Come interrogare l`Islam - Provincia di Pesaro e Urbino

Come interrogare l’Islam?
Ipotesi di approccio al credo islamico
E’ finanche banale affermare che il mondo contemporaneo e in particolare
l’occidente europeo devono affrontare la questione del dialogo con l’universo
musulmano in maniera decisa e lasciando da parte intenti apologetici. Benché, sin
dalla sua nascita, l’islam abbia in modi diversi dialogato con la cristianità e con
l’ebraismo, in realtà esso appare ancora come una galassia sconosciuta e, per molti,
minacciosa. Questo atteggiamento di sospetto a priori permane ancor oggi, anzi, oggi
più che mai appare rilanciato dallo scenario politico internazionale, interpretato da
molti commentatori dell’informazione spesso “a digiuno” della complessità
dell’Islam stesso e quindi imprecisi, frettolosi e superficiali. Chi lavora nelle scuole e
tenta un lavoro a livello interculturale e/o interreligioso conosce di persona le
resistenze pregiudiziali che gli studenti hanno nei confronti dell’Islam, della sua
densità concettuale, teologica, filosofica che, ancorché non vada necessariamente
condivisa, dovrebbe essere per lo meno riconosciuta. L’intento della mia relazione,
dunque, sarà quello di individuare dei percorsi di approccio alla diversità religiosa,
sociale, etica e politica dell’Islam, tenendo a mente che i destinatari ultimi di tali
percorsi sono gli studenti stessi. L’interrogativo di fondo, dunque, è proprio: “come
interrogare l’Islam?”, e, insieme, occorrerebbe aggiungere: “come lasciarsi
interrogare dell’Islam?”. Si tratta dunque di individuare dei sentieri che si inoltrino
nella complessità del mondo islamico e che, da un lato, aiutino a fare chiarezza sul
modo in cui tale mondo si rappresenta, si pensa, vive e sperimenta la sua esperienza
religiosa, mentre, dall’altro, mantengano l’opacità della visuale, nella convinzione di
fondo che l’avventura della comprensione non è mai interamente data, non si pone
mai totalmente alla luce. Bisogna necessariamente tenere a mente, come passe
partout metodologico, la lezione dell’antropologo Geertz, il quale afferma che il
mondo è troppo complesso perché si possa saltare immediatamente alle conclusioni.
Ritengo che questo sia il primo indispensabile obiettivo da raggiungere, quando si
voglia in generale, ma soprattutto nella scuola, avviare un confronto autentico con la
diversità culturale. In aiuto, poi, dovrebbe venire anche il metodo fenomenologico,
per lo meno in una prima fase, per riuscire a comprendere dall’interno e per mezzo
dei suoi linguaggi e delle sue immagini, l’Islam stesso. Kristensen, il grande
fenomenologo olandese delle religioni, affermava, infatti che “il credente ha sempre
ragione”, nel senso che è sempre ravvisabile una inner logic, una logica interna ai
mondi che si vanno a studiare e ad incontrare. Il metodo fenomenologico ci aiuta a
individuare, prima, e a tentare di neutralizzare, tutte quelle precomprensioni che ci
impediscono di comprendere un mondo dal suo interno. Cercare di capire per mezzo
dei linguaggi propri di ciascuna diversità è l’unico modo per non sovrapporsi sempre
all’altro, per riuscire a dare ospitalità all’altro come sosteneva il grande Lévinas.
Anche lo stesso Tommaso, che nella Summa contra gentiles, non risparmia dure
critiche ai “maomettani”, afferma nello stesso scritto che è difficile confutare “i
singoli errori” di quelli che lui chiama i maomettani, per due motivi: in primo luogo
perché non si conosce in maniera sufficientemente approfondita la teologia islamica e
poi perché i punti di riferimento non sono identici. In modo particolare, dice
Tommaso, non viene condivisa l’autorità della Scrittura. E, con una modernità
sconcertante, Tommaso continua che la disputa deve essere spostata sul terreno della
discussione razionale, quindi su un terreno neutro, lontano dalla genericità a volte
greve dei polemisti cristiani medievali, che liquidavano l’islam sulla base di
affermazioni apologetiche. In qualche modo Tommaso, sembra invitare alla
conoscenza approfondita e al dibattito serrato, razionale, metodologicamente corretto.
Ma, per tornare al metodo fenomenologico, la pura sospensione del giudizio,
ovviamente, è praticamente inapplicabile a livello assoluto, soprattutto in un
ambiente scolastico, che necessita anche di dibatti critici. Ma potrebbe rappresentare
un primo approccio, attraverso il quale lo studente dovrebbe riconoscere che, al di là
dei luoghi comuni, poco o nulla sa del mondo islamico, a partire dal significato stesso
di Islam e musulmano. A fianco del metodo fenomenologico, occorrerebbe utilizzare
anche quello storico-comparativistico, che permette di scivolare nella diversità
partendo dalla propria visione culturale e religiosa, e individuando nella similarità di
certi concetti il varco della differenza. Attraverso tale metodologia, infatti, si può
accedere alle diversità tramite le analogie e le sfumature delle differenze irriducibili
che separano l’Islam dal giudaismo e dal cristianesimo, cecando di capire sotto quali
aspetti l’Islam è nuovo, e sotto quali altri si propone come giusto completamento di
tradizioni religiose precedenti. Seguendo tale percorso, dunque, si potranno
comparare i testi sacri, i profeti, i fondatori, le modalità etiche cercando di verificarne
la continuità col passato e, nel contempo, la diversità sostanziale che propongono.
Mettere a confronto la Bibbia col Corano, infatti, ci aiuta a comprendere le vicinanze
stilistiche, narrative e ideologiche dei due testi, ma anche il profondo divario che li
separa agli occhi dei fedeli delle due religioni, aprendo anche il problema della
rivelazione, di cosa sia rivelazione nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam.
Partendo dalle contiguità, quindi, si arriva alle specificità, trovando insieme
consonanze e distonie.
Va operato, inoltre, un ultimo chiarimento: anche l’islam, come molte altre grendi
religioni, si divide in famiglie e in sette che, pur nell’unitarietà della credenza nei
dogmi fondamentali, differiscono tra loro per interpretazione, applicazione della
legge e rituale. In questa dissertazione, dunque, si farà riferimento solo ad una di
queste famiglie, quella sunnita, che è maggioritaria e rappresenta circa il 90% dei
musulmani.
Dopo questa premessa, certamente didascalica ma necessaria per orientarsi,
occorre scendere in campo e proporre alcuni “approcci” al mondo musulamano, che
poi potrebbero cristallizzarsi in moduli in grado di coinvolgere gli insegnanti di
storia, geografia, lettere, filosofia. I temi proponibili per avvicinare la galassia islam
allo stato nascente, fra mille altri ovviamente, mi sembrano i seguenti:
1.
Tema storico-scritturale: Abramo come padre dei credenti.
2.
Tema teologico: la figura di Muhammad
3.
Tema teologico: il monoteismo puro proposto dal Profeta
4.
Tema teologico: la specificità della rivelazione coranica
5.
Temi etici: i doveri del musulmano, la shariah.
6.
Prospettiva della mistica: il Sufismo, una pagina sconosciuta della religione
islamica.
Mentre dei primi quattro si cercherà di fornire una rapida presentazione,
dell’ultimo si fornirà solo una rassegna bibliografica, data l’impossibilità di
affrontare con compiutezza nel breve tempo assegnatomi un settore del mondo
religioso islamico tanto complesso, delicato e, per certi versi a sé, come quello
della mistica sufi.
Primo tema
Abramo come padre dei credenti.
