Come interrogare l’Islam? Ipotesi di approccio al credo islamico E’ finanche banale affermare che il mondo contemporaneo e in particolare l’occidente europeo devono affrontare la questione del dialogo con l’universo musulmano in maniera decisa e lasciando da parte intenti apologetici. Benché, sin dalla sua nascita, l’islam abbia in modi diversi dialogato con la cristianità e con l’ebraismo, in realtà esso appare ancora come una galassia sconosciuta e, per molti, minacciosa. Questo atteggiamento di sospetto a priori permane ancor oggi, anzi, oggi più che mai appare rilanciato dallo scenario politico internazionale, interpretato da molti commentatori dell’informazione spesso “a digiuno” della complessità dell’Islam stesso e quindi imprecisi, frettolosi e superficiali. Chi lavora nelle scuole e tenta un lavoro a livello interculturale e/o interreligioso conosce di persona le resistenze pregiudiziali che gli studenti hanno nei confronti dell’Islam, della sua densità concettuale, teologica, filosofica che, ancorché non vada necessariamente condivisa, dovrebbe essere per lo meno riconosciuta. L’intento della mia relazione, dunque, sarà quello di individuare dei percorsi di approccio alla diversità religiosa, sociale, etica e politica dell’Islam, tenendo a mente che i destinatari ultimi di tali percorsi sono gli studenti stessi. L’interrogativo di fondo, dunque, è proprio: “come interrogare l’Islam?”, e, insieme, occorrerebbe aggiungere: “come lasciarsi interrogare dell’Islam?”. Si tratta dunque di individuare dei sentieri che si inoltrino nella complessità del mondo islamico e che, da un lato, aiutino a fare chiarezza sul modo in cui tale mondo si rappresenta, si pensa, vive e sperimenta la sua esperienza religiosa, mentre, dall’altro, mantengano l’opacità della visuale, nella convinzione di fondo che l’avventura della comprensione non è mai interamente data, non si pone mai totalmente alla luce. Bisogna necessariamente tenere a mente, come passe partout metodologico, la lezione dell’antropologo Geertz, il quale afferma che il mondo è troppo complesso perché si possa saltare immediatamente alle conclusioni. Ritengo che questo sia il primo indispensabile obiettivo da raggiungere, quando si voglia in generale, ma soprattutto nella scuola, avviare un confronto autentico con la diversità culturale. In aiuto, poi, dovrebbe venire anche il metodo fenomenologico, per lo meno in una prima fase, per riuscire a comprendere dall’interno e per mezzo dei suoi linguaggi e delle sue immagini, l’Islam stesso. Kristensen, il grande fenomenologo olandese delle religioni, affermava, infatti che “il credente ha sempre ragione”, nel senso che è sempre ravvisabile una inner logic, una logica interna ai mondi che si vanno a studiare e ad incontrare. Il metodo fenomenologico ci aiuta a individuare, prima, e a tentare di neutralizzare, tutte quelle precomprensioni che ci impediscono di comprendere un mondo dal suo interno. Cercare di capire per mezzo dei linguaggi propri di ciascuna diversità è l’unico modo per non sovrapporsi sempre all’altro, per riuscire a dare ospitalità all’altro come sosteneva il grande Lévinas. Anche lo stesso Tommaso, che nella Summa contra gentiles, non risparmia dure critiche ai “maomettani”, afferma nello stesso scritto che è difficile confutare “i singoli errori” di quelli che lui chiama i maomettani, per due motivi: in primo luogo perché non si conosce in maniera sufficientemente approfondita la teologia islamica e poi perché i punti di riferimento non sono identici. In modo particolare, dice Tommaso, non viene condivisa l’autorità della Scrittura. E, con una modernità sconcertante, Tommaso continua che la disputa deve essere spostata sul terreno della discussione razionale, quindi su un terreno neutro, lontano dalla genericità a volte greve dei polemisti cristiani medievali, che liquidavano l’islam sulla base di affermazioni apologetiche. In qualche modo Tommaso, sembra invitare alla conoscenza approfondita e al dibattito serrato, razionale, metodologicamente corretto. Ma, per tornare al metodo fenomenologico, la pura sospensione del giudizio, ovviamente, è praticamente inapplicabile a livello assoluto, soprattutto in un ambiente scolastico, che necessita anche di dibatti critici. Ma potrebbe rappresentare un primo approccio, attraverso il quale lo studente dovrebbe riconoscere che, al di là dei luoghi comuni, poco o nulla sa del mondo islamico, a partire dal significato stesso di Islam e musulmano. A fianco del metodo fenomenologico, occorrerebbe utilizzare anche quello storico-comparativistico, che permette di scivolare nella diversità partendo dalla propria visione culturale e religiosa, e individuando nella similarità di certi concetti il varco della differenza. Attraverso tale metodologia, infatti, si può accedere alle diversità tramite le analogie e le sfumature delle differenze irriducibili che separano l’Islam dal giudaismo e dal cristianesimo, cecando di capire sotto quali aspetti l’Islam è nuovo, e sotto quali altri si propone come giusto completamento di tradizioni religiose precedenti. Seguendo tale percorso, dunque, si potranno comparare i testi sacri, i profeti, i fondatori, le modalità etiche cercando di verificarne la continuità col passato e, nel contempo, la diversità sostanziale che propongono. Mettere a confronto la Bibbia col Corano, infatti, ci aiuta a comprendere le vicinanze stilistiche, narrative e ideologiche dei due testi, ma anche il profondo divario che li separa agli occhi dei fedeli delle due religioni, aprendo anche il problema della rivelazione, di cosa sia rivelazione nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam. Partendo dalle contiguità, quindi, si arriva alle specificità, trovando insieme consonanze e distonie. Va operato, inoltre, un ultimo chiarimento: anche l’islam, come molte altre grendi religioni, si divide in famiglie e in sette che, pur nell’unitarietà della credenza nei dogmi fondamentali, differiscono tra loro per interpretazione, applicazione della legge e rituale. In questa dissertazione, dunque, si farà riferimento solo ad una di queste famiglie, quella sunnita, che è maggioritaria e rappresenta circa il 90% dei musulmani. Dopo questa premessa, certamente didascalica ma necessaria per orientarsi, occorre scendere in campo e proporre alcuni “approcci” al mondo musulamano, che poi potrebbero cristallizzarsi in moduli in grado di coinvolgere gli insegnanti di storia, geografia, lettere, filosofia. I temi proponibili per avvicinare la galassia islam allo stato nascente, fra mille altri ovviamente, mi sembrano i seguenti: 1. Tema storico-scritturale: Abramo come padre dei credenti. 2. Tema teologico: la figura di Muhammad 3. Tema teologico: il monoteismo puro proposto dal Profeta 4. Tema teologico: la specificità della rivelazione coranica 5. Temi etici: i doveri del musulmano, la shariah. 