28 gennaio 2009 Appunti per il 2° Corso di Formazione su San Pietro al Monte 1° incontro: l’ambiente e la storia Relatore Carlo Castagna 1. I primi abitatori. Liguri Oltre tre mila anni fa, i Liguri, una popolazione di cui ci parlano diversi autori latini, descrivendoli in modo a volte anche contraddittorio, furono i primi ad insediarsi sul nostro territorio. Tito Livio li descrive come gente indomita, rude e fiera, in lotta con le belve e gli elementi naturali, che viveva di caccia e di pastorizia, ma anche di un po’ d’agricoltura sulle pendici degli Appennini e delle Prealpi. Abili artigiani della pietra, riuscivano a preparare stupende asce di pietra, levigate con straordinaria perizia, così affilate che permettevano di abbattere i grandi faggi dei boschi montani. Cominciarono ad usare i metalli, soprattutto il bronzo, solo verso il 600 a.C. Coltivavano il lino e l’orzo, il melo, il nocciolo e il castagno. Non erano conquistatori e le tribù vivevano isolate le una dalle altre in piccoli villaggi posti presso sorgenti e vie frequentate. Il capo villaggio convocava dei conciliabula dei capi delle famiglie, riunite in clan autonomi, in un campo di riunione. Era lui che presiedeva anche i riti religiosi in particolari luoghi di culto. Chi è di Civate non può non conoscere il buco della sabbia, o sapere che resti della presenza dei Liguri sono stati ritrovati in cima alla montagna sul prato della colma. Mentre su quel prato sotto la cima del Cornizzolo, di cui parla nella sua opera anche Plinio il Vecchio chiamandolo monte Pedale, sono stati ritrovati semplicemente dei reperti litici, come punte di lance e frecce e qualche piccolo utensile, il buco della sabbia è senza dubbio la testimonianza più viva di un’epoca passata, inserita ancora nell’ambiente naturale che l’ha vista nascere nel periodo eneolitico, cioè nell’età del bronzo. La grotta, originariamente usata come grotta funeraria, si compone di tre ambienti successivi, non tanto ampi, di cui l’ultimo fornito di un camino verticale di ventilazione che fuoriesce nella roccia soprastante. Abbarbicata sulla impervia roccia a strapiombo prospiciente il lago d’Annone in cui si specchia, fu utilizzata praticamente fino all’esaurirsi dell’insediamento romano. Il buco della sabbia , scoperto dagli studiosi d’archeologia solo poco più di cinquant’anni or sono, ma ben noto da tempo immemore agli abitanti di Civate, è stato sinora considerato un elemento isolato ed anomalo, quasi un mistero affascinante ancora da spiegare nella sua unicità. Tuttavia, qualche ipotesi più complessiva si può azzardare se si considera il buco della sabbia non come un singolo elemento, ma parte di un complesso più ampio. Per fare questo occorre completare la conoscenza delle tracce rimaste d’una età tanto lontana, aggiungendovi pure alcuni aspetti sinora ancora inesplorati. Risalendo infatti la stessa costa montagna, sul sentiero quasi in disuso che s’arrampica impervio e dritto sul crinale, tra quello di Linate e quello principale per San Pietro al Monte, dirigendosi verso le corde, si incontrano, una trentina di metri prima dello stesso punto di riferimento da cui il luogo prendono il nome le corde, una coppia di steli tozze e massicce. Esse costituiscono una specie di rozzo portale che introduce il viandante al poggio soprastante su cui, nei secoli più recenti, sono stati appunto collocati i tralicci a sostegno delle funi d’acciaio, utilizzate dai contadini al momento della fienagione e del taglio dei boschi. Lo spiazzo stesso, invidiabile punto d’osservazione e di vedetta ( e posto ideale per costruirvi un altare), domina un paesaggio stupendo affacciato sui due bacini lacustri, oggi quasi completamente divisi dalla penisola di Isella: il lago d’Oggiono e quello d’Annone. A destra dello stesso poggio delle corde, attraverso altre due più massicce ed importanti steli 1 litiche, di cui quella di destra probabilmente naturale, si accede ad un piacevole pianoro riparato, denominato prato rossino. Questo è uno spazio ampio e circolare, racchiuso a difesa fra basse muraglie di pietrame. Il luogo, che forma una piacevole conca erbosa irregolare, era ideale per la collocazione di un piccolo insediamento umano di capanne in legno e paglia o di casotte. Questi tipici e rozzi ripari in pietra, costruiti a secco e per lo più ricoperti da uno strato impermeabile di zolle erbose, sono stati imitati per millenni nella loro struttura architettonica, come nell’uso funzionale, ed ancora sono presenti qua e là sui pendii della nostra montagna. Le steli d’ingresso, grossolanamente ma evidentemente sbozzate dall’uomo, potrebbero introdurre qui anche in un luogo sacro, riservato a particolari cerimonie religiose, appunto come in uso presso i Liguri. Strordinaria infatti è la posizione stessa delle due diverse coppie di steli. Rispetto all’insediamento di prato rossino, le prime, a livello inferiore, sono rivolte ad est, cioè verso il sole nascente (natalis solis). Quelle d’ingresso all’insediamento vero e proprio sono volte invece volte al sole di mezzogiorno. Ancor più sorpendente è infine costatare che una coppia identica di steli, a completamento della triade, si trova come portale d’accesso alla zona del buco della sabbia, già ricordato nella sua funzione originale di grotta funeraria. Esse sono rivolte ad occidente, verso il sole morente. Allo stesso luogo si giunge facilmente da prato rossino attraverso un sentiero diretto ancora oggi praticabile. Tutto ciò cosa potrebbe significare? Nella dimensione di un primitivo culto solare, l’interpretazione immediata della simbologia richiama, proprio nella particolare collocazione e configurazione dei manufatti e dello spazio centrale di prato rossino, la celebrazione dei tre momenti fondamentali della vita: ad oriente la nascita, volta all’immagine del sole nascente; a meridione la maturità come pienezza dell’esistenza, nel mezzogiorno solare; ad occidente la morte, cui è destinato ogni essere vivente, nel tramonto solare. Celti I Celti, chiamati dai romani Galli e dai greci Galati, sostanzialmente identificabili con le tribù galliche, appartengono ad una comune famiglia linguistica indoeuropea ed estesero la loro influenza su quasi tutta l’Europa occidentale. Apparvero per la prima volta durante il secondo millennio tra l’attuale Baviera e la Boemia. Nel primo millennio si diffusero dalla Spagna alle isole britanniche ed al nord d’Italia, ma giunsero fino in Asia Minore. Abili lavoratori del ferro, cui si deve la loro forte espansione, controllavano le principali vie di comunicazione europee sul Danubio, il Reno ed il Rodano. Nel 380 a.C. si spinsero sino a saccheggiare Roma. Si stanziarono in Italia verso il V sec. a.C. Quanto al nostro territorio, i Celti non solo hanno dato la denominazione all’intera Brianza, dal termine brigantia, forse per luogo elevato, ma, tra tanti altri, pure Leuki , tribù celtica che ai tempi di Cesare era insediata in Francia, oppure dal termine indoeuropeo locas, lucus, lucos per indicare campo/paese, per Lecco, Laus per Lodi e soprattutto hanno utilizzato la radice barros, cui qualche studioso da il significato di cespuglieto, mentre altri la interpretano nella sua riduzione tematica di bar o ber, come altura o recinto. Di fatto, alla radice tematica più semplice sono legati sul territorio civatese nomi ben noti, anche se senza dubbio trasformati e fatti propri in epoca romana, come quelli di Bar, monte Barro, Barzegutta, Baroncello… E’ indubbiamente ai Celti che si deve far risalire il vero e proprio inizio dell’insediamento abitativo di Civate, con l’occupazione del territorio ai piedi del Cornizzolo, dove si colloca oggi. Alla ricerca di un luogo protetto ed adatto all’insediamento umano, questo è certo, uno sparuto gruppo di guerrieri-agricoltori Celti, un piccolo clan di pochi individui, parenti legati strettamente dai vincoli del sangue, ha scelto quella che oggi è la frazione di Tozio come insediamento primitivo. Purtroppo non sono stati mai ritrovati, o meglio, non sono mai stati conservati reperti di origine celtica ritrovati nel territorio di Civate. 