Il grande patriarca e progenitore della stirpe di Maometto è individuato in
Abramo. L’islam, infatti, si riconosce nel ramo ismaelitico della discendenza di
Abramo, diversamente dall’asse ebraico-cristiano che si riconnette al figlio
legittimo Isacco e, conseguentemente, alla figura di Giacobbe. Quello che nella
Genesi appare come un racconto marginale, dunque, diviene assolutamente
centrale nel mondo islamico primitivo.
L’episodio a cui si fa riferimento è narrato in Genesi 21, 8-20: Sara, diventata
madre in tarda età, chiede ad Abramo di scacciare Agar col bambino, Ismaele, che
il patriarca aveva avuto da lei, per timore che il figlio illegittimo del marito possa
reclamare parte dell’eredità paterna a danno di Isacco. Nella mentalità
musulmana, l’islam nasce da questo episodio, che è una sorta di microesodo, una
sorta di viaggio compiuto da madre e figlio verso un destino segnato e voluto da
Dio, da Allah. Abramo così scaccia la schiava e il figlio, accettando di sottostare
alla richiesta decisamente barbara e crudele della moglie, ma solo dopo aver
ricevuto da Dio una promessa, che anche la Genesi riporta: “Ma Dio disse ad
Abramo: “Non ti dispiaccia per questo, per il fanciullo e per la tua schiava: ascolta
la parola di Sara, ascolta la sua voce, perché attraverso Isacco da te prenderà nome
una stirpe. Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della tua
schiava, perché è tua prole”. Due stirpi, due nazioni, entrambe discendenza di
Abramo e che la Genesi non descrive in contrapposizione apparente. E alla
schiava Agar, disperata nel deserto perché priva di acqua, Dio indicherà una fonte
e confermerà la promessa: “Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la
voce del fanciullo là dove si trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano,
perché io ne farò una grande nazione”.
“La storia di Agar e Ismaele – come afferma Carlo Saccone - viene ripresa e
rielaborata dalla tradizione musulmana che ci narra del vagabondaggio dei due
alla ricerca di acqua e conforto nei pressi delle colline di Marwa e Safà, vicino alla
Mecca”.
La migrazione nel deserto culmina nella fondazione della Ka’ba, ove, accanto a
Ismaele ricompare inaspettatamente Abramo. L’episodio è narrato nella seconda
Sura del Corano, ai versetti 125-128: la Ka’ba è un luogo di “rifugio e di riunione
per gli uomini”, edificata dal padre abramo e da suo figlio Ismaele su preciso
decreto divino. Il luogo diviene per l’Islam il centro del mondo e la pietra nera che
nella Ka’ba è conservata il segno visibile dell’onnipotenza divina e, insieme, della
misericordia di Allah che non dimentica gli uomini. E proprio nella Sura in
questione viene fondato il quinto pilastro dell’edificio cultuale dell’islam, quello
del Pellegrinaggio alla Mecca. Il Signore, infatti, si rivolge con queste parole ad
Abramo e Ad Isacco nel Corano II, 125: “Purificate la mia Casa per coloro che
attorno vi correranno venerabondi, vi pregheranno devoti, vi s’inchineranno e si
prostreranno reverenti”. Abramo, quindi, è il primo muslim, il modello di ogni
sottomissione a Dio, il perfetto credente, che fonda un assoluto culto monoteistico,
colui che risponde all’invito di Allah del v. 131: “Datti a me”, con un’espressione
di totale adesione: “Ecco tutto a te mi son dato, al Signore del creato”, con parole
che ricordano molto da vicino le parole del re di Salem, Melchisedek nel capitolo
14 della Genesi, come ricorda Cherubino Maria Guzzetti.
La nazione di Ismaele è dunque anche la nazione di Abramo esattamente come
quella di Isacco, e Dio, nella sua infinita potenza, si è compiaciuto nel creare un
grande popolo da un fanciullo diseredato, scacciato ingiustamente, scegliendo un
ultimo, un perdente, un reietto. Questa è la comprensione dell’episodio che ha il
credente musulmano, su cui si può anche pensare una convergenza a grande
livello delle tre religioni abramitiche, secondo Louis Massignon, che per primo a
coniato la formula : “dialogo tra le religioni d’Abramo” che tanta fortuna ha avuto
negli studi teologici e religionistici. Non bisogna tacere, tuttavia, che sull’Islam
nascente ha gravato subito come un macigno l’interpretazione del passo paolino di
Galati 4, 24-26, in cui san Paolo, certamente in chiave allegorica, sconfessa la
discendenza di Agar, simbolo dell’antica alleanza che genera solo schiavi, ed
esalta quella di Sara, madre di libertà e figura della Gerusalemme celeste, quindi
della nuova alleanza.
Negli atteggiamenti dei dotti, filosofi e teologici cristiani dei primi secoli dell’era
islamica, tuttavia, vi sono degli elementi sorprendenti, benché la condanna di
apostasia nei confronti di Maometto sia univoca; si tratta di sfumature di pensiero
che possono aiutare a comprendere meglio il mondo islamico.
Uno dei primi testi che confutano le dottrine di Muhammad è quello di Giovanni
Damasceno. Nel suo Liber de haeresibus (tradotto in italiano a cura di G. Rizzi,
col titolo La centesima eresia) il Damasceno rivela una profonda conoscenza del
mondo islamico
Secondo tema storico-teologico
La figura di Muhammad
Tutto ciò che sappiamo su Muhammad è legato alle fonti craniche, agli hadit, cioè
alla tradizione (il complesso dei detti e dei fatti attribuiti a Maometto da una
esplicitata catena di trasmissione), e, in particolare alla Sira rasul Allah (vita
dell’inviato di Dio). E’ molto, ma anche poco, perché ci appare interamente
materiale viziato da una certa apologetica. Paradossalmente, il testo più integro,
sotto il profilo della comprensione de personaggio storico Muhammad, appare il
Corano, in cui Maometto appare come un uomo normale con tutto il suo corredo
di virtù e debolezze, peccatore e persino errante. La Tradizione, invece, ha
completamente rivisitato il personaggio del Profeta, rendendolo quasi leggendario,
e presentandolo come uomo impeccabile, senza macchia. La pietà popolare e gli
esegeti hanno visto in Maometto il dispensatore di miracoli, l’intercessore
universale, logos esistente ab aeterno, sostanza luminosa preesistente e
sopravvivente al Maometto storico.
Ma al fenomenologo della religione, diversamente dallo storico, interessa più il
Maometto della Tradizione e dell’esperienza religiosa dei musulmani, che quello
della storia. Da questo punto di vista, il Profeta è percepito dal credente dei primi
secoli della storia islamica, ma, in qualche modo, anche da quello odierno, come
colui che fonda una nuova religione e insieme un nuovo stato. Questo è un dato
fondamentale, per dirla ancora con Saccone, Perché “l’aspirazione a vivere col
cuore la propria fede non è mai disgiunta nel pio musulmano dall’aspirazione più
o meno palese a costruire qui ed ora la “città di Dio”.
Un secondo aspetto da sottolineare è il carattere “intermedio” della riforma
religiosa di Maometto: pur pervenendo ad una concezione monoteistica pura e
universalistica, il Profeta non dimentica di conciliarlo con il particolarsi tribale e
l’orgoglio nazionale, eleggendo la Ka’ba come centro di culto assoluto. Pur
essendo uomo di fede, inoltre, il Profeta non rinuncia mai alla sua realizzazione
terrena. Egli, infatti fu uomo di preghiera, ma non propriamente un asceta, fu
profeta e insieme “uomo di mondo”, anche se la mondanità viene sempre posta in
secondo piano rispetto alla scelta religiosa come afferma lui stesso di sé in un
celebre hadit: “Nella mia vita ho amato le donne e i profumi, ma sopra ogni altra
cosa ho amato la preghiera”. La sua, dunque, è una via di mezzo tra il rigore della
legge mosaica e l’amore illimitato predicato da Gesù, una via che si ritiene il
giusto equilibrio tra la legge e la misericordia, tra l’ira e l’amore divini.