6. Prospettiva della mistica: il Sufismo, una pagina sconosciuta della religione islamica. Mentre dei primi quattro si cercherà di fornire una rapida presentazione, dell’ultimo si fornirà solo una rassegna bibliografica, data l’impossibilità di affrontare con compiutezza nel breve tempo assegnatomi un settore del mondo religioso islamico tanto complesso, delicato e, per certi versi a sé, come quello della mistica sufi. Primo tema Abramo come padre dei credenti. Il grande patriarca e progenitore della stirpe di Maometto è individuato in Abramo. L’islam, infatti, si riconosce nel ramo ismaelitico della discendenza di Abramo, diversamente dall’asse ebraico-cristiano che si riconnette al figlio legittimo Isacco e, conseguentemente, alla figura di Giacobbe. Quello che nella Genesi appare come un racconto marginale, dunque, diviene assolutamente centrale nel mondo islamico primitivo. L’episodio a cui si fa riferimento è narrato in Genesi 21, 8-20: Sara, diventata madre in tarda età, chiede ad Abramo di scacciare Agar col bambino, Ismaele, che il patriarca aveva avuto da lei, per timore che il figlio illegittimo del marito possa reclamare parte dell’eredità paterna a danno di Isacco. Nella mentalità musulmana, l’islam nasce da questo episodio, che è una sorta di microesodo, una sorta di viaggio compiuto da madre e figlio verso un destino segnato e voluto da Dio, da Allah. Abramo così scaccia la schiava e il figlio, accettando di sottostare alla richiesta decisamente barbara e crudele della moglie, ma solo dopo aver ricevuto da Dio una promessa, che anche la Genesi riporta: “Ma Dio disse ad Abramo: “Non ti dispiaccia per questo, per il fanciullo e per la tua schiava: ascolta la parola di Sara, ascolta la sua voce, perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della tua schiava, perché è tua prole”. Due stirpi, due nazioni, entrambe discendenza di Abramo e che la Genesi non descrive in contrapposizione apparente. E alla schiava Agar, disperata nel deserto perché priva di acqua, Dio indicherà una fonte e confermerà la promessa: “Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione”. “La storia di Agar e Ismaele – come afferma Carlo Saccone - viene ripresa e rielaborata dalla tradizione musulmana che ci narra del vagabondaggio dei due alla ricerca di acqua e conforto nei pressi delle colline di Marwa e Safà, vicino alla Mecca”. La migrazione nel deserto culmina nella fondazione della Ka’ba, ove, accanto a Ismaele ricompare inaspettatamente Abramo. L’episodio è narrato nella seconda Sura del Corano, ai versetti 125-128: la Ka’ba è un luogo di “rifugio e di riunione per gli uomini”, edificata dal padre abramo e da suo figlio Ismaele su preciso decreto divino. Il luogo diviene per l’Islam il centro del mondo e la pietra nera che nella Ka’ba è conservata il segno visibile dell’onnipotenza divina e, insieme, della misericordia di Allah che non dimentica gli uomini. E proprio nella Sura in questione viene fondato il quinto pilastro dell’edificio cultuale dell’islam, quello del Pellegrinaggio alla Mecca. Il Signore, infatti, si rivolge con queste parole ad Abramo e Ad Isacco nel Corano II, 125: “Purificate la mia Casa per coloro che attorno vi correranno venerabondi, vi pregheranno devoti, vi s’inchineranno e si prostreranno reverenti”. Abramo, quindi, è il primo muslim, il modello di ogni sottomissione a Dio, il perfetto credente, che fonda un assoluto culto monoteistico, colui che risponde all’invito di Allah del v. 131: “Datti a me”, con un’espressione di totale adesione: “Ecco tutto a te mi son dato, al Signore del creato”, con parole che ricordano molto da vicino le parole del re di Salem, Melchisedek nel capitolo 14 della Genesi, come ricorda Cherubino Maria Guzzetti. La nazione di Ismaele è dunque anche la nazione di Abramo esattamente come quella di Isacco, e Dio, nella sua infinita potenza, si è compiaciuto nel creare un grande popolo da un fanciullo diseredato, scacciato ingiustamente, scegliendo un ultimo, un perdente, un reietto. Questa è la comprensione dell’episodio che ha il credente musulmano, su cui si può anche pensare una convergenza a grande livello delle tre religioni abramitiche, secondo Louis Massignon, che per primo a coniato la formula : “dialogo tra le religioni d’Abramo” che tanta fortuna ha avuto negli studi teologici e religionistici. Non bisogna tacere, tuttavia, che sull’Islam nascente ha gravato subito come un macigno l’interpretazione del passo paolino di Galati 4, 24-26, in cui san Paolo, certamente in chiave allegorica, sconfessa la discendenza di Agar, simbolo dell’antica alleanza che genera solo schiavi, ed esalta quella di Sara, madre di libertà e figura della Gerusalemme celeste, quindi della nuova alleanza. Negli atteggiamenti dei dotti, filosofi e teologici cristiani dei primi secoli dell’era islamica, tuttavia, vi sono degli elementi sorprendenti, benché la condanna di apostasia nei confronti di Maometto sia univoca; si tratta di sfumature di pensiero che possono aiutare a comprendere meglio il mondo islamico. Uno dei primi testi che confutano le dottrine di Muhammad è quello di Giovanni Damasceno. Nel suo Liber de haeresibus (tradotto in italiano a cura di G. Rizzi, col titolo La centesima eresia) il Damasceno rivela una profonda conoscenza del mondo islamico Secondo tema storico-teologico La figura di Muhammad Tutto ciò che sappiamo su Muhammad è legato alle fonti craniche, agli hadit, cioè alla tradizione (il complesso dei detti e dei fatti attribuiti a Maometto da una esplicitata catena di trasmissione), e, in particolare alla Sira rasul Allah (vita dell’inviato di Dio). E’ molto, ma anche poco, perché ci appare interamente materiale viziato da una certa apologetica. Paradossalmente, il testo più integro, sotto il profilo della comprensione de personaggio storico Muhammad, appare il Corano, in cui Maometto appare come un uomo normale con tutto il suo corredo di virtù e debolezze, peccatore e persino errante. La Tradizione, invece, ha completamente rivisitato il personaggio del Profeta, rendendolo quasi leggendario, e presentandolo come uomo impeccabile, senza macchia. La pietà popolare e gli esegeti hanno visto in Maometto il dispensatore di miracoli, l’intercessore universale, logos esistente ab aeterno, sostanza luminosa preesistente e sopravvivente al Maometto storico. Ma al fenomenologo della religione, diversamente dallo storico, interessa più il Maometto della Tradizione e dell’esperienza religiosa dei musulmani, che quello della storia. Da questo punto di vista, il Profeta è percepito dal credente dei primi secoli della storia islamica, ma, in qualche modo, anche da quello odierno, come colui che fonda una nuova religione e insieme un nuovo stato. Questo è un dato fondamentale, per dirla ancora con Saccone, Perché “l’aspirazione a vivere col cuore la propria fede non è mai disgiunta nel pio musulmano dall’aspirazione più o meno palese a costruire qui ed ora la “città di Dio”. Un secondo aspetto da sottolineare è il carattere “intermedio” della riforma religiosa di Maometto: pur pervenendo ad una concezione monoteistica pura e universalistica, il Profeta non dimentica di conciliarlo con il particolarsi tribale e l’orgoglio nazionale, eleggendo la Ka’ba come centro di culto assoluto. Pur essendo uomo di fede, inoltre, il Profeta non rinuncia mai alla sua realizzazione terrena. Egli, infatti fu uomo di preghiera, ma non propriamente un asceta, fu profeta e insieme “uomo di mondo”, anche se la mondanità viene sempre posta in secondo piano rispetto alla scelta religiosa come