2 Romani I romani, nel 196 a.C., pensarono bene di impadronirsi della Gallia Cisalpina, un territorio che si estendeva dalla pianura del Po sino alle Alpi, facendo riferimento a quella capitale che si sarebbe poi chiamata per sempre Mediolanum. I nuovi conquistatori ebbero un bel da fare per insediarsi ed imporre la loro supremazia, ma gradualmente estesero un rigido controllo su tutta la vasta regione, imponendo da dominatori il pagamento dei tributi. E dal momento che questi non consistevano in denaro, ma in prodotti freschi o disseccati della terra, soprattutto in granaglie che erano meno facilmente deperibili, i luoghi di raccolta e conservazione erano collocati normalmente vicino alle zone agricole di produzione, difesi naturalmente da guarnigioni o luoghi di controllo militare che ne provvedessero la custodia. La presenza stessa dei romani dunque, significò la riorganizzazione del territorio e la costituzione di un sistema difensivo che proteggesse i territori collinari e della pianura da eventuali incursioni od invasioni provenienti dalle Alpi. Tuttavia i romani non amavano insediarsi direttamente sulle montagne. Per questo sfruttarono le barriere naturali e le difese costituite dalle caratteristiche del territorio. La catena montuosa e l’estensione del Lario offrivano qui la configurazione ideale per la collocazione di una linea difensiva settentrionale di tutto il territorio brianteo ed oltre. Ai piedi delle alture, i centri fortificati della zona comprendevano il Castrum Leucum, l’attuale Lecco, Castelmarte, vicino ad Erba, Comum, che era anche porto della flotta lacuale, l’Isola Comacina e Castelseprio, sotto Varese. Questi centri maggiori a loro volta erano tenuti in collegamento con un sistema di segnalazioni luminose provenienti da fortilizi minori, dislocati a triangolo a mezza costa sui monti. Le guarnigioni, composte da uno sparuto gruppo di soldati, svolgevano prevalentemente funzioni di vedetta e appunto di segnalazione. Accanto a questi esigui posti di guardia, sorgevano anche piccole edicole per il culto delle divinità, riservate perlopiù ai soldati, che l’avvento del cristianesimo, in periodo più tardo, trasformerà in edifici di culto cristiano. Nella zona che interessa la vallata che dal lago d’Annone conduce al Lario sono dunque ancora individuabili, con questa origine, San Tommaso sul Corno Birone, la chiesetta di Santa Maria sul Barro, il dosso della guardia sul Cornizzolo e il più conosciuto Campanone della Brianza sotto il monte Genesio… Il sistema così congegnato, semplice nella sua struttura, ma efficace nei suoi effetti, permetteva una trasmissione relativamente veloce, anche se sintetica ed essenziale, delle notizie dal Castello di Santo Stefano a Lecco, sino alla fortezza edificata presso Santa Maria di Castelseprio. Il centro militare più importante della zona più prossima era indubbiamente il Castrum Leucum, che controllava unitamente l’imbocco della Valsassina ed i passaggi lungo l’Adda verso sud, avendo ad occidente, al di là del fiume, la Valmadrera. Attraverso questa valle naturale una via conduceva, lungo l’attuale Rio Torto, in prossimità del lago d’Annone, contornato ancora, come testimonia già Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, da estese ed infide paludi. Qui la strada incrociava la ben nota ed importante arteria che dal III secolo d.C. collegava Aquileia a Como. Immaginandola, non si deve pensare certo ad una via lastricata come la Flaminia o la Cassia, ma ad una semplice glarea strata, cioè ad una strada caratterizzata da un fondo predisposto con cura, ma ricoperto di semplice ghiaia. Essa dapprima, superato l’Adda presso Olginate, con un ponte di cui rimane ancora traccia, saliva all’attuale sella di Galbiate, per poi discendere al lago e da qui, scavalcato facilmente il piccolo emissario lacustre, risaliva la collina ora di Civate per continuare a mezzacosta, evitando gli insidiosi acquitrini, verso Como. Dallo stesso sperone del monte Cornizzolo, allora chiamato Pedale, una strada si diramava invece per Annone attraverso l’originaria insula, Isella, collegata alla terraferma da due manufatti: uno, di più sicura e probabilmente molto più antica fattura, si trovava nel primo tratto che costituisce ancora l’odierno collegamento con l’agglomerato urbano 3 civatese sulla collina; l’altro, una specie di lungo pontile, longus pons, in pietrisco e legname, si snodava fra l’estrema propaggine della penisola e la stessa Annona, luogo di raccolta delle granaglie e quindi ideale per il pagamento in natura delle imposte.Tale delicata microrete di collegamenti ed accumulo di viveri, evidentemente richiedeva una protezione militare sicura ben più prossima del semplice castello di Lecco, fortezza di confine. Erano pertanto presenti le già ricordate fortificazioni minori sul Barro, come sul Pedale e nella stessa Isella a controllo del passaggio obbligato, collegate con il resto delle roccaforti principali della linea confinaria. Proprio il passaggio obbligato all’incrocio con la via proveniente da Aquileia, là dove un piccolo ponte varcava il Rio Torto, assegnava invece, naturalmente, la denominazione di Clavis alla stessa località minore. Infatti, così come in altri punti di controllo ai piedi delle Alpi o nelle vallate prealpine si trovano i cosiddetti punti chiusi fortificati, come ricordano ad esempio Valchiusa, Le Chiuse di Susa, Chiusa presso Bressanone o la più vicina Chiuso, nei pressi di Lecco, a questa confluenza i romani avevano assegnato l’attribuzione di clavis, ossia chiave, per indicarne il senso necessitato e determinato del transito. Toccherà in seguito ai Longobardi variare la voce latina in Clavate, da cui Ciavate o Ciauate per arrivare all’odierna Civate, il borgo strategicamente edificato sulla collina. Ciò che importa dunque, è che i romani, presenti con forze massicce nel castello di Lecco, fossero anche stanziati nel punto chiave di passaggio, laddove sorgevano il ponte sul Rio Torto e un piccolo luogo di culto, che da quasi due millenni è denominato la Santa.Nello stesso luogo, sulla originaria clavis romana, quasi dimenticato, sorge infatti ancora l’oratorio di S. Nazaro e Celso, santi soldati, non unico ed ultimo indizio della presenza dell’antica postazione militare romana. In verità, anche l’oratorio, come la località, continua ad essere più comunemente chiamato dagli abitanti la Santa. Ed il termine deriva dall’appellativo latino sancta, che già i soldati romani della guarnigione assegnavano per antonomasia alla loro divinità agricola, Cerere, che qui aveva sostituito la dea gallica protettrice dell’agricoltura, venerata dai Celti. Fin qui, già si sono richiamati in alcuni toponimi assegnati a località come clavis, sancta, annona, castrum, i segni della presenza romana. Altri appellativi di località conservano ancora traccia di questa origine e pervengono dai nomi propri romani o derivati dalla fusione di sostantivi celti e romani nelle località circostanti, come: mons Pedalis, mons Baronis, barsecuta, caribiolum, vallis deae orum e silva Diana, cioè, per riferirci solo a quest’ultima, la zona boschiva posta tra la parte orientale del lago, la collina su cui sorge Civate e la stessa clavis. San Pietro al Monte sorge proprio nella vallis deae orum e, per quanto concedono di ipotizzare gli indizi, una sorgente doveva sgorgare sotto l’attuale chiesa, la cui cripta è dedicata a Maria. Gli ultimi due toponimi, vallis deae orum e silva Diana, con la sancta, inducono a riflettere sulla realtà non solo militare ed economica della vita della guarnigione qui stanziata e senza dubbio della popolazione rurale circostante dell’epoca romana, ma anche sulla loro sensibilità religiosa. E questo ci suggerisce che vi fossero evidentemente, e del resto sono rimasti intatti quasi sino ai nostri giorni, delle sorgenti ed un bosco, dedicati come naturale alla divinità delle fonti e della caccia. Inoltre, induce ad approfondire anche l’etimo dell’estensione dei campi di fondo valle, aperti, coltivati e rigogliosi perché irrigati dalle acque del fiume emissario e dei torrenti montani. La vallata, chiamata oggi Valmadrera, nasce dalla contrazione successiva di Vallis Mater agraria, ossia inizialmente la dea Cerere, affiancata e confusa spesso, in queste regioni limitrofe del dominio romano, con la dea Cibele, protettrice dei campi e delle messi, oltre che degli animali. Qui, il culto orientaleggiante di quest’ultima