«Turandot», l`opera antropologica di Giacomo Puccini

Focus On
«Turandot», l’opera antropologica
di Giacomo Puccini
di Sandro Cappelletto
U
n tempo non c’erano né la luna, né le stelle, né l’arcoreste amazzoniche. Gli enigmi, la morte, l’amore, la sterilità.
baleno, e la notte era completamente oscuIl rifiuto del matrimonio, il ricordo dello stupro subira. Questa situazione mutò a
to dalla principessa sua antenata, il piacausa di una ragazza che non si
cere nel vedere decapitati i prevoleva sposare. Si chiamatendenti e nello sfidare le
va “Luna”. Esasperaattese del padre e del
ta dalla sua ostisuo popolo. Tunazione, la marandot è una
dre la cacciò
donna in rivia. La ravolta, ferogazza ercemente.
rò a lunLa Méligo piansande di
gendo,
Debuse quansy è mido volle
te, lei no.
ritornaEd è la
re in casa,
prima volla madre
ta che un sisi rifiutò di
mile persoan
9
aprirle: “Non
naggio femmi(1
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ti resta che dorminile
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re fuori, così imparetalogo
pucciniano:
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rai a non volerti sposare!”,
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accostarle?
Mimì,
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gridò. Disperata, la ragazza corManon,
Tosca,
Minnie,
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A
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ra nc o Zef fir
ell i e d i r et t a d a C l a u d
reva di qua e di là, batteva alla porta di
Angelica…?
casa, singhiozzava. La madre si infuriò talmente per
È questo il senso della frase rivolta dal compositore
questo comportamento che prese un coltello da caccia, aprì ala Giuseppe Adami, librettista dell’opera assieme a Renato Sila figlia e le tagliò la testa. La testa rotolò a lungo, gemendo, atmoni: «Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tuttorno alla capanna; e dopo essersi interrogata sul suo avvenita la mia musica scritta fino a ora mi pare una burletta e non
re, decise di trasformarsi in luna: “Così – pensò – mi vedranmi piace più»?
no solo di lontano”.»
Per il pubblico della Fenice il sipario calerà, questa volta, sul
Quanti riferimenti, in questo mito amazzonico degli indiani
mi bemolle acuto dell’ottavino che, assieme al coro, racconta
Cashinawa, a Turandot: anche lei non si vuole sposare, anche
il compianto per il suicidio di Liù. L’ultima nota scritta da Puclei, come una visione, si lascia ammirare soltanto da lontano.
cini, prima che ragioni nobili e meno nobili di completamenPura come la luna alla quale, nel libretto dell’opera, si rivolge la
to delle intenzioni del Maestro, o forse di prolungamento nel
folla di Pechino, invocandola con epiteti apotropaici: «O testa
tempo dei diritti d’autore, spingessero l’editore a persuadere
mozza», «O esangue», «O amante smunta dei morti». E ancoFranco Alfano a scrivere il parossistico e pompieristico finara: «Come aspettano il tuo funereo lume i cimiteri».
le: mal riuscito comunque, nella versione originale o in quella
Solo quando la luna sorge e «dilaga in cielo la sua luce smorsforbiciata da Arturo Toscanini, primo direttore dell’opera, il
ta» si potrà procedere col rito di morte voluto dalla Principes25 aprile 1926 alla Scala.
sa di ghiaccio e solo all’alba, quando la «faccia pallida» sarà diPuccini si è fermato lì perché quelle erano le colonne d’Ercoleguata, si celebrerà il trionfo dell’amore.
le del suo universo drammaturgico. La morte della schiava –
Turandot, l’opera antropologica di Giacomo Puccini. Tolte le
«Liù dolcezza, Liù poesia» - è l’apogeo dell’opera: e ne era concineserie, gli omaggi a un’idea oggi improponibile del folklosapevole sin dall’inizio, da quando lui stesso scrive i versi delre e dell’esotico, la monumentalità melodrammatica di cui poi
l’aria della ragazza innamorata senza speranza.