afferma lui stesso di sé in un celebre hadit: “Nella mia vita ho amato le donne e i profumi, ma sopra ogni altra cosa ho amato la preghiera”. La sua, dunque, è una via di mezzo tra il rigore della legge mosaica e l’amore illimitato predicato da Gesù, una via che si ritiene il giusto equilibrio tra la legge e la misericordia, tra l’ira e l’amore divini. Dal punto di vista storico, invece, possiamo affermare ben poco con certezza. Le uniche date certe sono quelle dell’egira, della migrazione volontaria verso Medina, avvenuta nel 622 e che dà inizio al calendario islamico, e quella della morte, avvenuta l’8 giugno del 632 (il 13 del mese di rabi’), ventidue anni dopo la prima rivelazione, avvenuta, secondo la tradizione, nel 610.. Tramite calcoli deduttivi alquanto complessi, poi, i dottori dell’islam hanno stabilito che la nascita del Profeta vada collocata tra il 570 e il 572 dell’era volgare. Maxime Rodinson ha tentato di approntare un ritratto psicologico dell’uomo Muhammad, mettendone in evidenza la fine intelligenza, la notevole abilità politica e la raffinata capacità di comprendere uomini e situazioni, elaborando strategie di intervento anche a lungo periodo. La sua predicazione rivela una personalità che, all’inizio, risulta pervasa da un ardente fuoco sacro, composto da un misto di indignazione ed entusiasmo che si riversa nella prima poesia cranica piena di veemenza; mentre, in un secondo tempo, attiva un progetto politico legislativo molto complesso, per il quale vengono abbandonati i trasporti e gli slanci poetici, in favore di una prosa asciutta, organizzata, quasi arida per eccesso di normatività. Muhammad, a differenza di molti fondatori di religioni, viene a contatto ben presto con le seduzioni del potere, ma, per giudicare certi suoi atti che possono apparire ai nostri occhi efferati, è necessario tenere presente le usanze del suo popolo, che lui tenta di trasformare e di emancipare dalla brutalità pura. Ciononostante, nella maggior parte dei casi egli si dimostrò clemente, indulgente e di larghe vedute, come al suo ingresso nella Mecca, dopo l’esilio medinese, quando in nome di Allah obbliga al perdono e intima ai suoi di dimenticare le offese per costituire la nazione di Allah. Mentre nel primo periodo il suo edificio religioso appare fortemente influenzato dall’ebraismo e, per certi versi, dal cristianesimo, conosciuti nei suoi viaggi commerciali in Siria, nel secondo periodo Muhammad si autopercepisce come un riformatore profondo di tali tradizioni, ree di aver travisato l’insegnamento monoteistico puro del padre Abramo e, simbolicamente rifiutate con la modificazione della direzione dell’orante, che non si rivolge più verso Gerusalemme, ma verso La Mecca. Gli ebrei vennero accusati di aver ucciso il grande profeta Gesù (anche se, secondo la Tradizione, Dio avrebbe sostituito il corpo di Gesù sulla croce con un simulacro per non farlo soffrire) e di aver calunniato Maria, di cui si riconosce la verginità, simbolo dell’eccezionalità della figura del profeta Gesù, come l’analfabetismo lo è dell’eccezionalità di Muhhamad (Nasr). I cristiani, invece, vengono accusati di idolatria per il loro dogma trinitario, inconcepibile secondo una logica umana e frutto di un sofisma idolatrino e politeistico. Nel periodo medinese, dunque, il Profeta realizza l’idea di costituire una comunità ideologica nuova, legata al passato solo attraverso il monoteismo puro di Abramo; una comunità di verità, universalistica, aperta a chiunque voglia aderirvi, senza discriminazioni etniche o di altro tipo, egualitaria nel senso che non impone uno statuto diverso ai suoi membri, a seconda della funzione religiosa assegnata. Chiunque può entrare nella grande comunità dei servi di Allah e diventarne membro effettivo, se si converte con intenzione pura, niyya. Bisogna però rilevare che tale disposizione generale all’accoglienza ha per contropartita una netta chiusura nei confronti dell’esterno. Nulla impedisce di entrare nella ummah, nella famiglia dei credenti, ma tutto converge per scoraggiarne l’uscita: la comunità è idealmente blindata, come afferma sempre Rodinson. Terzo tema teologico Il Dio unico e misericordioso L’islam si considera rivelazione piena e ultima nella storia dell’umanità attuale e crede che dopo di sé non seguiranno altre rivelazioni sino alla fine della storia umana e al verificarsi degli eventi escatologici descritti nei capitolo finali del Corano , che nell’islam è testuale parola di Dio. L’islam si considera anche l’ultimo anello di una lunga catena di profezie risalenti ad Adamo, il quale non fu soltanto il primo degli uomini, ma anche il primo dei profeti. Non c’è che un’unica religione, quella dell’unità divina che l’islam è giunto a dichiarare nella sua forma definitiva. Il messaggio islamico è essenzialmente l’accettazione di Dio come Uno e la sottomissione, l’abbandono a lui, da cui deriva la pace. ISLAM significa abbandono alla volontà dell’unico Dio detto Allah e musulmano (muslim) è colui che pratica questo abbandono. Per diventare musulmani basta riconoscere al cospetto di due testimoni che “NON C’E’ DIO SE NON DIO” e che “MAOMETTO E’ IL MESSAGGERO DI DIO”. Queste due dichiarazioni sono la Shahadah (testimonianza) islamica e sono l’alfa e l’omega del messaggio religioso islamico: siamo in presenza di due asserzioni, di due certezze, di due piani di realtà: l’Assoluto e il relativo, la Causa e l’effetto, Dio e il mondo. La prima certezza ci dice che solo Dio è, la seconda che ogni cosa dipende da Dio. Realizzare la prima Shahadah significa prima di tutto divenire coscienti del fatto che Dio solo, che è principio e fine, è reale e che il mondo, pur esistendo sul proprio piano, non è. L’uomo, ricorda il grande islamologo Bausani, non può aspirare a nulla di per sé, non può reclamare nulla. Dio può disporre della creazione a suo piacimento fino al paradosso di distruggerla, come un contadino, proprietario del proprio campo potrebbe, in teoria, distruggere il proprio raccolto senza essere penalmente perseguibile. Realizzare la seconda Shahadah significa prima di tutto divenire pienamente coscienti del fatto che il mondo, la manifestazione, non è altro che opera di Dio. L’uomo, che vive per volontà di Allah, non deve fare altro che conformarsi ai suoi dettami, esplicitati nella forma più compiuta nella rivelazione coranica. L’islam insegna la realtà dell’assoluto e la dipendenza di ogni cosa dall’assoluto. Di conseguenza possiamo anche dire, con SCHUON, che “l’islam è la congiunzione tra Dio come tale e l’uomo come tale. Dio come tale: ossia considerato non in quanto ha potuto manifestarsi in un determinato modo in una determinata epoca, ma indipendentemente dalla storia e in quanto è ciò che è. L’uomo come tale: ossia considerato non in quanto decaduto e bisognoso di un miracolo che lo salvi, ma in quanto creatura dotata di una intelligenza in grado di concepire l’Assoluto e di una volontà in grado di scegliere ciò che vi conduce.” Il Corano pone continuamente l’accento sulla dottrina dell’unità e dell’unicità di Dio. ISLAM ribadisce in modo definitivo e categorico l’unicità di Dio e l’inconsistenza di tutto davanti alla maestà di quell’uno. “Di’: Egli, Iddio, è Uno. Iddio l’eterno, l’eternamente implorato da tutti. Egli non ha generato, né è stato generato, e non ha uguale.” CXII, 1-4 Allah non è un dio etnico o tribale, ma il supremo principio divino: Allah non è un nome proprio, ma il nome dell’Assoluto. Il dio assoluto islamico è chiamato in molti modi. La pietà islamica li ha raccolti e ha stilato l’elenco dei “99 bei nomi di Allah”, anche se i più diffusi sono arrahman (il Misericordioso) e rahim (il Clemente) E’ essenziale comprendere che l’Islam non è fondato su un particolare evento storico o su un gruppo etnico, ma su una verità universale e primigenia che perciò è sempre stata e sempre sarà.. Ecco perché, secondo il Corano, già prima della creazione del mondo Dio chiese agli uomini “Non sono forse il vostro Signore?” e non fu un solo uomo, ma l’intera umanità, uomini e donne, a rispondere: “Sì, l’attestiamo”.