per irreversibili i processi di centralizzazione delle funzioni decisionali e identificavano altresì una nuova classe tra burocrazia e tecnocrazia, ovvero quella tecnico-manageriale dei gestori dei processi produttivi. Tale linea interpretativa, volta a chiarire e a rimarcare il nuovo ruolo dei tecnici nei loro rapporti con la classe dirigente intesa in senso classico, si inserisce in una tradizione del pensiero politico – nella quale troviamo anche Simone Weil – che non limitò la propria indagine al fenomeno dell’Urss e del totalitarismo, ma passò rapidamente a un embrione di analisi comparata dell’evoluzione socioeconomica mondiale. Alla luce di queste analisi il regime tecnocratico si presenterebbe come il possibile successore del regime capitalista tradizionale, destinato a sostituire alla servitù e alla schiavitù una nuova specie di oppressione, esercitata più in nome della funzione che attraverso la sperequazione economica attivata dai processi di accumulazione del capitale.217 In base a tale schema interpretativo, che tende sostanzialmente a ridurre l’ordine politico a Aron, La lotta di classe, cit., p. 210. Cfr. J. Burnham, The managerial revolution, Day, New York 1941 (trad. it. La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano 1946). 217 Sull’argomento, si veda il fondamentale A. Salsano, Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla ‘rivoluzione manageriale’, Einaudi, Torino 1987, pp. 95-159. 215 216 280 Daniele Bronzuoli epifenomeno di determinanti socioeconomiche, sarebbe lecito dedurre che nel secolo XIX i capitalisti privati fossero la classe dirigente delle società europee, mentre, a giudizio di Aron – che su questo concorda parzialmente con quanto sostenuto da Hannah Arendt in The Origins of Totalitarianism218 – ciò che caratterizza, dal punto di vista sociale, la borghesia produttiva è il fatto che essa non ha mai voluto assolvere personalmente le funzioni politiche.219 La teoria di Burnham presuppone ancora – in linea con la tradizione neomachiavellica nella quale è possibile collocarla220 – che gli «organizzatori» costituiscano nel loro insieme un gruppo sociale cosciente di sé, dotato di una volontà di potere e di una concezione politica, mentre essi, che hanno in comune molte caratteristiche psicologiche e politiche, sono «ben lungi dal costituire l’equivalente di un partito».221 In altri termini, in un regime democratico di tipo occidentale, il potere politico viene esercitato da uomini che non sono essi stessi anche i proprietari o i gestori dei mezzi di produzione e, per questo motivo, un’inchiesta sociologica che si pretenda scientifica deve prendere come punto di partenza «non la classe dirigente, ma le categorie dirigenti»: queste ultime rappresentano infatti dei dati immediati; la prima, invece, è solo «un’ipotesi».222 Quattro antitesi dunque, tra potere temporale e spirituale, tra potere civile e militare, tra potere politico e amministrativo, tra potere politico ed economico, illustrano, in sintesi, la differenziazione delle funzioni di controllo caratteristiche della società moderna, l’aumento di gruppi sociali effettivamente capaci di esercitare tali funzioni di controllo o di influenzare in modo sostanziale coloro che le esercitano. Proprio muovendo dall’analisi di questa eterogeneità è possibile comprendere la natura dei regimi totalitari, in quanto questi tendono in qualche modo a ristabilire quella commistione tra i concetti di società e stato che le società democratiche di tipo occidentale negano diversificando le funzioni politiche dalle altre. Esse tollerano il conflitto legittimato tra organizzazioni professionali e politiche, le quali sono indipendenti le une dalle altre, e ciò incide non poco – come si è già accennato – sul formarsi all’interno dei gruppi sociali dell’«idea di una vocazione comune»: i cosiddetti «rapporti di classe» diventano infatti chiari in una società industriale soltanto alla 218 Cfr. H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, 1948 (trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1999, pp. 171-220). 