si sarebbe nutrita l’industria del cinema e il palato del suo pubLe angosce di Turandot, la sua ferocia, la sua fragilità, lo afblico, questo è l’orizzonte per lui nuovo con il quale si confascinano e lo raggelano, tenendolo distante. Si ferma lì perfronta nell’ultima e incompiuta opera. Lei è della famiglia di
ché lì sta il punto di crisi. Turandot non è l’opera ultima delSalome, di Elettra, di Medea: un mito fondante della nostra
la lunghissima vicenda dell’antico melodramma italiano, ma
cultura e diffuso ovunque, se le radici della
la prima di un nuovo capitolo della sua sto«fiaba» persiana intercettata da Carlo Gozria, figlio del Novecento europeo, delle sue
zi nel 1762 leggendo la raccolta francese Le
scoperte e inquietudini. Puccini, da comVenezia – Teatro La Fenice
Cabinet des Fées, si diramano dalla Russia alla 11, 12 13, 14, 18 dicembre, ore 19.00 positore informato e colto, mai soddisfatto,
Germania, dalle campagne italiane alle fo16 dicembre, ore 15.30
l’aveva prediletta per questo.
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83
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).
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La favola «noir» di Puccini
di Paolo Fabbri
I
l trionfo dell’amore. Così era intitolato un dramma che Giacosa, in seguito ripetutamente librettista di Puccini, aveva tratto nel 1875 dalla favola teatrale Turandotte del veneziano Carlo Gozzi (1762). A quel testo settecentesco s’erano interessati anche altri musicisti come Antonio Bazzini
(Turanda, 1867), uno dei maestri di Puccini al Conservatorio milanese, e soprattutto Ferruccio Busoni, cui si devono
le musiche di scena per un adattamento tedesco della fiaba di
Gozzi rappresentato a Berlino nel 1911 sotto la regia di Max
Reinhardt (di quell’insolito, originale spettacolo, a Puccini
aveva parlato un’amica), e poi una vera e propria opera in due
atti intitolata Turandot e rappresentata a Zurigo nel 1917.
Dopo i debutti all’estero (La fanciulla del West, New York
1910), da ultimo con una serie di «piccole» prove (la «commedia lirica» La rondine [Montecarlo, 1917] e gli atti unici quasi da camera de Il trittico [New York, 1918]), per il suo ritorno ad una «prima» italiana, e alla Scala, Puccini intendeva ripresentarsi con una prova importante, ma pur sempre nelle sue corde. Scrivendone all’amica Sybil Seligman, il 20 ottobre 1921, auspicava: «Se avessi un soggetto carino, leggero, sentimentale e anche doloroso e con un po’ di burlesco
credo che potrei ancora fare del buono, ma cose serie – e sul
gran serio – no».
Scelto il soggetto attorno a quel 1920, e messisi prontamente al lavoro i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni,
l’opera procedette con fatica tra pentimenti e sconfessioni,
col risultato che alla morte di Puccini (29 novembre 1924) ai
tre atti mancava ancora il risolutivo duetto finale. E così venne eseguita alla Scala, il 25 aprile 1926, sotto la direzione di
Toscanini.
Sempre teso a «tentar vie non battute», Puccini era stato
attratto da quella vicenda favolosa e irreale, con esotismi e comicità burlesche (le maschere della
commedia dell’arte, presenti nell’antigoldoniano Gozzi), che andava a sfociare nella finale esplosione della «passione di Turandot
che per tanto tempo ha soffocato
sotto la cenere del suo orgoglio»
(lettera a Simoni, 18 marzo 1920).
Magari corretta dall’introduzione ex novo di un personaggio femminile «piccolo» ma intensamente patetico come Liù. «Credo che
Liù va sagrificata di un dolore ma
penso che non può svilupparsi –
se non si fa morire nella tortura.
E perché no? Questa morte può
avere una forza per lo sgelamento della principessa», commentava il compositore scrivendo ad
Adami, l’otto novembre 1922, ribadendo così una convinzione
espressa a suo tempo a proposito
di un altro soggetto: «Ma c’è dello chagrin? Almeno una scena che
pianga». Affidato al compianto
funebre degli astanti, il personaggio è congedato con parole
di esemplare icasticità:
– Liù!.. bontà...
– Liù!.. dolcezza...
– Dormi!..
– Oblia!
– Liù!..
– Poesia!..
Oltre a questo culmine, i «puccinismi» di Turandot si possono ravvisare nella scrittura tenorile appassionata e perfino follemente eroica, nello stile di conversazione media e comica di Ping, Pong, Pang, nell’alternanza di tali registri in ossequio alla lucida consapevolezza di drammaturgo espressa
nella citata lettera alla Seligman.