Dal punto di vista storico, invece, possiamo affermare ben poco con certezza. Le
uniche date certe sono quelle dell’egira, della migrazione volontaria verso
Medina, avvenuta nel 622 e che dà inizio al calendario islamico, e quella della
morte, avvenuta l’8 giugno del 632 (il 13 del mese di rabi’), ventidue anni dopo la
prima rivelazione, avvenuta, secondo la tradizione, nel 610.. Tramite calcoli
deduttivi alquanto complessi, poi, i dottori dell’islam hanno stabilito che la nascita
del Profeta vada collocata tra il 570 e il 572 dell’era volgare. Maxime Rodinson ha
tentato di approntare un ritratto psicologico dell’uomo Muhammad, mettendone in
evidenza la fine intelligenza, la notevole abilità politica e la raffinata capacità di
comprendere uomini e situazioni, elaborando strategie di intervento anche a lungo
periodo. La sua predicazione rivela una personalità che, all’inizio, risulta pervasa
da un ardente fuoco sacro, composto da un misto di indignazione ed entusiasmo
che si riversa nella prima poesia cranica piena di veemenza; mentre, in un secondo
tempo, attiva un progetto politico legislativo molto complesso, per il quale
vengono abbandonati i trasporti e gli slanci poetici, in favore di una prosa asciutta,
organizzata, quasi arida per eccesso di normatività. Muhammad, a differenza di
molti fondatori di religioni, viene a contatto ben presto con le seduzioni del potere,
ma, per giudicare certi suoi atti che possono apparire ai nostri occhi efferati, è
necessario tenere presente le usanze del suo popolo, che lui tenta di trasformare e
di emancipare dalla brutalità pura. Ciononostante, nella maggior parte dei casi egli
si dimostrò clemente, indulgente e di larghe vedute, come al suo ingresso nella
Mecca, dopo l’esilio medinese, quando in nome di Allah obbliga al perdono e
intima ai suoi di dimenticare le offese per costituire la nazione di Allah.
Mentre nel primo periodo il suo edificio religioso appare fortemente influenzato
dall’ebraismo e, per certi versi, dal cristianesimo, conosciuti nei suoi viaggi
commerciali in Siria, nel secondo periodo Muhammad si autopercepisce come un
riformatore profondo di tali tradizioni, ree di aver travisato l’insegnamento
monoteistico puro del padre Abramo e, simbolicamente rifiutate con la
modificazione della direzione dell’orante, che non si rivolge più verso
Gerusalemme, ma verso La Mecca. Gli ebrei vennero accusati di aver ucciso il
grande profeta Gesù (anche se, secondo la Tradizione, Dio avrebbe sostituito il
corpo di Gesù sulla croce con un simulacro per non farlo soffrire) e di aver
calunniato Maria, di cui si riconosce la verginità, simbolo dell’eccezionalità della
figura del profeta Gesù, come l’analfabetismo lo è dell’eccezionalità di
Muhhamad (Nasr). I cristiani, invece, vengono accusati di idolatria per il loro
dogma trinitario, inconcepibile secondo una logica umana e frutto di un sofisma
idolatrino e politeistico. Nel periodo medinese, dunque, il Profeta realizza l’idea
di costituire una comunità ideologica nuova, legata al passato solo attraverso il
monoteismo puro di Abramo; una comunità di verità, universalistica, aperta a
chiunque voglia aderirvi, senza discriminazioni etniche o di altro tipo, egualitaria
nel senso che non impone uno statuto diverso ai suoi membri, a seconda della
funzione religiosa assegnata. Chiunque può entrare nella grande comunità dei
servi di Allah e diventarne membro effettivo, se si converte con intenzione pura,
niyya. Bisogna però rilevare che tale disposizione generale all’accoglienza ha per
contropartita una netta chiusura nei confronti dell’esterno. Nulla impedisce di
entrare nella ummah, nella famiglia dei credenti, ma tutto converge per
scoraggiarne l’uscita: la comunità è idealmente blindata, come afferma sempre
Rodinson.
Terzo tema teologico
Il Dio unico e misericordioso
L’islam si considera rivelazione piena e ultima nella storia dell’umanità attuale e
crede che dopo di sé non seguiranno altre rivelazioni sino alla fine della storia
umana e al verificarsi degli eventi escatologici descritti nei capitolo finali del
Corano , che nell’islam è testuale parola di Dio. L’islam si considera anche
l’ultimo anello di una lunga catena di profezie risalenti ad Adamo, il quale non
fu soltanto il primo degli uomini, ma anche il primo dei profeti. Non c’è che
un’unica religione, quella dell’unità divina che l’islam è giunto a dichiarare nella
sua forma definitiva.
Il messaggio islamico è essenzialmente l’accettazione di Dio come Uno e la
sottomissione, l’abbandono a lui, da cui deriva la pace.
ISLAM significa abbandono alla volontà dell’unico Dio detto Allah e
musulmano (muslim) è colui che pratica questo abbandono.
Per diventare musulmani basta riconoscere al cospetto di due testimoni che
“NON C’E’ DIO SE NON DIO” e che “MAOMETTO E’ IL MESSAGGERO
DI DIO”. Queste due dichiarazioni sono la Shahadah (testimonianza) islamica e
sono l’alfa e l’omega del messaggio religioso islamico: siamo in presenza di due
asserzioni, di due certezze, di due piani di realtà: l’Assoluto e il relativo, la
Causa e l’effetto, Dio e il mondo.
La prima certezza ci dice che solo Dio è, la seconda che ogni cosa dipende da
Dio.
Realizzare la prima Shahadah significa prima di tutto divenire coscienti del fatto
che Dio solo, che è principio e fine, è reale e che il mondo, pur esistendo sul
proprio piano, non è. L’uomo, ricorda il grande islamologo Bausani, non può
aspirare a nulla di per sé, non può reclamare nulla. Dio può disporre della
creazione a suo piacimento fino al paradosso di distruggerla, come un contadino,
proprietario del proprio campo potrebbe, in teoria, distruggere il proprio raccolto
senza essere penalmente perseguibile.
Realizzare la seconda Shahadah significa prima di tutto divenire pienamente
coscienti del fatto che il mondo, la manifestazione, non è altro che opera di Dio.
L’uomo, che vive per volontà di Allah, non deve fare altro che conformarsi ai
suoi dettami, esplicitati nella forma più compiuta nella rivelazione coranica.
L’islam insegna la realtà dell’assoluto e la dipendenza di ogni cosa dall’assoluto.
Di conseguenza possiamo anche dire, con SCHUON, che “l’islam è la
congiunzione tra Dio come tale e l’uomo come tale.
Dio come tale: ossia considerato non in quanto ha potuto manifestarsi in un
determinato modo in una determinata epoca, ma indipendentemente dalla storia
e in quanto è ciò che è.
L’uomo come tale: ossia considerato non in quanto decaduto e bisognoso di un
miracolo che lo salvi, ma in quanto creatura dotata di una intelligenza in grado
di concepire l’Assoluto e di una volontà in grado di scegliere ciò che vi
conduce.”
Il Corano pone continuamente l’accento sulla dottrina dell’unità e dell’unicità di
Dio.
ISLAM ribadisce in modo definitivo e categorico l’unicità di Dio e
l’inconsistenza di tutto davanti alla maestà di quell’uno.
“Di’: Egli, Iddio, è Uno.
Iddio l’eterno, l’eternamente implorato da tutti.
Egli non ha generato, né è stato generato,
e non ha uguale.” CXII, 1-4
Allah non è un dio etnico o tribale, ma il supremo principio divino: Allah non è
un nome proprio, ma il nome dell’Assoluto. Il dio assoluto islamico è chiamato
in molti modi. La pietà islamica li ha raccolti e ha stilato l’elenco dei “99 bei
nomi di Allah”, anche se i più diffusi sono arrahman (il Misericordioso) e rahim
(il Clemente)
E’ essenziale comprendere che l’Islam non è fondato su un particolare evento
storico o su un gruppo etnico, ma su una verità universale e primigenia che
perciò è sempre stata e sempre sarà..