219 Aron, La lotta di classe, cit., p. 212. 220 Cfr. Id., Sulla stratificazione del potere, cit., p. 338. 221 Ibidem. 222 R. Aron, Catégories dirigeantes ou classe dirigeante?, «Revue française de science politique», XV (1965), I, pp. 7-21 (trad. it. Categorie dirigenti o classi dirigenti, in Id., La politica, la guerra, la storia, cit., p. 318). Raymond Aron teorico della società industriale 281 condizione che siano ammesse organizzazioni socioeconomiche al di fuori della macchina del partito unico.223 Tutte le rivoluzioni autoritarie del secolo XX possono pertanto essere interpretate come altrettanti tentativi per restaurare l’«unità»: «unità della verità suprema, unità delle classi sociali, unità della società e dello stato» e, muovendo da questa premessa, diviene possibile affermare che «[…] l’opposizione fondamentale tra i due tipi di società industriale dipende dalla dissociazione delle categorie dirigenti nell’una e dal tentativo di unificazione nell’altra».224 Non dunque lo stato delle forze produttive, ma lo stato delle forze politiche costituisce la causa principale delle variazioni nelle caratteristiche delle varie società, così come della caduta o dell’emergere di un tipo di società piuttosto che di un altro. Proprio sullo sfondo di queste considerazioni acquista senso e legittimità il proposito aroniano di individuare nel carattere pluralistico o monopolistico dell’organizzazione politico-sociale e nella legalità costituzionale (o meno) delle istituizioni le variabili più significative dei regimi contemporanei. A partire da esse è infatti possibile determinare, in conformità al modello di Montesquieu, la natura e il principio di due tipi contrapposti di regime. Per quanto concerne la natura dei regimi, Aron ritiene opportuno sollevare in termini classici la questione della titolarità del potere, applicando «l’antitesi uno-molti» ai partiti anziché agli individui non organizzati225 e pervenendo così alla distinzione tra sistemi multipartitici e sistemi a partito unico.226 Per quanto riguarda invece il principio, l’analogia con le categorie di Montesquieu permane altrettanto diretta ed esplicita: «In un regime pluralistico il principio è una combinazione di due sentimenti che chiamerò il rispetto della legalità o delle norme e il senso del compromesso», mentre in un regime a partito monopolistico il principio viene a risiedere in un’altra combinazione di due sentimenti, cioè «la fede e la paura».227 Quest’ultimo punto, in particolar modo, risulta decisivo ai fini della caratterizzazione dell’indagine sociologica aroniana sul fenomeno totalitario. Proprio nel «fanatismo ideologico» e «nel terrore poliziesco» istituzionalizzato l’autore individua infatti i tratti caratteristici e tipologicamente distintivi dei regimi totalitari rispetto agli altri sistemi politici storicamente conosciuti, seguendo in tale analisi ancora le linee in parte già tracciate da Hannah Arendt e discostandosi per questa via dalla lettura che del totalitarismo sovietico era stata data da Karl Witfogel in Oriental despotism. È infatti noto che Id., La lotta di classe, cit., p. 113. Ivi, p. 129. 225 Cfr. Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1993, III, 7, p. 84. 226 Aron, Teoria dei regimi politici, cit., p. 83. 227 Ivi, pp. 73-75. 223 224 282 Daniele Bronzuoli questi aveva applicato la nozione di «potere totale» (e quelle connesse di «terrore totale» e «sottomissione totale») anche alle antiche società idrauliche di tipo agromanageriale e agroburocratico, non disdegnando nel contempo di suggerire l’esistenza di affinità politiche, pur nella diversità delle strutture socioeconomiche del mondo agricolo e del mondo industriale, tra le esperienze potestative idrauliche e i moderni regimi totalitari, specie comunisti. La teoria del dispotismo asiatico e della società idraulica può essere definita marxista in quanto presuppone che l’infrastruttura sia creata «dall’esigenza della regolarizzazione delle acque e della centralizzazione delle funzioni amministrative».228 Lo stato