IL NEPOTISMO FRA MEDIOEVO, RIFORMA PROTESTANTE E CONTRORIFORMA di Roberto d’Amato INTRODUZIONE Il Nepotismo fu un fenomeno che coinvolse la Chiesa Cattolica, soprattutto prima del Concilio di Trento, ed in particolare nei secoli XV, XVI e XVII, periodi di un’accentuata attività politica del potere temporale dei papi. Esso si esprimeva con il favorire i propri familiari nei posti di potere (lucrosi vescovati, porpore cardinalizie e appetitose prebende), sotto alcuni pontefici (per esempio Alessandro VI Borgia e di Paolo III Farnese) i nepoti (da cui il nome) spesso furono i loro stessi figli. Questa forma di clientelismo parentale si corroborò talmente tanto che divenne un formidabile strumento di tutela degli interessi dinastici della casata d’origine del pontefice; essa si perpetuò anche dopo la controriforma, con la figura del cardinale nipote, questi era di solito un prelato parente del papa e per questo motivo elevato ad altissime cariche nel governo della Chiesa. Dobbiamo tuttavia riconoscere che alcuni pontefici, nonostante la piaga del nepotismo, furono artefici di un grande fermento culturale, poiché furono dei sublimi mecenati, infatti furono protettori ed incentivatori della cultura e delle arti e molti artisti, come Michelangelo Buonarroti, che fu l’autore degli affreschi della Cappella Sistina, Raffaello Sanzio ed altri ancora, i quali grazie a loro poterono esprimere tutto il proprio ingegno ed estro. Possiamo affermare che questi artisti contribuirono all’affermazione dell’Umanesimo e in seguito del Rinascimento, grazie a papi e cardinali intelligenti e colti, anche se in questo periodo come ho poc’anzi detto si diffuse nella corte Papale quel triste fenomeno conosciuto come nepotismo, aspetto sociale che in seguito penetrò in diversi periodi della storia e che l’uomo ha palesemente mostrato di avere nel proprio DNA. Se vogliamo essere pignoli, forme di nepotismo nella Chiesa si erano già verificate con papa Adriano I (salito al soglio pontificio il 9 febbraio 772, morto il 25 dicembre 795 e sepolto in S. Pietro), infatti suo zio Teodato ed i suoi nipoti Teodoro e Pasquale ricoprirono le più alte cariche amministrative e giuridiche, gettando così le basi di quella piaga del nepotismo che avrebbe caratterizzato la lunga storia dello Stato Pontificio. Il papa Adriano I è ricordato anche come l’artefice della caduta dell’ultimo re longobardo Desiderio, il quale non voleva restituirgli i territori pontifici che aveva occupato. Il Pontefice Adriano I convinse Carlo Magno ad intervenire contro il re longobardo Desiderio che voleva fare incoronare sua sorella Gerberga ed i suoi figli, quali eredi del regno del defunto Carlomanno, fratello di Carlo Magno. Carlo Magno scese in Italia e sconfisse le truppe di Adalgiso, Desiderio si rifugiò allora nella fortezza di Pavia e dovette subire l’assedio dei Franchi. Carlo Magno, durante la sua permanenza in Italia, dato che era in guerra con Desiderio, ebbe in San Pietro con il papa Adriano I dei colloqui politici che scaturirono nella solenne firma della “donazione di Carlo Magno”, andata in seguito perduta, dove il re franco concedeva la sovranità papale su quasi tutta l’Italia. L’attuazione di questa concessione fu messa in pratica molto a rilento, perché il 10 luglio 774 a Pavia Carlo Magno prese la corona ferrea, prendendo il titolo di “re dei Franchi e Longobardi” e il titolo di “Patricius Romanarum” e non aveva nessun interesse che i domini pontifici si allargassero, anche se il papa Adriano I scrisse molte lettere accorate affinché fosse attuata la promessa della donazione. Il discorso del nepotismo va correlato con il potere temporale dei papi, questa pratica di avvantaggiare nelle cariche ben remunerate i propri parenti dipendeva infatti dal potere e dai beni che lo stato della Chiesa possedeva. Tutto era cominciato con la controversa donazione di Costantino del 321, un documento in base al quale l’imperatore donava alla Chiesa (nella persona di papa Silvestro I) la città di Roma e l’Impero Romano d’Occidente, spostando a Costantinopoli la sede del potere imperiale. Questo documento risultò falso grazie all’illuminista Lorenzo Valla (1405-1457) che ne dimostrò la non esistenza. Con questa presunta donazione e dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, la fisionomia della Santa Sede assunse determinati connotati politici essendo di quell’impero diventata l’erede (persino nella terminologia: sommo pontefice non è altro che la denominazione cristiano-cattolica di pontefice massimo, una delle funzioni religiose esercitate dai re di Roma, da Giulio Cesare e dagli imperatori romani fino al 375 d.C.), da questi possedimenti territoriali reali o presunti nacque il nepotismo, cioè dalla facoltà del papa di esercitare il potere temporale, quindi la possibilità di avvantaggiare i propri parenti. Alcuni studiosi di storia danno una definizione schematica del nepotismo dicendo che esso fu una tendenza manifestata da molti papi nei secoli XV - XVIII a privilegiare i parenti con benefici (cariche ecclesiastiche e domini territoriali). Nei secoli XV e XVI il nepotismo dette luogo alla formazione di domini e signorie da parte di abili avventurieri legati da rapporti di parentela con singoli papi, come i Borgia. Nei secoli XVI – XVIII il nepotismo si ridusse all’elargizione di cariche onorifiche e di rendite ecclesiastiche. Non bisogna dimenticare che vi fu una forte connessione tra nepotismo e riforma protestante, infatti nel 1500 il processo di mondanizzazione, cuore del potere e della ricchezza, caratterizzava la corte pontificia. La politica del Papato era circoscritta all’ambito italiano e la Santa Sede era contesa fra le grandi casate della penisola (della Rovere, de’ Medici, Farnese, Borgia, Odescalchi, Orsini, Piccolomini, ecc.). La corruzione era talmente diffusa nella Chiesa che ancor prima che le idee di Martin Lutero si diffondessero ci furono due concili: quello di Costanza (1414-1418) e quello di Basilea (1437), che avevano provato a mettere in discussione e tentato di ridimensionare il potere “monarchico” del papa. Nei fatti però la Chiesa non volle cedere sul potere del pontefice e perseguì la sua concezione politica della teologia universale, adducendo che con il riconoscimento del particolarismo dell’autorità dei re nei loro rispettivi stati, si sarebbe creata una forma di anarchia implicita. Questa precarietà politica, sempre secondo la Chiesa, avrebbe creato dei potenziali conflitti in Europa, quindi solo il papa era in grado di assicurare pace ed armonia in Europa, grazie al potere temporale che gli derivava direttamente da Dio. Nepotismo significa favorire i propri parenti a causa del loro legame familiare, senza tenere conto delle loro capacità, il termine deriva dalla parola latina nepos, che significa “nipote”, viene di solito usato in senso negativo. Ad esempio, se un manager assume o promuove un parente, piuttosto che un estraneo più qualificato, quel manager verrà accusato di nepotismo. Alcuni biologi hanno sostenuto che la tendenza al nepotismo è istintiva, una forma di selezione parentale. Il nepotismo, in particolare quello storico, fu una piaga schifosa che gettò molto fango alla Chiesa come istituzione. Attualmente forme di nepotismo si verificano nelle famiglie che in uno stato detengono il potere, rappresentando così un pericolo per la democrazia perché determina una concentrazione di autorità nelle mani di ristretti gruppi famigliari, questo sistema ostacola l’accesso universale e meritocratico alle istituzioni e alla pubblica amministrazione, che sono impostate su un rapporto fiduciario, anziché impersonale, tipico di uno stato moderno. I legami personali possono compromettere l’indipendenza di un’istituzione e la sua credibilità morale. Se si verifica ai più alti livello dello stato, fra dirigenze dei partiti di maggioranza e opposizione (oppure ministri, presidenze dei rami del parlamento e della repubblica), può trasformare una democrazia in una specie di monarchia costituzionale. Le leggi sul conflitto d’interesse talora contengono dei vincoli di incompatibilità anche fra parenti e consanguinei. Per quanto concerne il nepotismo nella storia e in politica, nel Medioevo alcuni papi e vescovi cattolici, che avevano optato per il voto di castità, allevarono i loro figli illegittimi come nipoti e concedettero a loro dei favori, infatti diversi papi passarono alla storia per aver elevato nipoti ed altri parenti al cardinalato. Sovente questi incarichi erano un formidabile strumento per portare avanti una “dinastia papale”, ad esempio papa Callisto III, della famiglia Borgia, rese cardinali due dei suoi nipoti; uno di loro, Rodrigo, in seguito usò la sua posizione di cardinale come punto di lancio verso il papato, divenendo papa Alessandro VI. Contestualmente Alessandro VI fu uno dei papi più corrotti, ed elevò Alessandro Farnese, fratello della sua amante, alla porpora cardinalizia, in seguito questi raggiunse il soglio di San Pietro con il nome di papa Paolo III; questo pontefice nominò due nipoti di quattordici e sedici anni cardinali. Questa consuetudine scellerata cessò formalmente con papa Innocenzo XII, il quale emise una bolla nel 1692; in questo documento si proibiva in modo tassativo ai papi di concedere feudi, titoli nobiliari, incarichi o benefici economici, al massimo un parente qualificato poteva essere nominato cardinale. Nepotismo è un’accusa comune in politica, quando il parente di un personaggio potente raggiunge alti livelli sul lavoro, senza averne la qualifica. Ad esempio, negli USA, famiglie politicamente potenti come la famiglia Kennedy e la famiglia Bush, sono talvolta accusate di nepotismo dai critici. Altri esempi di famiglie che hanno dominato la politica del proprio paese sono Tun Abdul Razak, secondo Primo Ministro della Malaysia, o come Lee Kuan Yew, Primo Ministro di Singapore, e suo figlio, Lee Hsien Loong, che è recentemente succeduto a Goh Chok Tonk nello stesso incarico. Nel Regno Unito la popolare espressione “And Bob’s your uncle” (e Bob è tuo zio) ebbe inizio quando il Primo Ministro Robert Cecil Lord Salisbury nominò suo nipote Arthur Balfour ad un prestigioso incarico. In Cina, il nepotismo è visto in luce positiva, come un motivo legittimo per essere assunti, infatti alcuni cittadini cinesi fecero causa al governo cinese a causa delle migrazioni coattive, adducendo tra le altre cose che questa divisione forzata dalla famiglia influenzava la possibilità di essere assunti. L’attuale record di nepotismo tra i capi di stato è detenuto dal presidente Mammoon Abdul Gaymoon delle Maldive che conta almeno undici parenti e amici nel suo gabinetto, oltre a numerosi altri nei più alti incarichi di governo. Come alcuni sanno, strettamente collegata al nepotismo fu la riforma protestante, perché la vendita di cariche e prebende scandalizzò i principi tedeschi che usarono il pretesto del malcostume della Chiesa per creare una propria religione cristiana incamerando i beni ecclesiastici in Germania, anche se bisogna ammettere che la causa scatenante la riforma protestante fu la vendita delle indulgenze. Artefice di questa mercificazione dell’anima fu papa Leone X nel 1517 (in pieno periodo di nepotismo) al fine di reperire i fondi indispensabili per costruire la cupola di San Pietro. La stretta correlazione fra nepotismo e riforma protestante in Germania raggiunse l’apice con Alberto di Hohenzollern, vescovo di Magdeburgo e amministratore di Halberstadt, il quale aspirava anche all’arcivescovado di Magonza. Dato che il cumulo dei benefici era vietato, Alberto di Hohenzollern iniziò le trattative con Roma ed alla fine ottenne ciò che voleva in cambio di parecchio denaro. Il futuro arcivescovo di Magonza, per pagare la Chiesa di Roma al fine di ottenere l’agognata sede arcivescovile, aveva contratto un debito con i banchieri Fugger e per chiudere il debito ricorse alla predicazione delle indulgenze. Il domenicano Giovanni Tetzel ebbe il compito di diffondere le indulgenze, ed egli, al fine di convincere i propri fedeli ad acquistarle, non si fece scrupoli ed usò gli argomenti più disparati e dozzinali: ad esempio le indulgenze potevano essere chieste in qualsiasi momento della vita, il pentimento, anche per i peccati mortali, poteva essere rimandato e l’eventuale rinvio non comprometteva l’efficacia immediata delle indulgenze acquistate in suffragio delle anime dei defunti. Da qui lo scandalo! E’ rimasto famoso anche un suo slogan: “Sobald das Geld in Kasten klingt/ die Seele in den Himmel springt“, appena il denaro risuona nella cassetta/l’anima salta in Cielo. L’Elettore di Sassonia non concesse che la pratica delle indulgenze venisse predicata nei suoi territori (di cui Wittenberg era capitale) ed il monaco teologo Martin Lutero (1) apprese la notizia di questa odiosa compravendita dai fedeli che si erano recati ad ascoltare il prete domenicano Tetzel. L’insegnamento propugnato dal domenicano incontrò la ferma ostilità di Lutero, che di fronte a questo perverso mercanteggiare elaborò le famose novantacinque tesi (com’era in uso tra i professori di teologia) e la tradizione afferma che esse furono affisse alla porta della chiesa di Wittenberg il 31 ottobre 1517 (vigilia della festa di Ognissanti, cui era dedicata la chiesa del castello), invitando i dotti a discuterne; inoltre, devoto alla gerarchia, ne inviò copia ad Alberto, pregandolo di fare di tutto affinché questo scandalo non si perpetuasse. Alberto, arcivescovo di Magonza, invece di ascoltare i consigli di Lutero, lo denunciò a Roma e cercò, con i teologi di Magonza, di controbatterne le tesi. Trascorsero tre anni, durante i quali Lutero ebbe i famosi scontri teologici con Eck e con il Caetano, i quali accrebbero la fama di Lutero e dei suoi proseliti. Nel 1520 papa Leone X con la bolla Exurge Domine condannava le quarantuno proposizioni degli scritti di Lutero e ingiungeva al monaco di ritrattare le sue tesi, pena la scomunica. Alla fine del 1520 Lutero bruciò la bolla pubblicamente e questo gesto segnò la rottura definitiva con la Chiesa di Roma, infatti con la bolla Decet Romanum Ponteficem, il 3 gennaio 1521 Lutero fu scomunicato. Durante la sua nobile battaglia Lutero nel 1520 aveva pubblicato tre opere che sono alla base del protestantesimo: La libertà del cristiano, La cattività babilonese della Chiesa e Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca. In queste opere Lutero sosteneva che il sacerdozio era universale e non c’era distinzione fra clero e laici, inoltre veniva rifiutato il diritto della sola gerarchia ecclesiastica d’interpretare la Sacra Scrittura. Nemico numero uno dell’Impero, Lutero trovò riparo a Wartburg e in questo luogo iniziò la traduzione della Bibbia in tedesco, che fu pubblicata nel 1534 (prima il Nuovo e poi l’Antico Testamento). Nel frattempo la Germania veniva scossa dalle forti rivolte contadine, che si erano accentuate in seguito alla predicazione di Lutero, quindi molti principi tedeschi cattolici accusarono il teologo tedesco di aver fomentato l’odio verso l’autorità e le istituzioni preesistenti (clero, nobiltà), dando troppa dignità spirituale al popolo, che per le classi privilegiate era solo un’espressione animalesca da sfruttare. Lutero ebbe una forte polemica intellettuale con Erasmo da Rotterdam, infatti questo pensatore e filosofo olandese nei suoi due scritti espresse il proprio pensiero (De libero arbitrio diatribe, 1575 e Hyperaspites, 1526). I due in realtà erano su posizioni antitetiche che non potevano incontrarsi, Erasmo respingeva la dottrina del peccato totale, e riteneva che nell’uomo sussisteva una parte di libertà, mentre Lutero non negava che l’uomo peccatore fosse capace di scelte intelligenti e di decisioni, ma ciò non violava la sovranità assoluta di Dio, perché secondo il monaco tedesco la fede doveva essere un abbandono totale a Dio e all’uomo non spettava nessun merito né iniziativa per la sua salvezza. Il movimento riformatore continuò a diffondersi, si costituirono i primi gruppi di luterani in molte città tedesche. Nella Dieta di Spira del 1529 i luterani (che avevano cinque principati e quattordici città) furono messi in minoranza nella Dieta stessa. Essi allora protestarono contro la maggioranza che voleva imporre loro la conformità religiosa e da lì nacque il termine appunto protestare, vuole dire attestare pubblicamente, impegnarsi a favore di qualcosa. L’intenzione originaria era quella di far capire alla Chiesa romana di riformarsi in conformità al Vangelo. La divisione confessionale fu una deformazione posteriore, la rottura della Comunione con Roma non era stata prevista e venne registrata come una reazione dolorosa e inattesa ma ormai inevitabile. Gli avvenimenti si acuirono nel 1530 alla Dieta di Augusta, durante la quale l’imperatore Carlo V propose una nuova riappacificazione, ma i protestanti lessero solennemente la loro professione di fede, redatta da Filippo Melantone, la Confessione di Augusta, che non fu accettata e Carlo V ordinò loro di fare atto di sottomissione, in risposta i protestanti si organizzarono nel 1531 nella Lega di Smalcalda. Ormai le posizioni erano troppo antitetiche. Si arrivò con alterne vicende al 1555 (Lutero era morto nel 1546) con la pace di Augusta che stabiliva il principio, da un lato, della “Cuius regio eius religio” (ogni territorio deve mantenere la religione del suo principe), tranne i territori ecclesiastici secolarizzati prima del 1552, che non erano più rivendicati dalla Chiesa cattolica, mentre se un principe ecclesiastico si convertiva al protestantesimo dopo il 1552 doveva rinunciare ai possedimenti che appartenevano alla Chiesa Cattolica, invece nelle città era tollerata la coesistenza pacifica delle due confessioni. Per quanto concerne la teologia di Lutero, nel corso dei secoli il contatto del cristianesimo con l’ellenismo ed il platonismo aveva cambiato l’originaria concezione ebraico-cristiana dell’uomo e della sua salvezza; la concezione realistica e unitaria dell’uomo derivata dall’ebraismo, per cui l’uomo era una persona, cioè anima e corpo insieme, si era trasformata in un dualismo per cui l’uomo era fatto di due sostanze diverse separate e in lotta tra loro. L’anima veniva considerata immortale per sua natura e non per grazia divina e quindi l’uomo poteva salvarsi grazie alle sue sole forze, con dei metodi ascetici, in definitiva l’uomo non era più messo in difficoltà dal Vangelo, ma si era adeguato ad una specie di paganesimo ottimistico. Lutero ribadì con forza che solo Cristo era l’unica via di salvezza, mentre l’uomo non poteva fare nulla da solo. Il monaco tedesco era contro una concezione che aveva trasformato Dio in un essere a servizio dell’uomo, di cui l’uomo potesse servirsi a piacimento per i suoi fini. Dio per Lutero era un Deus absconditus, la cui realtà e azione erano riconoscibili solo per mezzo della fede, nel paradosso, nella sofferenza, nella problematicità della vita, morte e resurrezione di Cristo. Da qui le quattro affermazioni di Lutero: Solus Christus, sola scriptura, sola gratia, sola fide. La cosa fondamentale era la conversione ad una nuova concezione che decideva di stabilire il fondamento della propria vita di credente non sull’uomo, ma su Cristo. Da qui la libertà dell’uomo che non si concentrava più su se stesso, ma si fondava sulla fede in Cristo e che si abbandonava totalmente a Dio. Neppure la Chiesa poteva considerare sé stessa superiore alla critica che su di essa esercitava il Vangelo, l’alternativa era tra il confessore Cristo come “Via, Verità e Vita”, oppure trasferire alla Chiesa e ai suoi rappresentanti i privilegi che erano solo di Cristo. La Chiesa infatti, nel corso dei secoli, era diventata essa stessa oggetto di fede. L’assimilazione tra la Chiesa e Cristo era ispirata in modo determinante alla funzione del papa, alla gerarchia episcopale, al ministero sacerdotale, in cui si pretendevano di attuare le funzioni del solo Cristo come maestro, sacerdote e signore. Se la Chiesa annunciava che Cristo era il maestro, allora doveva riconoscersi come sua discepola e non proclamare sé stessa maestra. La Chiesa doveva quindi riconoscere la propria umana possibilità di sbagliare ed accettare l’esigenza riformatrice, altrimenti il magistero della Chiesa si sostituiva a quello di Cristo. Attribuire solo a Cristo la funzione del magistero comportava per Lutero un’innovazione radicale nelle istituzioni della Chiesa che finiva di essere un organismo garante della verità e dell’ortodossia, per