La gestualità nella preghiera ABITI, GESTI, SIMBOLI Il gesto coinvolge più dimensioni della persona. Il Vangelo ci presenta Gesù che parla e agisce. Pregando l’uomo si pone davanti a Dio con tutto se stesso. L’Occidente è parco di gesti, forse perché ha perso il loro senso di comunicazione, mentre lo conserva l’Africa. La comunità che va all’altare ha ed è un corpo. Le implicazioni dal verbo latino gerere. Q uando penso al tema della gestualità e della sua importanza nella vita dell’uomo, riemerge immediatamente il ricordo di una lettura. L’autore del libro raccontava una sua esperienza: al termine di una celebrazione con ragazzi portatori di handicap si apprestava a dare la benedizione finale, quando uno dei piccoli down presenti si avvicina dicendo: la benedizione la voglio davvero. Senza dire altro si tuffa fra le braccia del celebrante perché questi lo avvolga in un abbraccio reso ancor più reale dai paramenti indossati. Questo abbraccio benedicente risultava dunque più eloquente di molte parole e suscitava nell’autore, e in me lettore, la riflessione: il gesto è esperienza che coinvolge più dimensioni della persona e ci riporta alla verità di noi stessi. In effetti la storia sacra, che racconta l’incontro di Dio e dell’uomo, è storia di gesti che si ripetono, che divengono emblematici, che raccontano la tenerezza di Dio per il popolo e la fatica della ricerca, il perdono e l’accoglienza… e l’elenco potrebbe continuare. Il vangelo ci presenta Gesù che attraversa i villaggi e… compie gesti che accompagnano le sue parole, e spesso sono questi che suscitano il discorso successivo. La splendida unità che noi siamo, unità fra dimensione spirituale e corporea, si manifesta in ogni momento della nostra vita, nelle nostre relazioni e nella relazione per eccellenza che è la preghiera. Il centro della vita della Chiesa e della fede di ogni credente è l’incontro con il Risorto, che si alimenta nella celebrazione dell’Eucarestia. Nella liturgia Gesù consegna tutto di sé ai segni sacramentali che divengono così efficaci, compiono quello che dicono. E il centro della celebrazione eucaristica è proprio un gesto: prendete, mangiate…. Un discorso sulla gestualità è dunque una riflessione sull’im- La candela accesa (qui sopra un modello ugandese), simbolo di Cristo, luce che squarcia le tenebre portanza attribuita alla totalità dell’esperienza umana. Nella preghiera l’uomo si pone davanti a Dio con tutto se stesso, come in ogni altra relazione comunica con tutto di sé, con le parole, con i gesti, perché ciò è connaturale in lui, ne fa espe- 29 TITOLO rienza fin dall’inizio della vita: il bambino si tranquillizza per un gesto protettivo, richiama l’attenzione a gesti, l’uomo adulto conosce l’importanza di una stretta di mano e la tristezza del gesto svalutato in una cultura parolaia. Dunque quando preghiamo compiamo gesti con le mani, con il capo, con il corpo. Ci sediamo, ci alziamo… diciamo senza parole adorazione, affidamento, ascolto… Eppure l’esperienza comune in occidente, e in Europa in particolare, è quella di preghiere comunitarie, di celebrazioni parche di gesti o di gesti arruffati. Ciò accade perché non appartiene alla cultura d’occidente la gestualità? Non credo, penso piuttosto al fatto che si sia perso il senso del gesto per cui esso, svuotato di potere comunicativo, è accolto con lo stesso entusiasmo di una punizione, o al massimo compiuto in modo furtivo, quasi vergognandosene. Penso a certi scarabocchi chiaSan Domenico in alcuni tipici gesti della preghiera, conservati dalla tradizione domenicana 30 mati segni di croce o a certe assemblee che non sanno mai quando alzarsi o sedersi…. È vero, ogni cultura carica i gesti di un senso che può non essere univoco, ogni cultura elabora simboli che rimandano ad altro, che scavalcano l’io per arrivare a molti. Ad esempio siamo ormai abituati a vedere immagini di preghiere nelle moschee in cui gli uomini entrano scalzi. Il gesto di togliersi i sandali è connaturale alla preghiera