Ecco perché, secondo il Corano, già prima della creazione del mondo Dio chiese
agli uomini
“Non sono forse il vostro Signore?”
e non fu un solo uomo, ma l’intera umanità, uomini e donne, a rispondere:
“Sì, l’attestiamo”.(7,127)
L’islam, quindi, vede se stesso come un ritorno a quella verità che si trova al di
sopra e al di là di ogni contingenza storica. Il Corano, infatti, fa riferimento ad
Abramo come muslim e hanif (colui che già nell’antichità adora un solo dio).
Anche il monoteismo di Adamo è da inserire all’interno dell’islamismo, come
religione dei primordi, che, in quanto antica, è meno chiara, meno evidente di
quella dell’islam. Il profeta stesso affermava di non aver introdotto nulla di
nuovo, bensì di aver ribadito più chiaramente la verità che è sempre stata.
L’islam è una religione inclusiva perché professa l’assoluto, che in quanto tale è
espressione di tutto, tutto contiene ed esprime.
Di Dio non si può fare alcuna raffigurazione concreta e artistica, ma nemmeno
mentale, perché ogni speculazione razionale su Dio è in qualche misura
arbitraria. L’islam, infatti, nutre sospetto verso la teologia, intesa letteralmente
come uno “studio su Dio”, come un d”discorso circa Dio”, ossia come pura
speculazione, perché, in qualche modo la considera come una scienza indebita,
presuntuosa e che nulla può offrire più che delle mere ipotesi interpretative.
Qual è dunque l’idea di Dio che emerge dal Corano? Si potrebbe rispondere a
questo quesito affermando che se, da un lato, il testo sacro islamico risulta
essere espressione di un Dio loquacissimo, che parla quasi sempre in prima
persona, dall’altro, non contiene riferimenti diretti su Dio. Allah, pur parlando
moltissimo (come si afferma nella sura XXXI, 27: “Le parole di Dio non si
esauriscono”), dunque, non dice quasi nulla di sé, mentre il suo discorso è ricco
di indicazioni su ciò che l’uomo deve compiere per vivere secondo le modalità
pensate dal Creatore.
Carlo Saccone, tuttavia, ha tentato nel suo ultimo lavoro di ricostruire il volto di
Allah per come emerge dal testo coranico e dalle riflessioni dei giuristi teologi
sanniti. Per l’islamologo italiano, Allah è innanzi tutto riconosciuto e
autodichiarantesi come persona, non assimilabile al fato o a qualche forza
cosmica: Nella sura VI, 52 e XIII, 22 si dice che ha un volto; nella XX, 39 e
nella XXIII, 27 che parla, ascolta e ha occhi; nella XXXVI, 83 che ha mani e
nella X,3 che “nella sua mano c’è la sovranità su ogni cosa” e che “sta seduto”
sul trono. I primi teologi islamici, soprattutto della scuola Karramita, fondata da
Ibn Karram, ma anche quella hanbalita, furono, sulla base di questi versetti
,decisamente “antropomorfisti” e consideravano Allah come una sorta di re
celeste Le scuole teologiche del tardo IX secolo, quali la mutazilita, la asharita e
le shafiita, più razionaliste, contestarono recisamente tale interpretazione dei
versetti riportati, che vennero definiti mutashabihat, ossia “ambigui, e optarono
per una interpretazione allegorica, per la quale la mano di Allah era da
considerarsi allegoria dell’onnipotenza divina, le orecchie e gli occhi figure
dell’onniscienza e così via. Ma a partire dal X secolo prevalse una terza linea
interpretativa che, in qualche modo si imporrà sulle altre e diverrà di riferimento
per tutta la teologia seguente, proposta già dalla scuola hanbalita, accusata di
antropomorfismo, e rilanciata da quella ashariita che ne riconobbe la validità
metodologica e abbandonò la pura speculazione razionale come metodo
teologico. Secondo questa impostazione, bisogna credere che Dio abbia
realmente mani e occhi, che sieda realmente sul trono e così via, ma non è lecito
chiedersi come siano queste mani e questi occhi, come sia fatto il trono di Dio: Il
principio metodologico sottostante è quello della sottomissione pura, per cui
l’uomo di fede sincera deve contentarsi di quanto dice il Corano sulla fisionomia
di Dio e trattenere le immaginazioni della ragione e, soprattutto, contenere la sua
volontà inquisitoria, affermando che, se Dio avesse voluto, avrebbe chiarito lui
stesso in modo più efficace, queste annotazioni. Prevale quindi il principio
“pedagogico” di interpretazione del dio coranico: Dio si autodescrive in termini
antropomorfici perché vuole farsi capire da tutti, ma come sia Dio e quali siano i
suoi pensieri nessun uomo può appurarlo. Come afferma Bausani: “la teologia
cranica è forse tra le più radicali di formulazioni di teismo personalistico di tutta
la storia delle religioni. L’iddio coranico è persona completamente libera e le
sue azioni sono totalmente arbitrarie: nulla gli si può chiedere, non è tenuto a
darne ragione agli uomini”.
Le uniche determinazioni che si possono desumere dal Corano sono che Dio è
Creatore, un creatore in continuo movimento, artefice di una dinamica
universale inesauribile: è lui che fa e disfa il mondo umano e quello inanimato
(II, 164 e LV, 1-26) fino a dire ciò che è diventato anche un nostro proverbio:
“Non cade foglia che Dio non voglia”, nella sura VI, 59. Dio è l’assoluto e
onnipotente creatore e l’uomo è creatura in senso pieno, ma null’altro e non un
collaboratore di Dio nella creazione. La stessa nozione biblica di “alleanza” è
inadeguata: nella visione cranica Dio semplicemente detta le sue condizioni e
l’uomo vi si adegua. Dio, dunque. Fa ciò che vuole: è libero non solo di fare e
disfare a piacimento, ma anche di ritornare sulle sue stesse decisioni, come
appare non di rado nel Corano ove una stessa materia viene in un certo passo
regolata da Allah in un certo modo e in modo del tutto diverso in un altro, tant’è
che la cosa ha costretto gli esegeti musulmani a costruire la cosiddetta teoria del
versetto abrogante e del versetto abrogato. Allah, insomma fa il bene delle sue
creature, ma non è soggetto al bene; può decidere di amare queste o quelle
creature particolari, ma non è tenuto all’amore, non è mai vincolato, per non
ledere la sua libertà assoluta.
Dio, inoltre, non è quasi mai definito come “padre”, ma come “rabb”, ossia
principe e signore, mentre l’uomo è ‘abd, ossia servo o schiavo. Il concetto fi
filiazione tra Dio e l’uomo è recisamente rifiutato dall’islam e lo stesso
Maometto rinnega come ispirati da Satana, dei versetti corabici in cui si
affermava che Allah aveva tre figlie, Allat, Uzza, Manat). Semmai si potrebbe
dire che Allah viene descritto con termini che paragonano la sua azione a quella
di una madre sollecita, anche se mai è detto che Dio è madre, affermazione che
suonerebbe blasfema. Come se non più, di quella che chiama “padre” Dio. Quasi
tutte le 114 sure, infatti, si aprono con l’espressione “Nel nome di Dio clemente
e misericordioso, i cui termini arabi, rahim e arrahman, derivano dalla radice
rahm che indica l’utero materno.
Il Dio coranico, dunque, appare come “misericordioso”, che ha a cuore il bene e
la felicità dei suoi servi ai quali si riserva di dire, nell’ultimo giorno: “Vieni o
anima tranquilla, ritorna al tuo Signore, piacente e piaciuta ed entra tra i miei
servi, entra nel mio paradiso” LXXXIX, 27.30.