diventare alla fine serva dell’Evangelo. Proseguire il regime sacerdotale come nel cattolicesimo significava per Lutero non aver capito la novità del Cristianesimo, che segnava la liberazione dei credenti da ogni mediazione e dipendenza sacerdotale. Il ciclo millenario dei sacrifici era ormai concluso: non vi erano più sacerdoti ma solo predicatori che annunciavano la buona novella (= Evangelo) che Dio si era incarnato in Gesù. Dire che Gesù era sacerdote significava che egli aveva messo fine al sistema sacerdotale, ponendosi come unico mediatore tra Dio e gli uomini. Ogni credente era inoltre “sacerdote” nel senso che offriva sé stesso al Padre ed ai fratelli, in questo modo non poteva esserci un ordine sacerdotale diverso dagli altri credenti, e ciò perché nel protestantesimo la questione decisiva non era la celebrazione di un sacrificio da parte di un sacerdote (Messa), ma era l’annuncio di Cristo e la fede che accoglieva questo annuncio. La norma per conoscere Dio non era l’uomo, la ragione, la religione in genere; Dio poteva essere conosciuto solo accettando la parola della predicazione basata sulla testimonianza delle scritture. Sta qui una decisione di fede: la decisione di impostare tutti i problemi nella prospettiva gioiosa dell’azione di Dio in noi. L’uomo era nello stesso tempo peccatore e giusto: l’uomo viveva nella sua umanità peccatrice ma viveva anche nella fede salvato da Cristo. Ciò gli impediva da una lato la disperazione e dall’altro l’orgoglio di credersi salvo per le proprie opere (pecca fortemente ma credi ancora più fortemente, scrisse in una lettera a Melantone del 1 agosto 1521). Avere fede vuole dire mettere fine a tutte le situazioni mondane e religiose, lasciarsi “catapultare” dal Cristo al di fuori di noi stessi, per liberarci da noi stessi. Il Vangelo, quando era accolto con fede, creava degli uomini liberi “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Inoltre esso non poteva essere prerogativa o proprietà esclusiva di nessuna confessione cristiana (cattolica, protestante, ortodossa). La confessione dell’Evangelo doveva avvenire in un respiro di libertà: libertà significava essere animati da uno spirito critico verso sé stessi, evitando le sicurezze “assolutistiche”, problematizzando tutto ciò che era nuovo e storico e quindi anche le convinzioni sia personali che ecclesiastiche. (1)Martin Luther nacque ad Eisleben (Sassonia) il 10 novembre 1483 da Hans Luther o Luder e da Margherita Lindemann. La famiglia si trasferì a Mansfeld Magdeburgo, Eisenach e infine a Erfurt. Qui Lutero divenne magister artium nel 1505 e il padre scelse per lui la carriera forense. Il 2 luglio 1505, sorpreso da un forte temporale presso Stotterheim, fece voto a S. Anna che, se si fosse salvato, si sarebbe fatto frate e difatti il 17 luglio entrò nel convento degli eremiti agostiniani di Erfurt. Gli consentirono di proseguire negli studi e nel 1512 divenne dottore in teologia. Ottenne subito l’incarico di insegnare all’università di Wittenberg, dove Lutero rimase quasi tutta la vita (tranne un breve periodo a Wartburg, dove fu nascosto dopo la scomunica). Nel 1525 contrasse matrimonio con Catherina Von Bora da cui ebbe sei figli. Nello stesso anno Lutero pubblicò il “De servo arbitrio” contro Erasmo. Nel 1534 pubblicò la traduzione della Bibbia in tedesco, l’opera avrà un successo ed un’influenza enorme contribuendo ad unificare la lingua ed il popolo tedesco. Il 13 dicembre 1545 si aprì finalmente il Concilio di Trento, mentre Lutero morì dopo poco, il 18 febbraio 1546, la sua salma fu tumulata nella chiesa di Wittenberg. CAPITOLO I Concezione ideologica del nepotismo dei papi. Il nepotismo non può essere bollato come una mera superficialità dei papi nel gestire la cosa pubblica, questa concezione perversa di gestire il potere trova le radici nell’amore per il proprio sangue, dunque in pratiche sociali molto arcaiche, quasi di origine biologica, contestualmente trae alimento da numerose altre fonti, associandosi a valori morali, comportamenti sociali, strutture politiche e di potere, è onnipresente e poliedrico. Esso condiziona sviluppi storici diversissimi che spaziano dall’evoluzione del sentimento religioso ai processi di costituzione statale, all’affermazione del potere temporale del papa (la cosiddetta potestà d’impero superiore anche all’autorità dei sovrani), al potere di mobilità e ricambio delle aristocrazie. In pratica possiamo affermare che con il nepotismo viene istituzionalizzata la capacità della Chiesa di adeguarsi agli assetti politici e sociali, assumendo forme e impostazioni diverse, per questo motivo da duemila anni la Chiesa come struttura ha mantenuto la sua influenza (ricordo ai miei gentili lettori che il Vaticano ha abolito la pena di morte appena nel 1969). Nella lingua odierna, nepotismo designa, in modo superficiale, una forma di malcostume aperta ad ogni personaggio dotato di influenza e potere. L’origine del suo significato è precisa nel senso che la negatività del termine era circoscritta all’ambiente romano, o meglio, curiale e papale; sarebbe troppo limitativo definire il nepotismo una forma perversa di decadenza della Chiesa, perché era nato già nel XIII secolo, ma questo modus operandi ebbe il suo apogeo nel Seicento, culminando in una pratica che da circa un secolo veniva seguita da tutti i papi, al punto di trasformarsi in un’istituzione: il cardinale nipote. Il papa neoeletto elevava al cardinalato un parente stretto, di solito appunto un nipote, al quale venivano conferite funzioni fondamentali, di natura tanto istituzionale, come la carica di “Sovrintendente allo Stato ecclesiastico”, quanto informale, di massimo referente del tessuto clientelare. Per estensione, il nepotismo già allora non indicava soltanto il ricorso alla figura del cardinale nipote, ma più in generale quel radicato atteggiamento di tutela e di favore verso i parenti, comune a tutti i pontefici e ai grandi prelati. Così superficialmente inteso il nepotismo è una costante della storia della Chiesa nel tempo che ha provocato reazioni e giudizi vari, i più noti sono sicuramente le terzine dantesche sui simoniaci e su papa Nicola III. Possiamo cogliere anche parole di difesa e giustificazione del nepotismo, infatti il chierico Lambert di Huy sosteneva che non era bene legare estranei al proprio ombelico. Per alcuni storici (e apologeti) della Chiesa attivi alla fine del secolo scorso, le più antiche pratiche nepotistiche risalirebbero addirittura a Cristo stesso, che non avrebbe esitato ad accogliere fra i suoi discepoli alcuni parenti. Il nepotismo è stato oggetto di valutazioni diverse, che tuttavia appaiono collegate da un omogeneo comune denominatore, come quelle di corruzione e decadenza, considerate fuorvianti per comprendere la reale effettività e le cause storiche delle pratiche nepotistiche. Molti studiosi della Chiesa e dei primi sviluppi dello Stato Pontificio, hanno provato a dare un’interpretazione politico-amministrativa del nepotismo, visto come uno strumento di governo, pur essendo una consuetudine controproducente ma organicamente connessa al tipo di organizzazione curiale e statale voluta dai papi. Il nepotismo, le sue modalità, il contesto in cui si svolse, le sue conseguenze e simili argomenti restano tematiche trattate ai giorni nostri, e non solo dagli studiosi dei secoli anteriori. Gli studi sul XVI e XVII secolo fanno ampio ricorso a modelli molto precisi e specifici di derivazione sociologica. Wolfgang Reinhard, forse il maggiore studioso del fenomeno, sostiene di applicare alla Corte della Roma rinascimentale e barocca le teorie transazionali sviluppate dalla produzione sociologica contemporanea (innanzitutto le categorie di patronage e clientela), per comprendere la ripartizione del potere e i meccanismi di mobilità sociale. Renata Ago, adoperando le tematiche elaborate dalle ricerche sulla società di corte, ha analizzato in modo specifico come i gruppi sociali si formavano e si comportavano, sia soprattutto quali interazioni esistevano fra cultura, comportamenti collettivi, scelte e motivazioni individuali. Nell’età moderna, lo storico ha avuto a disposizione un materiale documentario immenso, costituito da lettere private, memorie, autobiografie e carteggi diplomatici, prodotti fra l’età medievale e l’età moderna. Non c’erano solamente difformità di fonti documentarie, diversa era la forma storica del nepotismo, infatti nel tardo quattrocento almeno, le pratiche nepotistiche finivano per comporsi in un fenomeno già in partenza ben individuato. Dal 1538, con la nascita della figura del cardinale nipote, il nepotismo assunse una precisa fisionomia istituzionale, ma già nei decenni precedenti lo sviluppo dei comportamenti nepotistici e i loro eclatanti effetti sull’evoluzione storica della Chiesa avevano fatto di esso una realtà ben radicata negli ordinamenti pontifici, anche se dobbiamo ammettere che il nepotismo restò latente, in fase embrionale, poi nel XIII secolo conobbe una fisionomia composita, variata, poco definibile. Il nepotismo, anche se fu un’esclusiva dei Papi, fu molto diffuso anche fra i cardinali che ne fecero il loro trampolino di lancio per aspirare al soglio pontificio, coltivando così anche il loro reticolo clientelare. Possiamo affermare con tutta tranquillità che il nepotismo poté avere forti radici, perché la “monarchia papale” era dotata di poteri immensi, sia in campo ecclesiastico che temporale, e non dimentichiamo il rapporto tra il papa e la grande aristocrazia romana, che supportò palesemente ed indirettamente la pratica scellerata del nepotismo. Alcuni storici e studiosi del fenomeno tendono a giustificare questa pratica usata dai vari papi per mantenere e perpetuare il loro potere, adducendo che anche i re e i sovrani di molti stati avevano agevolato i propri figli fino ad accaparrarsi tutto il potere e i privilegi che potevano al fine di accrescere la propria ricchezza e mantenere lo splendore della propria casata. Queste persone però dimenticano che il papa non era solo un monarca elettivo dotato di potere temporale, ma rappresentava la cristianità intera dal punto di vista morale, etico e spirituale, quindi il fenomeno non va visto in senso positivo. Probabilmente se Gesù fosse vissuto nel 1500 (in pieno Rinascimento), sarebbe rimasto come minimo schifato da un comportamento così decadente, diseducativo e soprattutto contrario a quei precetti religiosi (onestà, rettitudine, fedeltà, dedizione al lavoro) che caratterizzano il suo insegnamento. Il nepotismo va analizzato studiando la dialettica sociale e politica del tempo, tenendo conto delle vicende della Curia e dell’Istituzione pontificia e i loro rapporti con la parentela e i ceti nobiliari e soprattutto la localizzazione del fenomeno a Roma e nel Lazio. CAPITOLO II Il nepotismo nel Medio Evo Il papato nei secoli X – XI subì l’influenza della nobiltà romana, che esercitò un regime fra oligarchia e il principato, in pratica il pontefice subiva la pressione della propria famiglia. Verso il 1050, grazie all’intervento degli imperatori del Sacro Romano Impero (tra cui ricordiamo Enrico III) la Chiesa di Pietro fu affrancata dal condizionamento esercitato dall’aristocrazia del posto, dalle lotte fratricide e dalla decadenza dei costumi. Il papato si liberò dal suo esasperato sapore localistico riacquistando universalità, fama e sovranità. Alcuni studiosi riconoscono al papato nobiliare alcune peculiarità fondamentali: per mezzo delle alleanze e dei possessi delle famiglie più influenti si creò una sinergia fra città e territorio molto più efficiente ed empirica in antitesi alle astratte pretese temporali dei papi alto medievali. Il papato nobiliare tentò di mediare tra la sovranità formale del Papa e gli interessi reali dell’alta aristocrazia (Crescenzi, Tuscolani), esercitando nel contempo un controllo del territorio. La decadenza della grande nobiltà romana e al contempo la mancanza del controllo sul papa furono dovute all’errore di queste grandi famiglie nobiliari che non estesero i propri domini, in pratica questo si tradusse in una perdita di potere, anche se altre famiglie nobili romane (Frangipane, Pierleoni) riuscirono a soppiantare le vecchie aristocrazie. Possiamo affermare che già all’inizio del papato di Anacleto II, e in misura determinante dopo la sua morte, si ebbe una riforma radicale della Chiesa, infatti fu valorizzato lo spirito universale dell’ordinamento papale, affermando con decisione la preminenza del vescovo di Roma sulle strutture religiose. Il papa quindi non poteva più subire l’egemonia delle famiglie nobili di Roma, ormai questo pensiero era completamente superato. Il papato impiegò quasi cent’anni per realizzare la propria affrancazione dall’alta nobiltà romana, ma alla fine vi riuscì, infatti per l’elezione del papa fu creato un collegio cardinalizio ristretto, composto da sessanta cardinali influenti. Con decreto di Nicola II, nel 1059 ai cardinali era stato riservato il diritto di esclusione di eleggere il papa, l’apparato amministrativo del Laterano fu gradualmente sminuito come esercizio del potere papale, perché dominato dalle famiglie aristocratiche della città e al suo posto si formò la curia pontificia (XI secolo circa). Basilare fu la nascita del collegio dei cardinali, perché questo importantissimo organismo affiancò sempre il papa nel governo dello stato pontificio, quindi questi grandi prelati abbandonarono la loro funzione spirituale (papa Urbano II fu l’artefice di questa riforma) per dedicarsi alla gestione dello stato. Vicino al collegio cardinalizio furono create altre strutture amministrative, quali la cappella, che sostituiva i cardinali nei loro compiti pastorali presso il pontefice, la cancelleria, efficace ed articolato strumento di registrazione e scrittura, e infine la camera, organo centrale di amministrazione finanziaria e di controllo burocratico amministrativo. Con la creazione di questi nuovi organi il papa si liberava della presenza ingombrante dell’alta aristocrazia, consuetudinariamente dominatrice dei posti di rilievo dello Stato della Chiesa. La Chiesa si convinse che per mantenere questa indipendenza dalle famiglie nobili doveva ingrandirsi territorialmente al fine di essere credibile, infatti con papa Eugenio III (1145-1153) e papa Adriano IV (1154-1159) furono conquistati o annessi decine di possedimenti (castelli, casali, ecc.). Molte famiglie aristocratiche furono costrette a sottomettersi al papa tramite la meschina formula del vassallaggio: queste famiglie nobili soggiogate dal pontefice dovevano fornire aiuti militari e tributi monetari in caso di guerra, stipulare trattati di pace su ordine del papa e altri obblighi modificabili di volta in volta. Il formarsi del comune di Roma rese più democratica la vita cittadina, infatti i senatori che governarono il comune di Roma erano di estrazione popolare, anche se bisogna ammettere che l’influenza degli aristocratici non cessò, ma fu più discreta e diplomatica, infatti molti membri del senato erano di provenienza nobiliare. I contrasti con il papa non mancarono, perché il comune di Roma non voleva sottostare all’influenza dei pontefici, che tentarono vanamente di avere sotto la propria egemonia il collegio senatoriale della città di Roma. Ritornando ai dissidi tra papato e comune, essi erano di natura prettamente finanziaria, il sacro pontefice pretendeva dai cittadini grosse somme di denaro per poter mantenere la corte pontificia, la curia apostolica, la cancelleria, e le altre istituzioni, queste sovrapposizioni costrinsero sovente i papi a soggiornare fuori Roma. Nel 1188 il papato raggiunse la pace con il comune di Roma. Non si trattò di una vittoria del pontefice, bensì di un compromesso, infatti negli accordi di pace i senatori si impegnavano a rispettare la sovranità della Chiesa, a giurare fedeltà alle istituzioni religiose, rispettando i cardinali, chierici di curia, permettendo di nuovo alla Chiesa di battere moneta e di avere il controllo di alcuni possedimenti come il Pantheon, Castel Sant’Angelo, Ostia, ed altri ancora. Nel XII secolo si ebbero le prime forme di nepotismo, dopo la morte di papa Innocenzo II la sua famiglia, i Papareschi, raggiunsero un notevole rilievo nella città di Roma fino alla metà del XII secolo. Lo stesso dicasi per i Boveschi che ottennero feudi (Bovarano e Empigliene) dal loro parente, papa Celestino III, questi, durante il lungo cardinalato, prima di accedere al soglio di Pietro, nominò due suoi parenti cardinali. Clemente III durante il suo pontificato fece dei favori alla sua famiglia, quella degli Scolari, ma questo dopo la sua morte non migliorò la posizione del suo casato, infatti questa famiglia tornò ad avere pochissimo rilievo nell’aristocrazia romana, anche se bisogna ricordare che un suo nipote divenne cardinale, e altri suoi parenti ottennero dei feudi nella zona di Lariano. Celestino III, eletto pontefice, favorì molto un ramo del suo casato, quello del nipote Orso. I figli di suo nipote ottennero cospicue concessioni territoriali ed assunsero il cognome di Orsini. Forme di nepotismo si sono sviluppate anche nel periodo antecedente al XIII secolo, però è solamente in questo periodo storico che il nepotismo segnò progressi così enormi, condizionando le strutture ecclesiastiche, la vita politica e la società. Diciamo che questa forma di malgoverno fu dovuta all’enorme crescita del potere dei papi e dei cardinali verificatosi nell’ordinamento ecclesiastico; l’enorme espansione territoriale dello stato della Chiesa incrementò ulteriormente l’autorità papale e di conseguenza il nepotismo, l’enorme flusso di risorse finanziarie di cui disponeva il pontefice fece il resto perché molti papi medievali, attraverso cariche ben remunerate date ai parenti, fecero confluire enormi risorse di denaro, accentuando ovviamente il favoritismo verso i propri nipoti, fratelli, cugini. CAPITOLO III L’organizzazione politico-amministrativa della Chiesa nel Medio Evo Nel XI secolo assistiamo ad un aumento vertiginoso del potere teocratico della Chiesa e del potere d’Imperio romano che si tradusse nella formazione di una monarchia papale, che si espresse in senso politico, nel rapporto con le strutture ecclesiastiche e nell’esercitare il potere temporale. L’impostazione politica del pontefice si esprimeva come suprema istituzione nel dirimere conflitti internazionali e proporsi come ultimo mediatore, queste sue prerogative politiche nel XI – XII secolo traevano origine dal potere che Dio gli delegava, quindi l’autorità papale era di origine divina e superiore a qualsiasi altra istituzione o forza politica. Dove si estrinsecò maggiormente la cosiddetta monarchia elettiva e papale fu l’ambito politico. Innocenzo III ammise la distinzione dei due poteri, spirituale e temporale, attribuendo importanza al primo, però aggiunse che in caso di bisogno il papa aveva il diritto di esercitare il potere temporale. Papa Innocenzo IV ribadì in modo più intransigente la sovranità papale universale, che poteva deporre re e imperatori e scegliere i vari contendenti alla corona. Durante i vuoti di potere imperiale il pontefice poteva sostituirsi temporaneamente finché l’autorità dei sovrani non venisse ripristinata: non solo, ma la giurisdizione ecclesiastica aveva preminenza su quella civile. L’apice del potere teocratico fu raggiunto con Bonifacio VIII, che per giustificare ideologicamente la sua teoria di supremazia del potere sui vari re e imperatori d’Europa emanò la bolla Unam Sanctum del 1303. Secondo alcuni studiosi il nepotismo si sviluppò in correlazione con l’affermarsi del potere papale, diciamo che nel XIII secolo la figura del pontefice si avvicinò molto a quella di Cristo, egli infatti non veniva più definito, come nell’alto medioevo, “vicario di Pietro”, bensì “vicario di Cristo”, sua immagine vivente in terra. Papa Innocenzo III, per rendere ancora più divina la figura del papa, sostenne l’infallibilità del capo della Chiesa. Il nuovo Stato della Chiesa aveva bisogno di una struttura articolata e complessa per poter esercitare il proprio potere, di conseguenza presso la curia romana, cioè nel cuore dell’ordinamento ecclesiastico, si verificò un sensibile proliferare di uffici, aventi come obiettivo principale quello di assicurare ed esprimere il controllo del pontefice sulla cristianità. Anche il personale addetto alla cancelleria aumentò, si formò inoltre un accentuato gruppo di procuratori e l’ufficio dell’auditor litterarum contradictorum. Sul