in molti parti del vicino e lontano oriente; d’altra parte anche Mosè veniva invitato a togliersi i sandali davanti al roveto ardente; eppure io ricordo bene la mia infanzia e adolescenza, in presenza di ospiti - quindi di qualcuno da trattare con riguardo – non era permesso presentarsi in ciabatte…immagino che cosa sarebbe accaduto se avessimo suggerito noi più piccoli di togliere le scarpe per pregare. Ciò è per dire che un gesto, sacro per alcuni, diviene poco rispettoso per altri. Dunque mi pare che la riflessione debba essere prima di tutto non sui gesti propri di una cultura, ma su una cultura dei gesti, cioè una riflessione, e una pratica conseguente, nella direzione di evangelizzare gli elementi di una cultura perché si armonizzino con la superiore radice di ogni cultura umana che è il vangelo. Un esempio di gestualità che spesso mi ha interrogato è la danza, il muoversi del corpo al suono della musica, e, più in generale, il fatto stesso di muoversi, cioè di partecipare visibilmente alla preghiera con il proprio corpo. Ho ammirato splendide danze di offerta delle cultu- Beato Angelico: San Domenico ai piedi del Crocifisso, in una posa plastica, che mette in luce la scelta di diventare tutt’uno col Cristo Crocifisso re orientali, danze di gioia africane e mi sono chiesta perché noi europei siamo inamidati e all’opposto usiamo i gesti solo come esagerazione fanatica (vedi certi movimenti al limite dell’ortodossia). Una spiegazione storica esiste e ha radici in un’errata percezione del corporeo frutto di intrecci filosofici mista al bisogno di prendere le distanze dalle culture pagane che esaltavano la gestualità con ben altri fini; ma oggi viviamo in un’epoca in cui, persa la sacralità del gesto e del corpo come tempio dello spirito, la cultura occidentale esalta i gesti in ambito profano sviluppando un vero e proprio linguaggio che va dalla ritualità amorosa, a quella del tifo sportivo, dal farne un simbolo di appartenenza a circoli particolari, all’esasperare il potere magico di riti pagani. E i cristiani? Spesso viviamo il paradosso di alimentare la nostra fede nella celebrazione che è fatta di gesti eloquenti e ricchi… senza che essi parlino più. Non si tratta, a mio avviso, di “fare gesti” quanto di riscoprire la bellezza e la grandezza di quelli che compiamo. Figli di un’epoca che ha relegato la danza all’ambito profano, e l’ha accompagnata alla cultura del divertimento fino allo sballo….ci sentiremmo forzati danzando in chiesa. L’agitarsi scomposto del tifo sportivo, l’esultanza per la vittoria che si fa urlo, salto, ballo….mal si addicono all’incontro con Dio che è la preghiera…Allora i nostri gesti? La Chiesa dei primi secoli che aveva dovuto confrontarsi con la gestualità pagana e con l’uso di essa ci ha tramandato alcuni gesti essenziali e carichi di senso che da sempre accompagnano la preghiera personale e dell’assemblea intera. Nella celebrazione siamo dunque invitati a usare il nostro corpo: è in piedi nella posizione del risorto, del figlio che ascolta pronto a eseguire (e i riferimenti alla Scrittura si sprecano), è seduto nella posizione dell’ascolto, come Maria ai piedi di Gesù, perché la parola entri e metta radici nel cuore. È un corpo che si inginocchia per chiedere perdono, che si prostra per adorare e per affidarsi. È un corpo, la comunità che cammina verso l’altare per nutrirsi del pane di vita, per presentare i suoi doni e lo fa solennemente, adagio, composta. Sono mani che si levano come offerta, che si aprono per accogliere, che si uniscono per supplicare, sono braccia aperte e mani rivolte in avanti che dicono intercessione e consegna di sé, sono mani che si tendono per ricevere come pane colui che i cieli non possono contenere. Tutto questo esiste, è “prescritto” che sia compiuto dal sacerdote e dai fedeli… ma spesso noi, distratti e un po’ impacciati, non ci accorgiamo di tutto ciò. Mi sono chiesta più volte perché facciamo così fatica a compiere bene i gesti della preghiera oppure