era andato maggiormente diffondendosi in tal senso in tarda epoca imperiale con riti complessi di iniziazione. Nulla di strano dunque, che alla dea, cui era dedicata la valle, gli abitanti e le truppe costruissero un tempietto rurale, dove un tempo i progenitori Celti avevano già a loro volta dedicato un piccolo sacro edificio all’antenata più antica della stessa Mater agraria, ossia alla triplice divinità nordica delle 4 Deae Matres. Gradualmente compaiono allora sul territorio le denominazioni di Clavis, poi variato col suffisso in ‘ate’ in Clavate o Clauate, che già presente in epoca etrusca continuò ad essere usato per secoli sino all’alto medioevo, di Sancta, Silva Diana, Vallis Mater Agraria, poi Vallis M.agraria, Faël – Faëe…, Vallis Deae Orum, Mons Pedalen, Barsecuta, Puteus, Caribiolum, Baroncellae, Boriminae, Isella, Linate… La presenza romana sul territorio non aveva in ogni modo una finalità religiosa. All’occupazione militare ed economica, già rilevata nei punti fortificati della Santa, di Isella, di Annone, vanno aggiunte altre strutture militari di più tarda edificazione. E’ così che, successivamente nel tempo, sorgono il fossatum (vallo di Isella), il castrum (Castello) e una torre di controllo al di sopra dell’isola originaria, la Turris in Isellam, che ancora oggi indica in dialetto il luogo della sua costruzione: Tur’niselö. Sulla montagna, le monete romane rinvenute nel buco della sabbia, nei pressi del dosso della guardia, sono solo alcune tracce involontariamente lasciate nei secoli dai soldati succedutisi nei turni di guardia, che forse supplivano col gioco alla prolungata noia delle ore di riposo. L’importanza di queste edificazioni ed il loro valore strategico sul territorio non si sono tuttavia limitate al periodo assai lungo della presenza romana. La radicalità dell’impostazione difensiva infatti e l’opportunità di sfruttarne le caratteristiche peculiari sono state utili ai loro successori. Ne sono testimonianza l’occupazione, l’ampliamento e il completamento di tali fortificazioni da parte dei Goti, dei Bizantini e dei Longobardi, attraverso opportune modifiche dettate dalle diverse esigenze e con la costituzione di speciali distretti. Ne saranno testimonianza le fortificazioni gote sul Barro e la sala longobarda, luogo di permanenza dei cavalieri armati detti arimanni, sotto Galbiate. Goti Alla caduta dell’impero romano infatti, nel 456, i Goti assunsero il compito di regnare sui territori della penisola italica. La fine della loro dominazione ebbe fine al concludersi della guerra gotica, conflitto combattuto fra gli stessi ed i bizantini. Questi ultimi, guidati dal generale Belisario, occuparono la penisola e la capitale gota Ravenna, catturandone il re Vitige nel 540. Il nuovo re dei Goti, Totila, riconquistò presto i domini perduti, ma Narsete, succeduto a Belisario al comando dell’esercito dell’impero orientale, ebbe la meglio su di lui e sul suo successore Teia e determinò la fine del regno goto in Italia. Anche sul nostro territorio i Goti lasciarono tracce ancora oggi visibili del loro passaggio. La testimonianza più evidente è la fortezza edificata sul monte Barro, i cui resti sono stati recentemente riportati alla luce. La fortificazione stessa aveva lo scopo di aumentare il controllo sulla zona del passaggi obbligato della Santa, dopo che alcune modifiche già operate nell’ultimo periodo della dominazione romana ne avevano imposto l’esigenza. La trasformazione tecnica relativa alla macinatura del grano infatti, passata prima dalla semplice e rudimentale follatura alle molazze e molini a palmenti, tipici dell’era romana avanzata, era pervenuta definitivamente alla macinatura con molino ad acqua, tecnica senza dubbio meno faticosa e più redditizia, che permetteva di ottenere, con macine più grandi, un prodotto senza dubbio migliore. Ciò aveva fatto perdere importanza ad Annone come centro di raccolta della granaglie, non presentando la stessa località caratteristiche idonee all’installazione dei mulini, mentre acquisiva sempre più un ruolo decisivo la località immediatamente contigua alla stessa clavis romana, perché non solo da essa prendeva inizio la fertile e agevole estensione della Vallis Mater agraria, il fondo valle più favorevole alle coltivazioni, ma perché lì, allo sbocco dell’estuario del lago, era collocata la zona più idonea alla costruzione ed al controllo dei mulini, essendo già preesistenti le antiche strutture di controllo militare. Nulla di strano pertanto che già i Goti ponessero proprio al di sopra di questa, sul Barro, una grande fortificazione da cui mantenere dall’alto un costante controllo sulla posizione, certo meno difesa dalla natura di quanto lo fosse stata Annone, col lago d’attorno e lo stretto passaggio obbligato di Isella. E non stupisce neppure che i 5 Longobardi, più tardi, costituissero l’agglomerato militare di Sala proprio nelle vicinanze e ampliassero l’attigua Scarena, cioè il luogo di collocazione dei mulini, con l’aggiunta di un torchio per le olive. Eppure, altri riferimenti sono visibili prima dell’arrivo dei Longobardi e proprio sulla clavis. Sebbene sia vero che il cristianesimo, durante l’ultimo rigurgito di vita dell’impero romano, portasse la sua diffusione ben lontano da Roma, in città anche vicine alle sponde orientali del Lario come Milano e la stessa Como, è altrettanto improbabile che nei pagi, i villaggi di campagna, il nuovo annuncio religioso giungesse con convinzione e sollecitudine. E neppure ci si deve illudere troppo che i Goti, pur con Teodorico ed i mausolei sfavillanti di Ravenna, fossero stati più convinti e convincenti nella conversione di queste zone prealpine. Ma i bizantini? Bizantini Meno visibili, tra le due presenze appena ricordate dei Goti e dei Longobardi, sono le tracce della presenza bizantina sul territorio, almeno ad un primo frettoloso esame. In effetti, gli emissari dell’impero d’oriente erano usi operare, per logica affinità storica e culturale, nei modi e sulle strutture strategiche ed economiche, dove possibile, già proprie dei romani. Eppure segni della loro permanenza compaiono, anche se in forme esteriori meno eclatanti di quelle dei loro diretti predecessori e successori, presso la clavis. Intanto, la presenza bizantina doveva aver assunto in Italia, nel periodo delle invasioni barbariche, un senso ed una dimensione di vera e propria crociata in nome del ripristino d’una civiltà, portata allo sbaraglio con crudeltà e ignoranza dai Goti, e che ormai si identificava col cristianesimo. Quale doveva essere pertanto l’atteggiamento minimo, immediato di questi restauratori, se non la sostituzione, senza alcun dubbio, dei simboli barbari e pagani con simboli di civiltà cristiana e di fede? E dove avrebbe agito innanzi tutto un crociato, moderatamente fervente perché uso ai contatti con le culture barbariche, se non là dove permanevano le radici del culto di antiche religioni e superstizioni? Nulla di strano dunque che soprattutto venissero pacificamente sostituiti i luoghi specifici di culto pagano con edifici, simboli e santi cristiani che ne avessero le identiche caratteristiche e rispondenze. Quindi, se qui non fu possibile ai bizantini, nella loro opera di cristianizzazione, cancellare di fatto nomi come Silva Diana o Vallis Mater agraria, ormai divenuti toponimi radicati, certamente essi si diedero da fare per sostituire, nel luogo stesso della clavis, il tempietto rurale della Dea Mater, ormai comunemente chiamata solo con l’appellativo di sancta e che già doveva aver a suo tempo supplito le divinità celtiche del luogo, con un edificio cristiano dedicato non ad uno solo, ma addirittura a tre santi, che rispettassero nel contempo i caratteri di protezione e propiziazione propri delle divinità pagane, legandoli alle esigenze del territorio d’appartenenza: Mamete, Simone e Nazaro. Solo pochi anni dopo dunque, al giungere delle prime avanguardie dei Longobardi nel 568, la realtà del nostro territorio era caratterizzata dalla presenza di una serie di fortificazioni, ma anche insediamenti, località e luoghi di culto cristiani. Longobardi I Longobardi giunsero in Italia entrandovi dalle regioni friulane. In pochi anni occuparono i territori contesi ai Bizantini che, con tanta fatica e