piano giuridico si fece una totale riorganizzazione di uffici e procedure, con la formazione di personale legislativo finalizzato e preparato che era composto da cappellani papali e più tardi di auditores sacri palatii. A livello economico si creò un sistema d’imposte centralizzato ed esoso, formato dalle decime che servivano a finanziare le Crociate, per la riscossione dei diritti percepiti e per il conferimento o la conferma di benefici ecclesiastici. Si creò anche la camera apostolica, fino all’istituzione presso la curia di commissioni aventi come scopo precipuo i processi di canonizzazione (con il papa Alessandro III la facoltà di pronunciarsi sulla santità fu sottratto ai vescovi e riservato solo al papa). Già mille anni fa il nepotismo era radicato nel tessuto sociale italiano, oggi ci lamentiamo che gli avvocati, i notai, i professori ed altre categorie tendono a far fare ai propri figli le loro professioni avvantaggiandoli in tutte le maniere. Il malcostume del nepotismo ha un’origine atavica, teniamoci il nostro paese per quello che è, potremo gridare allo scandalo, ma ormai questa aberrante pratica di aiutare figli e nipoti è insita nella concezione politica sociale dell’Italia, ci vorrebbero forti trasfusioni di moralità ed etica per salvare questo nostro paese. Io ormai sono rassegnato, come dicevano Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Verga, le cose nel Mezzogiorno non cambieranno mai, io aggiungo nella nostra nazione resterà tutto statico perché è un paese di vecchi o affidato ai Matusalemme, dove ogni cambiamento viene visto con sospetto. Lo Stato della Chiesa cercò di attuare nelle sue province un controllo sistematico dei fermenti religiosi e dei movimenti spirituali, l’esempio più palese fu la conferma dei grandi ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. Altra innovazione fu l’istituzione di quel formidabile strumento di sorveglianza e repressione rappresentato dall’Inquisizione. Importante poi fu la crescente facoltà d’intervento dei pontefici nella nomina dei vescovi voluta da Bonifacio VIII (1294-1303) attraverso la riserva generale ed il diritto di appello, questi strumenti permettevano ai papi di scavalcare la consuetudine fino ad allora seguita che assegnava al clero della diocesi e in particolare ai canonici della cattedrale il ruolo prioritario nell’elezione del nuovo vescovo. Anche la Chiesa, come gli stati dell’epoca, realizzò un sistema bicefalo fra potere centrale e poteri periferici, possiamo affermare che nel XIII secolo si affermò la differenza fra città e territori soggetti per via diretta alla Chiesa, e città e territori soggetti ad un controllo compromissorio, perché in primis erano sotto il controllo dei comuni maggiori o di casati nobili o religiosi. La piccola città protetta da mura che era sotto una famiglia gentilizia, o il territorio rurale di un convento, oppure le zone inserite in un contado comunale, risultavano precisamente mediate subiecti alla Chiesa. Sudditi diretti del papato erano formalmente le famiglie aristocratiche, l’ente monastico o il comune, i quali esercitavano sui propri soggetti (i contadini del villaggio, gli abitanti del territorio monastico, gli abitanti del contado della città) potere assoluto, mentre i sudditi diretti della Chiesa (nobili, comuni, monasteri) avevano riconosciuti enormi margini di autonomia e di autogoverno. La Chiesa sviluppò il nepotismo anche per due fattori che per essa rappresentavano l’anello debole: il pontefice non riusciva a tenere sotto controllo i comuni più forti, che pagando esose tasse e imposte riuscivano a sottrarsi all’autorità papale e potevano per esempio nominare il podestà, invece nei comuni più deboli, che avevano meno capacità contributiva, la sovranità pontificia si estrinsecava in modo più palese imponendo la nomina del podestà e in alcuni casi scegliendo fra tre o cinque candidati quello di suo gradimento. La nobiltà, se da un lato era maggiormente tutelata dai suoi privilegi, quando lo stato pontificio esercitava pienamente il suo potere d’imperio in quel determinato territorio, era fortemente limitata nella sua capacità di agire e quindi nella sua discrezionalità di gestire autonomamente il suo feudo e di amministrare la giustizia locale. Questo punto debole della Chiesa sul controllo dei territori più turbolenti e dei relativi comuni con circondario accentuò il disagio delle autorità papali che, per sopperire a questa carenza, misero nei posti chiave parenti e nipoti al fine di creare un organo omogeneo legato da vincoli di sangue. Sul piano esterno la Chiesa rivendicava i territori delle Marche e parte dell’Umbria (ducato di Spoleto). Gli imperatori tedeschi (Enrico VI, Federico e poi Ottone di Brunswick) presero tempo e mandarono i loro governatori imperiali perché quelle regioni erano d’importanza basilare, erano l’unione fra l’Italia centro-settentrionale e il Regno di Sicilia. La Chiesa, dal canto suo, voleva inglobare legittimamente questi territori perché erano una concessione dei sovrani carolingi. Nel 1201 Innocenzo III riuscì ad avere il riconoscimento dei territori rivendicati dallo stato pontificio da parte del sovrano imperiale, perché fu determinante per l’elezione di Ottone di Brunswick, ma quest’ultimo, appena ottenuta l’investitura imperiale, rinnegò la sua promessa di riconoscere il ducato di Spoleto e la Marca come sovranità pontificia e mandò i propri governanti imperiali. Il nepotismo ebbe un terreno molto fertile anche per la presenza della curia perché i vari parenti del papa e lo stesso capo della Chiesa, per realizzare un governo capillare ed attuare un clientelismo efficace, avevano aumentato notevolmente l’apparato curiale che ormai a Roma contava più di mille persone tra membri stretti della curia, esponenti dei seguiti cardinalizi, procuratori di ogni tipo, inviati di chiese e monasteri, vescovi che facevano la visita al papa e tutti i cortigiani. Mantenere una struttura ecclesiastica così complessa e particolare era molto dispendioso, per il popolo era un costo enorme avere tante persone al servizio del pontefice, invece per i mercanti e commercianti essa rappresentava benessere ed enormi vantaggi economici. Il nepotismo fu un fenomeno circoscritto solamente al papa nel Medioevo, nel Rinascimento e durante la Controriforma, ma questo disdicevole comportamento riguardò anche cardinali, vescovi, abati, sovente anche arcipreti, canonici e altri chierici di estrazione sociale popolare. Questo atteggiamento di malcostume di tutti i livelli della Chiesa danneggiò profondamente i fedeli, che videro travisato il messaggio di Cristo di umiltà, onestà e purezza, e la Chiesa delle gerarchie ecclesiastiche, piuttosto che essere vicino al popolo, dimostrò la sua venalità e immoralità usando la religione per arricchirsi. Il nepotismo del papa e del cardinale erano molto affini, sovente il papa continuava con la sua politica d’ingrandimento economico che aveva già iniziato quando ancora aveva la porpora, dando ai parenti ed amici strettissimi pensioni, donativi di vario genere, feudi. In pratica, quando veniva eletto un papa, che quasi sempre proveniva dall’alta aristocrazia romana, avveniva il sacco del Vaticano, perché al parente (nipote di solito) venivano dati castelli, terreni e titoli nobiliari per acquisire una certa rispettabilità e il casato del papa acquistava enorme lustro. Molti re ed imperatori cercavano di accattivarsi le simpatie dei porporati del Sacro Collegio che era composto di solito da sessanta cardinali, però alcuni papi nel tardo Medioevo per non avere un collegio ostile ridussero a trenta, venti, dieci, gli alti ecclesiastici cioè in pratica quelli che eleggevano il papa. Questa complementarietà tra il papa ed i cardinali si estrinsecava nelle funzioni di consigliere che sovente il porporato faceva, infatti il pontefice si consultava con gli alti ecclesiastici per problemi concernenti il governo della Chiesa e questioni teologiche. Tuttavia la consuetudine di consultare i cardinali variò a seconda del papa e delle varie epoche. Tali consultazioni potevano avvenire nel corso delle grandi assemblee pubbliche (Concistoro), oppure nelle riunioni ristrette tenute nella camera del papa alla presenza dei soli membri del Sacro Collegio, o ancora attraverso colloqui informali con alcuni cardinali di fiducia. Nel Medioevo si era corroborata la prassi dell’obbligatorietà su alcune materie di consultazione tra il papa e i porporati, realizzando così una funzione di controllo della gestione del potere papale. Ad esempio alcuni papi, come Innocenzo III, ascoltavano solo i consigli dei loro cardinali prediletti, invece Bonifacio VIII limitò molto l’influenza del Sacro Collegio al fine di affermare la piena supremazia e l’autonomia del papa. Si capisce come la gestione del potere dello stato della Chiesa era molto conteso fra le due massime autorità, il papa e il Sacro Collegio. Il potere d’influenza dei cardinali dipendeva molto dal grado d’intimità e amicizia che avevano con il papa, dal rapporto che egli aveva con gli apparati curiali, dei legami con i maggiori sovrani della cristianità, delle alleanze e dalle parentele. Si teneva conto della preparazione giuridica e del modo di coltivare le relazioni pubbliche, diciamo che l’autorità del cardinale a volte era talmente potente che poteva essere in antitesi al papa stesso su questioni di alta politica; il cardinale del Sacro Collegio aveva anche la possibilità e la capacità di dare ai propri parenti feudi, privilegi e generose pensioni. Molti comuni laziali, su pressione dei vari papi che favorivano i propri parenti, cedettero i loro diritti e i loro beni immobili al nobile casato del pontefice dal momento che trasformava una libera città in un feudo. Vediamo così avvicendarsi gli Annibaldi, i Colonna, i Caetani. Queste famiglie nobili attuarono una forma di vassallaggio nei confronti degli abitanti che dovevano pagare loro le imposte, fornire uomini in caso di guerra, lavorare gratuitamente nelle terre del loro signore, il quale a sua volta affittava loro alcuni terreni del feudo acquisito, anche se prima magari queste terre appartenevano agli abitanti del comune acquistato in modo fittizio (per impedire che altri aristocratici rivendicassero quei feudi). L’elemento penetrante delle famiglie gentilizie per impossessarsi dei terreni del comune e degli abitanti era la carica di podestà che permetteva loro, come un cavallo di Troia, di avere sotto controllo la città. Riassumendo, l’attività di nepotismo esercitata dal cardinale si estrinsecava in diverse funzioni, vi era un intervento diretto (acquisizioni patrimoniali, finanziarie e politiche) che il casato otteneva per merito dell’intervento dell’alto prelato, o indirettamente quando il porporato per conoscenze e amicizie procurava benefici economici (pensioni, vitalizi, cariche) e territoriali (feudi) alla propria famiglia di origine. Nel XIII secolo assistiamo alla rincorsa delle famiglie nobili romane delle varie cariche politiche che arrecavano prestigio al casato: senatori di Roma, podestà di altri comuni urbani, rettori e capitani nello stato della Chiesa. Era raro che i cardinali facessero ottenere queste cariche ai loro nipoti e parenti, di solito gli aristocratici ottenevano queste cariche più per prestigio al loro potere, alle loro capacità e conoscenze con i potenti e con la curia romana: un membro di un casato illustre dava più autorità e splendore alla città. Molti cadetti di queste famiglie gentilizie all’inizio intrapresero la carriera ecclesiastica, prendendo gli ordini minori; in seguito, accumulati benefici su benefici, potevano sposarsi e tornare al pieno stato laicale, garantendo la sopravvivenza della stirpe (questo era possibile solo se avevano preso i primi voti ecclesiastici, cioè chierici). Addirittura la grande nobiltà romana per non mescolarsi con i casati minori e per non perdere i propri beni o vedersi diminuire il proprio patrimonio immobiliare chiedeva delle dispense matrimoniali per sposarsi tra parenti, aggirando il diritto canonico che vietava rigorosamente i matrimoni tra cugini di secondo e terzo grado. Queste unioni dell’alta nobiltà romana venivano fatte per corroborare la solidarietà fra la stessa famiglia nobile che con il susseguirsi delle generazioni tendeva ad attenuarsi, e per permettere ai parenti più lontani di ereditare i beni del ramo della famiglia estinto. CAPITOLO IV I vari papi del nepotismo. Papa Innocenzo III (1198-1216) fu uno dei papi più importanti del Medioevo, egli ribadì con veemenza e determinazione il potere temporale su Roma, sullo stato pontificio e su tutte le materie concernenti le strutture ecclesiastiche, economiche, fiscali e dei culti. Grazie al suo enorme potere e alla macchina amministrativa che elaborò per far funzionare l’articolato e complesso Stato della Chiesa, egli accentuò i favoritismi ed i privilegi nei confronti di parenti e amici, sempre però in funzione dello Stato della Chiesa. Innocenzo III apparteneva per via paterna alla piccola nobiltà dei Segni (i Conti), invece la nobiltà materna (gli Scotti) non possedeva grossi domini ma aveva molte alleanze e parentele. Suo figlio Lotario, cioè il futuro papa Innocenzo III, dopo aver studiato alle università di Perugina e Bologna fu nominato cardinale nel 1189 e dieci anni dopo, nel 1198, venne eletto papa. In brevissimo tempo, il casato di papa Innocenzo III da una condizione modesta divenne, alla morte del papa, la famiglia aristocratica più potente di Roma e del Lazio, infatti il fratello Riccardo Conti (camerlengo papale), acquistò castelli e terreni e con il denaro che gli aveva fornito il fratello pontefice, creò grandi fortezze e milizie armate sempre più agguerrite, senza contare tutti i prestiti che Riccardo concedette ai vari nobili romani. Anche un’altra famiglia di media nobiltà, gli Annibaldi, grazie ad un matrimonio con la famiglia Conti riuscì ad ottenere feudi e benefici da papa Innocenzo III, mentre la famiglia del precedente papa Celestino III, gli Orsini, temeva di essere schiacciata dal nuovo casato emergente dei Conti. Un altro papa che fece del nepotismo un credo politico ed ideologico fu il genovese Sinibaldo Fieschi che fu eletto pontefice con il nome di Innocenzo IV dopo una lunga serie di papi romani e laziali. Appartenente alla potentissima famiglia dei conti di Lavagna, che estendevano la propria egemonia su tutta la Liguria orientale e dell’Appennino parmense, Innocenzo IV Fieschi apparteneva alla grande nobiltà settentrionale, era imparentato con famiglie ghibelline, e comunque, provenendo dall’alta aristocrazia del nord Italia, era tradizionalmente fedele all’impero. Appena l’imperatore Federico II apprese la sua elezione al soglio pontificio ne fu entusiasta, ma la sua grande felicità durò poco, perché Innocenzo IV riprese con vigore la lotta nei confronti dell’Impero, al fine di affermare la supremazia politica della Chiesa. I parenti di papa Innocenzo IV fornirono un aiuto fondamentale al loro congiunto, mettendolo al sicuro dalle rappresaglie di Federico II che nel frattempo era stato scomunicato, non solo, ma grazie al suo casato (Fieschi), poté contare su contingenti militari provenienti dalla Repubblica Marinara di Genova e soprattutto dalla sua flotta. In cambio Innocenzo IV attuò il nepotismo più esasperato, le carriere dei congiunti ecclesiastici vennero fortemente favorite. Con Sinibaldo si ebbe una crescita enorme nell’ambito della curia romana: altri due Fieschi, il giovanissimo Guglielmo e Ottobono (il futuro papa Adriano V) vennero inseriti nel Sacro Collegio, mentre altri parenti ottennero prebende e benefici economici e territoriali. L’enorme potere accumulato da Innocenzo IV non fu solo dovuto all’appoggio di alcuni sassoni come Guglielmo d’Olanda, ma le enormi risorse finanziarie di cui la Chiesa poteva disporre furono proiettate all’acquisizione di una serie di vastissimi territori, tali da costituire una signoria nella zona di La Spezia, che però finì per entrare in contrasto con Genova, provocando la guerra. Alla fine la città di Genova ne uscì vincitrice e i Fieschi perdettero molti possessi. Rinunciando a crearsi un grosso dominio, puntarono più alla grande finanza ed allo spostamento di capitali, questo sempre grazie allo stimolo di papa Innocenzo IV e dei suoi nipoti cardinali, che, come ho già detto, fornirono ingenti somme di denaro. Ritornando al discorso del nepotismo, esso non può essere liquidato in modo superficiale e sbrigativo, ovviamente la sua base fondamentale era rappresentata dall’amore per il proprio sangue, quindi in consuetudini sociali molto arcaiche che avevano una correlazione probabilmente biologica, ma questo sistema scellerato attingeva da fonti morali, comportamenti sociali e da strutture politiche e di potere ed inoltre era onnipresente e poliedrico. Condizionò sviluppi storici differenti, che vanno dal pensiero religioso ai sistemi di costruzione statuale, all’esaltazione del potere papale sull’ordinamento ecclesiastico al processo di cambiamento e modifica delle aristocrazie, diciamo che il nepotismo era come il camaleonte, si adeguava all’evolversi degli assetti politici e sociali, configurandosi sempre in forme e direzione diverse. In origine il termine nepotismo assunse una posizione ben precisa, priva di aspetti negativi, questa parola è nata secondo alcuni studiosi all’inizio del XVII secolo per configurare una consuetudine che ormai da tempo veniva seguita da tutti i pontefici: il papa appena scelto dal collegio cardinalizio ristretto nominava un parente molto vicino e strettissimo al cardinalato, al quale venivano date funzioni politico–amministrative, come la carica di Sovrintendente allo Stato Ecclesiastico; egli in modo ufficioso faceva da filtro al sistema clientelare che era molto diffuso nella Roma papalina, e non solo presso i pontefici e gli eminenti prelati. Oggi comportamento prettamente italiano e latino, nei paesi nordici e protestanti queste forme di favoreggiamento avvengono, ma non in maniera così palese come nel nostro Paese e poi, se scoperto, chi ricopre incarichi istituzionali si dimette. In Italia invece, si fanno una bella risata e poi magari il reato cade in prescrizione. Alcuni studiosi hanno dato un’interpretazione sociologica del nepotismo, l’approccio mi sembra esagerato, perché di solito la sociologia studia fenomeni di massa, invece questa forma distorta della gestione del potere papale, riguardava una ristretta cerchia di persone che ruotava attorno al pontefice, il quale dispensava incarichi, privilegi e favori, quindi è una forzatura demagogica ricondurre questa gestione politico-amministrativa del papa e dei suoi parenti e pochi amici, quelli che vogliono dare un aspetto legalitario ed istituzionale del nepotismo commettono un’ipocrisia politica, questa forma scellerata del governo dello stato della Chiesa rappresentò la forma più meschina di clientelismo. Possiamo aggiungere che il nepotismo dei papi e dei cardinali più potenti e del loro casato fu caratterizzato dalla dislocazione nell’area romana e laziale (secoli XII – XIII), in seguito, quando la corte pontificia si spostò nell’area di Avignone, nella Provenza, assunse altre connotazioni. Nella metà del Duecento, la vita del papato fu fortemente influenzata dal problema del Regno di Sicilia e dalla “soluzione angioina” poi raggiunta in quel periodo. All’epoca la maggioranza dei papi fu di provenienza francese e questo fatto modificò molto le forme del nepotismo. La morte di Federico II, nel dicembre del 1250, non aveva posto fine alla “questione siciliana”, che era quella di garantire una netta separazione fra impero e Regno di Sicilia, togliendo l’Italia meridionale agli Svevi. Verso la fine del suo pontificato Innocenzo IV si adoperò per trovare fra i principi europei un candidato da contrapporre dapprima al figlio di Federico II, Corrado IV e poi, dopo la sua morte nel maggio 1254, a Manfredi, un figlio illegittimo di Federico II che aveva preso il potere a scapito del giovanissimo Corradino, l’erede legittimo. La diplomazia papale offrì di conquistare il regno e di ottenere l’investitura feudale della Chiesa dapprima a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, e poi ad Edmondo, fratello del re d’Inghilterra. Nel 1255 Edmondo fu investito ufficialmente della corona siciliana da papa Alessandro IV, succeduto ad Innocenzo IV. Nel frattempo il principe inglese temporeggiava ad organizzare la conquista del Regno di Sicilia e questo destava