(7,127) L’islam, quindi, vede se stesso come un ritorno a quella verità che si trova al di sopra e al di là di ogni contingenza storica. Il Corano, infatti, fa riferimento ad Abramo come muslim e hanif (colui che già nell’antichità adora un solo dio). Anche il monoteismo di Adamo è da inserire all’interno dell’islamismo, come religione dei primordi, che, in quanto antica, è meno chiara, meno evidente di quella dell’islam. Il profeta stesso affermava di non aver introdotto nulla di nuovo, bensì di aver ribadito più chiaramente la verità che è sempre stata. L’islam è una religione inclusiva perché professa l’assoluto, che in quanto tale è espressione di tutto, tutto contiene ed esprime. Di Dio non si può fare alcuna raffigurazione concreta e artistica, ma nemmeno mentale, perché ogni speculazione razionale su Dio è in qualche misura arbitraria. L’islam, infatti, nutre sospetto verso la teologia, intesa letteralmente come uno “studio su Dio”, come un d”discorso circa Dio”, ossia come pura speculazione, perché, in qualche modo la considera come una scienza indebita, presuntuosa e che nulla può offrire più che delle mere ipotesi interpretative. Qual è dunque l’idea di Dio che emerge dal Corano? Si potrebbe rispondere a questo quesito affermando che se, da un lato, il testo sacro islamico risulta essere espressione di un Dio loquacissimo, che parla quasi sempre in prima persona, dall’altro, non contiene riferimenti diretti su Dio. Allah, pur parlando moltissimo (come si afferma nella sura XXXI, 27: “Le parole di Dio non si esauriscono”), dunque, non dice quasi nulla di sé, mentre il suo discorso è ricco di indicazioni su ciò che l’uomo deve compiere per vivere secondo le modalità pensate dal Creatore. Carlo Saccone, tuttavia, ha tentato nel suo ultimo lavoro di ricostruire il volto di Allah per come emerge dal testo coranico e dalle riflessioni dei giuristi teologi sanniti. Per l’islamologo italiano, Allah è innanzi tutto riconosciuto e autodichiarantesi come persona, non assimilabile al fato o a qualche forza cosmica: Nella sura VI, 52 e XIII, 22 si dice che ha un volto; nella XX, 39 e nella XXIII, 27 che parla, ascolta e ha occhi; nella XXXVI, 83 che ha mani e nella X,3 che “nella sua mano c’è la sovranità su ogni cosa” e che “sta seduto” sul trono. I primi teologi islamici, soprattutto della scuola Karramita, fondata da Ibn Karram, ma anche quella hanbalita, furono, sulla base di questi versetti ,decisamente “antropomorfisti” e consideravano Allah come una sorta di re celeste Le scuole teologiche del tardo IX secolo, quali la mutazilita, la asharita e le shafiita, più razionaliste, contestarono recisamente tale interpretazione dei versetti riportati, che vennero definiti mutashabihat, ossia “ambigui, e optarono per una interpretazione allegorica, per la quale la mano di Allah era da considerarsi allegoria dell’onnipotenza divina, le orecchie e gli occhi figure dell’onniscienza e così via. Ma a partire dal X secolo prevalse una terza linea interpretativa che, in qualche modo si imporrà sulle altre e diverrà di riferimento per tutta la teologia seguente, proposta già dalla scuola hanbalita, accusata di antropomorfismo, e rilanciata da quella ashariita che ne riconobbe la validità metodologica e abbandonò la pura speculazione razionale come metodo teologico. Secondo questa impostazione, bisogna credere che Dio abbia realmente mani e occhi, che sieda realmente sul trono e così via, ma non è lecito chiedersi come siano queste mani e questi occhi, come sia fatto il trono di Dio: Il principio metodologico sottostante è quello della sottomissione pura, per cui l’uomo di fede sincera deve contentarsi di quanto dice il Corano sulla fisionomia di Dio e trattenere le immaginazioni della ragione e, soprattutto, contenere la sua volontà inquisitoria, affermando che, se Dio avesse voluto, avrebbe chiarito lui stesso in modo più efficace, queste annotazioni. Prevale quindi il principio “pedagogico” di interpretazione del dio coranico: Dio si autodescrive in termini antropomorfici perché vuole farsi capire da tutti, ma come sia Dio e quali siano i suoi pensieri nessun uomo può appurarlo. Come afferma Bausani: “la teologia cranica è forse tra le più radicali di formulazioni di teismo personalistico di tutta la storia delle religioni. L’iddio coranico è persona completamente libera e le sue azioni sono totalmente arbitrarie: nulla gli si può chiedere, non è tenuto a darne ragione agli uomini”. Le uniche determinazioni che si possono desumere dal Corano sono che Dio è Creatore, un creatore in continuo movimento, artefice di una dinamica universale inesauribile: è lui che fa e disfa il mondo umano e quello inanimato (II, 164 e LV, 1-26) fino a dire ciò che è diventato anche un nostro proverbio: “Non cade foglia che Dio non voglia”, nella sura VI, 59. Dio è l’assoluto e onnipotente creatore e l’uomo è creatura in senso pieno, ma null’altro e non un collaboratore di Dio nella creazione. La stessa nozione biblica di “alleanza” è inadeguata: nella visione cranica Dio semplicemente detta le sue condizioni e l’uomo vi si adegua. Dio, dunque. Fa ciò che vuole: è libero non solo di fare e disfare a piacimento, ma anche di ritornare sulle sue stesse decisioni, come appare non di rado nel Corano ove una stessa materia viene in un certo passo regolata da Allah in un certo modo e in modo del tutto diverso in un altro, tant’è che la cosa ha costretto gli esegeti musulmani a costruire la cosiddetta teoria del versetto abrogante e del versetto abrogato. Allah, insomma fa il bene delle sue creature, ma non è soggetto al bene; può decidere di amare queste o quelle creature particolari, ma non è tenuto all’amore, non è mai vincolato, per non ledere la sua libertà assoluta. Dio, inoltre, non è quasi mai definito come “padre”, ma come “rabb”, ossia principe e signore, mentre l’uomo è ‘abd, ossia servo o schiavo. Il concetto fi filiazione tra Dio e l’uomo è recisamente rifiutato dall’islam e lo stesso Maometto rinnega come ispirati da Satana, dei versetti corabici in cui si affermava che Allah aveva tre figlie, Allat, Uzza, Manat). Semmai si potrebbe dire che Allah viene descritto con termini che paragonano la sua azione a quella di una madre sollecita, anche se mai è detto che Dio è madre, affermazione che suonerebbe blasfema. Come se non più, di quella che chiama “padre” Dio. Quasi tutte le 114 sure, infatti, si aprono con l’espressione “Nel nome di Dio clemente e misericordioso, i cui termini arabi, rahim e arrahman, derivano dalla radice rahm che indica l’utero materno. Il Dio coranico, dunque, appare come “misericordioso”, che ha a cuore il bene e la felicità dei suoi servi ai quali si riserva di dire, nell’ultimo giorno: “Vieni o anima tranquilla, ritorna al tuo Signore, piacente e piaciuta ed entra tra i miei servi, entra nel mio paradiso” LXXXIX, 27.30. Tuttavia, e non lo si deve dimenticare, il dio coranico si presenta anche come il punitore. Innumerevoli volte egli minaccia i suoi servi impenitenti e riottosi di punizioniimmediate o castighi eterni. Le espressioni di durezza sono pari a quelle di bontà e misericordia, quasi a bilanciare un’idea troppo benevola di Dio e troppo vicina a quella cristiana, di cui si rifiuta l’eccessiva preoccupazione divina, ossia l’immagine di un dio troppo innamorato e quindi dipendente dalle sue creature. Ecco, dunque, che Allah si rivolge in questi termini a Maometto, nella sura VI,147: “E se essi ti smentiscono, o Maometto, di’ loro: il vostro Signore è il Dio di misericordia ampia, ma è impossibile stornare l’ira sua da un popolo di scellerati”. E se Dio è colui che dà la vita è anche colui che dispensa la morte (III, 156) e che è violento nel punire (III, 11; VIII, 13 e ss) ed è vendicativo con i recidivi (V, 95). E anche Iblis, Satana, deve affermare nell’ottava sura, al versetto 48 “Io vedo quel che voi non vedete. Io ho paura di Dio. Dio è, quando castiga, crudele!”. Inoltre, Dio gioca con gli iniqui e con gli astuti sullo stesso piano: “Essi tramano astuzie? E anch’io tramerò astuzie” si dice alla sura LXXXVI, 15 e, nella sura III, 54 “Gli altri, gli iniqui, insidiarono, e Dio insidiò, e Dio è fra gli insidiatori il migliore!” Quarto tema: La specificità della rivelazione coranica A. IL CORANO: STRUTTURA E TEMATICHE PRINCIPALI. Il Corano è diviso in 114 capitoli, detti surah, a loro volta divisi in versetti, detti ayat. La divisione del Corano in sure è antica e risale probabilmente alla recensione curata da Abu Bakr. La prima sura, chiamata “aprente” (fatihah), è seguita da tutte le altre secondo un ordine empirico, non cronologico: si va dalle sure più lunghe alle più corte, da ritenere, in linea di massima, le più antiche. A capo di ogni sura vi è l’indicazione del luogo della recitazione: vi sono, dunque, le sura della Mecca e di Medina. Le sure della Mecca sono state divise dagli orientalisti in tre gruppi: SURE MECCANE: dal 610 al 622 SURE MEDINESI: Sono le sure risalenti all’ultimo decennio, compreso tra il 622 e la morte di Muhammad, avvenuta nel 632. Le sure di tale periodo si distinguono per lo stile e per i contenuti. I versetti più brevi e incalzanti delle prime sure lasciano il posto a una prosa più discorsiva, anche se sempre animata da rime e assonanze e segnata qua e là da slanci di vera poesia. Il Testo sacro assume un carattere più normativo e dà disposizioni su materie di vario genere. Essendo le ultime sono anche le definitive e più importanti di tutto il Corano. IL SIGNIFICATO: Il Corano è la principale teofania dell’Islam: è la parola di Dio testualmente rivelata dall’arcangelo Gabriele al Profeta, il quale a sua volta l’ha trasmessa ai suoi compagni che l’hanno memorizzata e trascritta. Esiste un’unica versione del testo del Corano, accettata da tutte le scuole dell’Islam. Il testo coranico è considerato integralmente divino, non solo nel suo significato, ma anche nella sua forma. E’ parola che esce dalla “bocca” di Dio, senza alcuna mediazione. Mentre la Dei Verbum ci insegna che le scritture sono Parola rivelata mediante ispirazione, ovvero un’ispirazione che non scavalca l’uomo, ma lo rende partecipe quale strumento della rivelazione della Parola stessa (“Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinchè, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte”11), la fede islamica ritiene il Corano luogo e tempo della rivelazione di Dio in quanto tale, senza alcuna mediazione strumentale. E’ improprio, quindi, per un cristiano istituire un parallelismo Bibbia-Corano, perché induce a trasferire il codice interpretativo valido per l’una sull’altro. Il parallelo da istituire, semmai, è Cristo-Corano, perché, l’uno e l’altro, all’interno della relativa logica religiosa, sono il “segno assoluto”, il simbolo di un evento salvifico. Dice giustamente Rizzardi:” Cristo è segno e sigillo di un’alleanza divino-umana che destina l’uomo a partecipare alla realtà di Dio, mediante l’essere in Cristo; il Corano è segno e sigillo di un’alleanza che stabilisce Dio come Signore e l’uomo come “sottomesso”. Quindi, dice ancora Rizzardi, “Il Corano, per i credenti musulmani è anzitutto il simbolo del patto tra Dio e l’uomo, patto pre-temporale (mithaq) che perdura nel tempo storico (cfr. testo coranico 7,127 a pag. 4 di questo scritto). Il Corano, prima ancora di essere aperto, letto e compreso è già un evento importante, come segno dell’alleanza stipulata tra Dio e l’uomo. Elemento imprescindibile per la corretta valutazione dei profondi significati del Corano è credere nell’analfabetismo di Maometto. Afferma NASR, uno dei massimi studiosi di islamismo, musulmano egli stesso : “Il Profeta deve essere ritenuto illetterato per la stessa ragione per la quale la Vergine Maria deve essere creduta Vergine. Il tramite umano del messaggio divino deve essere puro e intatto. La Parola divina può essere scritta soltanto sulla pura e “intatta” tavola della ricettività umana. Se questo Verbo appare sotto le specie della carne, la purezza è simboleggiata dalla verginità della madre attraverso la quale si incarna; se appare sotto le specie del Libro, questa purezza è simboleggiata dall’intelletto incolto della persona prescelta per annunciare tale verbo fra gli uomini (...)”. Prima ancora di assumere la forma scritta in un libro, il Corano fu una rivelazione verbale. Il Profeta udì la Parola di Dio e la espresse ai suoi compagni, i quali la memorizzarono e la scrissero su pergamene. Quando l’arcangelo Gabriele apparve per la prima volta a Maometto, il suono del primo versetto del Corano si propagò nello spazio intorno a lui. Il Corano è, quindi, innanzi tutto suono sacro che si espande, che si propaga dal primo momento a tutt’oggi in tutto il mondo islamico. I suoni del Corano si espandono nei luoghi dell’agire quotidiano degli uomini, lo pervadono. Molti fedeli memorizzano parti intere del Testo sacro e lo recitano senza consultarlo. L’arte di salmodiare il Corano è l’arte più antica e sacra, capace di commuovere profondamente il credente. L’architettura religiosa, che è considerata arte sacra a sua volta, trova la sua ragion d’essere nell’arte del salmodiare. La moschea , infatti, si struttura in spazi che contengono e avvolgono l’espansione del suono sacro. Dal momento in cui il suono è divenuto Parola, poi, si è sviluppata nel mondo musulmano un’altra arte sacra, l’arte della scrittura: la calligrafia. La lingua araba che compone il Corano è il corpo del Verbo; di conseguenza non si può dare un islamico senza l’arabo. La corretta grafia araba, quindi, non risponde a criteri meramente estetici; non è