assorbe tutte le funzioni direttive della società eliminando i centri di forza indipendenti. Quando la gestione del lavoro è di pertinenza dello stato e soltanto dello stato, la società è contemporaneamente omogenea e gerarchica: i gruppi sociali sono distinti nella maniera di vivere, dallo stile d’esistenza, ma nessuno detiene il potere vero e proprio, perché sono tutti integrati nella struttura statale. Senza dubbio alcuni dei caratteri che Wittfogel attribuisce agli imperi burocratici dell’Asia e del Vicino Oriente – la burocrazia statale, una classe privilegiata unica, gli antagonismi senza lotta di classe, per citarne alcuni – si ritrovano chiaramente nei regimi totalitari di tipo sovietico. Tale modo di organizzazione sociale non sarebbe, secondo il sociologo tedesco, un fenomeno «transitorio o sorprendente», ma «il risultato inevitabile della soppressione di ogni proprietà privata, di ogni meccanismo di mercato».229 Ora, c’è da notare che se i regimi politici del passato – democratici o aristocratici o autocratici che fossero – rispondevano sempre a (e comunque si prefiggevano) una logica di mantenimento, instaurazione o ripristino della pace sociale o dell’ordine civile, elemento di novità del regime totalitario, e quindi suo carattere specificamente distintivo, è il fatto che tale regime muove sostanzialmente dall’ipotesi politica rivoluzionaria della cancellazione dell’esistente e dell’edificazione di una società integralmente originale, investendo in tale processo di cambiamento la globalità dell’esperienza individuale e collettiva nelle sue dimensioni antropologiche oltre che politiche e sociali.230 Da questo punto di vista, il fanatismo ideologico e il terrore poliziesco «[…] sono fenomeni più rivoluzionari che burocratici»231 e la natura dei sistemi totalitari può Ivi, p. 258. Ivi, p. 259. 230 Sul tema si vedano anche D. Fisichella, Totalitarismo, Carocci, Roma 2002 e S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2005. 231 Aron, Teoria dei regimi politici, cit., p. 260. 228 229 Raymond Aron teorico della società industriale 283 essere adeguatamente colta soltanto tenendo conto della loro intenzione originale «di trasformare fondamentalmente l’ordine esistente in funzione di un’ideologia».232 I dispotismi del passato si richiamavano a una religione, mentre il dispotismo sovietico fa appello a una «[…] ideologia di origine occidentale che vuole essere razionale e riguarda la realtà stessa».233 Viene così in luce l’originalità della sintesi: ai caratteri usuali dei dispotismi burocratici si aggiungono la volontà di cambiamento del partito rivoluzionario e un’ideologia di ispirazione razionalistica che costituisce di per sé una critica alla realtà.234 Questa particolare luce gettata da Aron sul fenomeno del totalitarismo consente all’autore due diversi, ma fra loro connessi, tipi di operazione. In primo luogo, mettendo al centro dell’analisi la volontà di mutamento radicale della minoranza dirigente, egli può nuovamente mostrare la necessità di guardare alla dimensione politica – e dunque anche alla caratterizzazione psico-sociologica dell’élite di governo – nel procedimento di comprensione delle forme di organizzazione umana, laddove Wittfogel e i teorici del modo di produzione asiatico in genere – tra cui lo stesso Marx235 – muovevano prevalentemente dalle condizioni strutturali per avvalorare la tesi del centralismo amministrativo.236 In secondo luogo, riconoscendo nell’ideologia rivoluzionaria, in quanto razionalista, una filiazione del pensiero politico moderno, Aron può corroborare la lettura comparata delle esperienze del capitalismo storico e del comunismo storico, rifiutando di interpretare quest’ultimo come vicenda specificamente vincolata al contesto nella quale storicamente si è prodotta. A ben guardare, infatti, democrazia e totalitarismo rappresentano le due traduzioni istituzionali possibili – e storicamente realizzate – di quell’idea di sovranità popolare che Tocqueville – come si è visto – aveva con lungimiranza posto al centro della propria interpretazione della modernità politica. I regimi guidati da partiti rivoluzionari, nella misura in cui si caratterizzano per una partecipazione popolare di massa al processo politico, assumono connotati di legittimazione democratica, seppure in una prospettiva che della logica democratica privilegia il requisito partecipazionista a tutto danno dei fattori connessi al controllo popolare sul potere. Ivi, p. 239. Ivi, p. 263. 