fortissima preoccupazione al papa, tanto più che nel 1258 Manfredi si fece incoronare re di Sicilia, mettendo in giro la voce che il figlio legittimo Corradino era morto, non solo, ma attaccò con successo lo Stato della Chiesa. Alla morte di Alessandro IV il contrasto di trovare una soluzione fra chi era favorevole ad un accordo con cui il principe inglese ed i partigiani spinse i cardinali, dopo tre mesi di conclave, ad eleggere un personaggio non italiano ed esterno al Sacro Collegio, il francese Giacomo di Troyes, patriarca di Gerusalemme, che divenne papa con il nome di Urbano IV (1261-1264). Questo carismatico papa si distinse per la sua energia, intelligenza e soprattutto per la sua azione diplomatica nel sottrarre a Manfredi il Regno di Sicilia. Infatti dopo l’accordo con il papa, Carlo d’Angiò, appoggiato dal fratello Luigi IX, poté attuare la conquista dell’Italia meridionale. Alla morte di Urbano IV venne eletto un altro papa francese, Clemente IV (1265-1268). Bisogna ricordare che nel frattempo ci furono innumerevoli promozioni di cardinali francesi. Carlo d’Angiò, dopo le vittorie di Benevento e Tagliacozzo divenne l’espressione politica più condizionante d’Italia, effettuando un controllo rigido sullo stato della Chiesa ed i suoi territori, anche se papa Gregorio X (1271-1276) cercò di mitigare e contenere le pretese egemoniche degli angioini. Un altro papa che attuò una forma di nepotismo più o meno vistosa fu Alessandro IV (1254-1261), di famiglia nobile, che diede feudi e cariche ai propri parenti, ad esempio al nipote Rinaldo donò i castelli di Trevi, Filettino e Vallepietra, ad un cugino il rettorato delle province del Ducato di Spoleto e ad un nipote il rettorato della Marca di Ancona. Urbano IV (1261-1264) francese, di lignaggio modesto, favorì i parenti nelle attribuzioni di benefici e privilegi, nominò suo nipote Ancher cardinale. Il suo successore, sempre francese, Clemente IV (1265-1268), discendente dai conti di Tolosa, rifiutò ogni forma di nepotismo e cercò di limitare le prerogative. Papa Gregorio X (1271-1276) apparteneva ad una famiglia dell’antica nobiltà cittadina ma di limitato spessore, concentrò la sua attenzione più che sulle questioni politiche, sulla sua attività nel riconquistare la Terra Santa, nel porre fine alla divisione con la Chiesa greca e nel purificare la concezione del clero e l’ordinamento interno della Chiesa. Durante il suo pontificato, la rettoria di numerose province dello stato fu affidata al fratello visconte e ad altri parenti, suo nipote Giovanni ottenne la porpora di cardinale, anche se questa nomina non rappresentò per la famiglia un apporto di rilievo. Papa Niccolò III (Giangaetano Orsini, che fu papa dal 1277 al 1280) riuscì a raggiungere il soglio pontificio per una serie di circostanze favorevoli: la malattia di Carlo d’Angiò che impedì al nuovo re di Sicilia di raggiungere Viterbo, dove si stava svolgendo il conclave, al fine di condizionare l’elezione del nuovo papa, e la morte di alcuni cardinali favorevoli agli angioini. Alla fine i pochi membri rimasti nel conclave elessero l’Orsini che assunse il nome di Niccolò III. I francesi non riuscirono questa volta ad eleggere un loro compatriota o un papa a loro favorevole, perché impegnati nella guerra dei vespri siciliani e con gli Aragonesi. Nella storia del nepotismo la tradizione attribuisce a Niccolò III una posizione di prestigio perché viene indicato come il precursore del nepotismo papale e biasimato per l’uso eccessivo di simonia nei confronti dei suoi parenti, infatti inserì nel collegio cardinalizio il proprio fratello Giordano e un nipote, Latino Malabranca. I nipoti laici, soprattutto Bertoldo e Orso furono utilizzati per il governo dello Stato della Chiesa, per esempio Bertoldo Orsini fu utilizzato per amministrare la nuova provincia della Romagna. Papa Niccolò III cercò di limitare l’influenza francese in seno alla curia e nello Stato della Chiesa, dando cariche oltre che ai familiari anche a persone di sua fiducia. Se papa Niccolò III poté agevolmente muoversi nella politica italiana fu perché proveniva da un casato potentissimo, che poteva vantare numerosi castelli e molti uomini armati. Durante il suo pontificato gli Orsini ottennero una piazzaforte d’importanza strategica come Castel Sant’Angelo, che divenne fortezza famigliare. Nello Stato della Chiesa i familiari di papa Niccolò III assunsero rettorie, uffici provinciali e la podesteria dei comuni; le fonti parlano di una quindicina di cariche conferite ai parenti, oppure spontaneamente assegnate dai comuni al fine di accattivarsi il pontefice. La famelicità degli Orsini, grazie all’appoggio del loro parente papa, si estese anche nel viterbese, molti castelli e feudi caddero nelle mani di questa famiglia, ed in particolare di Orso Orsini. Le vecchie famiglie aristocratiche che possedevano questi castelli da generazioni furono scacciati, per eresia (scomunicandoli o mettendoli fuori legge) o per revoca della concessione, le truppe del papa e gli armati della famiglia Orsini fecero il resto. Papa Niccolò IV (1288-1292), marchigiano di nascita, era un francescano dai natali semplici che non avvantaggiò i propri parenti, bensì una potente famiglia della nobiltà romana, i Colonna. Questo papa si appoggiò moltissimo a questa famiglia per amministrare lo Stato della Chiesa, infatti molti membri del casato dei Colonna ottennero podesterie, rettorati provinciali, senatorie di Roma, incarichi militari. Il cardinale Giacomo Colonna fu coadiuvato nel Sacro Collegio dal giovane nipote Pietro. Possiamo dire che la famiglia dei Colonna con questo papa raggiunse l’apice della sua potenza, essi infatti possedevano decine di castelli in Calabria, Abruzzo e in altre regioni del Regno di Sicilia, in Romagna, in Francia, nel Lazio e possedevano alcune fortezze dell’Augusta, di Montecitorio e dei SS. Apostoli. Molti studiosi si sono chiesti le motivazioni che spinsero papa Niccolò IV ad arricchire sempre di più questo illustre casato, già di per sé ricco e potente. Alcuni storici attribuiscono questa generosa disponibilità ad elargire benefici e privilegi ai Colonna al riconoscimento che il papa Niccolò IV doveva per la sua elezione a papa, altri ricercano questa devozione al buon rapporto che Niccolò IV aveva con questa famiglia quando era cardinale vescovo di Palestrina, la città che era il principale fulcro di potere dei Colonna. Altri studiosi insistono sui rapporti diplomatici militari e politici che questa famiglia aveva con le alte aristocrazie di Roma, del Lazio e di altre parti d’Italia. Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, nacque circa nel 1235, da illustre famiglia, forse di lontana origine spagnola. Per via della madre Emilia, della nobil casa dei Patrasso di Alatri, era imparentato con papa Alessandro IV. I Caetani appartenevano ad un casato gentilizio proveniente dalla città di Anagni, di una nobiltà non rilevante, infatti non avevano né castelli né vassalli: questa famiglia per affermarsi puntava tutto sulla carriera ecclesiastica dei propri membri. Fu educato a Todi presso il vescovo Pietro, suo zio, il quale ottenne nel 1260 dai canonici di Todi che ricevessero nel loro collegio Benedetto, benché non avesse ancora preso i voti religiosi. Conseguì il dottorato nel diritto civile e in quello canonico: pare che il futuro Bonifacio VIII avesse frequentato anche l’università di Pavia, risulta certo che le sue conoscenze giuridiche erano profonde ed accentuate, infatti servì con zelo i vari uffici della curia romana con il ruolo di avvocato concistoriale, Partecipò a diverse legazioni pontificie in Italia e all’estero; il 23 marzo 1281 venne nominato cardinale di S. Nicola in Carcere Tulliano da papa Martino IV. Benedetto, uomo dotato d’intelligenza superiore alla media, era fornito di un’eccellentissima cultura giuridica ed ebbe una grandissima esperienza in curia come notaio papale, fu anche avvocato concistoriale facente funzioni diplomatiche importanti per il papa, infatti come cardinale espletò articolate missioni diplomatiche e delicati incarichi acquisendo stima e prestigio. Durante gli anni in cui vestì la porpora Benedetto accumulò ingenti ricchezze che gli permisero di acquistare alcuni castelli prima di essere eletto papa. Nel 1283 il pontefice affidò al Caetani l’incarico di impedire che avvenisse il duello fra Carlo I d’Angiò e Pietro d’Aragona, giacché i due rivali si erano promessi di scontrarsi in singolar tenzone nella città di Bordeaux il primo giugno alla presenza di Edoardo re d’Inghilterra e signore di quella città. L’opera di dissuasione del cardinale Caetani presso il caparbio re di Napoli non diede l’esito sperato; il duello tuttavia non si svolse perché l’astuto aragonese non arrivò puntuale al luogo prestabilito, e l’angioino ne approfittò per dichiararsi onorevolmente sciolto dal battersi. Bonifacio VIII salì al soglio di Pietro dopo che il suo predecessore Celestino V si persuase ad abbandonare la guida della Chiesa, molti dicono che questo pontefice avesse mostrato una certa inettitudine a reggere la cristianità ed a portare avanti il concetto di Chiesa Universale, nonostante il re di Napoli, molti cardinali e capi di ordini religiosi avessero fatto tutto per dissuaderlo dall’attuare la rinuncia. Ai cardinali presenti in Napoli non rimase che raccogliersi in conclave per poter arrivare alla nomina del successore. Alcuni cronisti dell’epoca sostennero che Celestino V prima di abdicare abbia sentito il cardinale Benedetto Caetani, il quale sembra che l’abbia convinto a tornare a fare l’eremita. I due cardinali Colonna facenti parte del Sacro Collegio diffusero tre libelli contro il Caetani, affinché non fosse eletto, ma le calunnie ordite dai Colonna non sortirono l’effetto voluto. Il 23 dicembre 1294, ventidue cardinali si riunirono in Castel Nuovo a Napoli e al terzo scrutinio risultò eletto, il giorno seguente, il cardinale Caetani. Carlo II di Napoli non fu entusiasta di quella elezione, perché il primo atto di Bonifacio VIII fu di palese ostilità al re, infatti in una prima apparizione ai cardinali espresse delle lamentele sostenendo che al debole ed inesperto Celestino V erano state ottenute delle concessioni che egli doveva assolutamente revocare. Dopo questo discorso decise di fare ritorno a Roma per poter esplicare il suo mandato di pontefice, il re angioino tentò allora di trattenere il pontefice a Napoli nell’intento di dominarlo come aveva fatto con Celestino V, ma ben presto capì che aveva a che fare con un uomo di grande carisma, quindi dovette accettare il nuovo corso ed accompagnare di persona il nuovo papa nella città eterna. Il corteo papale partì da Napoli, il 4 gennaio del 1295, alla volta di Roma, dove arrivò il 23 gennaio 1295. Subito il Caetani fu consacrato vescovo all’altare di San Pietro, quindi venne incoronato con una bellissima tiara, a doppia corona, avente il significato dei due poteri del pontefice: spirituale e temporale. Carlo II, re di Napoli, e il figlio Carlo Martello, re eletto di Ungheria, entrambi con la corona in testa tennero le briglie al cavallo bianco sul quale, dopo la funzione religiosa, il papa fece la trionfale cavalcata fino alla basilica di San Giovanni in Laterano. Nel lasciare Napoli, Bonifacio aveva deciso di portare con sé Celestino, perché temeva che i suoi avversari potessero usare ogni metodo di convinzione affinché egli si riappropriasse del soglio pontificio. Celestino, il cui vero nome era Pietro Morrone, sognava di fare l’eremita tra le rocce dei monti della Maiella, presso Sulmona; egli era fuggito e si era nascosto al suo paese natale dove il popolo lo accolse in modo entusiastico, in seguito, sentendosi braccato, raggiunse le spiagge del mare Adriatico ma, per ordine di Carlo II, fu catturato e fu portato a Roma con tutti gli onori. Bonifacio VIII, tormentato su come si dovesse comportare nei suoi riguardi, chiese consiglio ai cardinali, i quali lo consigliarono di tenere sotto controllo il Morrone al fine di prevenire l’unità e la pace della Chiesa. Il pontefice lo tenne dapprima presso di sé nel suo palazzo di Anagni e dopo un certo periodo lo fece sistemare nel castello di Fumone nel quale, per accattivarsi il pio eremita, gli fece allestire una grotta simile a quella da lui già abitata sulla Maiella. Bonifacio VIII cercò, nella sua ambizione e nel suo orgoglio, di rappresentare l’ultima grandezza medievale del papato, anche se eventi storici, circostanze sfortunate e il non aver capito la laicità dei nuovi sovrani lo portarono a commettere errori madornali sul nuovo corso politico che si era instaurato in Europa. Papa Caetani provocò subito odi e rancori, fu intransigente nell’affermare la superiorità papale e manifestò la sua enorme ingordigia nell’acquisire ricchezze e potere. Fu spietato con gli avversari ed intollerante nei confronti degli intellettuali che non accettavano la sua arroganza nel gestire la cosa pubblica. Appena Bonifacio VIII assunse la cattedra pontificia, fu colpito dalle guerre di cui l’Europa era dilaniata, annunciando che la sua missione sarebbe stata soprattutto di pace. Suo primo compito fu di riportare l’armonia nell’Italia meridionale, attraversata dalla guerra che scaturì con i vespri siciliani. Il 5 giugno 1295 in un’adunanza svoltasi in Anagni, Giacomo d’Aragona arrivò alla pace con Carlo II d’Angiò, rinunciando ad ogni suo diritto sulla Sicilia, ricevendo in cambio l’investitura del regno di Aragona. Bonifacio nominava poi Giacomo d’Aragona ammiraglio generale della Chiesa (20 gennaio 1296). A suggellare la pace con l’angioino una sorella di Giacomo d’Aragona andava in sposa al figlio di Carlo II d’Angiò, ovviamente portandosi i diritti della Sicilia, ma i siciliani nutrivano un fortissimo odio verso gli angioini, i quali, sentendosi traditi da Giacomo d’Aragona, acclamarono re il fratello minore Federico III d’Aragona. Questo colpo di stato provocò un conflitto che durò cinque anni, finché Carlo di Valois intervenne su sollecitazione di Bonifacio VIII in difesa degli angioini. Dopo alterni eventi si arrivò alla pace di Caltabellotta e con il trattato del 29 agosto 1302 Federico fu riconosciuto re di Sicilia e si impegnò a sposare Leonora, figlia di Carlo II di Napoli, a condizione che alla morte di Federico la Sicilia dovesse ritornare agli Angioini di Napoli. Appena Bonifacio VIII divenne papa, Carlo II d’Angiò assegnò a suo fratello Roffredo II la contea di Caserta, concedendogli in feudo alcuni castelli molisani e campani. Questa acquisizione di territori e castelli ben presto provocò lo scontro con i Colonna. Il confronto violento con questo casato di antico lignaggio scaturì per diversi fattori: innanzitutto per le posizioni antitetiche in politica internazionale, i Colonna infatti erano ben disposti verso gli Aragonesi, mentre il papa e il suo casato erano favorevoli agli angioini; i Colonna inoltre avevano fortissimi legami con la corrente francescana degli Spirituali, avversari di Bonifacio; infine il papa non rispettava le ataviche consuetudini della nobiltà romana con le relative prerogative. Nel Sacro Collegio cardinalizio lo scontro tra i cardinali Giacomo e Pietro Colonna ed il Caetani subì una fortissima accelerazione dopo che Stefano Colonna il 3 maggio 1297 attaccò e depredò un convoglio proveniente da Anagni. Dopo questo grave atto Bonifacio VIII impose ai Colonna responsabili di questi misfatti a presentarsi davanti al giudice per essere giudicati, ma loro si rifiutarono di sottoporsi all’autorità giudiziaria. I problemi dei Colonna non erano solo rappresentati dal rapporto conflittuale con il papa Bonifacio ma anche con la loro innumerevole parentela, perché i due cardinali Giacomo e Pietro si erano impadroniti dei castelli appartenenti a tutto il casato. Il papa ordinò loro di restituire i castelli usurpati, in risposta i due cardinali non solo non ottemperarono alle richieste del papa, ma iniziarono a diffamarlo sollevando dubbi di legittimità sulla sua elezione a papa e sulla rinunzia fatta da Celestino. Nel Concistoro del 10 maggio 1297, il pontefice assunse provvedimenti duri nei confronti dei due cardinali che vennero scomunicati ed i loro beni sequestrati, i due cardinali in risposta divulgarono un libello diffamatorio contro il Caetani, si rinchiusero nel castello di Palestrina e diffusero un manifesto per sostenere l’illegittimità di papa Bonifacio VIII e per chiedere un nuovo concilio. Parteggiavano per i Colonna ribelli come frate Jacopone da Todi ed altri religiosi chiamati Spirituali; il fanatico giullare di Dio (fra Jacopone da Todi) scriveva dei versi aggressivi contro Bonifacio. Con la bolla Lapis Abscissus (23 maggio) il pontefice scomunicò in maniera ufficiale i due cardinali Colonna, i loro partigiani ed i loro parenti, dichiarando Giacomo e Pietro decaduti dalla loro dignità e da ogni ufficio ecclesiastico, nonché dal possesso dei loro beni ed estendendo l’interdizione a tutte le terre che avessero dato ospitalità ai ribelli. Le milizie ghibelline si concentrarono in Palestrina ed altre si attendevano da Filippo il Bello re di Francia e da Federico re di Sicilia, ai quali i Colonna avevano chiesto aiuto. Bonifacio VIII non sentendosi sicuro a Roma si rifugiò a Orvieto. I ribelli si stavano rinforzando, diventando sempre più potenti e potevano minacciare l’unità della Chiesa, così il 14 dicembre 1297 fu organizzata una crociata contro i Colonna ribelli. A capo dell’esercito papale fu messo Landolfo Colonna, cugino dei ribelli e il cardinale Matteo d’Acquasparta che girò l’Italia per raccogliere uomini e fondi in difesa di papa Bonifacio VIII. Lo scontro fu circoscritto vicino a Palestrina, la roccaforte dei Colonna ribelli, essi si difesero duramente ma, alla fine, di fronte alle soverchianti forze del papa i due cardinali si arresero insieme al loro parente Agapito Sciarra Colonna. Dopo lunghe trattative, alla fine dell’estate del 1298 i due Colonna si recarono a Rieti, al cospetto del papa, indossando vesti di penitenti per chiedere umilmente perdono. I due porporati ottennero il perdono ma non furono reintegrati nella dignità cardinalizia. Bonifacio VIII, per convincere a desistere chiunque avesse intenzioni rivoltose, con la bolla del 13 giugno 1299 fece radere al suolo Palestrina e gli abitanti si dovettero trasferire nella pianura sottostante dove costruirono una nuova città. I Colonna, non avendo ottenuto la riammissione alla carica cardinalizia, ritrattarono il pentimento e iniziarono una guerra non dichiarata contro Bonifacio VIII, con slealtà, astuzia, cattiveria e diffondendo dicerie, infamie e calunnie. Questo comportamento scellerato provocò loro l’odio del pontefice, che diede ordine ai nuovi sgherri di arrestare i Colonna ribelli (Giacomo e Pietro ex cardinali, Stefano e Sciarra), ma essi si rifugiarono in Francia presso il re Filippo il Bello. Il nepotismo di Bonifacio VIII fu molto similare a quello dei papi precedenti, con l’unica palese differenza che il suo pontificato si caratterizzò per il forte scontro ideologico e teologico fra la Chiesa e l’impero per quanto concerne la sovranità universale sull’Europa. Anche papa Caetani aiutò moltissimo i parenti con denaro e acquisizioni di beni immobili (castelli, feudi, ecc.), condizionò processi, trattò matrimoni fra benestanti, concesse ed impose donativi, alzò al cardinalato nipoti e diede ai parenti gli incarichi più alti dello stato, quindi il suo comportamento rientrava nella consuetudine ormai consolidata della pratica del nepotismo. Tutte queste differenze di vedute e attriti sfociarono in una guerra sanguinosa contro le fortezze dei Colonna e la stessa Palestrina, sede originaria della signoria dei Colonna, fu distrutta e messa a ferro e fuoco. Bonifacio VIII, per attuare il suo programma di annientamento dei Colonna, si avvalse dell’appoggio di Firenze e di altri comuni toscani, di mercenari e di altre famiglie della nobiltà romana. I feudi e i territori sottratti ai Colonna vennero dati in concessione alle altre famiglie gentilizie romane come gli Orsini, i Bocca, i Mazza, ed altre ancora, ed anche i suoi parenti acquisirono feudi in Lazio ed in Umbria. Questo espansionismo non fu dovuto solamente alla capacità militare del papa e dei suoi congiunti, dotati di ingenti somme di denaro, ma anche agli intrighi orchestrati da Bonifacio VIII. Alla morte del parente papa i Caetani dominavano su veri e propri principati, anche se i Colonna cercarono in tutti i modi di riappropriarsi dei possedimenti