un’aggiunta o un ornamento, ma è sostanziale, perché è la forma visibile della rivelazione, così come il suono è la sua forma udibile. Di conseguenza il Corano in quanto rivelazione è intraducibile, perché non si può cambiare la Parola di Dio. Se si traduce il Corano si ottiene un testo divulgativo, informativo, ma non “rivelato”. La rivelazione sta nella lingua araba. L’intraducibilità del Corano e l’appello rivolto alla gente di cultura non araba, sebbene musulmana, a mettersi a confronto con il Corano originale arabo, ha scandalizzato la mentalità occidentale, che senza comprendere il senso profondo della richiesta, quale abbiano segnalato, muove accuse di “integrismo”, “nazionalismo religioso”, “ghettismo spirituale”. Apprendere la lingua coranica, che è distante dall’arabo contemporaneo come il latino dall’italiano odierno, significa porsi in cammino verso la conoscenza della rivelazione. L’apprendimento graduale, parcellare, di alcune parole coraniche, che comporta l’uscire fuori dal linguaggio parlato della propria cultura, è un segno della volontà di intraprendere un cammino di ascesa verso la Parola. La traduzione in lingua corrente, che porta immediatamente la Parola all’uomo, al suo gergo, non induce ad aprirsi alla Parola, assaporandone “segno” (ayat) per “segno”. Il Corano, poi, è chiamato anche al-Furqan, “il Discernimento”, poiché contiene i principi per il discernimento sia intellettuale sia morale. Il Libro quindi, in quanto luogo sacramentale della chiamata di Dio e della risposta dell’uomo, e il luogo nel quale si consuma l’esistenza non solo sul piano del significato, ma anche sul piano dell’esperienza mistica e pratica. La sura intitolata La Luce riassume ciò che è la rivelazione: Dio è Luce e illumina ogni uomo, mostrando la via giusta: “Dio è luce dei cieli e della terra, e somiglia la sua luce ad una nicchia, in cui è una lampada, e la lampada è in un cristallo e il cristallo è come una stella lucente, e arde la lampada dell’olio di un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, in cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. E luce su luce; e Iddio guida alla sua luce chi egli vuole, e Dio narra parabole agli uomini, e Dio è su tutte le cose sapiente”. 24,35. In quanto “discernimento” il Corano insegna all’uomo a distinguere il relativo dall’assoluto, il reale dall’irreale: la vera conoscenza è la sapienza che è in funzione del vivere. Il corano quindi è il cuore della shari’ah, della Legge coranica, che è norma dettata da Dio per animare la vita del musulmano. Dio rivela la sua shari’ah, destinata a fondare la ummah. Il rapporto primario e diretto del musulmano è con la shari’ah di Dio, non con Dio. L’Islam è una spiritualità etica. (della shari’ah parleremo più dettagliatamente poi) Un’altra denominazione del Corano è Umm al-kitab, cioè “Madre dei Libri”. Secondo l’indicazione coranica (13,39; 43,4) questa denominazione fa riferimento al Corano increato, scritto in cielo in un prototipo eterno, poi “fatto scendere”. Sottolinea, cioè, il carattere divino, celeste, del libro, la sua assoluta trascendenza, la sua immacolatezza originaria prima del suo impatto con l’espressione letteraria. Inoltre la tradizione islamica vede nel Corano anche la madre di tutti i libri in senso più letterale, ovvero la scienza di tutte le scienze. Il Corano è, quindi, “Libro celeste per l’uomo”, nel senso che permette la visione della realtà all’interno della universale vocazione alla sottomissione a Dio, e, più in particolare, è modello di eloquenza insuperata e insuperabile per il poeta, è fonte del diritto e della morale. Ma il nome più diffuso per indicare il Libro è al-Qur’an al majid, (Nobile Corano), che rivela l’alto rispetto con il quale esso è trattato dal fedele. Il Corano, quindi, è una realtà sacra che abbraccia e segna la vita del musulmano dalla culla alla tomba. I versetti del Corano sono effettivamente i primi suoni uditi dal bambino appena nato e gli ultimi che le persone morenti sentono nel cammino verso l’incontro con Dio. In un certo senso l’anima del credente è “intessuta” di espressioni attinte dal Corano: ogni azione inizia con bism’Llah (sia ringraziato Dio) e finisce con al-hamd li’ Llah (sia ringraziato Dio). L’atteggiamento verso il futuro è sempre condizionato dalla consapevolezza dell’insha’-Allah (sia fatta la volontà di Dio), poiché tutto dipende dalla volontà divina. Il primo capitolo del Corano, “l’aprente” (sarat al-fatihah) consta di sette versetti ed è il più recitato del Corano perché contiene il nucleo delle preghiere canoniche quotidiane e, sinotticamente, il messaggio del Corano per intero: “ Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso. Lode a Dio, Signore dei Mondi, il Clemente, il Misericordioso, Sovrano del giorno del giudizio. Te adoriamo, Te invochiamo in soccorso, guidaci al retto sentiero, al sentiero di coloro a cui tu hai largito la tua grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira nè di coloro che sono fuorviati”. TAFSIR E TA’WIL La dimensione forse più importante degli studi sul Corano riguarda la decifrazione del suo significato, tradizionalmente detto tafsir e ta’wil: il primo termine si riferisce al significato esteriore del testo, il secondo a quello intimo. Il TAFSIR può essere un commento esegetico, o storico, o filologico, o teologico. Il TA’WIL, invece, si occupa del significato intimo, nascosto, esoterico del Corano: indica quindi lo sforzo per passare da una lettura “letterale” a una “profonda”. Tali approfondimenti sono stati svolti dai sufi e in ambito sciita (ricordiamo la misteriosa figura dell’imam nascosto). Il Ta’wil è una forma di interpretazione simbolica del testo: il risultato della lettura in profondità del Corano non è un miglior ragguaglio dogmatico circa Dio, ma un approssimarsi al “volto di Dio”, cogliendo il suo disegno, i suoi pensieri, i suoi voleri. Afferma il sufi al-Din Rumi: “Il Corano è come una sposa che non ti rivela il suo viso, per quanto tu le tolga il velo. Tu potresti esaminarlo eppure non ottenere né felicità né svelamento; ciò è dovuto al fatto che l’atto di togliere il velo ti ha respinto e ingannato, si’ che la sposa ti si è dimostrata brutta, come per dire: -Io non sono poi tutta quella bellezza-. Il Corano sa mostrarsi in qualsiasi maniera gli piaccia. Se tu non cerchi di strappargli il velo, ma ti sforzi soltanto di assecondarlo, inaffiando il suo campo seminato e curandolo discretamente, affannandoti su quello che preferisce, esso ti mostrerà il viso, senza che tu debba strappargli il velo”. Quinto tema L’etica islamica e la shariah LA SHARI’AH Essa è la legge divina. I musulmani considerano la shari’ah depositaria dell’incarnazione concreta della volontà di Dio e di quanto Egli desidera che essi facciano in questa vita per ottenere la felicità in questo mondo e la beatitudine nell’aldilà. Le fonti della legge sono: il Corano, La Sunna, il ragionamento analogico, il consenso comunitario. Le norme etiche sono indicate, quindi, scrupolosamente dalla legge: il termine shari’ah deriva dalla radice shr’ che significa “strada”, ovvero la strada da seguire in questa vita. La legge contempla ogni sfera dell’esistenza, dai riti di culto alle