perché sentiamo il bisogno di inventarne altri. Mi pare che uno dei problemi sia il fatto che abbiamo relegato la fede in una dimensione intimistica, come relazione privata (non dico personale, che è dimensione sempre presente) per cui fatichiamo a percepirci parte di un corpo che è l’assemblea celebrante. Un altro è che con un progressivo distacco fra celebrazione e vita abbiamo perso la profondità di significato dei nostri gesti e dei gesti fatti insieme come membra di Cristo, si è indebolito il senso del sacro, a vantaggio della ricerca del Beato Angelico: il Santo prega davanti al Crocefisso a braccia aperte, in una adorazione che si fa speculare, nel gesto di accoglienza, alla posizione del Cristo 31 TITOLO Donne in preghiera, un soggetto presente anche nell’arte contemporanea magico. Infine credo che in un’epoca di idolatria del corpo in realtà stiamo vivendo un rapporto problematico con lo stesso…e ne sono prova le varie malattie psicologiche di relazione con il corpo, l’esaltazione della pornografia, la degenerazione delle relazioni. Tutto ciò è paradossale perché al contempo intorno a noi, sembra imperare una sorta di inno ai gesti, si moltiplicano i simboli, si creano linguaggi e nuovi codici comunicativi. È come se avessimo perso il contatto con le radici, per cui l’unità fra noi e il resto delle realtà create è incrinata. Il percorso inverso è invece quello che ci fa compiere la preghiera liturgica, ci rimette in sintonia con il creato, ci ridona gesti carichi di senso, ritmi di luce e di ombra armoniosi. Rifletto e scrivo da europea, e l’esperienza annotata per certi versi è propria dell’Europa….ma 32 non solo. Sono diversi i modi di esprimersi, ma in un mondo che vive nel bene e nel male una globalizzazione di mode e di proposte, di informazioni e di conoscenze, la riflessione sulla gestualità e sul modo di usarla ha aspetti comuni. Credo che, pur nella diversità delle espressioni, due chiavi siano importanti: equilibrio e verità, perché al centro della riflessione e della pratica non ci sia l’uomo, ma Dio, non la cultura dell’uomo come misura delle cose, ma l’incontro con Colui che è venuto e ha reso sacra la realtà umana e la sua storia, e, risorto dai morti, trasforma dal di dentro la storia. Solo questa attenzione a rendere la verità di un incontro può rendere veri ed eloquenti i gesti. Fu così per S. Domenico che usava una gestualità comune alla sua epoca, ma con naturalezza in tempo di eresie volte a denigrare il corpo, al punto che i biografi ci hanno tramandato la sua gestualità come modi di pregare. È così per noi, in Europa, in Asia, in Africa, dentro questo o quel contesto, non possiamo prescindere da ciò che la tradizione della chiesa ci ha consegnato, non perché imprigioni lo spirito, ma perché in dialogo con il presente parli ancora all’uomo di oggi. L’etimologia della parola GESTO infatti rimanda al verbo latino gerere che ha in sé una molteplicità di sensi, dal produrre al portare, al rivelare, al compiere, fino al sostantivo gestum conosciuto al plurale (le gesta) che dice proprio l’impresa compiuta rivelatrice del valore dell’uomo. Ha dunque in sé un aspetto di creatività e insieme di codificazione: il gesto che dice accoglienza o protezione (un abbraccio) viene codificato come tale e ogni volta che si ripete ridice lo stesso senso. Ecco perché i gesti della preghiera vengono codificati: al di là del sentire di ciascuno divengono messaggio universale… per comprendere il quale occorre conoscere il senso e l’origine dei gesti. Il rimando più semplice è al racconto della pasqua che il figlio ebreo chiede al padre come spiegazione di gesti che altrimenti sarebbero muti. La riflessione potrebbe continuare alla scoperta del senso profondo di questo o quel gesto. In ogni caso si tratta per noi di un entrare sempre più nel mistero del Verbo che si è fatto carne, della Parola cioè che rivestita della nostra umanità si fa gesto, messaggio, incontro. Sr. M. Laura Restelli o.p. Sr. M. Laura Restelli o.p.