che erano stati loro sottratti con la forza e l’inganno da Bonifacio VIII. Lo stesso comportamento fu seguito da quelle famiglie nobili romane danneggiate dall’arrogante e autoritaria politica patrimoniale di questo papa. Se volessimo fare una comparazione fra il nepotismo del papa e quello del cardinale, l’elemento più palese che si nota è la facilità con cui il papa poteva derogare alla normativa canonica per quanto concerne l’alienazione di beni ecclesiastici, il pontefice infatti, come massima espressione dello stato poteva decidere che nei confronti dei propri parenti non venissero applicate le costituzioni provinciali che vietavano ai grandi nobili di Roma di impossessarsi di nuovi feudi e territori, lo stesso Bonifacio VIII concesse molte deroghe ai suoi parenti per acquisizioni territoriali. Nella designazione del Sacro Collegio non solo i sovrani stranieri potevano fare pressione per eleggere cardinali vicini alle posizioni dei sovrani francesi, spagnoli o inglesi, ma molti papi, per assicurarsi un maggiore controllo di questo organismo fondamentale per il corretto funzionamento dello stato, nominava due o tre cardinali, suoi stretti parenti. Per quanto concerne l’acquisizione di feudi, raramente un cardinale riusciva ad ottenere un possedimento ad un proprio parente, solo in caso di situazioni favorevoli o causali, ma di solito non erano territori d’importanza politica o strategica. La pratica nepotistica fu più palese per i papi romani e laziali rispetto ai pontefici francesi ed italiani provenienti da altre regioni della penisola, forse perché la loro rete di clientelismo era maggiormente accentuata grazie ad un maggiore radicamento romano in seno alla curia, alla cancelleria e al Sacro Collegio. Tutti questi fattori determinarono una fortissima influenza sull’estrinsecazione del nepotismo, per esempio Bonifacio VIII, appena eletto papa attuò un grande ricambio di personale nella curia romana e nella cancelleria con l’obiettivo di rompere le antiche clientele ed instaurare le sue. Il nepotismo non favorì solamente i grandi casati romani, infatti Innocenzo III e Bonifacio VIII, pur provenendo da famiglie modeste, riuscirono a fare moltissimo per il loro casato. Un altro particolare che molti trascurano è che il nepotismo romano e laziale fu più accentuato, perché questi papi vivevano più a lungo rispetto ai pontefici stranieri o provenienti da altre regioni italiane, per il semplice motivo che conoscendo le condizioni climatiche di Roma, quando le condizioni atmosferiche rendevano la città eterna insopportabile, i papi del loco si spostavano in luoghi dove il clima era più mite, vediamo infatti che un papa romano o laziale viveva in media oltre nove anni dalla sua elezione, mentre un papa di altre regioni italiane viveva tre anni e sei mesi, e addirittura quelli stranieri solamente due anni e mezzo. Altro sogno che Bonifacio VIII voleva attuare era quello di promuovere una crociata per liberare la Terra Santa dagli infedeli, però le varie divisioni politiche che si erano create fra Adolfo di Nassau, Edoardo re degli Inglesi e Filippo, re dei Francesi, rendevano improbabile che la missione di liberare la Terra Santa e il Sacro Sepolcro fosse realizzata. A complicare la situazione c’era la guerra sorta fra le due repubbliche marinare Genova e Venezia, infatti queste due dovevano fornire la flotta per trasportare le truppe in Terra Santa, non solo, ma Filippo il Bello era in aperta ostilità con Bonifacio VIII, per quanto concerne la teologia universale del papa che affermava che l’autorità della Chiesa era superiore ai singoli stati nazionali e soprattutto ai re. Le mire di Bonifacio VIII si estesero alla Toscana dove prima furono sconfitti i ghibellini, poi, instauratosi nella signoria di Firenze, i guelfi, i quali a loro volta si divisero in due fazioni: bianchi e neri, i primi erano sì favorevoli al papa, ma non volevano una totale interferenza nella città di Firenze, invece i secondi ritenevano necessario che il governo fosse affidato al papa. Facevano parte dei bianchi Dante Alighieri, Dino Campagni, Giovanni e Guido Cavalcanti. Dante, rivestendo la carica del priorato, si scontrò con la fazione avversa, cioè quella dei neri, capeggiata da Corso Donati. Il papa dapprima mandò il cardinale d’Acquasparta poi, vedendo che lui non risolveva le diatribe fra le varie fazioni, chiamò il fratello del re di Francia, Carlo II d’Angiò. Questi puntò su Firenze con un esercito di armati ed entrando in città mostrò alle varie autorità fiorentine l’incarico che aveva avuto dal papa per mediare fra le parti in discordia, il Valois instaurò la fazione a lui favorevole cioè alla corona di Francia. Così i neri con Corso Donati presero il potere ed eliminarono dalla gestione del governo i bianchi, molti dei quali furono costretti ad andare in esilio per sfuggire alle persecuzioni dalla parte avversa. Bonifacio VIII si sentì preso in giro dal Valois e da Filippo il Bello re di Francia, il cui fine era di limitare il potere del papa; il pontefice, sentendosi tradito, riconobbe come re di Sicilia Federico d’Aragona, anche se con poco entusiasmo. Lo scontro tra Filippo IV il Bello, re di Francia e Bonifacio VIII può essere visto come l’ultima lotta medievale tra l’autorità laica e quella ecclesiastica. Bonifacio VIII, uomo vigoroso e di polso, orgoglioso assertore dei diritti della Chiesa, avrebbe desiderato ripetere i tempi di Innocenzo III e di Alessandro III, ma purtroppo si scontrò con il re francese, ambizioso e superbo, privo di scrupoli, falso, immorale e tiranno insaziabile, il quale voleva sottomettere la Chiesa per la sua politica personale. Attorniato da uno stuolo di uomini di legge, Filippo voleva ribadire l’autorità dello stato sopra quella della Chiesa, privandola di tutte le prerogative e dei diritti di giurisdizione e di immunità che esercitavano da molto tempo. A causa delle continue guerre che Filippo il Bello doveva sostenere aumentava il suo fabbisogno finanziario, per questo motivo gli esattori regi avevano colpito con imposte straordinarie i beni degli ecclesiastici, i quali si rivolsero al papa per protestare contro questi aumenti indiscriminati e vessatori dei tributi. Bonifacio VIII pubblicò il 25 febbraio 1296 la bolla Clericis Laicos, con la quale proibiva ai laici di tassare gli ecclesiastici. I sovrani di Inghilterra e Germania, seppur contrari, accettarono le direttive della bolla papale, ma essa provocò in Francia notevoli polemiche. Il pontefice fu accusato di essersi intromesso negli affari interni della Francia, in questo documento papale infatti si affermava che le imposte straordinarie non potevano essere pagate dagli ecclesiastici se non dietro previo consenso della Santa Sede. Il re francese Filippo IV, sentendosi offeso, vietò ai suoi sudditi di inviare a Roma denaro sotto qualsiasi forma. Bonifacio VIII con numerose lettere cercò di smorzare le forti polemiche che erano sorte con la bolla Clericos Laicos , con la quale non si proibivano le donazioni spontanee che il clero faceva al re, né si mettevano in discussione i diritti feudali del sovrano, ma si vietavano le imposte straordinarie degli ufficiali regi, senza il previo consenso del papa, inoltre si permetteva al re di imporre balzelli straordinari in caso di necessità. Il conflitto fra Bonifacio VIII e il re Filippo il Bello sembrò attenuarsi anche in seguito alle lettere esplicative del pontefice. L’11 agosto 1297 con grande maestosità si celebrò la canonizzazione di San Luigi IX di Francia, avo del re di Francia e la pace parve ristabilita in modo definitivo. Il 6 febbraio 1298 Edoardo d’Inghilterra e Filippo il Bello conclusero un armistizio e il papa fu nominato mediatore, ma al re francese parve che le decisioni del pontefice fossero troppo favorevoli al suo avversario inglese. Alla corte del re francese trovarono rifugio i Colonna, avversari di papa Bonifacio VIII, i quali, con l’appoggio dei consiglieri, convinsero il re di Francia della malafede del pontefice. Nel frattempo a Roma giunsero in modo più deciso le lamentele del clero di Francia per le continue vessazioni fiscali che dovevano subire dagli ufficiali regi, mentre i vassalli si rifiutarono di pagare le decime agli ecclesiastici. Bonifacio VIII mandò allora a Parigi, con titolo di nunzio, Bernardo Soisset, vescovo di Panners, al fine di convincere il re a partecipare alla crociata. Il nunzio non fece una buona impressione a Filippo il Bello, il quale lo fece arrestare e rinchiudere in prigione. Pietro Flotte, consigliere personale del re, attaccò il Soisset di fronte al Consiglio di Stato, dove fu dichiarato colpevole di alto tradimento per aver ordito una congiura contro il re. Bonifacio VIII difese in modo deciso il suo nunzio, scomunicò il re e invitò il clero di Francia a convenire a Roma per un concilio al fine di discutere i provvedimenti da prendere nei confronti di Filippo. Il 10 febbraio 1302, al cospetto della corte, mentre il messo pontificio leggeva la bolla Ausculta, fili carissime, il conte d’Artois, cugino del re, come gesto di disprezzo tolse l’atto all’inviato papale, buttandolo nel fuoco. Il guardasigilli Pietro Flotte diede una sua interpretazione della laconica lettera pontificia, affermando che il contenuto di tale documento era avverso alla regia dignità, nel senso che il papa non solo offendeva il principio spirituale ma rivendicava anche il potere temporale sulle terre di Francia. Il sovrano francese ebbe l’appoggio della nobiltà e della borghesia francese. Papa Bonifacio VIII si era intanto rifugiato ad Anagni, dove organizzò un concistoro e con formale giuramento manifestò la propria innocenza per le calunnie ordite dai ministri francesi con la complicità dei Colonna. Contestualmente venne compilata una bolla di scomunica contro Filippo e i sudditi del suo regno, i quali furono prosciolti dal giuramento di fedeltà. Il giorno in cui doveva essere pubblicata ufficialmente la Bolla, Guglielmo di Nogaret, cancelliere del regno, e Sciarra Colonna vennero in Italia e puntarono al castello di Anagni dove si era rifugiato Bonifacio VIII che li accolse nella stanza dove era ubicato il trono indossando gli abiti pontificali. Appena giunsero al suo cospetto Guglielmo di Nogaret (cancelliere del regno) e Sciarra Colonna, il pontefice, con modo di fare arrogante ed altezzoso, affermò in modo assoluto che lui si sacrificava per il bene della Chiesa e Sciarra Colonna colpì il papa con uno schiaffo. Dopo tre giorni che era tenuto prigioniero nel suo castello di Anagni il popolo insorse e liberò il pontefice che, scortato da quattrocento nobili cavalieri, poté fare ritorno a Roma dove fu accolto trionfalmente dal popolo. A Roma però l’attendeva un’altra brutta sorpresa perché la casata degli Orsini, che in precedenza lo aveva protetto, gli disse che doveva ritenersi loro prigioniero, questo fu per il Caetani un colpo durissimo, così dopo un mese dalla liberazione morì di crepacuore l’11 ottobre 1303. La grande lotta medievale svoltasi tra il pontificato romano e l’impero tedesco concernente la lotta delle investiture si era conclusa con la vittoria del papato; la Chiesa, allontanandosi dall’impero, si avvicinò sempre di più alla monarchia francese, tanto che la sede apostolica fu spostata da Roma ad Avignone, questo periodo è conosciuto come “cattività avignonese”. Questo cambiamento di luogo del centro della cristianità fu dovuto all’egemonia che esercitò la corona di Francia nei confronti della Chiesa, questo periodo da alcuni storici venne denominato anche “schiavitù babilonica” in ricordo della settantenne servitù del popolo ebreo sotto i babilonesi. I sette pontefici che risedettero ad Avignone furono papi prettamente francesi, mentre Roma e lo stato pontificio caddero in preda all’anarchia ed alle angherie dell’alta nobiltà romana e laziale. Non bisogna pensare che questi papi fossero persone incapaci di gestire l’alta carica che avevano o che mancassero d’intelligenza religiosa, piuttosto questi pontefici furono succubi dell’influenza del re di Francia. Di positivo i papi avignonesi ebbero come ambizione di diffondere il cristianesimo non solo in Europa, ma anche in Asia (India e Cina), Crimea e Africa Settentrionale. Ad Avignone sorse, per iniziativa di alcuni pontefici, una maestosa costruzione che era un misto di reggia e fortezza, con alte torri e poche finestrelle, al fine di dimostrare che anche gli alti prelati con il papa non erano più padroni della loro divina sovranità. Fuori Avignone, nelle zone circostanti, i cardinali costruirono ville e palazzi, ove si diedero convegno con le lettere e le arti anche le più raffinate mondanità. Nella Provenza i pontefici romani possedevano già il contado di Venasque (Venosino) che faceva parte del delizioso territorio di Valchiusa, questo feudo era stato consegnato nel 1229 alla Santa Sede da S. Luigi IX, in ricompensa dell’aiuto che i pontefici avevano dato per annientare gli eretici Albigesi. Filippo III l’Ardito nel 1274 aveva riconfermato la donazione in perpetuo di quella terra a Papa Gregorio X. Il papato del successore di Bonifacio VIII, Benedetto XI, durò solamente otto mesi, egli infatti fu eletto pontefice il 22 ottobre 1303 e morì a Perugia il 7 luglio 1304, si sospettò che il re di Francia l’avesse avvelenato, dato che lui era stato uno dei preferiti di Bonifacio VIII. Il conclave fu promosso dopo i nove giorni esequiali e durò ben undici mesi. Subito si formarono due fazioni contrapposte, una francese e l’altra italiana, la prima per la pace con la Francia ad ogni costo e l’altra tutta proiettata alla vendetta nei confronti del sovrano francese Filippo il Bello, per lo schiaffo subito da Bonifacio VIII in Anagni. Il popolo di Perugia, stanco per l’inusuale prolungamento del conclave, alla fine perse la pazienza e danneggiò il tetto del palazzo dove si erano riuniti i cardinali, inoltre furono ridotte le razioni del vitto ai conclavisti fino ad imporre loro un rigido digiuno. Alla fine l’accordo fu raggiunto su Bertrando de Goth, arcivescovo di Bordeaux, che scelse il nome di Clemente V (1305-1314). Egli non era cardinale e, nonostante fosse francese di origine, era suddito dell’Inghilterra ed era già stato al servizio di Francesco Caetani, nipote di Bonifacio VIII. Appena eletto molti cardinali lo supplicarono di venire a Roma al fine di tenersi lontano dai re e dai popoli, invece il nuovo pontefice volle che l’incoronazione avvenisse a Lione il 16 novembre 1305 nella chiesa di S. Giusto. Il re Filippo il Bello tenne le briglie del cavallo del nuovo papa durante il corteo, ma la grandiosità del corteo papale fu turbata dal crollo di un muro, che provocò alcune vittime tra cui un fratello del pontefice. Filippo di Francia chiese al nuovo papa la condanna della memoria di Bonifacio VIII, la reintegrazione dei cardinali Colonna, l’abrogazione delle famose bolle Clericis laicos ed Unam Sanctam. Per paura delle fazioni politiche Clemente V non andò a Roma, ma stabilì l’intera corte papale ad Avignone: certamente la pressione del sovrano francese fu determinante. Filippo il Bello aveva le finanze dissestate e stava tramando contro i Templari per impossessarsi dei loro beni, ubicati in Francia, il sovrano infatti era dominato dall’avidità e dall’ingordigia. Possiamo affermare che l’ordine dei Templari cadde nella disciplina quando perse Tolemaide nel 1291, l’ordine crocesignato fece ritorno in Occidente, in particolare in Francia. Molti cavalieri non avevano tenuto un comportamento altamente morale ma diciamo piuttosto licenzioso, infatti alcuni di essi facevano uso di droghe (hashish), inoltre furono accusati di essere dediti all’omosessualità e di essere apostati sacrileghi. Tutte queste accuse convinsero il re di Francia, il quale si proclamava paladino della fede e della moralità, a pretendere che il pontefice Clemente V prendesse rigidi provvedimenti nei loro confronti. Il papa, capendo l’infondatezza di certe accuse che rasentavano la calunnia, fu molto cauto nell’agire e cercò di prendere tempo. L’odio di Filippo il Bello verso l’ordine dei Templari non era dovuto solo al fatto che essi costituivano uno stato nello stato e i loro beni gli facevano gola, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto dei Templari di prendere nel loro ordine suo figlio, questo affronto fu determinante nell’attuazione della vendetta del sovrano francese. Nel 1307 Clemente V propose la fusione dei Templari con l’ordine affine dei cavalieri di San Giovanni, ma il gran maestro dei Templari Giacomo de Molay si oppose e si disse pronto a subire un severissimo giudizio. Il re Filippo, vedendo che il papa si mostrava titubante, il 13 ottobre 1307 ordinò che tutti i Templari presenti nel suolo francese fossero imprigionati e i loro beni confiscati, e l’Inquisizione prese a funzionare intensamente a Parigi. Ai templari che confessavano i loro delitti veniva concesso il perdono, quelli che opponevano resistenza alla confessione venivano sottoposti a tortura ed estremo supplizio. Molti Templari furono inquisiti alla presenza del sovrano, altri furono condannati ad ardere vivi, infatti in un solo giorno (il 12 maggio 1310) cinquantasei Templari finirono al rogo, con l’accusa di essere degli eretici recidivi, avendo ritrattato le deposizioni fatte prima sotto la tortura. Il gran maestro dei cavalieri templari Giacomo de Molay seguì la stessa sorte urlando la propria fede cristiana. Il debole papa Clemente V, succube del re di Francia Filippo il Bello, stava lì a guardare, senza intervenire energicamente sul trattamento iniquo riservato ai Templari e, comportandosi come Ponzio Pilato, deferì la causa dei Templari al concilio generale, che si aprì finalmente il 16 ottobre 1311 sotto la personale presidenza del pontefice. Le problematiche inerenti la causa dei Templari si protrassero in modo fervido per quasi sei mesi, le prove raccolte non riuscirono a convincere i religiosi presenti al concilio, quindi la soppressione dell’ordine non pareva giustificabile, allora il re Filippo il Bello si presentò di persona nel febbraio 1312 con la sua corte e coi suoi tre figli per fare pressione sul debole e titubante pontefice e per intimidire i difensori dei Templari. Guglielmo Durando, vescovo di Menale, propose una via d’uscita: la soppressione senza la condanna. Difatti nella bolla Vox in Excelso del 22 marzo 1312 il pontefice soppresse l’ordine in virtù della pienezza dell’autorità apostolica, per via di provvedimento amministrativo e non per sentenza giudiziale. Non possiamo dire che Clemente V fu un grande nepotista, ma cercò sempre di salvaguardare gli interessi della Chiesa, non cedette alle pressioni di Filippo il Bello che voleva infangare la memoria del suo antagonista papa Bonifacio VIII, infatti forte era l’odio e il rancore che il re francese aveva ancora nei confronti di questo papa nonostante fosse morto. Giovanni XXII, nato Jacques Duèse a Cahors nel 1249, fu papa dal 7 agosto 1316 fino alla sua morte, avvenuta il 4 dicembre 1334. Clemente V si era spento il 20 aprile del 1314, qualche giorno dopo, il primo maggio, ventitré cardinali si riunirono in conclave nel palazzo vescovile di Carpentras. Dal conclave emersero tre correnti opposte: quella dei Guasconi, quella degli Italiani e quella dei Francesi. Nessuna candidatura era riuscita a raccogliere l’adesione unanime, così si arrivò ad una situazione di stallo. Dopo due anni, re Filippo V di Francia riuscì ad organizzare un conclave di ventitré cardinali a Lione, dal quale uscì eletto Giovanni XXII, che venne incoronato papa a Lione. Anche questo pontefice stabilì la sua residenza ad Avignone, come il suo predecessore. Giovanni fu trascinato suo malgrado nella politica e nei movimenti religiosi di molte nazioni europee, al fine di portare avanti gli interessi della Chiesa, questo fece di lui un papa molto controverso. Al momento della sua elezione egli aveva più di sessant’anni e sembrò pertanto a tutti un papa di transizione destinato a non influire nella storia, ma pochi giorni dopo manifestò la sua ferma intenzione di stabilirsi, con la curia, ad Avignone, in quella città che conosceva molto bene, avendovi risieduto in qualità di vescovo. Il nuovo papa proveniva da una famiglia di notabili molto agiati e si era dimostrato ben presto un buon studioso di diritto e di teologia, tanto da meritarsi, dopo aver compiuto gli studi a Montpellier ed a Parigi, una cattedra all’università di Tolosa. Fece una folgorante carriera grazie al suo attivismo e soprattutto alla sua