transazioni economiche. La shari’ah divide tutte le azioni in cinque categorie: OBBLIGATORIE (waijb) per esempio le preghiere quotidiane ecc. RACCOMANDATE (mandub), tra cui l’elemosina individuale ; INDIFFERENTI (mubah), per esempio il tipo di verdura che si mangia e l’attività che si esercita; REPRENSIBILI (makruh), come il divorzio; PROIBITE (haram), tra cui l’omicidio, l’adulterio, il furto, cibarsi di maiale e dei suoi derivati e bere alcolici. I musulmani, quindi, sanno valutare tutte le loro azioni sulla base della legge. Ciò non significa che essi non sono liberi, perché l’Islam intende la libertà non soltanto come mera ribellione individuale a tutte le autorità, bensì come partecipazione alla libertà che nella sua pienezza appartiene soltanto a Dio. Conformandosi alla legge divina, il musulmano o la musulmana diventano liberi anziché prigionieri, perché così facendo allargano i confini del loro essere. Abbandonandosi alla volontà di Dio, i musulmani sanno trascendere la prigione dei loro ego e la soffocante gabbia dei loro io passionali. Logicamente le basi della legge stanno nel Corano e nella Sunnah; in essi la sahri’ah trova la sua fonte di ispirazione e proprio perché si motiva in essi è immutabile. Immutabile, tuttavia, nei principi, non nelle applicazioni: ogni credente trova nella legge gli strumenti di discernimento validi per applicare i principi a situazioni non contemplate nella legge originaria. Ma per la religione islamica non è mai la legge ad essere modellata dalla società e dalla cultura, ma accade esattamente il contrario: sono i principi della legge che devono improntare il vivere, contestualizzandosi. All’appunto frequentemente mossi dai detrattori dell’Islam, secondo il quale la legge islamica dovrebbe adeguarsi ai tempi, l’Islam risponde che, se così fosse, a cosa allora i tempi stessi devono adeguarsi, cosa li ordina e li costringe a cambiare in questo mondo? L’Islam vede nella shari’ah il fattore tenuto a “creare i tempi” e a coordinare la società umana. Gli uomini, quindi, devono cercare di vivere secondo la volontà di Dio incarnatasi nella shari’ah, anziché modificare la legge di Dio a seconda dei modelli mutevoli di una società basata sulla instabilità della natura umana. Un manuale di morale elementare presenta la seguente lista di peccati gravi: apostasia; rifiuto, anche solo interiore, della fede musulmana; accusa di menzogna rivolta a Maometto; insulti al Profeta; omicidio, fuori della “piccola jihad”; fornicazione; adulterio; mancanze contro natura; mancanze gravi contro i genitori; magia nera; calunnia grave; usura; . I peccati sono una disobbedienza alla legge di Dio e tali restano finchè l’individuo non si sarà pentito nel suo cuore e non avrà cambiato atteggiamento. Allah, comunque, è un Dio misericordioso, ricco di amore e sempre pronto al perdono. L’individuo ha tempo di pentirsi sino all’ultimo secondo della sua vita, mentre dopo la morte sarà troppo tardi. IL MATRIMONIO E LA FAMIGLIA Per i musulmani il matrimonio è il rito di passaggio che garantisce l’acquisizione della maggiore età. La donna soprattutto, ma anche l’uomo, si trovano nello stato di minori, di dipendenti e persino di irresponsabili se rimangono celibi: una situazione che suscita disprezzo, disgusto e sospetto. Il celibato religioso non è condiviso dai musulmani, che lo ritengono uno stile di vita non consono alla volontà di Dio e un’aberrazione dei cristiani, in genere accusati di fanatismo religioso. “L’Islam ignora completamente la prefigurazione attraverso il celibato della situazione angelica alla quale l’uomo è destinato nell’eternità. Nell’Islam la sessualità è un dono di Dio e la sua pratica naturale fa parte della proclamazione della gloria di Dio, a condizione che venga esercitata con misura e sapienza come l’uso di tutte le buone cose che la misericordia di Dio ha messo sulla terra per l’uomo. L’amore, invece, in quanto sentimento di intensa reciprocità, è un accessorio e non un fine del matrimonio: esso rimane, nelle sue premesse e nelle sue prospettive, un atto eminentemente sociale. Non può, quindi, essere abbandonato soltanto alla scelta e alla responsabilità dei futuri sposi. La sura IV del Corano, inoltre, stabilisce la legittimità della poligamia: “Se avete paura di non trattare con equità gli orfanelli, sposate pure o due, tre o anche quattro donne di cui siete innamorati; ma se temete di diventare ingiusti, sposatene una sola, o ricorrete alle vostre schiave, possesso delle vostre mani destre. Sarà la maniera migliore per non allontanarvi dal giusto” 4,3. In questo contesto la poligamia non ha niente a che vedere con la licenza dei costumi. Essa è diventata un obbligo per l’individuo e una necessità per la società, quando la presenza di due o quattro spose è stata imposta dal bene di gruppo. Ma se c’è rischio di ingiustizia bisogna ritornare al precetto primario che sembra far parte dell’ordine naturale: un’unica moglie. (PIERRE BOZ, L’Islam, Paoline, Milano, 1996). La cellula della società è, quindi, la famiglia. Il Corano esorta a rispettare i propri genitori; molti hadit sottolineano come sia bello agli occhi di Dio conservare i legami familiari e, in particolare, rispettare e onorare il padre e la madre. La famiglia musulmana non è composta soltanto dai genitori e dai loro figli, come accade nella famiglia atomizzata della società urbana moderna occidentale, bensì è ancora per la maggior parte una famiglia allargata che comprende nonni, zii e zie, cugini e suoceri, genitori e figli. Il padre è l’imam della famiglia, poiché rappresenta l’autorità religiosa ed è responsabile sia della salvaguardia degli insegnamenti religiosi dei componenti la famiglia, sia del loro benessere economico. L’uomo, quindi domina nella sfera economica e sociale. La donna, invece, regna incontrastata dentro casa, dove il marito è come un ospite. La vera formazione religiosa spesso dipende dalla madre, specialmente nelle prime fasi: le donne musulmane hanno un ruolo dominante nell’educazione dei figli e in ogni altro aspetto della vita domestica. Attraverso la famiglia le donne esercitano nell’intera società un’influenza molto maggiore di quanto non riveli lo studio superficiale di una struttura familiare che apparentemente sembra religiosa e patriarcale. Tutti i vincoli parentali sono regolati dalla Legge. I musulmani vedono la famiglia non soltanto come un’unità sociale, ma anche religiosa, che protegge l’individuo in mille maniere. La famiglia è l’immediata realtà sociale in cui vengono impartiti i primi ammaestramenti religiosi e rappresenta un “mondo” in cui gli insegnamenti religiosi vanno costantemente applicati e messi in pratica. La famiglia è quindi una piccola realtà sociale e religiosa la cui percezione permette di veicolare l’esperienza della grande famiglia musulmana: la ummah. Conclusioni Parlare di Islam, oggi, non è più solo un dovere intellettuale o un semplice piacere della conoscenza; è diventato una necessità, se vogliamo continuare ad essere cittadini di questo mondo e capaci di comprendere questa società sempre più complessa e sempre più allergica a facili decodificazioni. E’ un imperativo a maggior ragione dopo i recenti tragici fatti che, dopo l’11 