Ma c’era molto di nuovo accanto a tutto questo. Ambizioni simboliste e post-wagneriane, anzitutto: con esiti che non
paiono tra le cose memorabili della partitura. Ben altrimenti
riusciti sono la magnifica concezione corale – a masse in perenne movimento – specie dell’atto I, e la copiosa vena di tono lieve, di macabra giocosità, di comico grottesco con aperture liriche, rime da filastrocca («Notte senza un lumicino, |
gola nera d’un camino, | son più chiare degli enigmi di Turandot!») e perfino di stile operettistico-boulevardier delle parti che vedono agire appunto il terzetto Ping, Pong, Pang (un
sentore del Mikado di Gilbert e Sullivan?).
Lo stesso esotismo favoloso dell’ambientazione complessiva si presenta più inquietante che decorativo. Piuttosto che
nell’uso di temi originali desunti da qualche raccolta etnofonica o carpiti al carillon dell’amico barone Fassini (già addetto al consolato italiano in Cina), Puccini fece leva sul carattere «barbarico» di quel mondo extra-europeo, in sintonia
con quanto realizzato altrove da
più giovani colleghi (Stravinsky,
Bartok, Prokofiev). Accanto alle preziose sonorità di un esotismo più convenzionale, il clima
della raffinata crudeltà orientale
è reso con dissonanze, politonalità, ampio uso di ottoni e percussione, impasti secchi ed asprigni,
ritmi appuntiti, ostinati ossessivi.
La stessa Turandot, per la sua linea di canto, fa pensare spesso allo Strauss «espressionista» di Salome e di Elektra: come ben si addice a una Vergine crudele, vindice reincarnazione di un’ava
violentata.
Libretto e partitura di Turandot
sono abbondantemente esulcerati da componenti di sadismo da
teatro della crudeltà, dove le sonorità pungenti della partitura si
combinano con uno stile poetico
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«petroso» e allitterante. Un solo esempio sarà eloquente:
La gelida bianchezza della luna si diffonde sugli spalti e sulla città.
[...]
Una lugubre nenia si diffonde.
I Servi del Boia
Ungi! Arrota! Che la lama
guizzi, sprizzi fuoco e sangue!
Il lavoro mai non langue
dove regna Turandot!
La tinta, lividamente lugubre, si avvicina assai alle atmosfere sinistre del Pierrot lunaire di Arnold Schönberg (1913), da
Puccini ascoltato a Firenze nel 1924.
La folla
Dove regna Turandot!
La luna malata
O luna ogni notte moribonda
sul nero pantano dei cieli,
il tuo occhio febbrilmente dilatato
rapisce come una ignota melodia.
I Servi del Boia
Dolci amanti, avanti, avanti!
Con gli uncini e coi coltelli
noi le vostre auguste
pelli
siamo pronti a
ricamar!
[...]
Turandot all’Opera di Vienna (1983)
I Servi del Boia sghignazzando
Quando rangola il
gong gongola il boia!
Del resto, non mancano certo
gli esempî di umor nero e di allucinata visionarietà. Una didascalia nell’atto I: «Ma ecco richiami
incerti, non voci ma ombre di
voci, si diffondono dall’oscurità
degli spalti. E, qua e là, appena
percettibili prima, poi, di mano
in mano, più lividi e fosforescenti, appariscono i fantasmi. Sono
gli innamorati di Turandot che,
vinti nella tragica prova, hanno
perduta la vita». Un’altra nell’atto III, dopo che Liù ha esalato
il suo ultimo respiro: «Allora un
terrore superstizioso prende la
folla: il terrore che quella morta,
divenuta spirito malefico perché vittima di una ingiustizia,
sia tramutata, secondo la credenza popolare, in vampiro».
L’apparizione della luna, nel primo atto, è non meno
spettrale:
Decapitazione
La luna, lucente scimitarra
sul nero cuscino di seta,
taglia grande e spettrale
la dolorosa oscurità della notte.
Pierrot, vagante senza meta,
fissa con spavento mortale
la lucida spada lunare
[...]
Nel delirio gli sembra sentire
la luna, lucente scimitarra
tagliargli il collo peccaminoso.
La folla
Perché tarda la luna?
Faccia pallida,
mostrati in cielo!