tante sanguinose battaglie li avevano strappati alla dominazione dei Goti. Tuttavia i Bizantini rimasero un po’ più a lungo sul nostro territorio, mantenendo alcuni punti militari strategici da cui procuravano guai ai Longobardi. Come l’Isola Comacina, difesa per un ventennio e ceduta soltanto da Francione, ex comandante dell’esercito bizantino, dopo ben sei mesi d’assedio posto dagli ultimi invasori. D’origine guerriera, i nuovi arrivati non brillarono certo per la rapidità con cui attivarono un ripristino dell’economia agricola o artigianale sul territorio squassato dalle continue aggressioni alle postazioni militari di controllo, di cui facevano le spese, come ovvio, il tessuto produttivo ed i suoi malcapitati operatori. E nonostante le iniziative di 6 recupero del territorio cui fanno riferimento le molte leggende legate alla regina Teodolinda, cui si fa risalire anche quella fantastica della costruzione d’un castello e d’una torre sul Monte di Brianza, dove sorge oggi il Campanone, i Longobardi sembrarono più preoccupati di occupare gli insediamenti militari preesistenti lungo la linea difesa di confine e di stabilire come e dove far pagare i tributi. Comparvero così gli insediamenti chiamati Sala, che di fatto sostituivano i luoghi di raccolta e di difesa delle granaglie già romani e in cui si stabilivano gli arimanni, cioè i cavalieri armati a protezione delle riserve alimentari. E tutto si mantenne pressoché invariato se Burgundi e Franchi, che già insediavano questi territori dal tempo della presenza bizantina, attesero ben due secoli e un re come Carlo Magno per venirvi a fare una visita definitiva. O quasi. In effetti i Longobardi, seppur tardi, ebbero un ruolo importante nella storia di Civate. E tutto ciò non si deve solo all’importanza delle fortificazioni militari sul Barro ed agli eventi guerreschi in cui furono coinvolte, ma anche a fattori di carattere religioso e culturale. E più precisamente all’influenza dell’edificazione dei monasteri pedemontani, che in un periodo di due secoli subì una espansione di non poca rilevanza. I monasteri, infatti, fungevano da punto di riferimento d’acculturazione comune per la popolazione italica e longobarda, con la diffusione dell’ormai condiviso messaggio cristiano, ed offrivano un contributo organizzativo e diplomatico nei confronti dell’amministrazione locale e degli eventuali confinanti. La conversione al cattolicesimo dei Longobardi, seppur scismatico, aveva segnato una tappa fondamentale nei rapporti con le popolazioni italiche, insediate da secoli, e la stessa Chiesa, come sottolinea con benevolenza lo stesso Gregorio Magno, con il passaggio dall’arianesimo ad una dimensione di accettazione di fede cristiana. Da essa nasceva l’intreccio tra il monachesimo di Non, con l’abate Secondo che assunse un posto privilegiato alla corte longobarda e, in loco, la creazione di abbazie sparse nella zona del centro ed alto Lario ad opera di Agrippino, monaco di Aquileia e legato alla abbazia di Piona, roccaforte longobarda al confine con le terre dei Franchi, di S. Eufemia sull’Isola Comacina, di Castelseprio e Castelmarte, capisaldi strategici contrapposti ai Burgundi. L’elezione di Agrippino a vescovo di Como risale al 606. Tale monachesimo, tuttavia, ha in seguito visto consolidarsi maggiormente, anche dopo il successivo intervento dei Franchi, più il carattere e gli elementi della cultura transalpina che non il prolungarsi di un legame lontano con l’humus costitutivo del cristianesimo romano o della ortodossia orientale. E proprio il periodo del regno Longobardo in Italia, soprattutto la sua ultima parte, è quello particolarmente significativo per la storia civatese, dal momento che è in questo momento che sorge il monastero di San Pietro al Monte. 2. Le origini e l’alto medio evo Origini I documenti che parlano della prima costruzione di San Pietro al Monte di Civate non sono contemporanei alla stessa e risalgono al basso medioevo. Essi divergono in relazione alle varie datazioni. Tuttavia tutti rimarcano la fondazione longobarda del monastero, affidandone l’idea della realizzazione a Desiderio, l’ultimo re longobardo. In effetti il duca di Tuscia, Desiderio, succeduto ad Astolfo nel 756 con l’iniziale appoggio del papato, sostenne quest’ultimo con la concessione alla Chiesa di alcuni territori dell’Esarcato, come appartenenti al patrimonium Sancti Petri. Venuto successivamente in contrasto col papa Stefano III, fu affrontato da Carlo Magno alle Chiuse di Susa nel 773. Definitivamente sconfitto a Pavia l’anno successivo, fu rinchiuso nel monastero di Corbie, dove morì. E’ dunque in questi brevi anni, fra il 756 ed il 774 che ebbe tempo di far sorgere il monastero? E più precisamente nel 769, come è ricordato nella pergamena di un atto giudiziario riguardante Andrea, abate del monastero nel 1018, che probabilmente doveva saperne un po’ più di tutti coloro che ne scrissero successivamente? Il documento più 7 antico, ancora esistente, sulla realtà del monastero di san Pietro al Monte, riportato nel Libri confraternitatum Sancti Galli, Augiensis, Fabariensis ( in Libri confraternitatum, ed. PIPER in M:G:H:, Berolini 1884, p. 357), risale solo all’845, riferendosi al monastero svizzero di Fabaria (Pfäffers). In esso si cita la comunità monacale di San Pietro al Monte e si da l’elenco dei monaci presenti. L’assenza di un documento originale di fondazione ha dato modo a diverse interpretazioni degli storici ed alla raccolta di numerosi documenti che parlano della fondazione. Alcuni sono ripresi dalla sintesi cronologica presentata in appendice a una serie di ipotesi di Giovanni Spinelli, pubblicata a p. 594 in Archivi di Lecco, anno VII, 3, 1984. Le date riferite all’origine sono le seguenti: a) 706 – maggio 10: un’antica iscrizione, ora scomparsa, che nel secolo XVII ancora si leggeva su una parete della chiesa di S. Pietro al Monte diceva “ averla fabbricata Re Desiderio alli 10 Maggio l’anno 706” ( Porter, III, p. 394, n. 12).“ Nel settecentosei Dino abbate de Santo Pietro regnando Desiderio con suo figliuolo Algiesio nel regno d’Italia, ordinò che si facesse la chiesa quale è quella di S. Pietro di Roma: quali tutte cose a voi Padre Bartolomeo di S. Pietro in Chivate per gratia d’Iddio e della Santa Sede Apostolica l’ho ridotte a memoria Umaine de Barzanore” ( Ms. del sec. XIV: Milano, Biblioteca Trivulziana, cod. 2256: MAGISTRETTI, p. 333; PORTER, III, p. 394 n. 13). b) 707 – giugno 29: “anno ab incarnatione VIICVII. Regnante christianissimo rege Desiderio cum filio suo Aldeglixio,… Perfecto itaque opere, convocans rex Desiderius omnes episcopos orthodoxos cum venerabili Thoma archiepiscopo, qui eo tempore intronizatus erat in ecclesia Mediolani, deducens secum in montem Pedalem et consecraverunt ecclesiam apostolicam, impositis in sacro altario eisdem reliquijs apostolicis Petri et Pauli, in nativitate eorundem apostolorum, que est III° kalendas iulii ad laudem et gloriam nostri Yhesu Christi” (Chronicha Mediolanensis (a. 606-1145) secondo il MS. latino della Nazionale di Parigi 8315 ecc., ed. A:CINQUINI, Roma 1904. Pp. 9-12: cfr. MARCORA, Gli stucchi di S. Pietro al Monte di Civate, Civate 1974, pp. 36-38). Si tratta di un manoscritto del sec. XIV. c) 769 - “Beatus Thomas Mediolan. Arch. Xlviij anno Domini DCCLXVIIIJ. d) 797 - sedit annis XXVIIJ. Isto tempore Desiderius fecit fieri Mon de Clavate, obijt anno dni DCCLXXXXVIJ, quarto die ante kall. Octubris” (LAMPUGNANO DE LEGNANO, Chronicon, Ms Ambr. T 56 Sup.: PORTER, III, p. 395 n. 17; cfr. anche SAVIO, La “Chronica Archiepiscoporum Mediolanensium…”, p. 89: il medesimo testo è riportato in forma assai scorretta da un apografo del sec. XV). e) 770 – “Anno Dni 770. Desiderius rex Lombardorum fecit fieri monasterium S. Petri de Clavate” ( Ms.mbr. S. Q + I. 12: PORTER, III. p. 394 n. 14 = Cod. Trivulziano 1218: LEONIDA GRAZIOLI, La Cronica di Goffredo da Bussero, in “Archivio Storico Lombardo”, XXXIII, 1906, vol. I, p. 234). Molte altre fonti riferiscono a Desiderio la fondazione del monastero di Civate, senza però precisarne l’anno: cfr. PORTER, III, p. 396 nn. 22-26, dove tra l’altro Porter cita, fraintendendolo, il Chronicon di Jacopo Malvezzi (IV, 89, ed. L.A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, XIV, Mediolani 