234 Su questo punto cfr. anche V. Strada, Totalitarismo/totalitarismi, in Id. (a cura di), Totalitarismo e totalitarismi, Marsilio, Venezia 2003, p. 88. 235 Cfr. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit. Cfr. anche K. Marx e F. Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, Il Saggiatore, Milano 1960; G. Sofri, Il modo di produzione asiatico, Einaudi, Torino 1969. 236 R. Aron, Stati democratici e stati totalitari, in Id. Machiavelli e le tirannie moderne, cit., p. 230. 232 233 284 Daniele Bronzuoli L’opposizione storica tra le due specie di società industriale viene dunque a rappresentare la conseguenza di due concezioni opposte del principio della sovranità popolare, di cui è naturalmente possibile rintracciare la genesi ideale. La tendenza cosiddetta liberale si può dire trovi espressione nella filosofia di John Locke, per il quale l’essenziale è di «[…] garantire i diritti delle persone contro l’arbitrio del potere», mentre la tendenza comunemente definita «egalitaristica e statalistica» si trova espressa, se non proprio nel Contrat social di Rousseau, «[…] almeno nell’interpretazione che del Contratto è stata data durante la Rivoluzione francese». Tale interpretazione […] ha ritenuto che l’essenziale fosse una nozione quasi mistica della sovranità popolare, per cui il popolo, in quanto tale, potesse e dovesse essere l’origine del potere, e conseguentemente ne deriva la maggior importanza della garanzia dell’origine popolare dei poteri, rispetto alla loro limitazione.237 Ovviamente ciò che ad Aron appare la giustificazione più plausibile della democrazia non è l’efficacia maggiore di un governo scelto dagli stessi governati, bensì «[…] la protezione che la democrazia garantisce contro gli eccessi dei governanti».238 In questo senso – e qui ritorna nuovamente la lezione di Montesquieu – la divisione dei poteri e, dunque, la differenziazione delle categorie dirigenti rappresentano la condizione stessa della libertà.239 Il sistema della pacifica competizione elettorale, ovvero «l’esistenza di più partiti rivali candidati all’esercizio del potere»,240 detiene pertanto la virtù negativa essenziale di limitare le prerogative dei governanti e poggia sulla convinzione antropologica dell’imperfezione della natura umana.241 In conclusione, l’analisi dei regimi politici contemporanei porta a compimento, legittimandola appieno, la sociologia comparata delle due diverse tipologie di società industriale, ricondotte infine anche a un comune, ma lontano, orizzonte di valori. Nel contempo essa conferisce coerente espressione a quelle riflessioni sulla struttura del mondo storico che l’autore aveva maturato in gioventù, peraltro sempre a contatto con gli eventi drammatici innescati dallo scenario internazionale alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Il principio dell’autonomia, o del primato, della politica – che abbiamo visto riaffacciarsi in occasione della critica Id., Introduzione alla filosofia politica, cit., p. 56. Ibidem. 239 Sul punto cfr. anche Aron, L’oppio degli intellettuali, cit., p. 101. 240 La definizione è di Joseph Schumpeter (cfr. Aron, La società industriale, cit., p. 108). 241 Aron, Introduzione alla filosofia politica, cit., p. 183. 237 238 Raymond Aron teorico della società industriale 285 alla teoria del modo di produzione asiatico – costituisce, di tutto il ricco e contrastato percorso intellettuale dell’autore, sintesi e coronamento, poiché in esso trova voce l’idea di una storia mai compiuta, magari indomabile, ma di cui non si può rinunciare a capire i movimenti profondi, le complesse dinamiche e, infine, il senso.