Presto! Vieni! Spunta,
o testa mozza!
Vieni, amante smunta
dei morti!
– O esangue!
– O taciturna!
– O squallida!
Come aspettano il tuo funereo lume
i cimiteri!
Ecco... laggiù! Un barlume
dilaga in cielo la sua luce smorta!
[...]
Una volta di più, si conferma la vocazione internazionale
del teatro e della scrittura del Lucchese: quella che per Fausto Torrefranca (Puccini e l’opera internazionale, 1930) era un limite e un tralignamento, sempre più ci appare come uno dei
suoi punti di forza.
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«Turandot» autentica ed essenziale
Denis Krief spiega l’allestimento dell’opera in scena alla Fenice
di Patrizia Parnisari
T
ra entusiastici sostenitori e ferosvolti anche da questo punto di vici detrattori delle sue regie, Desta. Dunque, a me preme far emerVenezia – Teatro La Fenice
nis Krief si muove con amabilità
gere l’essenza di Turandot e non far
9, 11, 12, 13, 14, 18 dicembre, ore 19.00
e ironia proseguendo per una strada ch’egli
finta
che ci troviamo in un’improba15, 16 dicembre, ore 15.30
stesso definisce difficile e coraggiosa. Ha firbile Cina di chissà quale secolo. Non
mato allestimenti di opere classiche e contemporanee districandosi con
mi considero certo un falsario.
disinvoltura tra sentieri differenti e passando da Mozart a Verdi, da
Quali sono le differenze nell’allestimento di Turandot del 2007,
Wagner a Schönberg, con uno sguardo sempre diverso. È la volta di
qui con l’utilizzo della partitura originale, rispetto alla sua preceTurandot in scena al Teatro La Fenice.
dente realizzata nel 2000 a Sassari e che vinse il prestigioso premio
Quando allestì la Luisa Miller, diretta da Donato Renzetti, lei
Abbiati? E cosa ha in comune questa Turandot con quelle allestiasserì che pur rimanendo fedele allo spirito verdiano e rispettando
te per la Karlsruhe e la Suntory Hall di Tokyo?
dunque la volontà compositiva del musicista, l’unica cosa della quaLa regia è più o meno la stessa. Qui va tenuto conto delle non aveva tenuto conto erano le indicazioni spazio-temporali che,
l’esperienza maturata in sette anni e che, alla mia età, va
a suo avviso, in quel
a coincidere con
contesto non avevano
il tempo di una
più motivo di esistemaggior esperienre. Rimane fedele alza e consapevolezla sua «poetica» anza. Sento dunque
che nella produzione
questa regia come
di Turandot?
definitiva. Ciò che
Nel teatro conla differenzia legtemporaneo è orgermente dalle almai da molto che
tre è una maggioil tempo non viere astrazione anne più rispettato.
che visiva. Prima,
Facciamola finiad esempio, era
ta con queste poprevista in scena
sizioni che conuna piattaforma
sidero ridicole.
con un letto e un
La preoccupaziotavolo, per rapprene spazio-temposentare una camerale è una strana
ra da letto e una
preoccupazione,
cucina. Ora tutse non addirittura
to ciò viene sinpatologica. Quetetizzato al massto atteggiamensimo con un cuto nasconde, il più
bo di legno astratdelle volte, una
to che simbolegvera e propria ingia la casa ed è al
capacità registica
tempo stesso fundi rapportarsi al
zionale alla scena.
testo musicale, alHo poi introdotla narrazione. Ciò
to la presenza di
che a me interessa
un gong che nelle
è riflettere, pensaprecedenti ediziore, porre l’uomo al
ni non c’era. Ho
centro della storia.
pensato che queTutta la nostra arsto cerchio di ferte e cultura occiro che viene batdentali sono basatuto possegga un
te sull’uomo, anforte potere simche la filosofia, la
bolico, come tutto
psicanalisi e l’opeciò che di geomera di Puccini postrico appare sulla
siede molteplici riscena. Anche l’uso
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delle bambole di
le. Tra il vecchiume
Turandot è leggerinsopportabile e la
mente diverso; pripseudomodernima erano ammuctà credo ci sia una
chiate dentro a un
terza via. Per quancilindro, ora sono
to riguarda la mia
installate in punti
opera è stata defidiversi. La princinita una «moderpessa gioca anconità all’italiana».