Tuttavia, e non lo si deve dimenticare, il dio coranico si presenta anche come il
punitore. Innumerevoli volte egli minaccia i suoi servi impenitenti e riottosi di
punizioniimmediate o castighi eterni. Le espressioni di durezza sono pari a
quelle di bontà e misericordia, quasi a bilanciare un’idea troppo benevola di Dio
e troppo vicina a quella cristiana, di cui si rifiuta l’eccessiva preoccupazione
divina, ossia l’immagine di un dio troppo innamorato e quindi dipendente dalle
sue creature.
Ecco, dunque, che Allah si rivolge in questi termini a Maometto, nella sura
VI,147: “E se essi ti smentiscono, o Maometto, di’ loro: il vostro Signore è il
Dio di misericordia ampia, ma è impossibile stornare l’ira sua da un popolo di
scellerati”. E se Dio è colui che dà la vita è anche colui che dispensa la morte
(III, 156) e che è violento nel punire (III, 11; VIII, 13 e ss) ed è vendicativo con
i recidivi (V, 95). E anche Iblis, Satana, deve affermare nell’ottava sura, al
versetto 48 “Io vedo quel che voi non vedete. Io ho paura di Dio. Dio è, quando
castiga, crudele!”. Inoltre, Dio gioca con gli iniqui e con gli astuti sullo stesso
piano: “Essi tramano astuzie? E anch’io tramerò astuzie” si dice alla sura
LXXXVI, 15 e, nella sura III, 54 “Gli altri, gli iniqui, insidiarono, e Dio insidiò,
e Dio è fra gli insidiatori il migliore!”
Quarto tema:
La specificità della rivelazione coranica
A. IL CORANO:
STRUTTURA E TEMATICHE PRINCIPALI.
Il Corano è diviso in 114 capitoli, detti surah, a loro volta divisi in versetti,
detti ayat. La divisione del Corano in sure è antica e risale probabilmente
alla recensione curata da Abu Bakr. La prima sura, chiamata “aprente”
(fatihah), è seguita da tutte le altre secondo un ordine empirico, non
cronologico: si va dalle sure più lunghe alle più corte, da ritenere, in linea di
massima, le più antiche. A capo di ogni sura vi è l’indicazione del luogo
della recitazione: vi sono, dunque, le sura della Mecca e di Medina. Le sure
della Mecca sono state divise dagli orientalisti in tre gruppi:
SURE MECCANE: dal 610 al 622
SURE MEDINESI:
Sono le sure risalenti all’ultimo decennio, compreso tra il
622 e la morte di Muhammad, avvenuta nel 632. Le sure di
tale periodo si distinguono per lo stile e per i contenuti. I
versetti più brevi e incalzanti delle prime sure lasciano il
posto a una prosa più discorsiva, anche se sempre animata
da rime e assonanze e segnata qua e là da slanci di vera
poesia. Il Testo sacro assume un carattere più normativo e
dà disposizioni su materie di vario genere. Essendo le ultime
sono anche le definitive e più importanti di tutto il Corano.
IL SIGNIFICATO:
Il Corano è la principale teofania dell’Islam: è la parola di Dio testualmente
rivelata dall’arcangelo Gabriele al Profeta, il quale a sua volta l’ha
trasmessa ai suoi compagni che l’hanno memorizzata e trascritta. Esiste
un’unica versione del testo del Corano, accettata da tutte le scuole
dell’Islam. Il testo coranico è considerato integralmente divino, non solo
nel suo significato, ma anche nella sua forma. E’ parola che esce dalla
“bocca” di Dio, senza alcuna mediazione. Mentre la Dei Verbum ci insegna
che le scritture sono Parola rivelata mediante ispirazione, ovvero
un’ispirazione che non scavalca l’uomo, ma lo rende partecipe quale
strumento della rivelazione della Parola stessa (“Per la composizione dei
libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e
capacità, affinchè, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come
veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte”11),
la fede islamica ritiene il Corano luogo e tempo della rivelazione di Dio in
quanto tale, senza alcuna mediazione strumentale. E’ improprio, quindi, per
un cristiano istituire un parallelismo Bibbia-Corano, perché induce a
trasferire il codice interpretativo valido per l’una sull’altro. Il parallelo da
istituire, semmai, è Cristo-Corano, perché, l’uno e l’altro, all’interno della
relativa logica religiosa, sono il “segno assoluto”, il simbolo di un evento
salvifico. Dice giustamente Rizzardi:” Cristo è segno e sigillo di
un’alleanza divino-umana che destina l’uomo a partecipare alla realtà di
Dio, mediante l’essere in Cristo; il Corano è segno e sigillo di un’alleanza
che stabilisce Dio come Signore e l’uomo come “sottomesso”. Quindi, dice
ancora Rizzardi, “Il Corano, per i credenti musulmani è anzitutto il simbolo
del patto tra Dio e l’uomo, patto pre-temporale (mithaq) che perdura nel
tempo storico (cfr. testo coranico 7,127 a pag. 4 di questo scritto). Il
Corano, prima ancora di essere aperto, letto e compreso è già un evento
importante, come segno dell’alleanza stipulata tra Dio e l’uomo. Elemento
imprescindibile per la corretta valutazione dei profondi significati del
Corano è credere nell’analfabetismo di Maometto. Afferma NASR, uno dei
massimi studiosi di islamismo, musulmano egli stesso :
“Il Profeta deve essere ritenuto illetterato per la stessa ragione per la
quale la Vergine Maria deve essere creduta Vergine. Il tramite umano
del messaggio divino deve essere puro e intatto. La Parola divina può
essere scritta soltanto sulla pura e “intatta” tavola della ricettività
umana. Se questo Verbo appare sotto le specie della carne, la purezza
è simboleggiata dalla verginità della madre attraverso la quale si
incarna; se appare sotto le specie del Libro, questa purezza è
simboleggiata dall’intelletto incolto della persona prescelta per
annunciare tale verbo fra gli uomini (...)”.
Prima ancora di assumere la forma scritta in un libro, il Corano fu una
rivelazione verbale. Il Profeta udì la Parola di Dio e la espresse ai suoi
compagni, i quali la memorizzarono e la scrissero su pergamene. Quando
l’arcangelo Gabriele apparve per la prima volta a Maometto, il suono del
primo versetto del Corano si propagò nello spazio intorno a lui. Il Corano è,
quindi, innanzi tutto suono sacro che si espande, che si propaga dal primo
momento a tutt’oggi in tutto il mondo islamico. I suoni del Corano si
espandono nei luoghi dell’agire quotidiano degli uomini, lo pervadono.
Molti fedeli memorizzano parti intere del Testo sacro e lo recitano senza
consultarlo. L’arte di salmodiare il Corano è l’arte più antica e sacra,
capace di commuovere profondamente il credente. L’architettura religiosa,
che è considerata arte sacra a sua volta, trova la sua ragion d’essere
nell’arte del salmodiare. La moschea , infatti, si struttura in spazi che
contengono e avvolgono l’espansione del suono sacro. Dal momento in cui
il suono è divenuto Parola, poi, si è sviluppata nel mondo musulmano
un’altra arte sacra, l’arte della scrittura: la calligrafia. La lingua araba che
compone il Corano è il corpo del Verbo; di conseguenza non si può dare un
islamico senza l’arabo. La corretta grafia araba, quindi, non risponde a
criteri meramente estetici; non è un’aggiunta o un ornamento, ma è
sostanziale, perché è la forma visibile della rivelazione, così come il suono
è la sua forma udibile. Di conseguenza il Corano in quanto rivelazione è
intraducibile, perché non si può cambiare la Parola di Dio. Se si traduce il
Corano si ottiene un testo divulgativo, informativo, ma non “rivelato”. La
rivelazione sta nella lingua araba. L’intraducibilità del Corano e l’appello
rivolto alla gente di cultura non araba, sebbene musulmana, a mettersi a
confronto con il Corano originale arabo, ha scandalizzato la mentalità
occidentale, che senza comprendere il senso profondo della richiesta, quale
abbiano segnalato, muove accuse di “integrismo”, “nazionalismo
religioso”, “ghettismo spirituale”. Apprendere la lingua coranica, che è
distante dall’arabo contemporaneo come il latino dall’italiano odierno,
significa porsi in cammino verso la conoscenza della rivelazione.