profonda intelligenza; gli fu riconosciuta da tutti una reale integrità di costumi e una grande semplicità di vita. Giovanni XXII cercò di contrastare la simonia, ma non riuscì ad estirpare la consuetudine del nepotismo. Si fece portatore di una politica centralista, già appartenente ai suoi predecessori, ed elaborò con alcune bolle papali una regolamentazione tale da permettere allo stato della Chiesa di raccogliere maggiori tributi. S’impegnò a porre fine alla controversia sulla povertà di Cristo, che aveva in realtà come fine quello di regolare lo statuto delle proprietà ecclesiastiche. Si diede da fare per risolvere in effetti una problematica controversia sorta in seno all’ordine dei frati minori (i francescani), fra i sostenitori (che costituivano la maggioranza) di una povertà moderata e i pochi integralisti, i cosiddetti “spirituali”, fautori invece di una povertà assoluta, seguaci di San Francesco. Il papa convocò gli spirituali ad Avignone e qui essi, rappresentati da Bernard Deliceux, non riuscirono a difendersi dall’accusa di eresia. Alcuni furono mandati via dall’ordine, altri ancora finirono sul rogo in compagnia di Beghini e Fraticelli. Nel 1317 con una bolla il papa insistette sull’ordine gerarchico delle tre virtù religiose, che vedeva la povertà solamente al terzo posto, dopo l’obbedienza e la castità. Ma i francescani continuarono a sostenere la povertà di Cristo, mentre i consiglieri del papa consideravano eretica questa concezione. Nel 1322 Giovanni fece restituire all’ordine dei francescani la proprietà dei beni, fino ad allora gestita dall’autorità pontificia, ma l’anno successivo venne dichiarata eterodossa (e quindi eretica) la posizione sostenuta dall’ordine. Michele di Cesena, allora ministro in carica dei francescani, fuggì da Avignone, ove era stato convocato per discolparsi, e si rifugiò alla corte di Ludovico di Baviera. Il papa lo scomunicò, assieme ai pochi rappresentanti dell’ordine che nel frattempo non si erano uniformati, e poco dopo volle approfittare dell’aperto dissidio venutosi a creare fra Ludovico il Bavaro e Federico d’Austria, entrambi eletti contemporaneamente re di Germania. Seguendo la dottrina teocratica, secondo la quale quando l’impero era vacante la sua amministrazione ritornava alla Santa Sede, licenziò i funzionari in precedenza nominati dall’imperatore Enrico VII, confermando invece la nomina di Roberto di Napoli a Vicario imperiale in Italia. Ludovico di Baviera reagì con durezza, e in un concilio generale fece dichiarare eretico Giovanni XXII a causa della sua opposizione alle dottrine degli spirituali. Nel 1328 si fece eleggere imperatore a Roma nominando poco dopo come papa uno spirituale francescano, Pietro Rainalducci, con il nome di Niccolò V; ma l’anno successivo Ludovico ritornò in Germania, abbandonando a Roma il suo antipapa che, senza più protezione, pensò bene di recarsi ad Avignone per ottenere il perdono del vero pontefice. Giovanni XXII ritornò pertanto papa a pieno titolo, e nel 1329 condannò ventotto preposizioni del ministro tedesco Meister Eckhart. Gli ultimi anni di pontificato di Giovanni XXII furono turbati da nuove accuse di eresia. Ludovico il Bavaro si adoperò per organizzare un concilio generale per la deposizione del papa, ma nel 1334 Giovanni si ammalò gravemente e poco dopo morì. Secondo alcune fonti sul letto di morte egli ritrattò le sue tesi. Durante il suo pontificato Giovanni fece molto per Avignone, determinante fu la sua scelta di risiedere nel palazzo vescovile, ma in pratica né il palazzo né la città stessa gli appartenevano. Era ospite infatti di Roberto d’Angiò, re di Sicilia e conte di Provenza. Cominciò così a costruire una unità politico–geografica che manifestasse palesemente il potere temporale del papato nella regione del Rodano, a partire dal contado venassino che nel 1274 era stato restituito alla Chiesa da re Filippo di Francia, portando così al papa il titolo dovuto di conte. Avvalendosi di tale titolo, Giovanni XXII dette inizio alla riconquista delle terre circostanti in modo da fornire una solida base territoriale attorno alla città che voleva eleggere a sua dimora. La città in effetti divenne proprietà dei pontefici solo nel 1348, quando papa Clemente VI l’acquistò da Giovanna, contessa d’Angiò e di Provenza. Di grande impatto fu il cantiere che si aprì a Pont de Sourges, a nord di Avignone, per la costruzione di un nuovo palazzo, e molto importante fu la decisione di battere moneta, per i contemporanei vero simbolo del potere politico. Alla morte di Benedetto XXII gli succedette il cardinale Pietro Roger di Beaufort della diocesi di Limoges, monaco benedettino, che assunse il nome di Clemente VI (1342-1352). Questo nuovo pontefice alla corte del re di Francia era stato guardasigilli del regno, durante quel periodo aveva imparato il fasto ed ad essere brillante. A differenza del papa precedente, egli fu liberale nel concedere benefici ecclesiastici, soprattutto ai parenti. Ecco il ritorno del nepotismo, anche se bisogna ammettere che Clemente VI aiutò i poveri ed i diseredati. Infatti durante l’orrenda pestilenza che sconvolse molti stati europei egli fu generoso nei soccorsi e negli aiuti. Filippo V ricevette più di mezzo milione di fiorini d’oro dal pontefice, e alla regina Giovanna di Napoli quasi quattro milioni d’oro, dalla medesima acquistò la città di Avignone per diciottomila fiorini. Per capire la prodigalità di questo papa, riporterò ora quanto riportato dai cronisti dell’epoca riguardo la festa che si tenne durante la sua incoronazione pontificia svoltasi il 19 maggio 1342, domenica di Pentecoste. Senza tener conto delle spese per gli addobbi e gli apparati nel castello papale e nella chiesa dei domenicani, per il cibo dei diversi banchetti servirono: 118 buoi, 101 vitelli, 1023 montoni, 914 capretti, 60 porci, 69 quintali di lardo, 15 storioni, 300 lucci, 3031 capponi, 3043 galline e 7428 polli. Si presero in prestito 116 caldaie, 26 cuochi con 41 aiutanti, 14 macellai, 20 garzoni, oltre alcune centinaia di inservienti. Si consumarono 102 botti di vino comune, oltre i vini scelti e prelibati. Si comperarono 2200 anfore di vetro, e più di cinquemila bicchieri; per l’illuminazione si consumarono dieci quintali di cera, in conclusione il costo di questa megalomania spendereccia arrivò a dodicimila fiorini d’oro e a millecinquecento scudi d’oro, vale a dire ad un milione di euro attuali. Nel 1350 papa Clemente VI accolse le istanze dei romani per quanto concerne la concessione del Giubileo, e stabilì che esso potesse avvenire ogni cinquant’anni e non ogni cento come aveva stabilito Bonifacio VIII. Questo per la città di Roma si tramutò in un fonte di ricchezza, perché enormi folle di pellegrini provenienti da tutta Europa andavano a venerare i luoghi sacri e le tombe dei Santi Apostoli. Il papa Clemente VI subì feroci critiche da molti intellettuali e uomini di cultura, addirittura il Petrarca definì Avignone la nuova Babilonia, altri come il Muratori accusarono questo papa di essere mondano e godereccio, dominato dall’ingordigia del denaro e di facili costumi. Clemente VI riprese con vigore la pratica del nepotismo, molti suoi congiunti e parenti ottennero la porpora cardinalizia, privilegi e prebende riducendo la Chiesa ad un mero affare di famiglia. Papa Gregorio XI, al secolo Pietro Roger dei conti di Beaufort, papa dal 1370 al 1378, era nipote di Clemente VI che lo aveva creato cardinale a soli diciotto anni. Gregorio XI non fu un grande nepotista, cioè non avvantaggiò in maniera spudorata i propri parenti. Il suo pontificato viene ricordato come la fine della cattività avignonese, grazie anche all’opera di convincimento svolta da Santa Caterina da Siena, che riuscì a riportare il papa a Roma nonostante l’opposizione del re di Francia e dei parenti del papa. La ragione principale che indusse papa Gregorio XI a ritornare nella città eterna fu quello di evitare che venissero creati due papi (uno ad Avignone e l’altro a Roma). Il ritorno a Roma della sede papale fu visto dai romani come una forma di liberazione dalla crisi profonda che si era avuta con l’abbandono della sede universale della cristianità: l’assenza dei pontefici aveva fatto decadere Roma in modo miserevole, chiese e monumenti erano stati abbandonati a sé stessi, i ruderi degli antichi monumenti erano stati trasformati in cave da materiali di costruzione, le strade e le piazze erano state trascurate fino al punto da crescervi l’erba, pecore, porci e altri animali domestici si aggiravano indisturbati per le strade, i commerci e le industrie erano in crisi. La città sacra della cristianità, a causa di tutte queste problematiche, scese a venticinquemila abitanti rispetto al milione che ne contava quando era sede dell’impero. Durante il periodo avignonese del papato, molti feudatari sudditi della curia pontificia si erano proclamati signori di quei territori, basti ricordare ad esempio le città di Ancona, Faenza, Rimini, Forlì, Cesena, Bologna. Neanche personaggi carismatici e popolari come Cola di Rienzo riuscirono a restaurare l’autorità pontificia sui territori della Chiesa (Romagna, Emilia, Marche ed Umbria furono in preda all’anarchia feudale), inoltre a complicare la sovranità pontificia ci furono alcuni sovrani come il re di Francia, il re di Napoli e l’imperatore, che volevano che la città di Roma fosse avvolta nella perenne instabilità politica, in modo da rendere innocuo il potere temporale dei papi. Nel Concilio di Costanza, che pose fine allo scisma d’Occidente (parteciparono 1800 ecclesiastici, 300 dottori in teologia, 150 vescovi, 33 arcivescovi, 3 patriarchi, 29 cardinali di due obbedienze, l’imperatore Sigismondo, i rappresentanti di tutti i principi d’Europa, compresi quelli dell’imperatore di Costantinopoli, Emanuele III Paleologo, i legati del pontefice vero, quelli dell’antipapa avignonese, e del papa pisano che fu il protagonista principale alle prime sessioni, si aggiunsero migliaia di cavalieri, di soldati e numerosi faccendieri) furono decisi ed emanati dei decreti generali di riforma che confermarono le pene canoniche contro la simonia; ai possessori di beneficio fu imposto l’obbligo di prendere le sacre ordinazioni corrispondenti e quello della residenza, e di conseguenza fu vietato il cumulo dei benefici nella stessa persona. Papa Martino V (1417-1431) cercò di mettere in atto le decisioni prese al Concilio di Costanza, anche se si dovette scontrare con l’ostilità di molti cardinali, gelosi delle loro scandalose prerogative. Il 1° marzo 1431, i quattordici cardinali presenti in Roma e raccolti in conclave nel convento di Santa Maria sopra Minerva elessero papa Gabriele Condulmer di Venezia che assunse il nome di Eugenio IV (1431-1447). Egli era nipote di Gregorio XII che l’aveva nominato vescovo di Siena nel 1407 e l’anno successivo cardinale col titolo di S. Clemente. Apparteneva alla congregazione degli Agostiniani, nella quale era entrato in tenera età, dopo aver regalato ventimila ducati del suo immenso patrimonio. Si racconta che quando Eugenio IV, non ancora papa, era custode del suo monastero gli si presentò un giorno un eremita ed egli lo accompagnò nella Chiesa a fare le sue preghiere, quando il pellegrino prese la via del ritorno gli predisse che sarebbe diventato prima cardinale e poi papa e che durante la sua missione spirituale sarebbero accaduti gravi eventi che avrebbero caratterizzato il suo pontificato. Ritornando al periodo precedente alla sua elezione, fu stabilito dal collegio cardinalizio che il papa appena fosse stato eletto doveva riformare assolutamente la corte romana nelle sue fondamenta e s’impegnava a non trasferire la sede pontificia fuori Roma senza l’approvazione degli alti prelati. I vari signorotti dello stato pontificio avevano l’obbligo di giurare fedeltà non solo al papa, ma anche al collegio dei cardinali, che aveva la facoltà di controllare preventivamente gli atti compiuti dal capo della Chiesa cattolica. Il papa eletto era costretto ad osservare questa serie di limitazioni dell’autorità spirituale e temporale perché, secondo il diritto canonico del tempo, il controllo della potestà d’imperio minava il primato pontificio. Papa Eugenio IV, per il quieto vivere accettò le condizioni poste dai cardinali e con una bolla del 12 marzo 1431 le confermò proprio il giorno dopo la sua solenne elevazione al soglio pontificio che venne celebrata sulla scalinata della basilica di San Pietro. Egli cercò di combattere il nepotismo che la famiglia dei Colonna, eredi di Martino V, continuarono a praticare. Dopo aver svuotato le casse pontificie essi volevano mantenere privilegi e terre, come Ostia, così il nuovo papa fu costretto a scomunicare i Colonna e privarli di ogni prerogativa. Per attuare questi provvedimenti fu aiutato dalla regina Giovanna di Napoli, dalla città di Firenze e dalla Repubblica di San Marco. Confermò al cardinale Cesarini la delega di presiedere il Concilio di Basilea, anche se il papa voleva spostarla in Italia per permettere all’imperatore d’Oriente, Giovanni VIII Paleologo, d’intervenire. Eugenio IV, forse più di Martino V, voleva raggiungere l’unità della Chiesa anche con i fratelli d’Oriente (greci, bizantini, russi). Il 23 luglio 1431, nella cattedrale di Basilea, si inaugurò l’assemblea conciliare, purtroppo non vi presenziava neppure un vescovo, erano invece presenti abati, canonici e teologi, non era presente neanche il cardinale Cesarini, impegnato in Germania nella crociata contro gli Hussiti, in sua vece andarono Giovanni di Ragusa e Giovanni di Palamar, che riscosse molto successo. Quando giunse il cardinale Cesarini si affrettò ad inviare a Roma Giovanni Beaupère, canonico di Besonzone, per informare il pontefice sull’andamento del concilio. Il Beupère probabilmente esagerò sull’opportunità di tenere il Concilio di Basilea, città insicura e maldisposta verso gli ecclesiastici. A papa Eugenio IV inoltre pervennero delle notizie concernenti un possibile dialogo con gli Ussiti per dibattere le loro dottrine, tutte queste apprensioni lo indussero a sciogliere il Concilio e con una bolla indirizzata a tutti i fedeli lo fece trasferire a Ferrara. I convenuti a Basilea, con a capo il cardinale Cesarini interpretarono il gesto come un affronto, si opposero allo scioglimento del concilio e non si presentarono all’adunanza generale del 13 gennaio 1342, in cui venne letta pubblicamente la bolla pontificia. Il cardinale Cesarini inviò una forte lettera di protesta a Roma, in cui descriveva i gravi danni che la cristianità avrebbe subito, perché questo concilio era l’unico strumento per risanare la Chiesa, in pratica si era manifestata palesemente una ribellione all’autorità pontificia. Quell’atto di ribellione dei partecipanti al concilio di Basilea fu appoggiato da molte corti europee, fra cui quella di Sigismondo, il quale sperava nell’opera del concilio per sradicare il moto rivoluzionario degli Ussiti di Boemia. I prelati ed i dottori di teologia del Concilio di Basilea ripubblicarono quei decreti di Costanza che affermavano che la sovranità del concilio derivava direttamente da Dio e che lo stesso papa doveva riconoscerla. Fu stabilito che lo stesso concilio di Basilea non si poteva né sciogliere, né trasferire altrove, senza il proprio consenso e che nessun partecipante poteva essere allontanato e nessuno dei convenuti poteva lasciare spontaneamente il Concilio senza il permesso unanime dei convenuti. I ribelli di Basilea ebbero l’appoggio anche di alcune università, tra le quali la Sorbona. Nel Concilio di Basilea, molto dissenziente nei confronti del papa, fu stabilito che il pontefice non poteva nominare nuovi cardinali senza l’autorizzazione della medesima assemblea, in pratica il papa venne privato dei suoi poteri. Il capo della Chiesa di Roma si mostrò all’inizio arrendevole nei confronti dei sinodali, nella speranza di arrivare ad una riconciliazione fra le parti, al fine di evitare una divisione in seno alla Chiesa cattolica. Sigismondo, dopo l’iniziale appoggio ai dissidenti del Sinodo di Basilea, cominciò a prendere le distanze ed a riavvicinarsi al pontefice al fine di avere da lui l’incoronazione imperiale e il suo appoggio nella guerra di Boemia. Dobbiamo ricordare che durante il suo pontificato papa Eugenio IV fu molto spietato infatti, durante il suo mandato papale, furono commesse scellerate malvagità come la condanna al rogo della giovanissima Giovanna d’Arco che fu ingiustamente accusata di stregoneria e fu bruciata viva nel 1431; nel medesimo periodo furono arsi vivi due semplici popolani, Merenda e Matteo, per il semplice motivo che doveva essere fatto un favore alle famiglie gentilizie dei Colonna e dei Savelli, come immensamente riprovevole fu il massacro attuato nei riguardi dei seguaci di Jan Hus, i quali furono costretti ad entrare in un fienile al quale fu dato fuoco dopo averne sbarrato le entrate. Questo evento tragico fu descritto dalla cronaca cattolica come segue: “Appena entrati, si chiusero le porte e si appiccò il fuoco, e in tal modo quella feccia, quel rifiuto della razza umana, dopo aver commesso tanti delitti, pagò finalmente tra le fiamme la pena del suo disprezzo per la religione” (Fonti: Marchetti M. La santa inquisizione, Ragusa 1999) Durante l’adunanza del concilio di Basilea, il 7 maggio 1437, i prelati più autorevoli l’abbandonarono, quelli rimasti, molto polemici con il papa, lo incitarono a comparire. Il sommo pontefice non si presentò e così fu minacciato di essere sospeso. Eugenio IV, di fronte a questo atteggiamento oltranzista trasferì il concilio a Ferrara, dove ebbe inizio l’8 gennaio 1438 sotto la guida di Niccolò Albergati. Appena il pontefice giunse a Ferrara scomunicò il conciliabolo di Basilea e proclamò ecumenico quello della città estense, ma il re di Francia Carlo VII si mise a proteggere i ribelli di Basilea ed impedì ai suoi sudditi di partecipare al Concilio di Ferrara. I pochi prelati rimasti a Basilea deposero il papa (24 gennaio 1438) e il 5 novembre 1439 nominarono papa con il nome di Felice V il principe Amedeo VIII di Savoia che viveva in solitudine a Ripaglia. Questo anziano principe non sapeva nulla di chiesa, egli non aveva nessun ordine sacro, né conosceva la teologia, ma accettò di fare il papa e si prese come segretario Enea Silvio Piccolomini, ottenne gli ordini sacri e iniziò a parlare in lingua latina. Questa farsa durò cinque anni, quando Felice V si accorse di avere poco seguito depose la tiara e riconobbe il papa di Roma, Niccolò V. Il pontefice fu molto generoso con lui, perché lo nominò vescovo di Ginevra e Losanna. La fine dei due papi interruppe le anomalie nella chiesa cattolica, perché accadeva soprattutto in Germania che in certe città ci fossero due vescovi, uno nominato da Felice V e l’altro dal papa di Roma Eugenio IV. Le febbrili trattative in corso fra Roma e Basilea e fra Eugenio e Sigismondo non riuscirono ad approdare ad un accordo fra il pontefice ed i dissidenti sinodali, infatti i delegati del papa erano pronti a riconvocare il Concilio a Basilea a patto che gli atti presi in quel sinodo venissero annullati, in particolare quelli contrari all’autorità pontificia, ma i ribelli di Basilea non erano disposti a cedere. Sigismondo si fece incoronare con la corona ferrea re d’Italia a Milano il 25 novembre 1431 dall’arcivescovo Bartolomeo Capra. Successivamente si portò vicino a Roma, si riappacificò con il papa Eugenio IV e il 21 novembre 1432 entrò in Roma accolto in modo pomposo dal popolo dopo aver giurato fedeltà a papa Eugenio IV e alla Santa Chiesa romana, fu incoronato imperatore in San Pietro il 31 maggio 1433. Questo atto rinforzò la posizione del pontefice Eugenio IV, mentre si indebolì quella dei membri del Concilio di Basilea, infatti quando Sigismondo tornò in Germania fece pressione con le persone partecipanti a Basilea affinché si raggiungesse un accordo. Il pontefice, aderendo ai desideri di Sigismondo, il 1° agosto 1433 pubblicava una bolla con nuove proposte di pace: egli riconosceva il Concilio di Basilea, purché si desse la presidenza ad un suo legato e si annullassero gli atti contrari alla dignità pontificia. I condottieri di Filippo Maria Visconti duca di Milano, Francesco Sforza, Niccolò Fortebraccio ed altri capitani, che si sospettava fossero comandati dal Concilio di Basilea, invasero nel novembre 1433 le terre pontificie; il Fortebraccio arrivò nelle vicinanze di Roma, dalla quale fuggirono alcuni cardinali, ma quasi tutta la nobiltà si