settembre, hanno reso più nero l’orizzonte del dialogo e della comprensione reciproca. Ma se vogliamo comprendere quei fatti, qule che sia la tesi che vogliamo sostenere, è indispensabile partire da lontano, perché tante ragioni apparentemente incomprensibili dell’Islam contemporaneo si celano nel primo secolo della sua storia. E ritengo che nella sua scuola sia necessario favorire una contestualizzazione del credo musulmano per capire che, nell’orizzonte culturale islamico, certi fatti possono venire meglio interpretati, acquisendo una luce nuova. Se per la nostra cultura e per la nostra religione – forse sarebbe meglio dire “fede” – non accettiamo semplificazioni, non dobbiamo acconsentire nemmeno alle semplificazioni sull’alterità. Un dato imprescindibile è, allora, che l’islam oggi non si riconosce, se non a livello di ristrette élite europeizzate o americanizzate) nella nuova Koiné culturale dominante a livello planetario che parla inglese e si esprime nell’asettico linguaggio di banchieri, informatici e ingegneri del nuovo ordine internazionale. Le grandi masse urbane o contadine – strette tra la miseria quotidiana e la frustrazione crescente di speranze e aspettative – rischiano di essere sempre più facilmente preda del verbo fondamentalistarivoluzionario se l’Occidente si chiude nelle posizioni intransigenti di rifiuto di certi intellettuali che Saccone definisce “rabbiosi”. Il problema reale è che , agli occhi di decine di milioni di musulmani, di troppi musulmani, i “terroristi” appaiono piissimi credenti, persino coraggiosi, “combattenti sulla via di Dio” impegnati a costo della vita a dare sostanza al precetto coranico di “promuovere la giustizia e combattere l’ingiustizia” (III, 110). Riducendo all’osso i termini della questione: l’Islam sembra porci oggi domande in termini di giustizia, mentre noi continuiamo a parlare del primato della libertà e dei diritti. Ma, ciò che ci sfugge, è che la libertà non è in cima alle preoccupazioni dei più poveri, e la giustizia non è mai stata la prima preoccupazione dei più ricchi. Abbiamo tutti bisogno di una profonda rivoluzione culturale e morale se vogliamo trovare un punto d’incontro e magari costruire insieme, in prospettiva, un nuovo, soddisfacente e duraturo equilibrio. Come interrogare l’Islam? Ipotesi di approccio al credo islamico Schema dell’intervento Premessa metodologica: -centralità della prospettiva fenomenologica e socio-antropologica -centralità del metodo storico-comparativistico 1. 2. 3. 4. 5. 6. Approcci tematici all’Islam Tema storico-scritturale: Abramo come padre dei credenti. Tema teologico: la figura di Muhammad Tema teologico: il monoteismo puro proposto dal Profeta Tema teologico: la specificità della rivelazione coranica Temi etici: i doveri del musulmano, la shari ‘a. Prospettiva della mistica: il Sufismo, una pagina sconosciuta della religione islamica. Conclusioni: quale dialogo è possibile oggi con l’Islam? Breve rassegna bibliografica La rassegna ha carattere solo indicativo e non pretende di essere esaustiva Testo sacro e Detti del Profeta in traduzione italiana: Il Corano, a cura di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1988, corredata di un ampio commento; Il Corano, a cura di H. R. Piccardo, Newton Compton, Roma 1996, redatta con la revisione deell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia. Tra le traduzioni più ampie dei detti del profeta si segnalano: AL NAWAWI, Il giardino dei devoti. Detti e fatti del Profeta, a cura di A, Scarabel, Roma 1990; AL-BUKHARI, Detti e fatti del profeta raccolti da Al-Bukhari, a cura di S. Noja, V. Vacca e M. Vallaro, Utet, Torino 1982 Opere di carattere introduttivo: BAUSANI, Islam, Garzanti, Milano 1980; C. SACCONE, I percorsi dell’Islam. Dall’esilio di Ismaele ai giorni nostri, Messaggero, Padova 2002; F. LENOIR – Y. MASQUELIER (a cura di), La Religione, Utet, Torino 2001, in modo particolare il vol. II e i volumi tematici IV e V; G. Filoramo, Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari 1995, vol. III, con contributi di islamologi quali S. Noja, K. Fouad Allam e A. Ventura; P. BRANCA, Introduzione all’Islam, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; G. RIZZARDI, Introduzione all’Islam, Queriniana, Brescia 1992; se si desidera una lettura facile, ma scientificamente valida si consiglia: E. BUZZI (a cura di), Islam: una realtà da conoscere, Centro Studi sull’Ecumenismo, Marietti, Genova 2001. Sulla figura di Maometto: M. Rodinson, Maometto, Einaudi, Torino 1995; S. Noja, Maometto, profeta dell’Islam, Esperienze, Milano 1985; G. Crespi, Maometto, il profeta, San Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995 Commento ed interpretazione del Corano: W. MONTGOMERY WATT, A. T. WELCH, L’Islam. Maometto e il Corano, Jaka Book, Milano 1980; P. BRANCA, Il Corano. Il libro sacro della civiltà islamica, Il Mulino, Bologna 2001; P. MAGNANINI – P. BRANCA, Islamismo. Vol. 2: Composizione, lingua e stile del Corano, Bologna 1997. Raffronto tra le scritture islamiche e cristiane: MIRKHOND, La Bibbia vista dall’Islam, Luni, Milano 1996; GRIC, Gruppo di ricerca islamico-cristiano, Bibbia e Corano. Cristiani e musulmani di fronte alle scritture, Cittadella, Assisi 1992; C. M. GUIZZETTI, Bibbia e Corano. Confronto sinottico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; G. RIZZARDI, Il fascino di Cristo nell’Islam, IPL, Milano 1989 Sul monoteismo islamico e sulla concezione di Dio: H. CORBIN, il paradosso del monoteismo, Marietti, Genova 1986, C. SACCONE, Il volto di Allah nelle scritture e nella riflessione teologica e mistica, in id., I percorsi dell’Islam, Messaggero, Padova 2002. Sul culto islamico: J. RIES ( a cura di), Il credente nelle religioni ebraica, musulmana e cristiana, Jaka Book, Milano 1993; G. Crespi, Nel nome di Dio: preghiere, cantici e meditazioni islamiche, Torino 1985; C. M. GUZZETTI, Islam in preghiera, Elle di ci, Torino 1991; V. SALVOLDI, Islam. Un popolo in preghiera, Emi, Bologna 1987 Sull’etica musulmana: Fondazione Agnelli (a cura di), Dossier mondo islamico. Dibattito sull’applicazione della shari’a, Torino 1995; su etica e diritti umani: A. PACINI, L’islam e il dibattito sui diritti dell’uomo, Torino 1998; sui rapporti con le altre religioni; B. LEWIS, Culture in conflitto. Cristiani, ebrei, musulmani alle origini del mondo moderno, Donzelli, Roma 1997; W. MONTGOMERY WATT, Cristiani e musulmani, Il Mulino, Bologna 1994; J. BOUMAN, Il Corano e gli Ebrei, Queriniana, Brescia 1992; sul ruolo della donna e la questione femminile: R. EL KHAYAT, La donna nel mondo arabo, Jaka Book, Milano 2002 Sul Sufismo: E. DE VITRAY MEYEROWITCH, I misitici dell’Islam, Parma 1992, con brevi profili degli autori, arabi e persiani, presentati dalla curatrice; G. SCATOLIN, Esperienze mistiche dell’Islam. I primi tre secoli, Bologna 1994; M. MORENO, Antologia della mistica arabo-islamica, Laterza, Bari 1987; F. J. PEIRONE – G. RIZZARDI, Islam. Spiritualità e mistica, Nardini, Firenze 1993. Un introduzione semplice alla mistica sufi è quella di A. J. ARBERRY, Introduzione alla mistica musulmana, Marietti, Genova 1986; mentre più articolata e complessa è quella di M. MOLE’, I misitici musulmani, Adelphi, Milano 1992