1729, col. 848): “Hic (Desiderius) namque, ut a fide dignis percepi, Monasterium de Giavate Mediolanensis Dioecesis condidit. In summa quoque alpe, quae ad urbe Brixia distat circiter milliaria XIV, Monasterium Sancti Petri, condidit”. …………………………………………………. f) 780 – “A.D. 780. Desiderius rex fecit fieri monasterium sancti Vincenti et sancti Petri de Clivate” (Annales Mediolanenses Minores). Medesima precisazione cronologica, ma riferita esclusivamente a Civate si trova nel Chronicon maius di Galvano Fiamma………………………………………………………………………….. g) 800 – “Anno ad Incarnatione domini nostri Jhesu Christi DCCC vel circa Regnante christianissimo rege Desiderio cum filio suo Aldegiso… nec non residente in sede apostolica gloriosissimo papa Adriano… Perfecto itaque opere convocans rex 8 Desideius omnes episcopos orthodosos cum venerabili Thoma archiepiscopo qui eo tempore intronizatus erat in ecclesia Mediolani deduxit secum in montem pedalem et consecravit ecclesiam apostolicam impositis in sacro altari iisdem reliquis apostolicis Petri et Pauli in nativitate eorum diem que scilicet III° Kalendas iulii ad laudem et gloriam Domini nostri Jhesu Christi” (La leggenda di re Desiderio secondo il ms.T. 175 sup. fol. 16, ed. C. MARCORA, Il Messale di Civate, Civate 1957, pp. 62-67: cfr. il medesimo testo nell’edizione del Cinquini, da noi riportato più sopra all’anno 707)……………………………………………. h) 836 – “Monasterium sancti Vincenti fundavit Desiderius Longobardus rex; similiter et monasterium sancti Petri de Clivate diocesis Mediolani anno Domini DCCCXXXVI” (BENTIUS ALEXANDRINUS, De Mediolano civitate opusculum ex Chronico eiusdem excerptum, ed. L.A. FERRAI, in “Bollettino dell’Istituto Storico Italiano”, 9 (1980), p. 33 ……………………………………………………………………………………………… i) 844 – ottobre 14: Ramperto vescovo di Brescia è già morto, essendogli succeduto Notingo, attestato a questa data. Prima di morire aveva chiesto al vescovo Aganone di Bergamo un monaco che prendesse il posto di Leodegario al governo del monasteri dei SS. Faustino e Giovita (Epistola Hagonis episcopi Bergomatis ad Rampertum episcopum Brixianum, ed. M: LUPO, Codex diplomaticus civitatis et ecclesiae Bergomatis, I, Bergomi 1784, coll. 693-694 = ed. DÜMMLER, M.G.H., Epist., V, Hannoverae 1899, p. 345). Oltre a questi documenti esiste la famosa Cronica Danielis, di cui fu autore Galvano Flamma, in cui si riporta la narrazione della leggenda del cinghiale, la successiva edificazione della chiesa e la traslazione delle reliquie da Roma. La leggenda evidentemente deve essere nata in un tempo successivo all’edificazione della chiesa di San Pietro al Monte, forse addirittura quasi cent’anni dopo, quando, con solenni cerimonie essa fu trasformata in basilica alla presenza di un imperatore. Tuttavia, anche in questo momento le sue origini ebbero un significato importante. Pavia infatti, capitale del regno longobardo, deve aver certo ispirato la dedicazione del monastero di Civate con la presenza di San Pietro in Ciel d’Oro, le sue ricchezze ed il fascino che da essa poteva venirne al popolo longobardo più della stessa cattedra dell’Apostolo. A tale dedicazione in ogni modo non furono estranei altri elementi che caratterizzavano e sottolineavano la religiosità del tempo. Da una parte è possibile risalire all’importanza che già ai tempi di Gregorio Magno assumevano la figura e le reliquie di San Pietro e Paolo cui era dedicata la chiesa, di cui peraltro si ripete la narrazione nei racconti vari della fondazione e che divengono un elemento comune di questi. Le reliquie diventano immediatamente, con i particolari privilegi ed indulgenze, un motivo di richiamo e di ricchezza del monastero stesso. In questi anni tuttavia, vari eventi storici si succedono, che lasciano il monastero ai margini dell’attenzione. Ben presto, infatti, avviene il tracollo della dominazione Longobarda in Italia. Il vincitore di Desiderio, Carlo Magno, assume su di sé il titolo di rex Langabardorum, divenendo così, di fatto, il successore di Desiderio ed ereditando col titolo regale anche tutti i suoi averi, tra cui San Pietro al Monte. Incoronato imperatore del Sacro Romano Impero la notte di natale dell’800, Carlo Magno, coi suoi paladini, si preoccupa di conquistare al cristianesimo i territori orientali germanici unificandoli alle terre d’Iberia. In tali regioni Carlo favoriva la cultura diffusa dai monaci irlandesi ed anglosassoni, che dai monasteri sorti qualche secolo prima ad opera di San Colombano ora riportavano in una Europa distrutta l’eredità del sapere e della dottrina cristiana e latina, coltivando l’amore per i testi antichi; amore assai raro nella barbarie dei primi secoli del medioevo. Essi ponevano le basi delle future e famose biblioteche di Echternach, Bobbio, Fulda, San Gallo, influenzando la produzione artistica carolingia, ottoniana e poi romanica. L’imperatore faceva suoi ministri Alcuino da York, anglosassone monaco benedettino, 9 formatosi alla scuola di S. Agostino di Canterbury, e in seguito il vescovo Teodulfo, della chiesa visigotica. Per interessamento degli stessi e sui disegni di Eginardo, architetto ed orafo dell’imperatore, si sviluppò l’architettura carolingia che annovera la cappella palatina di Aquisgrana (805), opera di Oddone di Metz, costruita sul modello di S. Vitale in Ravenna, la basilica di Germigny-des-Prés (806), unico esempio francese del periodo. L’intervento della corte palatina in quegli anni stabiliva la centralità del territorio renano, legando in uno stretto rapporto di civiltà e di cultura varie città e monasteri che vedevano, oltre ad Aquisgrana, la presenza di Colonia, Coblenza e Treviri, i centri di Magonza e Fulda, Worms, Spira e Strasburgo, Reichenau, San Gallo e la vicina Coira, oltre il passo alpino dello Spluga appena sopra il Lario. Di fatto tuttavia, l’imperatore quasi dimentica i territori italiani, forse per evitare ingerenze politiche col papa. Tuttavia, l’influenza di Carlo imperatore si ripercuoterà anche sulla basilica di San Pietro al Monte. Ecco come. Era stato un monaco irlandese, Gallo, nel lontano 614, a dare origine all’omonimo monastero. Nel 724, San Pirmino aveva fatto erigere la chiesa di Reichenau e nel 744 San Bonifacio costruiva l’antica chiesa di Fulda. Nell’802 la chiesa di Fulda viene ricostruita, per volontà di Carlo Magno, sotto l’abate Ruggiero, con l’aggiunta a quella originaria di un’abside occidentale in cui riporre le spoglie del fondatore. La costruzione veniva consacrata nell’819. A proposito di questa chiesa, la prima del suo genere nel periodo carolingio, già nell’812 i monaci del monastero si erano dichiarati contrari alla ricostruzione della stessa, supplicando Carlo Magno di far sospendere all’abate i lavori, perché “ le costruzioni enormi e superflue, così come tutte le altre attività, affaticavano indebitamente i monaci e sfinivano i servi”. Del monastero di San Gallo rimane la planimetria su pergamena dell’820, forse redatta dallo stesso Eginardo, architetto ed orafo di Carlo Magno. La chiesa, ad imitazione di quella di Fulda, risulta biabsidata. Non solo. Ogni abside è occupata da un altare. Quello orientale è dedicato a San Gallo e alla Vergine, quello occidentale a San Pietro. Mentre sorgono le città palatine sul Reno, Colonia, Ingheleim, Worms, Magonza… vengono dunque ricostruiti i monasteri tedeschi di Fulda e San Gallo sotto la sua direzione e con la collaborazione di personaggi notevoli come Acuino da York ed Eginardo. Solo qualche anno dopo, verso l’840, si ritorna a parlare in un documento del monastero di San Pietro al Monte. E proprio in questo momento lo stesso monastero diviene un fulcro importante della storia imperiale e monastica. Lotario imperatore Che il piccolo monastero collocato sul monte Pedale dovesse avere una grande storia, nonostante la dimenticanza nella quale era vissuto per quasi un secolo, qualcuno avrebbe voluto attribuirlo già ad un grande personaggio: Paolo Diacono. Tuttavia, anche se una lapide posta sotto il pronao di San Pietro al Monte dà per certa la residenza momentanea del grande storico longobardo a Civate, nessun documento ci da diretta testimonianza di ciò, benché alcune sue opere, come il Carmen Larii, suggeriscano la sua permanenza su questo territorio. Se