schierò contro Eugenio IV. Il papa, sentendosi minacciato, lasciò Roma nonostante avesse concesso la vicaria di Ancona e il titolo di gonfaloniere di Santa Chiesa allo Sforza perché lo liberasse dal Fortebraccio. Ma l’evento che costrinse il papa ad abbandonare Roma fu la sommossa del popolo, fomentata dai Colonna e dagli altri ghibellini romani che gli avevano promesso la libertà. Ponceleto di Pietro Venerameli si impossessava del Campidoglio proclamando la Repubblica e veniva creato l’antico governo dei Banderesi con sette governatori; costoro andarono a prendere il pontefice e lo portarono forzatamente in Campidoglio. Il papa, di fronte a queste palesi umiliazioni e costante delegittimazione della sua autorità scelse la fuga. Con addosso un saio da frate benedettino, la notte del 4 giugno 1434, accompagnato da una suo partigiano andò alla riva del Tevere e prese una barca, ma fu riconosciuto presso San Paolo, dove subì il lancio di frecce e pietre, ma non si perse d’animo, si sdraiò sul fondo della barca e protesse il suo corpo con uno scudo. Giunto ad Ostia, prese il mare e giunse a Firenze il 23 giugno, qui fissò la sua dimora nel convento dei domenicani a Santa Maria Novella. La fortuna volle che Leone Sforza, fratello di Francesco, che era schierato a Castel Sant’Angelo, riuscisse audacemente a riconquistare Roma, ponendola nuovamente sotto l’autorità del pontefice, il quale mandò a rappresentarlo Giovanni Vitelleschi, vescovo di Recanati, nonché uno dei migliori combattenti del periodo. Da Firenze papa Eugenio IV spedì a Basilea i cardinali Albergati e Cervantes con proposte di pace, ma essi non furono presi in considerazione. Il pontefice allora reiterò il decreto di scioglimento del concilio di Basilea e con una lettera invitò i sovrani europei a far ritirare i propri rappresentanti dal concilio. Nessun papa fece maggiori sforzi e sacrifici del papa Eugenio IV affinché si realizzasse nuovamente l’unità della Chiesa cattolica con le chiese scismatiche d’Oriente; questo fa onore a Eugenio IV che nonostante fosse assediato dai suoi nemici d’Occidente si prodigò fino all’inverosimile per riportare spiritualmente l’Oriente nella sfera della fede di Roma. Il Concilio di Ferrara nella strategia del pontefice doveva essere il concilio dell’unione, a questo nuovo concilio giunsero nel marzo 1438 l’imperatore d’Oriente Giovanni Paleologo con il fratello Demetrio, accompagnati dal patriarca Giuseppe di Costantinopoli e dai vicari dei patriarchi di Alessandria, di Antiochia, di Gerusalemme, nonché dai migliori filosofi e teologi dell’Oriente, come Marco d’Efeso, Bessarione di Nicea e Gemisto Pletone. Durante il concilio, per affrontare meglio le problematiche scismatiche, fu istituita una commissione di dieci persone che doveva analizzare i vari punti di disaccordo. Superate le difficoltà formali, si affrontarono gli aspetti sostanziali di differenza: 1) la dottrina della processione dello Spirito Santo, del Padre e del Figlio; 2) il pane azzimo invece del comune per sacrificio eucaristico; 3) la dottrina del Purgatorio come luogo di espiazione per le anime non del tutto monde, per quanto libere dal peccato mortale; 4) il primato pontificio su tutta la Chiesa e su tutti i fedeli. Su questi argomenti dogmatici il confronto fu molto serrato, mentre l’imperatore d’Oriente trascorreva il tempo andando a caccia, le discussioni si protrassero per ben sedici sessioni che durarono tre mesi. All’improvviso a Ferrara si diffuse la peste, allora papa Eugenio IV, non avendo più i mezzi economici per mantenere i settecento greci convenuti, fece spostare il concilio a Firenze, città che gli aveva promesso notevoli appoggi economici. Nella città del giglio si raggiunse un accordo per l’unione delle due Chiese, quella d’Oriente e quella d’Occidente. L’imperatore bizantino voleva a tutti i costi raggiungere l’intesa anche per interesse politico, dato che i turchi premevano ai confini. Appianate le dispute dogmatiche i convenuti fecero ritorno in Russia, a Costantinopoli ed in Grecia, ma l’unione delle due chiese ebbe breve durata, perché gli alti prelati orientali, tornati alle proprie sedi, dovettero fuggire dal proprio paese perché i monaci e gli ecclesiastici sobillarono i popoli orientali contro questa unità che poneva nuovamente le chiese d’Oriente sotto lo scettro di Roma, quindi lo scisma riprese. Alla morte di Eugenio IV fu eletto papa Tomaso Parentucelli, che prese il nome di Niccolò V (1447-1455). Durante il suo pontificato cadde Costantinopoli e l’ultimo lembo dell’Impero d’Oriente (1455). L’ultimo imperatore Costantino XII Dragases tentò invano di avere aiuti dall’Occidente, ma Niccolò V riuscì a raccogliere soltanto esigui aiuti. Al sultano Maometto II fu riservato il merito di aver conquistato Bisanzio con i suoi ventiseimila uomini che avevano accerchiato i nemici per terra e per mare; i difensori greci erano appena settemila e duemila tra veneziani e genovesi (questi ultimi appena capirono che le sorti si volgevano loro contro si ritirarono). Anche alcune centinaia di catalani si batterono strenuamente, fino a farsi massacrare dall’invasore turco. Dopo 54 giorni di battaglia, sotto la spinta dell’artiglieria degli ottomani che avevano cento cannoni tra cui uno enorme che sparava palle di pietra del peso di 800-1200 libbre, gli assedianti capitolarono. Costantino XII si batté furiosamente, anche quando ormai la scimitarra turca era entrata dappertutto nella sua città, uccidendo dieci pascià e sessanta giannizzeri, ma alla fine la sua spada si spezzò e la sua lancia si spuntò, ed egli, sopraffatto cadde da cavallo. Ancora in fin di vita gli venne tagliata la testa ed infilzata sopra una lancia, mentre il corpo fu seppellito sotto una pianta d’alloro, mentre il capo dell’ultimo imperatore venne collocato sulla colonna di porfido che aveva eretto Costantino Magno. Il saccheggio e il massacro dilagarono in città, la mezzaluna prese il posto della croce sulla cupola di Santa Sofia e Costantinopoli divenne Stambul, una delle capitali del mondo islamico. Con il papa Callisto III (1455-1458) il nepotismo prese fortemente vigore. Egli era nato Alfonso de Borja y Cabanilles ed era imparentato con il primo Borgia (de Borja, questa casata proveniva da Tarragona, Spagna). Tre famiglie in particolare con le quali aveva contratto parentela per via di nozze con le sue sorelle, furono avvantaggiate oltre il dovuto: i Mila, i Lanzol e i Borgia. Da Isabella Borgia e da Goffredo Borgiay Gomis furono generati Pier Luigi Borgia e Rodrigo Borgia, quest’ultimo fu talmente ambizioso che riuscì a diventare papa con il nome di Alessandro VI. Callisto III nominò Pierluigi Capitano generale di Santa Chiesa e Comandante di Castel Sant’Angelo, successivamente fu nominato anche prefetto di Roma e governatore di parecchie città. Rodrigo, appena raggiunse venticinque anni, fu fatto cardinale, vicecancelliere della Chiesa, capitano delle milizie del pontefice e infine vescovo di Valenza. Anche Luigi Giovanni, figlio della sorella Caterina, moglie di Giovanni de Mila, fu elevato alla porpora cardinalizia e nominato legato pontificio a Bologna. I parenti del pontefice a loro volta portarono altri congiunti ed amici, creando un giro vizioso e clientelare che indignò il popolo romano. Purtroppo il malcostume introdotto da papa Callisto III fece cattiva scuola e così molti papi lo imitarono. Il nepotismo dei pontefici trovò in parte una sua giustificazione nella rigida necessità di avvalersi di persone devote e impegnate a sostenere l’operato del pontefice nell’attività di governo dello stato contro i riottosi signorotti usurpatori di cariche e di terre statali. Gli storici continuano a distinguere un piccolo ed un grande nepotismo, a seconda che i papi concedessero ai parenti favori e dignità, oppure avessero come fine più ambizioso di costituire per i membri della propria famiglia una signoria. Questo sogno pare che fosse coltivato da Callisto III nei confronti del proprio nipote prediletto Pietro Luigi, al quale sperava di assegnare il Regno di Napoli visto che Alfonso V d’Aragona era morto senza aver generato un erede legittimo, invece Callisto III morì prima di aver portato a termine il suo disegno. Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, era nato nel villaggio di Corsignano, il 19 ottobre 1405, dall’illustre famiglia Piccolomini di Siena. Enea frequentò l’università di Siena, e in quella di Firenze apprese il greco alla scuola del Filelfo. Di ingegno perspicace, portato per gli studi classici, eccellente nella poesia e nell’arte oratoria, fu al servizio di diversi cardinali (Capranica, Albergati, Cesarini), dimostrando così la sua capacità diplomatica. Appoggiò l’elezione dell’antipapa Felice V, ma in seguito passò alla corte dell’imperatore Federico III. Pio II fu molto libertino, infatti scriveva componimenti e lettere d’amore ed ebbe diversi figli illegittimi, ebbe insomma una vita brillante e galante. Quando venne a Roma come ambasciatore di Federico III si presentò a papa Eugenio IV, si pentì dei suoi peccati e del suo comportamento licenzioso e diventò ecclesiasta ricevendo gli ordini minori. In seguito divenne vescovo di Trieste, e successivamente ottenne la sede episcopale di Siena. Fu eletto papa con i voti determinanti dei cardinali Borgia, Tebaldo e Prospero Colonna nel 1458 e morì nel 1464. Fu un abile politico, protesse letterati e artisti, ma neanche lui fu immune dal nepotismo: nominò cardinale un figlio della sorella Laudamia, e agli altri procurò posizioni molto proficue e grandi appannaggi. La corte papale fu invasa dai suoi paesani senesi, sempre in cerca di posizioni di favore. Alla morte di Pio II i cardinali decisero di mettere un limite al potere del papa, così durante il conclave, prima di eleggere un nuovo pontefice, stabilirono alcune regole che il nuovo papa avrebbe dovuto rispettare, tra le quali quella di poter nominare un solo cardinale tra i parenti. Fu eletto il veneto Pietro Barbo, che prese il nome di Paolo II (14041471). Questo pontefice cercò di estirpare la piaga del brigantaggio e delle discordie fra le varie famiglie gentilizie che terrorizzavano Roma ed i suoi dintorni, infatti la famiglia Anguillara fu annientata e le sue rocche espugnate dai soldati pontifici, dove furono rinvenute parecchie cose scellerate: strumenti per falsificare monete, persone rinchiuse in orridi carceri. Paolo II costituì un tribunale speciale per prevenire le risse e gli scontri fra i vari casati nobili, i quali si circondavano di molti delinquenti che, con la protezione delle famiglie nobili, compivano ogni nefandezza ai danni della popolazione inerme. Il 9 agosto 1471 risultò eletto il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto IV (1471-1484), perché il conclave era iniziato appunto nella festa di San Sisto papa e martire. Egli era nato a Celle di Savona il 21 luglio 1414, appartenente ad una famiglia di umili origini, compì i suoi studi nell’università degli studi di Pavia e di Bologna e in quegli atenei fu anche professore. Fu un abile politico, anche se si trovò ad operare in realtà complicate ed agitate dovute all’epoca, nella quale gli stati italiani erano in continuo fermento. Papa Sisto IV acquistò la città di Imola ed in seguito la donò a suo nipote Gerolamo Riario, il quale non si sentì sicuro finché nell’Italia centrale dominava Lorenzo de’ Medici, il principe mecenate, che per quasi cinquant’anni mantenne la pace nell’Italia centrale. Il pontificato di Sisto IV si caratterizzò per un forte nepotismo, infatti al momento della sua nomina contava già quindici nipoti di diverso grado di parentela. Due di essi, Pietro Riario e Giuliano della Rovere, vennero nominati vescovi ed in seguito vennero innalzati cardinali nel dicembre 1471; il primo aveva venticinque anni ed il secondo solamente diciotto. Il nipote di Giuliano della Rovere, Leonardo, fu fatto prefetto di Roma e prese in sposa una figlia naturale del re di Napoli. Leonardo morì improvvisamente nel 1476, e allora fu nominato prefetto della città Giovanni, che era fratello del cardinale Giuliano. Il fratello del cardinale Pietro Riario, Gerolamo, prese possesso del ducato di Ferrara, e fu ricoperto di onorificenze dal papa, dal duca di Milano e dai veneziani. Quando Luigi XI di Francia restituì alla Santa Sede le contee di Valentinois, e di Saint-Die chiese che venissero intestate a Gerolamo. Il nipote di Gerolamo, Rafaello Riario Sansoni, fu fatto cardinale a soli diciassette anni. Il cardinale Pietro Riario era figlio di Bianca della Rovere, sorella del papa, faceva parte dell’ordine francescano ed era il preferito di Sisto IV, purtroppo era pieno di orgoglio e di ambizione ed attratto dal lusso. Nella sua persona si concentrarono l’arcivescovado di Firenze, il patriarcato di Costantinopoli e molti altri vescovadi ed abbazie, tanto che le sue rendite sfioravano i sessantamila fiorini d’oro. Nonostante queste laute entrate il cardinale Pietro Riario era sempre alla ricerca di nuove risorse economiche per poter mantenere brillante la sua corte, sovente dedita alle orge e a prodigalità esagerate. Negli aneddoti storici rimane famoso il banchetto che egli preparò a Roma il 1 giugno 1473, in onore di Leonora figlia del re di Napoli, la quale passava per la città eterna per andare in sposa ad Ercole d’Este, signore di Ferrara. Al suo arrivo essa fu accolta con fasto orientale, infatti Leonora camminava seduta su una chinea “la più vistosa e la più guarnita che mai si fosse vista in Roma”. I due prelati nipoti del papa, che precedevano il corteo, per farsi largo tra la moltitudine degli spettatori lanciavano da tutte le parti, e quanto più potevano, manciate di monete. Il banchetto fu consumato nella sala maggiore del palazzo dei Riario, abbellita di bellissimi arazzi, rinfrescata da appositi mantici nascosti nell’alto, profumata da sottilissimi spruzzi di acque odorose che un fanciullo rivestito di foglioline d’oro spruzzava sugli invitati. L’elenco delle portate, dei cibi e delle bevande che ci hanno fatto pervenire alcuni commensali richiama a quei mitici banchetti greci e romani caratterizzati dalla scenografia delle orge, viste più come un rito che un mero appagamento materiale. Sisto IV era molto affranto dal comportamento libertino dei nipoti e dei suoi parenti ma, per il buon funzionamento della macchina politica e amministrativa dello stato pontificio, ormai non poteva fare a meno di loro. Il chiacchierato e scandaloso nipote cardinale Pietro Riario morì il 5 febbraio del 1474. Alcuni studiosi di storia dei papi non sono teneri con questo pontefice, che approfittò delle enormi ricchezze accumulate dal crudelissimo inquisitore domenicano, Tomaso de Torquemada, tramite i beni confiscati ai condannati (ebrei ed accusati di eresie e stregonerie) ed i beni abbandonati dalla popolazione che, spaventata dalla sua fama, al suo arrivo scappavano in massa abbandonando tutto nelle sue mani, obbligandolo a versargli la metà dell’ignobile bottino. Si pensi che il de Torquemada, con l’omertà del pontefice, riuscì a mandar via dalla sola Spagna ottocentomila ebrei, confiscando loro tutti i beni, e condannandoli a pena di morte qualora fossero restati o ritornati. Inoltre, sotto il pontificato di Sisto IV furono bruciati vivi centoduemila ebrei e di quasi settemila di essi furono riesumati i cadaveri per essere arsi in quanto condannati post mortem alla confisca dei beni, altri novantasettemila ebrei furono condannati al carcere a vita dopo essere stati privati delle proprietà. Contemporaneamente, in tutte le piazze di Roma, venivano messi a morte in spettacolari roghi i non cattolici i cui patrimoni erano requisiti dalla ”Confraternita di San Giovanni Decollato”, per conto di papa Sisto IV, che non badò a spenderli per i suoi sollazzi, tanto che regalava vasi da notte d’oro alle dame che si intrattenevano con lui. Papa Sisto IV, da buon politico consumato, aveva capito che per tenere quieta la plebaglia romana bisognava distribuire pane e divertimenti: gliene diede un’infinità. Possiamo affermare in modo categorico che le festività e il lusso al tempo di Sisto IV superarono senza confronto quelli di ogni altro tempo. I suoi nipoti, carichi di dignità ecclesiastiche e civili, ostentarono una generosità scandalosa e su questo furono coadiuvati da molti cardinali, per esempio il cardinale nipote Pietro Riario si circondava di una corte di cinquecento persone, infatti in due anni di cardinalato spese trentamila scudi per i piaceri della tavola, spegnendosi a soli ventinove anni, indebitato. Indimenticabile fu il carnevale del 1473 da lui organizzato per festeggiare il cardinale Carafa, proveniente dall’Oriente con pochi allori, ma mostrando spoglie opime messe su dodici cammelli portati da venticinque turchi che erano stati fatti prigionieri sul litorale Adriatico. Nel corso mascherato venivano rappresentate battaglie contro i turchi, i quali finivano vinti e incatenati. Preziosi premi venivano dati a coloro i quali producevano dal punto di vista scenografico le migliori comparse: di fronte a questo pullulare di spettacoli il popolo andava in delirio e riceveva molte elargizioni. La prodigalità del cardinale nipote non si limitò solo al popolo, ma si estense anche alla nobiltà, per la quale preparava nel suo palazzo feste e ricevimenti che sorpassavano l’ultimo limite di sontuosità e di fasto. I mobili delle sale avevano fregi d’oro e d’argento, le pareti erano coperte di arazzi, di damaschi e di drappi d’oro, i vasellami per la tavola erano finemente lavorati in oro e in argento. Torce e doppieri illuminavano a giorno le sale durante tutta la notte, giacché i banchetti si protraevano fino al mattino tra danze, suoni e canti. Il carnevale romano divenne talmente grandioso che superò quello veneziano, senza contare poi le festività religiose alle quali il popolo partecipava. Possiamo affermare che Sisto IV buttò molte risorse economiche per le feste pagane e religiose, ma fece anche parecchie cose buone, come rimettere a posto le strade e le piazze di Roma. Egli fu un grande mecenate (si circondò di artisti e letterati), e il suo più grande merito è quello di aver fatto costruire la Cappella Sistina, la magnifica cappella che serve per le funzioni papali. Sisto IV ideò questo luogo nei minimi particolari in modo da dare alle funzioni religiose che vi si celebravano una rigida solennità ed un accentuato raccoglimento. A dipingere la Cappella Sistina furono chiamati i migliori pittori: Michelangelo, il Botticelli, il Perugino, mentre architetto capo della Cappella fu Giovannino de’ Dolci. Purtroppo il nome di Sisto IV si ricollega anche alla creazione dell’Inquisizione in Spagna, regno nel quale era permesso agli ebrei di esercitare l’usura e se convertiti avevano maggiori libertà, ma queste pratiche erano contrarie alla morale cristiana e tutto ciò provocava nel popolo spagnolo un forte sentimento di odio e di disprezzo. Molti ebrei erano inoltre riusciti ad inserirsi nelle gerarchie ecclesiastiche, mettendo così a repentaglio la purezza della dottrina cristiana, quindi i sovrani spagnoli, di fronte a questa subdola penetrazione, si rivolsero al pontefice per avere il permesso di istituire un apposito tribunale di vigilanza. Sisto IV, con bolla del 1° novembre 1478, autorizzò Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia a nominare inquisitori due o tre ecclesiastici che dovevano avere approfondite conoscenze di dottrina e saggezza. Questi inquisitori avevano ampia facoltà di procedere per affermare la verità della fede contro gli eretici e gli pseudo cattolici (cosiddetti maranos, cioè quelli convertiti al cattolicesimo, basti ricordare i duchi di Medina e Modana che furono i principali finanziatori della missione di Cristoforo Colombo). L’incarico fu conferito a due domenicani, Miguel Morillo e Juan de San Martin, i quali estrinsecarono un comportamento molto zelante nell’adempiere la loro missione. I roghi arsero in tutta la Spagna con estrema facilità. Il primo grande inquisitore fu Tomaso de Torquemada, che entrò a ricoprire l’incarico il 2 agosto 1483, era di nomina regia ma riceveva la facoltà di adempiere alla sua funzione legislativa dalla Santa Sede. Egli venne affiancato da un consiglio speciale, i cui membri furono scelti dal re, ovviamente su indicazione del grande inquisitore; possiamo affermare che l’istituto dell’Inquisizione si caratterizzò per il suo dualismo, avendo un’impostazione prettamente ecclesiastica ma essendo allo stesso tempo un