ra con le bambole
La finalità è quelpoiché teme gli uola dell’onestà, delmini, ecco ciò che
la sincerità e dello
conta.
studio. Il significaIl suo linguaggio reto di una storia degistico sta avvicinanve essere lì, sul paldo i giovani all’opecoscenico. Cerco
ra. È un obiettivo che
di capire una stolei si è preposto consaria, cosa racconta,
pevolmente o è l’imponon la verosimistazione della sua reglianza con l’abitigia ad attirare comunno cinese, non laque i giovani?
voro per un’agenzia che organizza viaggi in Cina. QuanTutto ciò avviene da parte mia a livello inconscio. Fordo si assiste a questa Turandot si sente che i costumi non
se la parte giovane che dimora in me prende il sopravpuzzano di cucina cinese… L’opera spogliata da orpelli fa
vento perché io amo l’opera e non voglio vederla morire.
scattare e scaturire tutta la modernità insita, quella di PucSe piace ai giovani vuol dire che questo mio intento pascini, soprattutto dell’ultimo Puccini e lo pone nuovamensa anche a loro. Trovo ridicolo mettere in scena un telete tra i grandi del secolo che si è ormai chiuso. È la mofono cellulare o vestire
dernità degli anni venabiti rock o fare di Tuti quella che ho voluto
randot una principessa
riproporre, quella apScene da Turandot
punk di periferia: non è
punto del musicista con
secondo Denis Krief,
questo il modo di avvila ricca commistione di
Badisches Staatstheater Karlsruhe (2007)
cinare i giovani. Non li
grandi movimenti artifa sognare. Trovo questici dell’epoca. Il mio
sto tipo di operazione
è anche un omaggio al
borghese e deleteria.
teatro storico, a MejerAlcuni registi cercano
chol’d, al teatro naturadi imitare cose che non
lista che ho avuto moconoscono, ad esempio
do di vedere a Mosca.
periferie desolate, vite
Non si tratta di raffiguemarginate, bassifondi
rare un’ipotetica Cina
che non hanno mai frelontana e sconosciuta,
quentato né visto e tutma un’epoca che Puccito ciò suona falso; sulni visse e raffigurò nella scena si percepisce
la sua musica, un’epoquesto falsare la realtà.
ca che ha visto molI sentimenti e le situate grandi opere incomzioni reali sono quelle
piute come lo fu Turanche più si comprendodot. Da Proust a Musil,
no, non quelle per forza
da Berg a Schönberg…
trasferite. Non bisogna
Anch’io seguirò la vernecessariamente «trasione del finale così coslocare» da un’epoca alme lo diresse Toscanini
l’altra. Sono un regista e
alla prima, il 25 aprile
traslocare non è il mio
del 1926 alla Scala, termestiere.
minando con la morE quale può essere allora il
te di Liù e con le parole
cammino registico da percorche pronunciò il grande
rere? Il suo è stato definito
direttore: «Qui termina
di volta in volta stravagante,
l’opera, qui è morto il
coraggioso, innovativo…
Maestro», proprio con
Coraggioso forse sì;
un’incompiuta, in stile
non è un cammino facicon il proprio secolo.
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La bacchetta di Zhang Jemin
per la «Turandot» di Puccini
La giovane direttrice cinese torna sulle scene della Fenice
di Enrico Bettinello
A
dirigere la Turandot, in scena alla Fenice dal 9 al 18 di dicembre, con la regia di Denis Krief, si alterneranno due direttori, il maestro Yu Long e la giovane e affascinante direttrice Zhang Jemin, che abbiamo raggiunto per conoscere meglio nei
dettagli il suo lavoro.
Partirei da Turandot, come si è accostata a quest’opera, con quali
chiavi di lettura intende affrontarla?
Per una giovane direttrice, quale sono io, è davvero sempre difficile pensare a una chiave di lettura nuova per
un’opera così celebre, anche se interpretata da un cast giovane e quindi molto interessante da questo punto di vista. Se proprio devo dire qualcosa, allora vorrei una Turandot più umana, meno «urlata» di tante versioni, una donna
che ama e che esprime i suoi sentimenti di principessa regale in un’epoca in cui gli imperatori venivano considerati
quasi delle divinità. Credo che noi cinesi possiamo portare questo gusto per un amore vissuto in maniera molto interiorizzata, poco esibita, frutto della nostra cultura e della nostra tradizione.