comunque Paolo Diacono non soggiornò a Civate, lo fece per certo un altro grande intellettuale, il Magister Hildemarus, sceso in Italia con un imperatore, Lotario, figlio di Ludovico il Pio. E Lotario è un personaggio di rilievo fra gli imperatori carolingi e la sua vicenda è strettamente legata alle vicissitudini politiche che interessarono l’impero alla metà del IX secolo. Nipote di Carlo Magno, aveva raccolto, dopo la riconciliazione col padre, le insegne imperiali e l’impegno di continuità nell’unificazione politico-religiosa di tutti i territori del Sacro Romano Impero, ricevendo ad Ingelheim l’omaggio di Rabano Mauro, abate di Fulda, e degli abati di San Gallo e Coira, abbazia limitrofa a Reichenau, nell’840. Questo fatto scatenò l’ira dei fratelli che, coalizzatisi col Trattato di Strasburgo, lo sconfissero e lo costrinsero a rifugiarsi in Italia. Egli dunque fuggì a sud delle Alpi, 10 portando al suo seguito Wolvinio, monaco benedettino suo architetto ed orafo, Wala, abate di Corbie e due altri abati di origine franca: Leodegario ed Ildemaro. Durante la fuga in un territorio a lui sconosciuto, Lotario dovette affidarsi all’ospitalità offerta dai suoi alleati e risiedere nei suoi possedimenti imperiali, tra cui San Pietro al Monte, nel periodo di trattativa con l’arcivescovo di Milano che allora era Angilberto II. L’accordo di non belligeranza fu presto stipulato e l’imperatore non perse tempo per riorganizzare sull’ex territorio longobardo ciò che già i suoi predecessori avevano fatto nei territori franchi e germanici. Fu così che mentre Wala venne incaricato di fondare il monastero di Bobbio sull’Appennino, i due abati franchi vennero incaricati, nell’841, di attendere nientemeno che al riordino della Regola di San Benedetto da parte del grande Angilberto. Quest’opera del Magister Hildemarus è di tale importanza che sarà diffusa in tutti i monasteri benedettini d’Europa e fu senza dubbio una delle prime grandi opere dello scriptorium del monastero civatese. Col trattato di Verdun dell’843, il territorio lasciato all’imperatore, la Lotaringia, era stata ridotta ad un lungo e stretto corridoio che dal mare germanico arrivava a comprendere il regno d’Italia con le città imperiali di Aquisgrana, Treviri, Metz, Strasburgo, Colmar e Basilea. Venivano esclusi i territori di Reichenau, con San Gallo e Ulma e le città dell’alto Reno tra cui Ingelheim, Worms, Magonza e Fulda. Non stupisce che, privato di tali ricchezze culturali e religiose, Lotario stimolasse un processo esaltante di costruzione, rielaborazione ed arricchimento culturale che coinvolse non solo edifici già importanti come Sant’Ambrogio in Milano, con la realizzazione dell’altare, ma anche la ricostruzione dei monasteri-fortezza ai confini delle Alpi come San Pietro al Monte. Sarà meno difficile, se si considera questo rapporto, capire come il ciborio di San Pietro al Monte sia praticamente il gemello stilistico di quello ottoniano di Milano. Ildemaro e Leodegario furono così impegnati nel progetto di ricostruzione della chiesa di San Pietro al Monte che, con le preziose reliquie delle origini, le bolle ed i riconoscimenti papali, era addirittura basilica. Dove tuttavia ritrovare le spoglie credibili del santo fondatore? E chi era peraltro? Quel famoso Duro della leggenda forse? In aiuto alla questione teologica e pratica vennero allora l’imperatore Lotario, affascinato dalla basilica sul monte, e lo stesso arcivescovo Angilberto. La forza politica e religiosa dei due consentì la traslazione delle reliquie di San Calocero dal monastero di Albenga, sul mar Ligure, all’abbazia montana, ufficialmente per allontanare le reliquie tanto preziose dal pericolo delle scorrerie dei pirati saraceni e dagli assalti dei vichinghi norvegesi e danesi che già avevano devastato l’antica Luni e la valle del Magra. Così l’abbazia ligure divenne semplicemente una delle sempre più numerose proprietà del monastero. Il monastero sulla montagna, con la sua struttura di fortezza, non restò a lungo l’unico beneficiario di queste attenzioni. Esso, infatti, seppur dotato di tante e tali preziose reliquie e diplomi regi, non doveva prestarsi molto all’ulteriore grande sviluppo architettonico per l’inidoneità dello spazio tanto esiguo e la difficoltà dell’ascesa. Esauritesi per lunghi periodi le ragioni della sua particolare dislocazione su un pericoloso territorio di confine, l’aumento delle necessità interne cui provvedere, i contatti quotidiani e gli interessi dei rapporti esterni, resisi ormai necessari con l’acquisizione di beni e territori e la loro gestione economica, rendevano improcrastinabile l’edificazione di un più ampio monastero a valle, presumibilmente già preceduto da costruzioni monacali per così dire provvisorie e con logica dotate di un sacro edificio per l’officiatura dei monaci. Un edificio funzionale al monastero sul monte fu dapprima costruito sulla collina di Scola, sottostante il monastero montano e situata in una posizione strategica e militarmente controllata e difendibile. Lì, una guarnigione militare poteva facilmente verificare l’accesso alla strada per San Pietro e tenersi costantemente in comunicazione visiva col monastero stesso. Sulla collina operava appunto una scola, vale a dire una congregazione religiosa di laici incaricati dell’assistenza ai pellegrini che si recavano all’abbazia e l’edificio era affiancato da un 11 primo oratorio dedicato a Santa Maria. Nel trascorrere dei decenni, la costruzione del monastero di San Calocero, in cui furono trasportate le reliquie del santo, fu affiancata dall’oratorio di San Vito e Modesto nel borgo di Civate che venne ad aggiungersi al già presente oratorio di Sant’Andrea sulla penisola di Isella, alla chiesa della Santa, e ai successivi piccoli oratori di Borima e del Brunioso. Sorgeva poi nel borgo, nelle vicinanze del nuovo monastero di San Calocero, anche un nuovo ospizio di accoglienza ed assistenza per i pellegrini nella Cà Nova, appellativo di un piccolo quartiere in cui un edificio antichissimo ancora oggi, con interessanti affreschi, conserva il nome di cà di pelegrett, cioè casa dei pellegrini. Potenza del monastero nell’alto medio evo Il monastero di San Pietro al Monte, a partire dal IX secolo con l’avvento di Lotario e degli abati franchi, aveva indubbiamente sostituito le funzioni di controllo militare, politico, economico ed amministrativo sino allora svolto dall’autorità laica. Mentre nei dintorni si rafforzavano le pievi, con un controllo religioso-amministrativo che faceva capo all’arcivescovo di Milano, l’abbazia manteneva fieramente la sua alleanza con l’impero e costituirà un baluardo economico, politico e militare fastidioso per il progressivo insorgere dell’insofferenza comunale. Dal punto di vista economico, senza dubbio il monastero aveva aumentato ed ingrandito i suoi possedimenti anche lontani dal territorio del monastero stesso, a partire dai laghi di Annone e Pusiano e dall’acquisizione dei beni e del monastero di Albenga. Buona parte dei documenti relativi a questo periodo sono, infatti, legate a transazioni di fondi. Tuttavia, il momento storico determinava un motivo di arricchimento, perlomeno artistico, del monastero civatese. Nonostante infatti l’opinione comune che alla presa del potere imperiale da parte di Carlo Magno le invasioni barbariche in Europa si fossero esaurite, gli Ungari continuarono ad operare indisturbati le loro incursioni seminando distruzioni, violenze, privazioni, devastazioni e saccheggi sino al 960. Due scorrerie, nel nord d’Italia, avvenute nell’899 e 924, avevano portato al feroce saccheggio di Mantova e della regale Pavia. La grande e temuta Milano e la stessa Monza non subirono violenze, ma i centri dei dintorni pagavano a caro prezzo la loro vulnerabilità. Anche le abbazie coi loro territori, tesori e beni, erano facilmente preda dell’irruente forza devastatrice. Per anni gli edifici anneriti dal fumo e squassati devono avere testimoniato della precarietà della vita suggerendo un ritorno alla paura ed alla barbarie, risuscitando quel senso di precarietà che già per secoli aveva accompagnato l’esistenza delle popolazioni italiche. Ancora nel 947 l’invasione si spingeva, attraverso l’antico ducato di Spoleto sino a Lucera ed alle