L’apprendimento graduale, parcellare, di alcune parole coraniche, che
comporta l’uscire fuori dal linguaggio parlato della propria cultura, è un
segno della volontà di intraprendere un cammino di ascesa verso la Parola.
La traduzione in lingua corrente, che porta immediatamente la Parola
all’uomo, al suo gergo, non induce ad aprirsi alla Parola, assaporandone
“segno” (ayat) per “segno”.
Il Corano, poi, è chiamato anche al-Furqan, “il Discernimento”, poiché
contiene i principi per il discernimento sia intellettuale sia morale. Il Libro
quindi, in quanto luogo sacramentale della chiamata di Dio e della risposta
dell’uomo, e il luogo nel quale si consuma l’esistenza non solo sul piano
del significato, ma anche sul piano dell’esperienza mistica e pratica. La
sura intitolata La Luce riassume ciò che è la rivelazione: Dio è Luce e
illumina ogni uomo, mostrando la via giusta:
“Dio è luce dei cieli e della terra,
e somiglia la sua luce ad una nicchia,
in cui è una lampada,
e la lampada è in un cristallo
e il cristallo è come una stella lucente,
e arde la lampada dell’olio di un albero benedetto,
un olivo né orientale né occidentale,
in cui olio per poco non brilla
anche se non lo tocchi fuoco.
E luce su luce;
e Iddio guida alla sua luce chi egli vuole,
e Dio narra parabole agli uomini,
e Dio è su tutte le cose sapiente”. 24,35.
In quanto “discernimento” il Corano insegna all’uomo a distinguere il
relativo dall’assoluto, il reale dall’irreale: la vera conoscenza è la sapienza
che è in funzione del vivere. Il corano quindi è il cuore della shari’ah, della
Legge coranica, che è norma dettata da Dio per animare la vita del
musulmano. Dio rivela la sua shari’ah, destinata a fondare la ummah. Il
rapporto primario e diretto del musulmano è con la shari’ah di Dio, non
con Dio. L’Islam è una spiritualità etica. (della shari’ah parleremo più
dettagliatamente poi)
Un’altra denominazione del Corano è Umm al-kitab, cioè “Madre dei
Libri”. Secondo l’indicazione coranica (13,39; 43,4) questa denominazione
fa riferimento al Corano increato, scritto in cielo in un prototipo eterno, poi
“fatto scendere”. Sottolinea, cioè, il carattere divino, celeste, del libro, la
sua assoluta trascendenza, la sua immacolatezza originaria prima del suo
impatto con l’espressione letteraria. Inoltre la tradizione islamica vede nel
Corano anche la madre di tutti i libri in senso più letterale, ovvero la
scienza di tutte le scienze. Il Corano è, quindi, “Libro celeste per l’uomo”,
nel senso che permette la visione della realtà all’interno della universale
vocazione alla sottomissione a Dio, e, più in particolare, è modello di
eloquenza insuperata e insuperabile per il poeta, è fonte del diritto e della
morale.
Ma il nome più diffuso per indicare il Libro è al-Qur’an al majid, (Nobile
Corano), che rivela l’alto rispetto con il quale esso è trattato dal fedele. Il
Corano, quindi, è una realtà sacra che abbraccia e segna la vita del
musulmano
dalla culla alla tomba. I versetti del Corano sono
effettivamente i primi suoni uditi dal bambino appena nato e gli ultimi che
le persone morenti sentono nel cammino verso l’incontro con Dio. In un
certo senso l’anima del credente è “intessuta” di espressioni attinte dal
Corano: ogni azione inizia con bism’Llah (sia ringraziato Dio) e finisce
con al-hamd li’ Llah (sia ringraziato Dio). L’atteggiamento verso il futuro
è sempre condizionato dalla consapevolezza dell’insha’-Allah (sia fatta la
volontà di Dio), poiché tutto dipende dalla volontà divina.
Il primo capitolo del Corano, “l’aprente” (sarat al-fatihah) consta di sette
versetti ed è il più recitato del Corano perché contiene il nucleo delle
preghiere canoniche quotidiane e, sinotticamente, il messaggio del Corano
per intero:
“ Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso. Lode a Dio, Signore
dei Mondi,
il Clemente, il Misericordioso,
Sovrano del giorno del giudizio.
Te adoriamo, Te invochiamo in soccorso,
guidaci al retto sentiero,
al sentiero di coloro a cui tu hai largito la tua grazia,
non di coloro che sono incorsi nella tua ira nè di coloro che sono
fuorviati”.
TAFSIR E TA’WIL
La dimensione forse più importante degli studi sul Corano riguarda la
decifrazione del suo significato, tradizionalmente detto tafsir e ta’wil: il
primo termine si riferisce al significato esteriore del testo, il secondo a
quello intimo. Il TAFSIR può essere un commento esegetico, o storico, o
filologico, o teologico. Il TA’WIL, invece, si occupa del significato intimo,
nascosto, esoterico del Corano: indica quindi lo sforzo per passare da una
lettura “letterale” a una “profonda”. Tali approfondimenti sono stati svolti
dai sufi e in ambito sciita (ricordiamo la misteriosa figura dell’imam
nascosto). Il Ta’wil è una forma di interpretazione simbolica del testo: il
risultato della lettura in profondità del Corano non è un miglior ragguaglio
dogmatico circa Dio, ma un approssimarsi al “volto di Dio”, cogliendo il
suo disegno, i suoi pensieri, i suoi voleri. Afferma il sufi al-Din Rumi:
“Il Corano è come una sposa che non ti rivela il suo viso, per quanto
tu le tolga il velo. Tu potresti esaminarlo eppure non ottenere né
felicità né svelamento; ciò è dovuto al fatto che l’atto di togliere il
velo ti ha respinto e ingannato, si’ che la sposa ti si è dimostrata
brutta, come per dire: -Io non sono poi tutta quella bellezza-. Il Corano
sa mostrarsi in qualsiasi maniera gli piaccia. Se tu non cerchi di
strappargli il velo, ma ti sforzi soltanto di assecondarlo, inaffiando il
suo campo seminato e curandolo discretamente, affannandoti su
quello che preferisce, esso ti mostrerà il viso, senza che tu debba
strappargli il velo”.
Quinto tema
L’etica islamica e la shariah
LA SHARI’AH
Essa è la legge divina. I musulmani considerano la shari’ah depositaria
dell’incarnazione concreta della volontà di Dio e di quanto Egli desidera che
essi facciano in questa vita per ottenere la felicità in questo mondo e la
beatitudine nell’aldilà. Le fonti della legge sono: il Corano, La Sunna, il
ragionamento analogico, il consenso comunitario. Le norme etiche sono
indicate, quindi, scrupolosamente dalla legge: il termine shari’ah deriva
dalla radice shr’ che significa “strada”, ovvero la strada da seguire in questa
vita. La legge contempla ogni sfera dell’esistenza, dai riti di culto alle
transazioni economiche. La shari’ah divide tutte le azioni in cinque
categorie:
OBBLIGATORIE (waijb) per esempio le preghiere quotidiane ecc.