Che ulteriori chiavi di lettura le dà il fatto di essere cinese?
So che è ormai quasi un luogo comune che noi cinesi
siamo migliori interpreti
di Turandot rispetto ad altri colleghi, ma io mi permetto di non essere per
niente d’accordo.
Puccini è un compositore italiano e come tale
per affrontarlo serve tutta la sensibilità necessaria
per capire il verismo italiano, anche se poi è vero
che ci sono alcune melodie che hanno una struttura musicale cinese, seppure con armonie tipiche di una orchestrazione
occidentale.
Cosa le piace del repertorio
operistico italiano, che già ha
affrontato con successo in questi ultimi anni?
Amo molto Puccini, ma
anche Verdi, che ho diretto molto in Cina e anche
in Europa sin da giovane. Conservo un ottimo
ricordo delle orchestre
del Nord Europa, dove
ho diretto Boheme all’inizio della mia carriera, così come una Traviata che
ho diretto pochi mesi fa
Zhang Jemin
a Madrid. Ho affrontato
anche Mascagni, con Cavalleria Rusticana questa estate al
San Carlo di Napoli.
Come concilia la differente sensibilità musicale orientale, e cinese in
particolare, con il repertorio europeo classico?
La mia è comunque una preparazione classica e quindi se vogliamo «occidentale», dunque faccio un po’ fatica
a trovare delle differenze di sensibilità in quanto ho studiato in Europa, a Firenze prima e a Toulouse poi, dove ero assistente stabile all’orchestra allora diretta da Michael Plasson.
In Europa ho avuto modo di sviluppare molte delle mie
conoscenze, non solo in ambito musicale, ma anche per
quanto riguarda quelle classiche e umanistiche.
Ci piacerebbe sapere qualcosa di più sul suo lavoro con il compositore Tan Dun.
Con Tan Dun ho cominciato a collaborare diversi anni fa, in molte produzioni nelle quali mi occupavo di preparare il lavoro orchestrale delle sue composizioni. Ultimamente ho realizzato anche la preparazione a Shanghai
per Il Primo Imperatore, l’opera andata in scena l’anno scorso
al Metropolitan. Tan Dun mi ha dato molto, non solo sul
piano professionale, ma
anche sul piano umano.
Quali sono i suoi prossimi
impegni e progetti?
Venezia e la Fenice sono diventate un po’ la mia
«casa», nel senso che il
Teatro mi ha invitato anche a dirigere nella prossima stagione e la cosa
mi rende particolarmente onorata per l’affetto
che mi è stato dimostrato. Nel teatro veneziano
dirigerò un’opera cinese
composta proprio per la
Fenice, La leggenda del serpente bianco, che poi porteremo a Pechino durante
le Olimpiadi.
A marzo tornerò in Spagna con una produzione
d’opera al Palazzo dello
Sport, poi in maggio sarò di nuovo in Italia, per
dei concerti con la Filarmonica di Roma. Inoltre ci sono altri progetti di cui non vorrei parlare per scaramanzia, ma
quello che è certo è che
vivrò molti mesi l’anno in
Italia.
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Principessa di morte!
Principessa di gelo!
Il personaggio Turandot da Gozzi a Puccini
di Bruno Rosada
L
a vicenda è nota. Turandot, figlia dell’Imperatore della
che raccolgono l’eredità del Pantalone gozziano, e soprattutChina, «la Pura sposa sarà di chi, di sangue regio, spieto la sostituzione di Adelma con Liù, entrambe innamorate
ghi i tre enigmi ch’ella proporrà. Ma chi affronta il cidi Calaf.
mento e vinto resta porga alla scure la superba testa!». Così la
Il pregio del libretto pucciniano è quello di cogliere gli aspetti
«Principessa di morte!» si libera di un gran numero di pretenpsicologicamente più intensi della vicenda, fino alla drammadenti, che non sanno spiegare i suoi enigmi. Il principe Calaf,
tica interruzione, dovuta alla malattia mortale del Maestro, che
costretto a vita errabonda dopo la sconfitta del padre, giunlasciò a Franco Alfano per volontà di Toscanini il compito del
ge a Pechino, resta ammaliato alla vista di Turandot, decide di
completamento del testo musicale.