porte di Benevento. Ma anche il resto d’Europa non stava meglio: fu presa Lione, fu attaccata Parigi. Ed i monasteri di Costanza e Reichenau, la stessa San Gallo erano investiti dalla furia devastatrice attorno al 960. Questi anni oscuri assistevano allo scambio vicendevole di ospitalità per le comunità monacali più colpite. Esse si rifugiavano nei monasteri più sicuri e protetti, i monasterifortezza, favorendo il riallacciarsi di volta in volta di legami intellettuali ed il trasferirsi di conoscenze ed esperienze culturali che in epoche passate già erano tanto vivaci e proficue. In definitiva le incursioni unne favorivano il diffondersi ed il confrontarsi di nuove idee ed esperienze in campo culturale, ma pure artistico, smuovevano definitivamente il ristagno delle piccole comunità in sé ricche di riflessione e percezione. Occorre aggiungere qualche ulteriore osservazione. Infatti, alcuni critici (Marcora) ritengono di poter collocare nel periodo alto medioevale non solo la ricostruzione del IX secolo di San Pietro al Monte, ad opera dell’abate Leodegario e del maestro Hildemaro, ma che lo stesso monastero a valle di San Calocero sia da assegnarsi, come prima costruzione a questo secolo. A sostegno di ciò portano l’affermazione che le spoglie di 12 San Calocero non fossero state traslate sul Monte, ma direttamente nel nuovo monastero a valle. Ciò è dovuto ad una interpretazione di alcuni passi della Expositio Regulae di Hildemaro, soprattutto là dove si fa riferimento all’accoglienza di re, vescovi e funzionari regi presso il monastero. Secondo Marcora sarebbe stato impossibile ospitare tali personaggi in un ambiente tanto angusto ed inadatto come San Pietro al Monte. In effetti bisognerebbe invece tener conto non solo che la revisione di Hildemaro non poteva riferirsi al solo monastero montano, ma a tutti i monasteri consociati che erano già monasteri ben più grandi, ma che gli stessi due abati franchi del tempo erano stati inviati a San Pietro al Monte con l’incarico di ricostruire fisicamente lo stesso monastero! Questo è dunque un ulteriore problema, non privo di contraddizioni, che si inserisce nella discussione sul tempo e sulla struttura della ricostruzione di San Pietro al Monte! Sta di fatto che i due monaci-abati erano stati inviati da Ramperto vescovo di Brescia e “tutore” del monastero di san Faustino e Jovita, che all’845-865 si fa risalire la certificazione dell’appartenenza del monastero montano ai monasteri tedeschi, come testimonia il Liber confraternitates fabarienses, assieme a San Gallo, Costanza, Disentis ed i preti di Biasca, tutti in territorio tedesco! Di fatto resta certificata la composizione dell’Expositio Regulae da parte di Hildemaro, che già nell’821 risultava monaco a Corbie, dove era già conosciuto per la composizione di varie opere, insieme a Leodegario e Wala. A lui si riconducono ormai anche le versioni che si attribuivano a Paolo Diacono ed al vescovo Basilio. Inoltre, la prima apparizione del riferimento a San Calocero risale solo al 1018, in un documento di transazione notarile con l’abate Andrea. Poi ritorna nell’oblio. Possibile che un monastero, che doveva aver ormai da un secolo grandezza e fama, derivatagli dalla reliquia di San Calocero, fosse passato sotto silenzio in ogni riferimento pubblico? E’ pur vero che l’unico documento precedente è del 927, ma perché comunque prevale e prevarrà sempre il riferimento al monastero di San Pietro? I documenti successivi sono del 1162 ( il famoso diploma di Federco I Barbarossa!), del 1230-37-44-46-52-57-81. Interessante quest’ultimo, perché testimonia la “dichiarazione del sindaco e del procuratore degli abitanti di Civate di conservarsi vassalli del monastero e pronti a ricevere dall’abate i pesi e le misure da utilizzarsi sul territorio”! Ciò testimonia come vi sia stata in quel periodo qualche discussione sulla autorevolezza del potere dell’abate o era una semplice atto d’uso e consuetudine? Occorre comunque prima fare qualche altra considerazione. 3. Il secondo millennio L’alleanza con l’impero La ripresa alla vita intellettuale dell’Europa non poteva così tardare molto, incrociandosi col fiorire del nuovo millennio cristiano. Le città libere dell’Hansa del nord ed i comuni della cerchia milanese scalpitavano sempre più sotto il morso imperiale germanico. Momenti di grandissimo entusiasmo di fronte al futuro salutavano il secolo XI e segnavano una ripresa di vita collettiva, sempre più tesa alla ricerca della bellezza e della conoscenza come doni della grandezza divina. E se dei primi decenni rimangono per il monastero civatese solo documenti di tipo giuridico, senza alcun cenno alla vita monastica che si doveva invece certo svolgere nello stesso e degli avvenimenti storici e politici ad esso legati, uno squarcio sulle vicende dell’abbazia si apre negli anni immediatamente successivi. L’incontro, sul territorio milanese, della chiesa dei pàtari, nata dalla spiritualità profonda del popolo più umile, con la realtà monastica evidenzia il contrasto con la chiesa ufficiale milanese e le sue vicende come reazione alla simonia ed al nicolaismo imperanti già sotto la protezione di Guido da Velate, arcivescovo. Anselmo da Baggio, futuro papa Alessandro II, e Landolfo Cotta si posero a capo del movimento in cui militavano Corrado 13 II, figlio di Enrico IV re d’Italia, a sua volta re di Germania e duca di Borgogna, con Arnolfo III, che diventò vescovo di Milano dopo la morte di Anselmo III nel 1093. Le vicende di questo periodo sono ancora in parte oscure e comunque molto ingarbugliate nel loro susseguirsi. Comunque l’elezione affretta di Arnolfo III fu contestata e contrastata violentemente, tanto da essere approvata dal papa solo nel 1095, con la unzione data dai vescovi Dimone di Salisburgo, Ulderico di Passau e Gabardo di Costanza, elettori tedeschi ed estranei alla realtà della chiesa milanese che sosteneva il papato. Ed in quei frangenti l’opposizione nella città fu tale e così pericolosa, che Arnolfo, nonostante la protezione di Anselmo da Baggio, dovette rifugiarsi nell’abbazia di Civate. Qui rimase per un certo periodo, prima del perdono papale e del suo riconoscimento ufficiale anche da Roma. Il 1097 è anno della sua morte e sepoltura proprio nell’abbazia sulla montagna. Ed è così che, mentre in conseguenza della rinascita del monachesimo benedettino su ispirazione del centro transalpino di Cluny ispirato da San Bruno e San Maiolo e sostenuto dall’intrepido e longevo abate Ugo, nascevano sul territorio altri grandi monasteri come Pontida, San Pietro in Vallate, san Benedetto in Val Perlana, si terminavano in Civate le edificazioni del monastero di San Calocero a valle, l’oratorio di San Benedetto e le decorazioni plastiche e pittoriche in San Pietro al Monte. E’ certo questo il momento più fulgido dell’abbazia. A conferma di ciò, si ascrive al XII secolo la realizzazione del Messale di Civate di rito monastico, uscito dallo scriptorium civatese insieme al Manuale d’uso che risulta però di rito ambrosiano. Due altri codici sono presenti nella Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz di Berlino. Certo però, il diploma più importante è quello che, datato 1162, fa riconoscere allo stesso Federico I, proprio il Barbarossa, innanzitutto l’amicizia dell’abate Algiso a sostegno della sua lotta contro i comuni, quindi l’elenco dei numerosissimi possedimenti del monastero. Il Diploma imperiale del 1162 ricorda l’alleanza del monastero con il Barbarossa nella lotta contro i comuni e quindi la sua avversità non solo al vescovo milanese, ma anche al papa, che accomunati nell’esilio in Francia, già quell’anno decidono che il monastero civatese passerà sotto il controllo del vescovo di Milano. Cosa che avvenne nel 1176 con la sconfitta imperiale a Legnano! E non ha forse causato proprio quest’ultima pericolosa alleanza la distruzione delle parti abitative del monastero stesso sulla montagna, dopo la sconfitta dell’imperatore a Legnano da parte dei comuni congiurati? Civate ghibellina A conferma della vicinanza del monastero con il partito imperiale, ancora nel XIII secolo e più esattamente nel 1254, il monastero sarà rifugio di un altro arcivescovo di Milano, Leone da Perego (1241-1257), che fuggiva dalla furia dei