RACCOMANDATE (mandub), tra cui l’elemosina individuale ;
INDIFFERENTI (mubah), per esempio il tipo di verdura che si mangia e
l’attività che si esercita;
REPRENSIBILI (makruh), come il divorzio;
PROIBITE (haram), tra cui l’omicidio, l’adulterio, il furto, cibarsi di maiale
e dei suoi derivati e bere alcolici.
I musulmani, quindi, sanno valutare tutte le loro azioni sulla base della
legge. Ciò non significa che essi non sono liberi, perché l’Islam intende la
libertà non soltanto come mera ribellione individuale a tutte le autorità, bensì
come partecipazione alla libertà che nella sua pienezza appartiene soltanto a
Dio. Conformandosi alla legge divina, il musulmano o la musulmana
diventano liberi anziché prigionieri, perché così facendo allargano i confini
del loro essere. Abbandonandosi alla volontà di Dio, i musulmani sanno
trascendere la prigione dei loro ego e la soffocante gabbia dei loro io
passionali.
Logicamente le basi della legge stanno nel Corano e nella Sunnah; in essi la
sahri’ah trova la sua fonte di ispirazione e proprio perché si motiva in essi è
immutabile. Immutabile, tuttavia, nei principi, non nelle applicazioni: ogni
credente trova nella legge gli strumenti di discernimento validi per applicare
i principi a situazioni non contemplate nella legge originaria. Ma per la
religione islamica non è mai la legge ad essere modellata dalla società e
dalla cultura, ma accade esattamente il contrario: sono i principi della legge
che devono improntare il vivere, contestualizzandosi. All’appunto
frequentemente mossi dai detrattori dell’Islam, secondo il quale la legge
islamica dovrebbe adeguarsi ai tempi, l’Islam risponde che, se così fosse, a
cosa allora i tempi stessi devono adeguarsi, cosa li ordina e li costringe a
cambiare in questo mondo? L’Islam vede nella shari’ah il fattore tenuto a
“creare i tempi” e a coordinare la società umana. Gli uomini, quindi, devono
cercare di vivere secondo la volontà di Dio incarnatasi nella shari’ah,
anziché modificare la legge di Dio a seconda dei modelli mutevoli di una
società basata sulla instabilità della natura umana.
Un manuale di morale elementare presenta la seguente lista di peccati gravi:
apostasia;
rifiuto, anche solo interiore, della fede musulmana;
accusa di menzogna rivolta a Maometto;
insulti al Profeta;
omicidio, fuori della “piccola jihad”;
fornicazione;
adulterio;
mancanze contro natura;
mancanze gravi contro i genitori;
magia nera;
calunnia grave;
usura; .
I peccati sono una disobbedienza alla legge di Dio e tali restano finchè
l’individuo non si sarà pentito nel suo cuore e non avrà cambiato
atteggiamento. Allah, comunque, è un Dio misericordioso, ricco di amore e
sempre pronto al perdono. L’individuo ha tempo di pentirsi sino all’ultimo
secondo della sua vita, mentre dopo la morte sarà troppo tardi.
IL MATRIMONIO E LA FAMIGLIA
Per i musulmani il matrimonio è il rito di passaggio che garantisce
l’acquisizione della maggiore età. La donna soprattutto, ma anche l’uomo,
si trovano nello stato di minori, di dipendenti e persino di irresponsabili se
rimangono celibi: una situazione che suscita disprezzo, disgusto e sospetto.
Il celibato religioso non è condiviso dai musulmani, che lo ritengono uno
stile di vita non consono alla volontà di Dio e un’aberrazione dei cristiani,
in genere accusati di fanatismo religioso. “L’Islam ignora completamente
la prefigurazione attraverso il celibato della situazione angelica alla quale
l’uomo è destinato nell’eternità. Nell’Islam la sessualità è un dono di Dio e
la sua pratica naturale fa parte della proclamazione della gloria di Dio, a
condizione che venga esercitata con misura e sapienza come l’uso di tutte
le buone cose che la misericordia di Dio ha messo sulla terra per l’uomo.
L’amore, invece, in quanto sentimento di intensa reciprocità, è un
accessorio e non un fine del matrimonio: esso rimane, nelle sue premesse e
nelle sue prospettive, un atto eminentemente sociale. Non può, quindi,
essere abbandonato soltanto alla scelta e alla responsabilità dei futuri sposi.
La sura IV del Corano, inoltre, stabilisce la legittimità della poligamia:
“Se avete paura di non trattare con equità gli orfanelli, sposate pure o
due, tre o anche quattro donne di cui siete innamorati; ma se temete di
diventare ingiusti, sposatene una sola, o ricorrete alle vostre schiave,
possesso delle vostre mani destre. Sarà la maniera migliore per non
allontanarvi dal giusto” 4,3.
In questo contesto la poligamia non ha niente a che vedere con la licenza
dei costumi. Essa è diventata un obbligo per l’individuo e una necessità per
la società, quando la presenza di due o quattro spose è stata imposta dal
bene di gruppo. Ma se c’è rischio di ingiustizia bisogna ritornare al precetto
primario che sembra far parte dell’ordine naturale: un’unica moglie.
(PIERRE BOZ, L’Islam, Paoline, Milano, 1996).
La cellula della società è, quindi, la famiglia. Il Corano esorta a rispettare i
propri genitori; molti hadit sottolineano come sia bello agli occhi di Dio
conservare i legami familiari e, in particolare, rispettare e onorare il padre e
la madre. La famiglia musulmana non è composta soltanto dai genitori e
dai loro figli, come accade nella famiglia atomizzata della società urbana
moderna occidentale, bensì è ancora per la maggior parte una famiglia
allargata che comprende nonni, zii e zie, cugini e suoceri, genitori e figli. Il
padre è l’imam della famiglia, poiché rappresenta l’autorità religiosa ed è
responsabile sia della salvaguardia degli insegnamenti religiosi dei
componenti la famiglia, sia del loro benessere economico. L’uomo, quindi
domina nella sfera economica e sociale.
La donna, invece, regna incontrastata dentro casa, dove il marito è come un
ospite. La vera formazione religiosa spesso dipende dalla madre,
specialmente nelle prime fasi: le donne musulmane hanno un ruolo
dominante nell’educazione dei figli e in ogni altro aspetto della vita
domestica. Attraverso la famiglia le donne esercitano nell’intera società
un’influenza molto maggiore di quanto non riveli lo studio superficiale di
una struttura familiare che apparentemente sembra religiosa e patriarcale.
Tutti i vincoli parentali sono regolati dalla Legge. I musulmani vedono la
famiglia non soltanto come un’unità sociale, ma anche religiosa, che
protegge l’individuo in mille maniere. La famiglia è l’immediata realtà
sociale in cui vengono impartiti i primi ammaestramenti religiosi e
rappresenta un “mondo” in cui gli insegnamenti religiosi vanno
costantemente applicati e messi in pratica. La famiglia è quindi una piccola
realtà sociale e religiosa la cui percezione permette di veicolare
l’esperienza della grande famiglia musulmana: la ummah.
Conclusioni
Parlare di Islam, oggi, non è più solo un dovere intellettuale o un semplice
piacere della conoscenza; è diventato una necessità, se vogliamo continuare
ad essere cittadini di questo mondo e capaci di comprendere questa società
sempre più complessa e sempre più allergica a facili decodificazioni. E’ un
imperativo a maggior ragione dopo i recenti tragici fatti che, dopo l’11
settembre, hanno reso più nero l’orizzonte del dialogo e della comprensione
reciproca.
Ma se vogliamo comprendere quei fatti, qule che sia la tesi che vogliamo
sostenere, è indispensabile partire da lontano, perché tante ragioni
apparentemente incomprensibili dell’Islam contemporaneo si celano nel
primo secolo della sua storia. E ritengo che nella sua scuola sia necessario
favorire una contestualizzazione del credo musulmano per capire che,
nell’orizzonte culturale islamico, certi fatti possono venire meglio
interpretati, acquisendo una luce nuova. Se per la nostra cultura e per la
nostra religione – forse sarebbe meglio dire “fede” – non accettiamo
semplificazioni, non dobbiamo acconsentire nemmeno alle semplificazioni
sull’alterità.