tentare la prova e la vince. Turandot lo respinge ancora, poi alNon è privo di significato che l’interruzione si sia verificata
la fine cede al suo bacio. Fu Renato Simoni, che nel 1903 aveva
in un momento cruciale della vicenda (che Toscanini evidenscritto una commedia intitolata Carlo Gozzi, frutto di rigorosi e
ziò, come è noto, nel terzo atto, dopo le parole «Liù poesia» che
appassionati studi, a suggerire a Puccini «l’inverosimile umaniconcludono la tragica vicenda della morte di Liù), sussurrando
tà del fiabesco» della storia di Turandot, narrata da Carlo Gozzi in una fiaba teatrale, e
con Giuseppe Adami scriverà il libretto della Turandot pucciniana.
La prima della Turandot di Gozzi, il 22 gennaio 1762 al teatro di San Samuele, ebbe sette sere di repliche e «gentile pienissimo concorso ed applauso», come si legge nella Prefazione dell’edizione Colombani. Ma più grande fu il successo nel mondo germanico dove fu tradotta in tedesco niente meno che da
Schiller. Sembrano quasi stupire questi successi. A noi «moderni» questo testo non appare fra le cose migliori dello scrittore veneziano: l’essenza della vicenda si esaurisce già
col secondo atto e negli altri tre atti la narrazione è stiracchiata e divagante. Sono poi
chiaramente superflue le maschere, messe
lì a proclamare la nostalgia di Gozzi per la
La Turandot di Carlo Gozzi, presentata alla Biennale di Venezia nel 1981
commedia dell’arte e il suo rifiuto del teatro
e interpretata da Valeria Moriconi per la regia di Giancarlo Cobelli.
«moderno», in testa quello di Goldoni, acerrimo rivale, che aveva già pronte le valigie per Parigi.
al pubblico: «Qui termina la rappresentazione perché a questo
Ma le ragioni del successo della Turandot del Gozzi risiedopunto il Maestro è morto». Ed è legittimo il sospetto che una
no nello spirito del tempo, che mostrava grande interesse per
profonda perplessità abbia afflitto Puccini: forse era la poca vel’Oriente. In particolare la vicenda di Turandot si ritrova in Les
rosimiglianza della repentina trasformazione di Turandot da
mille et un jour, tradotte nel 1712 da E. Pétis de la Croix, con la
donna crudele e fredda in donna innamorata, però alcune parevisione di Alain-René Lesage che nel 1719 scriveva La prinrole di Puccini sembrerebbero indicare una soluzione, là dove
cesse de la Chine.
il Maestro parla di «esaltazione amorosa di Turandot che per
È l’attrazione del diverso. Il fascinoso mondo orientale tortanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgonerà ad attrarre, anche se con modalità diverse, nel primo Noglio». È qualcosa di più di una interpretazione, è un vero e provecento. E questo consentì a Puccini, Simoni e Adami (ma è
prio approfondimento psicologico nella costruzione del persoil caso di dire la Turandot di Puccini, dato che il Maestro internaggio Turandot, è la scoperta dell’inconscio.
ferì fortemente e inevitabilmente con l’opera dei librettisti) di
Ma la scelta pucciniana decisiva, quella che gli consente di difmuoversi su un terreno irrazionale, più ricco di situazioni imferenziarsi in modo radicale da Gozzi, è l’invenzione del perpreviste e imprevedibili: così ciò che lo stesso Calaf, protagosonaggio della giovane schiava Liù e l’introduzione di un forte
nista maschile, chiamava «fola»», prima di restare stregato alelemento emotivo con la sua morte. Il sacrificio per amore di
la vista del ritratto di Turandot, diventa una tremenda inspieLiù e il bacio di Calaf nel duetto del terzo atto sono infatti le tapgabile realtà.
pe verso le quali Puccini fa convergere la semantica implicita di
Ci sono però delle inevitabili differenze profonde tra la TuranTurandot, in vista della sua umanizzazione, nel superamento
dot di Gozzi e quella di Puccini: sembra quasi doverosa l’escludel trauma trasmessole dall’antenata che subì violenza, «trascisione delle maschere; poi l’introduzione di tre figure sagge e rinata da un uomo come te, [cioè come Calaf] come te straniero,
dicole al tempo stesso, i Ministri del regno, Ping, Pong e Pang,
là nella notte atroce dove si spense la sua fresca voce!»
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