popolari, a capo dei quali si trova Martino Torriani. Non è che l’inizio di scontri feroci, in cui rientra la presenza dell’esercito dell’abate di Civate, con la partecipazione dell’arcivescovo Ottone Visconti, che nel 1277, in un inverno freddissimo conquista finalmente Lecco e Civate. E che l’abate di Civate continuasse a sostenere lo spirito ghibellino dell’alta Martesana lo testimonia il fatto che, secondo l’abate Longoni, i Torriani dovettero radere al suolo, quasi un secolo, dopo il Castello di Civate, dal momento che era loro impossibile controllarlo. Le lunghe mani del capoluogo lombardo si facevano dunque sempre più presenti nel monastero, fino a determinare la fine dello stesso. Divenne abate di Civate Giovanni Visconti, che pare avesse rivendicato e documentato i diritti dell’abbazia contro il cugino Bernabò, signore di Milano. Mal gliene incolse, dal momento che Bernabò Visconti lo fece trucidare, tagliare a pezzi e bruciare perché non si potesse nemmeno seppellire! Intanto però essere abate di Civate era un titolo al quale non corrispondeva più un ufficio effettivo. Il XIV secolo aveva portato la crisi del monachesimo benedettino in tutta Europa. Le abbazie venivano giudicati solo fonti di rendita. Le opportunità economiche che si 14 sviluppavano nelle diverse regioni allontanavano i giovani dalla vita religiosa in genere ed esse erano prese di mira solo dalle famiglie nobili che miravano a mettere le mani sulle rendite del patrimonio, prebende e benefici. Così per esse guerre ed affari, oltre all’amministrazione dei beni erano più importanti della vita spirituale e meno monaci v’erano, meno erano le spese per la mensa abbaziale. Già nel 1313 erano nate congregazioni nuove che cercavano d’allontanarsi da questi cattivi esempi: nascevano anche i monaci Olivetani. Ed a Civate il monastero andava svuotandosi: nel 1384 v’erano ormai solo due religiosi, l’abate Giovanni Bossi ed il monaco Filippo Visconti. L’abate, tra l’altro, abitava a Monza e morì nel 1411. A lui successe Galdino Vicomercati, che cercò in ogni modo di difendere il più possibile i beni rimasti, come ricorderà in una lapide a lui dedicata e posta nella cappella di Sant Agostino, poi dell’Addolorata, l’abate Trivulzio nel 1517. Nel 1450 era seguito l’abate Trafano Canali, già priore del monasteri di Figina, che riesce a sistemare le liti con la stessa famiglia dei Canali. Nel 1454 Gabriele del Maino lo segue, ma avrà solo il merito di essere l’ultimo abate benedettino del monastero. Viveva però nella villa di famiglia di Bruzzano, che ancora esiste, godendosi i beni dell’abbazia. Finì per ridursi il monastero, nel 1470, ad un solo monaco amanuense, di cui rimane in un archivio di monache la testimonianza che:”… questo monaco lasciò scritti per il monastero di Lambrugo salterii et altre belle cose: veniva da Chivate a confessar le monache et si ritiene che fosse santo”. Con lui terminò anche il monastero benedettino. Abati commendatari Anche i beni del monastero si disperdevano. Il Card. Ascanio Sforza, primo abate commendatario dal 1480 circa, che fece restaurare la basilica di San Calocero nel 1500 dotandola della volta odierna e del porticato d’ingresso alla chiesa, concedeva alcuni possedimenti, tra cui “ una casa de la mia abatia de Chiva” alle monache del Gesù e morendo a Roma lo stesso anno forse avvelenato. Lo stesso Giulio II, il papa guerriero, nel 1506 passò la commenda al Card. Antonio Trivulzio, vescovo di Como dal 1487, come ricorda una lapide sotto il chiostro, commenda che egli lasciò in morte l’abbazia al nipote Filippo Trivulzio. Fu lui a cercare le reliquie sia in San Pietro che in San Calocero e alla fine dell’800 ancora un suo stemma era presente in San Pietro. La commenda, di mano in mano, arrivò dal Cardinale Agostino Trivulzio a Francesco Sfondrati che rinunciava a favore del giovane nipote chierico, Nicolò Sfondrati nel 1548, poi vescovo di Cremona e quindi papa Gregorio XIV. Manteneva a Civate 7 sacerdoti di cui 5 residenti in San Calocero. Fu lui che stipulò una convenzione nel 1556 con i monaci Olivetani, che si impegnavano a mantenere a Civate sei religiosi sacerdoti con l’obbligo della salmodia diurna e notturna, con la messa festiva e quaresimale a San Pietro. La commenda passata nel 1580 al chierico ventenne Paolo Camillo Sfondrati, vide il raddoppio dei monaci con la riparazione di San Pietro e del campanile annesso. L’incarico si intrecciò presto con la nascita della parrocchia che, tracciata nel 1575 si definirà come stabilita dieci anni dopo. Intanto nel 1594 risultavano inviati a San Pietro dei frati romiti, non meglio precisati, che vi rimasero per quattro anni con difficoltà e litigando coi monaci di San Calocero finchè se ne andarono. Dal 1608 i monaci lasciarono la custodia dell’abbazia montana in mano all’agente del commendatario, un prete milanese, Agostino Palazzi, che nel 1611 vi fu assassinato a 102 anni, pare per rubargli il cavallo. E’ anche il periodo delle visite pastorali che iniziano con il cardinale Carlo Borromeo (1571, 1584) e proseguono cugino Federico Borromeo (1595, 1604, 1608, 1615). Nel 1612 la commenda era passata dal cardinale Paolo Camillo Sfondrati a Scipione Caffarelli, detto cardinale Borghese e nipote del Papa Paolo V, generoso nei confronti degli Olivetani fino alla morte avvenuta nel 1633. Filippo Maria Pirovano, pure ricordato da una lapide nel chiostro e che gli succedette, si ricorda per l’omicidio, pare da lui ordinato, 15 del bargello di campagna del governatore spagnolo di Milano. Per questo fu privato di commenda e benefici a vantaggio del cardinale Flavio Chigi, dopo varie vicissitudini e contrapposizioni. Nel 1693 la commenda passa a mons. Benedetto Erba-Odescalchi, poi arcivescovo di Milano nel 1713. A lui si deve la soluzione della diatriba fra monaci e parroco, con la ricostruzione della chiesa parrocchiale nel 1735 (lapide murata in chiesa parrocchiale a ricordo). Seguirono mons. Mario Millini nel 1741, il cardinale Alberico Archinti nel 1756, nel 1757 crollò il campanile di San Pietro. Tra i resti furono rinvenute una quantità di reliquie di ossa. L’anno successivo era commendatario mons. Vitaliano Borromeo, nunzio della Santa Sede a Firenze. Durante la sua commenda, nel 1759, si compì la visita pastorale del cardinale Giuseppe Pozzobonelli , che per la prima volta parla dell’ostensorio con le chiavi di San Pietro. Seguì nel 1764 mons. Alberico Lucini, nunzio apostilico a Madrid e quindi, nel 1768, il marchese Ignazio Busca, poi cardinale ai tempi di Pio VI, finchè il 29 giugno 1798 un decreto della Repubblica Cisalpina dichiarava soppresso il Monastero di Civate, con la confisca dei beni, stimati a 9000 scudi e le tenute di Beverate, Consonno, Tremolada, a vantaggio della stessa Repubblica che furono venduti, con tutte le proprietà a vilissimo prezzo. Gli Olivetani erano rimasti un po’ stancamente a Civate fino alla soppressione dell’ordine, decretata dagli editti napoleonici, nel 1798. Allora il monastero a valle di San Calocero e l’oratorio di San Benedetto furono venduti a privati, la basilica di San Pietro al Monte assegnata al municipio. Non sapendo che farsene, quest’ultimo la donò alla parrocchia cui ancora appartiene. Ultimi secoli San Calocero sembrò poter essere trasformato in ospedale per le pievi di Oggiono, Missaglia e Incino, ma non se ne fece nulla. Passò da diversi proprietari: Zuccoli, Enrico Demeyster, Emilio Nava. All’inizio del ‘900 venne abbattuto dall’allora sindaco Nava, proprietario, senza ttendere i pareri della Commissione dei beni e monumenti di Como. San Pietro andava in rovina, come testimonia il cardinal Ferrari nel 1897, nella sua visita pastorale, fino alla riconsacrazione del 1937 ad opera del cardinal Ildefonso Schuster, dopo che dall’inizio degli anni ’30 mons. Polvara provvedeva la restauro primo di San Pietro, mentre mons. Edoardo Gilardi restaurava San Calocero e l’annesso monastero trasformandolo nella Casa del Cieco. I lavori di restauro complessivi riprenderanno nel 1975 con don Vincenzo Gatti e gli amici di San Pietro. Ulteriori informazioni: presenti sul sito internet: xoomer.alice.it/carlo315 Bibliografia: reperibile sul testo UN MONASTERO SULLA MONTAGNA di Carlo Castagna o sul sito www.amicidisanpietro.it 16