Un dato imprescindibile è, allora, che l’islam oggi non si riconosce, se non
a livello di ristrette élite europeizzate o americanizzate) nella nuova Koiné
culturale dominante a livello planetario che parla inglese e si esprime
nell’asettico linguaggio di banchieri, informatici e ingegneri del nuovo
ordine internazionale. Le grandi masse urbane o contadine – strette tra la
miseria quotidiana e la frustrazione crescente di speranze e aspettative –
rischiano di essere sempre più facilmente preda del verbo fondamentalistarivoluzionario se l’Occidente si chiude nelle posizioni intransigenti di
rifiuto di certi intellettuali che Saccone definisce “rabbiosi”. Il problema
reale è che , agli occhi di decine di milioni di musulmani, di troppi
musulmani, i “terroristi” appaiono piissimi credenti, persino coraggiosi,
“combattenti sulla via di Dio” impegnati a costo della vita a dare sostanza
al precetto coranico di “promuovere la giustizia e combattere l’ingiustizia”
(III, 110).
Riducendo all’osso i termini della questione: l’Islam sembra porci oggi
domande in termini di giustizia, mentre noi continuiamo a parlare del
primato della libertà e dei diritti. Ma, ciò che ci sfugge, è che la libertà non
è in cima alle preoccupazioni dei più poveri, e la giustizia non è mai stata la
prima preoccupazione dei più ricchi. Abbiamo tutti bisogno di una
profonda rivoluzione culturale e morale se vogliamo trovare un punto
d’incontro e magari costruire insieme, in prospettiva, un nuovo,
soddisfacente e duraturo equilibrio.
Come interrogare l’Islam? Ipotesi di approccio al credo islamico
Schema dell’intervento
Premessa metodologica:
-centralità della prospettiva fenomenologica e socio-antropologica
-centralità del metodo storico-comparativistico
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Approcci tematici all’Islam
Tema storico-scritturale: Abramo come padre dei credenti.
Tema teologico: la figura di Muhammad
Tema teologico: il monoteismo puro proposto dal Profeta
Tema teologico: la specificità della rivelazione coranica
Temi etici: i doveri del musulmano, la shari ‘a.
Prospettiva della mistica: il Sufismo, una pagina sconosciuta della religione
islamica.
Conclusioni: quale dialogo è possibile oggi con l’Islam?
Breve rassegna bibliografica
La rassegna ha carattere solo indicativo e non pretende di essere esaustiva
Testo sacro e Detti del Profeta in traduzione italiana:
Il Corano, a cura di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1988, corredata di un ampio
commento; Il Corano, a cura di H. R. Piccardo, Newton Compton, Roma 1996,
redatta con la revisione deell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in
Italia.
Tra le traduzioni più ampie dei detti del profeta si segnalano: AL NAWAWI, Il
giardino dei devoti. Detti e fatti del Profeta, a cura di A, Scarabel, Roma 1990;
AL-BUKHARI, Detti e fatti del profeta raccolti da Al-Bukhari, a cura di S. Noja,
V. Vacca e M. Vallaro, Utet, Torino 1982
Opere di carattere introduttivo: BAUSANI, Islam, Garzanti, Milano 1980; C.
SACCONE, I percorsi dell’Islam. Dall’esilio di Ismaele ai giorni nostri,
Messaggero, Padova 2002; F. LENOIR – Y. MASQUELIER (a cura di), La
Religione, Utet, Torino 2001, in modo particolare il vol. II e i volumi tematici IV e
V; G. Filoramo, Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari 1995, vol. III, con
contributi di islamologi quali S. Noja, K. Fouad Allam e A. Ventura; P.
BRANCA, Introduzione all’Islam, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; G.
RIZZARDI, Introduzione all’Islam, Queriniana, Brescia 1992; se si desidera una
lettura facile, ma scientificamente valida si consiglia: E. BUZZI (a cura di), Islam:
una realtà da conoscere, Centro Studi sull’Ecumenismo, Marietti, Genova 2001.
Sulla figura di Maometto: M. Rodinson, Maometto, Einaudi, Torino 1995; S.
Noja, Maometto, profeta dell’Islam, Esperienze, Milano 1985; G. Crespi,
Maometto, il profeta, San Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995
Commento ed interpretazione del Corano: W. MONTGOMERY WATT, A. T.
WELCH, L’Islam. Maometto e il Corano, Jaka Book, Milano 1980; P. BRANCA,
Il Corano. Il libro sacro della civiltà islamica, Il Mulino, Bologna 2001; P.
MAGNANINI – P. BRANCA, Islamismo. Vol. 2: Composizione, lingua e stile del
Corano, Bologna 1997.
Raffronto tra le scritture islamiche e cristiane: MIRKHOND, La Bibbia vista
dall’Islam, Luni, Milano 1996; GRIC, Gruppo di ricerca islamico-cristiano,
Bibbia e Corano. Cristiani e musulmani di fronte alle scritture, Cittadella, Assisi
1992; C. M. GUIZZETTI, Bibbia e Corano. Confronto sinottico, San Paolo,
Cinisello Balsamo 1995; G. RIZZARDI, Il fascino di Cristo nell’Islam, IPL,
Milano 1989
Sul monoteismo islamico e sulla concezione di Dio: H. CORBIN, il paradosso
del monoteismo, Marietti, Genova 1986, C. SACCONE, Il volto di Allah nelle
scritture e nella riflessione teologica e mistica, in id., I percorsi dell’Islam,
Messaggero, Padova 2002.
Sul culto islamico: J. RIES ( a cura di), Il credente nelle religioni ebraica,
musulmana e cristiana, Jaka Book, Milano 1993; G. Crespi, Nel nome di Dio:
preghiere, cantici e meditazioni islamiche, Torino 1985; C. M. GUZZETTI, Islam
in preghiera, Elle di ci, Torino 1991; V. SALVOLDI, Islam. Un popolo in
preghiera, Emi, Bologna 1987
Sull’etica musulmana: Fondazione Agnelli (a cura di), Dossier mondo islamico.
Dibattito sull’applicazione della shari’a, Torino 1995; su etica e diritti umani: A.
PACINI, L’islam e il dibattito sui diritti dell’uomo, Torino 1998; sui rapporti con
le altre religioni; B. LEWIS, Culture in conflitto. Cristiani, ebrei, musulmani alle
origini del mondo moderno, Donzelli, Roma 1997; W. MONTGOMERY WATT,
Cristiani e musulmani, Il Mulino, Bologna 1994; J. BOUMAN, Il Corano e gli
Ebrei, Queriniana, Brescia 1992; sul ruolo della donna e la questione femminile:
R. EL KHAYAT, La donna nel mondo arabo, Jaka Book, Milano 2002
Sul Sufismo: E. DE VITRAY MEYEROWITCH, I misitici dell’Islam, Parma
1992, con brevi profili degli autori, arabi e persiani, presentati dalla curatrice; G.
SCATOLIN, Esperienze mistiche dell’Islam. I primi tre secoli, Bologna 1994; M.
MORENO, Antologia della mistica arabo-islamica, Laterza, Bari 1987; F. J.
PEIRONE – G. RIZZARDI, Islam. Spiritualità e mistica, Nardini, Firenze 1993.
Un introduzione semplice alla mistica sufi è quella di A. J. ARBERRY,
Introduzione alla mistica musulmana, Marietti, Genova 1986; mentre più
articolata e complessa è quella di M. MOLE’, I misitici musulmani, Adelphi,
Milano 1992