formidabile strumento della politica. Il primo anno di attività dell’Inquisizione spagnola fu molto attivo, infatti finirono sotto processo diciassettemila persone, duemila delle quali furono condannate al rogo. Altra cosa positiva che fece Sisto IV fu quella di potenziare di molti libri la biblioteca vaticana che era stata fondata da Niccolò V. Alcuni maligni affermarono che questo smodato interesse di Sisto IV per l’arte e la cultura poteva produrre direttamente una forma di neopaganesimo strisciante, trascurando la cura delle anime cristiane e allontanando il pontefice dalla retta via, insomma il papa si discostava dalla fede cristiana. Innocenzo VIII (1485-1492), nato Giovanni Battista Cibo, oltre ad essere stato un corrotto simoniaco, fu un incallito libertino, anche se quando abbracciò la carriera ecclesiastica attenuò rigorosamente quel comportamento licenzioso che aveva avuto in passato. Ebbe sette figli riconosciuti che dovette mantenere, i più famosi furono Franceschetto e Teodorina. A differenza di Sisto IV, il pontefice Innocenzo VIII fece di tutto per accattivarsi Lorenzo il Magnifico infatti combinò il matrimonio tra Maddalena, figlia di Lorenzo, e suo figlio Franceschetto. La sposa fu accompagnata dalla madre Clarice, il papa offrì agli sposi un sontuoso banchetto e regalò ai novelli sposini gioielli per un valore di diecimila ducati. Egidio da Viterbo criticò aspramente il papa Innocenzo VIII per essere stato il primo dei pontefici a porre in mostra i propri figli e per averne celebrato il matrimonio. Le nozze di Franceschetto, anche se furono celebrate nel palazzo Vaticano, non furono idilliache perché egli, uomo di gusti triviali, cercava solo la ricchezza che prontamente sperperava nelle orge. Nello stesso periodo papa Innocenzo VIII festeggiò il matrimonio della nipote Peretta (figlia di Teodorina) col mercante genovese Gherardo Usodimare. Al banchetto partecipò anche il pontefice, contro la buona consuetudine che proibiva alle donne di sedere a mensa con il papa. Il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni de’ Medici, fu elevato al cardinalato dal pontefice Innocenzo VIII all’età di quattordici anni, però con riserva, perché per tre anni il giovinetto cardinale non doveva portare insegne, né avere seggio e voto nel sacro collegio. Passati quegli anni il giovane Giovanni de’ Medici andò a Roma e il pontefice lo accolse nel Concistoro con le solite cerimonie. Papa Innocenzo VIII progettò una crociata contro i turchi, ma optò per raggiungere un accordo con il sultano ed accettò da lui una pensione di quarantamila ducati: questo evento fu festeggiato con uno dei carnevali più mondani che Roma ricordi. Altra cosa negativa che fece fu quella d’impegnare la tiara e parte del tesoro vaticano presso una banca romana, poi, per avere altro denaro, creò nuovi posti nella segreteria papale anche se non c’era proprio bisogno, mettendoli in vendita (furono aumentati i segretari da sei a trenta, inoltre fu creato un nuovo collegio di cinquantadue ufficiali, detti Plumbatores), questo provocò un abuso di potere, perché spinse ad affidare gran parte degli uffici dell’amministrazione curiale a persone inette che pensavano solo ad arricchirsi economicamente, tanto da diventare una regola quotidiana nella Santa Sede. Tutti gli impiegati erano corrotti, e si corroborò l’abuso di fabbricare bolle false che concedevano privilegi e dispense da precetti ecclesiastici dietro compensi in denaro, questo abuso era talmente diffuso che lo stesso Innocenzo VIII dovette mandare al patibolo parecchi falsificatori romani delle bolle pontificie. La più famigerata bolla di questo papa fu la Summis desiderantes, con la quale dichiarava “essere cosa accertata che molti individui d’entrambi i sessi, nelle città e nelle campagne, abbandonata la religione cattolica, avevano contatto carnale con i demoni sotto spoglie umane maschili e femminili e, con l’ausilio di questi loro alleati infernali, compivano le maggiori nefandezze ed arrecavano i peggiori guai”. In virtù di questa bolla, come ricorda Rau (1911), Innocenzo VIII diede l’incarico a tre monaci di scacciare dalla Germania i demoni della stregoneria. Ebbero allora inizio, sulla base di indicazioni superficiali, di denunce basate su nulla di concreto, persecuzioni terribili che furono condotte con voluttà fanatica di far scempio, di uccidere. Serviva un codice formale che servisse nei processi alle streghe e portasse cioè un’esatta e completa descrizione delle loro scellerate azioni, la stregoneria venne considerata come un’espressione vera e propria di criminalità diabolica. Nel frattempo, in Spagna, l’ultima roccaforte dei mori, Granata, cadde il 2 gennaio 1492, con grande gioia del popolo spagnolo. Il sovrano Ferdinando d’Aragona ottenne il titolo di “Maestà Cattolica”. Carlo Verardo compose un’azione drammatica in ventitré scene distese in prosa latina ad illustrazione della presa di Granata, la rappresentazione si svolse nel cortile del palazzo della Cancelleria Apostolica e gli spettatori si divertirono tantissimo. Questa espressione teatrale ebbe successo e Pomponio Leto ispirò i suoi accademici alla nuova arte, possiamo affermare che dai festeggiamenti della presa di Granata ebbe origine il teatro italiano in Roma. Il 2 marzo 1492 Innocenzo VIII si ammalò, ma in seguito si riprese al fine di prendere parte alla grande festa, che si celebrò a Roma il 31 maggio per venerare la Sacra Lancia con la quale Longino aveva trafitto il costato di Gesù in croce e che il sultano Bayazet aveva inviato al papa per farselo amico, affinché non aiutasse il suo fratello ribelle Zizim. La notte del 25 luglio 1492 il pontefice Innocenzo VIII morì ed in seguito venne sepolto in San Pietro. Questo papa genovese morì poche giorni prima che il magnifico cittadino Cristoforo Colombo salpasse da Palos per la grande impresa che doveva dare alla Chiesa un mondo nuovo da evangelizzare e ai sovrani spagnoli immensi territori da sfruttare. Il suo successore, papa Alessandro VI (1492-1503, al secolo il valenzano Rodrigo Borgia), fu l’esempio vivente della lussuria, della trasgressione e della più grande bassezza morale: molti lo utilizzarono per lanciare critiche feroci al papato e sulla Chiesa. Alcuni storici non si scandalizzarono di quel comportamento immorale che era frutto dell’epoca (pieno Umanesimo) in cui il paganesimo s’intrecciava con lo spirito cristiano dei papi. Lo spirito dell’epoca aveva fatto trionfare il paganesimo sia nei troni che nell’altare di Pietro, non solo, ma un pericoloso sofisma si era impadronito della mente dei regnanti: il bene e il bello diventarono tutt’uno, quindi ogni cosa che esprimeva estetica ed arte veniva accettato senza beneficio d’inventario, infatti la religione con le splendenti cerimonie divenne solo un’espressione superficiale di formalità e le chiese rappresentavano ormai dei templi che erano monumenti d’arte privi di attrazione spirituale religiosa. La decadenza dei costumi si manifestò perché sia il delitto che il vizio assunsero una consuetudine normale, dove non veniva riscontrata nessuna negatività. L’omicidio diventò una prassi costante, la politica diventò solo espressione di forza, la vita umana venne considerata una nullità, l’adulterio diventò una virtù nelle corti principesche, dove addirittura i figli bastardi e illegittimi prevalevano sui figli legittimi delle dinastie regnanti. Nella Chiesa, in questo preciso momento storico, prevalse l’elemento umano e politico a scapito dell’aspetto divino e religioso, il pontefice venne considerato un principe che per arguzia doveva essere oltre i re. Alessandro VI seppe impersonare il papato dell’epoca che assunse una posizione ideologica in antitesi ai principi cristiani. Le probabilità maggiori per essere eletti papi erano per i cardinali Carafa e Costa, ma durante la notte il collegio cardinalizio optò per il Borgia. Alcuni suoi nemici sostennero che egli fosse stato eletto simoniacamente, infatti concesse molti benefici che lui aveva avuto come cardinale ai cardinali elettori. Nominò il cardinale Antonio Sforza vice cancelliere di Santa Chiesa e gli concedette il palazzo dei Borgia. Alcuni studiosi dei conclavi (come Ferdinando La Torre) sostengono che era prassi comune in quell’epoca promettere nei conclavi ai vari cardinali elettori privilegi, cariche e prebende, pure se questo comportamento era contrario alla morale cristiana. La maggioranza dei prelati del conclave optarono per il Borgia perché videro la sua abilità diplomatica, il suo carattere energico, inoltre, essendo straniero, pensavano che sarebbe stato meno influenzato dai vari stati italiani. I primi atti di Alessandro VI sembrarono confermare le buone speranze, infatti durante la malattia di Innocenzo VIII l’autorità pubblica era caduta talmente in basso che furono commessi più di duecento omicidi: egli ripristinò in modo rigoroso la sicurezza pubblica e creò una giustizia esemplare, inoltre fece una saggia politica di gestione economica dello stato pontificio. All’inizio il nuovo papa costrinse la corte pontificia ad una vita austera, abituata com’era a sperperare il denaro pubblico, addirittura la sua tavola era così semplice che i suoi parenti preferivano non partecipare come commensali. Pareva che il Borgia avesse l’intenzione di moderare i privilegi verso i figli e i parenti, ma in seguito si lasciò trascinare da questo amore sfrenato e permise che tutti convenissero a Roma. La sua prediletta era la figlia Lucrezia, che tutti i contemporanei descrivono piena di grazia e fornita di grande amabilità. Di media statura e di aspetto gentile, Lucrezia aveva il viso alquanto lungo, il naso prominente, i capelli biondi, gli occhi splendenti, i denti chiarissimi, il collo bianco fine, robusto ma tuttavia ben proporzionato. Molti la descrissero come donna colpevole di numerosi delitti e compromessa nei peggiori scandali, possiamo affermare che questa donna pur vivendo nel corrotto ambiente romano ne subì l’influenza, ma non fu la donna perversa e depravata come comunemente si crede. Di altro carattere era il fratello Cesare: di aspetto gentile e giocondo, fornito di ingegno, le sue passioni erano l’arte della guerra e la politica. Pur di raggiungere i fini che si prefiggeva non guardava i mezzi che usava, per Machiavelli incarnava il principe ideale, nonostante la sua alta immoralità. Il 14 giugno 1497 la famiglia del papa fu funestata da una tragedia, fu infatti ucciso il figlio di Alessandro VI, Juan, in circostanze misteriose. Juan (o Giovanni) era stato nominato dal papa principe di Squillace con quarantamila ducati annui di rendita, aveva ottenuto anche il ducato di Gandia e nel concistoro segreto del 7 giugno 1497 gli era stato assegnato il ducato di Benevento. La sera del 14 giugno, Giovanni col fratello Cesare ed alcuni amici cenarono allegramente nella vigna della madre Vanozza Cutanei, presso San Pietro in Vincoli, ma dopo la cena i due fratelli si separarono. Il cadavere del duca di Gandia (figlio di papa Alessandro VI) venne trovato galleggiante nelle acque del Tevere. Di quell’omicidio non fu mai trovato il colpevole, si sospettò del fratello Cesare, ma non vennero raccolte prove a sufficienza; il padre pianse ininterrottamente da mercoledì fino a sabato mattina, non dormì, non mangiò per una settimana, meditò di rinunciare al pontificato ma il re Ferdinando di Spagna lo convinse a rimanere, dicendo che il tempo avrebbe rimarginato le sue ferite. Luigi XII re di Francia, in segno di stima e di amicizia, donò a Cesare il contado di Valentinois dal quale prese il titolo di “duca di Valentino”, titolo che fu il preferito dal Borgia. Luigi offrì inoltre a Cesare in sposa la sorella del re di Navarra, Carlotta d’Abrette, fanciulla diciottenne. Nel frattempo alla figlia di Alessandro VI, Lucrezia, fu trovato il terzo sposo, Alfonso d’Este, erede del ducato di Ferrara. Appena fu siglato l’accordo e concertato il matrimonio la corte pontificia iniziò i festeggiamenti, lo stesso papa Alessandro VI assistette alla danza notturna in onore della vanitosa e frivola Lucrezia, il pontefice affermava che sua figlia doveva essere la principessa che aveva maggior numero di perle e fra le più belle. Il matrimonio fu celebrato in Roma, nel Vaticano, il 30 dicembre 1501. La sposa era vestita di broccato d’oro e di velluto cremisino con guarnizioni di ermellino. Le maniche del suo abito scendevano fino a terra: il lungo strascico era sostenuto da damigelle di corte. Un nastro recingeva la sua aurea chioma e il suo capo era leggermente coperto da un vezzo d’oro e di seta. Portava intorno al collo un monile di perle con un pendente consistente in uno smeraldo, un rubino ed una grossa perla. Le feste si protrassero fino a quando Lucrezia se ne partì (6 gennaio 1502) ed i festeggiamenti continuarono fino al più gaudente carnevale, con balli e rappresentazioni teatrali, baccanali ed orge da far invidia al più peggior paganesimo decadente. Alessandro VI si divertiva tantissimo e non voleva essere importunato con i soliti affari di stato, così riferisce anche l’oratore veneto Sanuto, che aveva tentato di avvicinare il papa per parlargli della crociata contro i Turchi mentre il pontefice stava sul balcone a vedere le maschere. Terminate le feste di Roma, il Valentino ritornò alla carica contro i tirannelli degli stati pontifici, conquistò Camerino, sottraendo quella terra a Guidobaldo, duca di Urbino, e fece prigioniero Giulio Cesare Varano. Con ambizione il Valentino adoperò il nome di Cesare Borgia di Francia, per la grazia di Dio duca di Romagna, di Valenza e di Urbino, principe di Adria, signore di Piombino, gonfaloniere e capitano generale della Chiesa. Si volse quindi contro Bologna, la quale sperava nell’appoggio di Luigi XII di Francia per conservare la propria indipendenza, ma il Valentino riuscì a convincere il re francese a schierarsi con lui. I Bentivoglio di Bologna e tutti i signorotti si riunirono segretamente, crearono una lega e ordinarono una congiura, chiamata della Magione. L’astuto duca, facendo finta di non sapere nulla della congiura, portò a compimento un colpo molto ardito. Il Valentino invitò i suoi avversari il 31 dicembre 1502, e quando i signorotti ingenuamente accorsero, il duca di Valentinois li fece imprigionare; nella stessa serata furono strozzati senza pietà Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo, i quali avevano ideato di uccidere il Valentino; subirono giustizia sommaria anche Paolo e Francesco Orsini. Papa Alessandro VI meditava di fare di suo figlio Valentino re d’Italia, quindi di creare un regno vassallo della Chiesa, e a tal fine intavolò trattative con l’imperatore del Sacro Romano Impero, con il re di Francia e con Ferdinando il Cattolico, ma la morte sopraggiunse prima che il pontefice potesse attuare il suo ambizioso progetto. Alessandro VI, oltre ad essere stato il famigerato organizzatore delle più aberranti orge e ad essere stato incestuoso con la propria figlia Lucrezia, all’età di dodici anni, nel 1443, aveva ucciso con molte pugnalate un giovinetto suo coetaneo, soltanto perché, essendo di condizione sociale inferiore alla propria, gli si era rivolto in maniera poco garbata. Egli era un maestro nel confezionare filtri velenosi e con l’assistenza del figlio Cesare aveva potuto perfezionare a dismisura questa sua arte. Non soltanto dalla morte di questo o di quel cardinale il pontefice traeva denaro, ma anche dallo loro elevazione alla porpora, perché alla consegna del cappello rosso il prescelto doveva pagare una forte somma di denaro. Si ricordano Girolamo Savonarola, bruciato vivo insieme ai suoi discepoli Domenico da Pescia e Silvestro da Firenze il 23 maggio 1498 solamente per aver predicato un cristianesimo primitivo in netta antitesi al paganesimo imperante nelle varie corti principesche fra cui quella pontificia, e tre ebrei anonimi arsi vivi il 13 gennaio 1498 in campo dei Fiori a Roma. Una delle cose più riprovevoli che fece Alessandro VI fu quella nei confronti degli indios o indigeni del “nuovo mondo”, perché formalizzò l’occupazione delle Americhe e quindi il suo esoso sfruttamento, riconoscendo questi territori come possedimenti spagnoli e portoghesi. Papa Alessandro VI fu arbitro della controversia che divideva Spagna e Portogallo per l’occupazione delle Americhe, assegnando ai sovrani spagnoli i territori ad occidente e al Portogallo quelli ad oriente. Giulio II (Giuliano della Rovere, papa dal 1503 al 1513) fu un papa equilibrato che non cadde nella perversa spirale del nepotismo, infatti non s’interessò della sua casata, ma si occupò di riordinare lo stato pontificio e di sanare il bilancio dello stato della Chiesa che il vizioso papa Alessandro VI aveva dissipato. Fu un papa mecenate che chiamò al proprio servizio per la pittura e scultura geniali maestri del tempo come Raffaello e Michelangelo, che dipinsero la Cappella Sistina, la stanza della segnatura e le logge vaticane. Alcuni studiosi ostili al papato affermano che questo pontefice, padre di tre figlie, fu un accanito sostenitore della condanna a morte e durante il suo pontificato, tra le moltissime condanne capitali, si ricorda quella di quattro donne accusate di stregoneria e fatte bruciare vive a Cavalese nel 1505. A Lograno, sempre nel 1505 e per lo stesso motivo, furono fatte bruciare vive ben trenta persone. Nel 1506 Diego Portoghese fu fatto impiccare, perché accusato di “eresia”; nel 1507 per lo stesso motivo fu fatto impiccare Agostino Grimaldi; nel 1513 sempre per lo stesso motivo furono fatti impiccare i fratelli Orazio e Giacomo di Rifreddo e nello stesso anno furono fatti massacrare dalle guardie svizzere quindici cittadini romani, anche loro perché accusati di “eresia”. A Giulio II successe Giovanni de’ Medici, che aveva solo 38 anni di età quando salì al soglio pontificio con il nome di Leone X. Destinato dal padre alla carriera religiosa ottenne cospicui benefici: nomina ad abate di Montecassino e di Morimondo, nomina a Protonotaio Apostolico a soli sette anni, nomina cardinalizia da parte di Innocenzo VIII avvenuta a soli tredici anni (con l’obbligo però di assumere le insegne soltanto dopo tre anni). Studiò per un triennio diritto canonico a Pisa, dove ebbe come compagno Cesare Borgia. Nel 1492, una volta preso pubblicamente il cappello cardinalizio si trasferì a Roma, ma si trovava a Firenze quando, nel 1494, ebbe luogo la caduta dei Medici e fu proclamata la repubblica. Allora per alcuni anni Giovanni prese a girare, trovando asilo dapprima alla corte urbinate di Guidobaldo di Montefeltro ed Elisabetta d’Este Gonzaga insieme al fratello minore Giuliano e al cugino Giulio (il futuro Clemente VII), poi viaggiò nei Paesi Bassi, in Germania e in Francia, dove conobbe molti uomini illustri, ma venne arrestato a Rowen (nei Paesi Bassi) e quindi fu espulso. Ritornò a Roma nel 1500 e qui prese alloggio nel palazzo di San Eustachio, attuale palazzo Madama, residenza dei Medici in città, facendo vita mondana e dedicandosi agli studi umanistici, al teatro contemporaneo (nell’autunno del 1514 farà rappresentare nelle sue stanze la commedia Calandria del cardinale Dovizi e del Bibbiena) nonché al collezionismo di antichità e al mecenatismo artistico (tra i pittori da lui ricercati e protetti, figura l’ammiratissimo Raffaello, cui commissionò svariati lavori). Nel 1511 ricevette da Giulio II l’incarico di Legato per la Romagna; l’11 aprile 1512 assistette alla battaglia di Ravenna, dove venne catturato e fatto prigioniero dai francesi vincitori. Condotto a Milano riuscì tuttavia a fuggire prima di essere trasferito in Francia. Grazie al contributo dell’esercito ispano-pontificio riuscì a ristabilire la signoria medicea a Firenze (1512-1513) che governò insieme al fratello Giuliano. I Medici, quando ripresero possesso di Firenze, avevano esiliato a Ragusa il gonfaloniere Pier Soderini, e fecero richiamare dall’esilio Piero. Fin dai primi atti del suo governo espresse un’indole non aggressiva rispetto al suo predecessore. Figlio di Lorenzo il Magnifico, aveva avuto come maestri Pico della Mirandola, il Ficino, il Bibbiena, il Poliziano; era una persona che esprimeva un buon carattere il giovane Giovanni de’ Medici, pur essendo di salute cagionevole, tanto che durante il suo conclave dovette stare a letto per curarsi, infatti molti porporati accettarono di votarlo perché erano convinti che non sarebbe vissuto tanto a causa della sua salute alquanto delicata. L’11 aprile 1513 Giovanni prese possesso del soglio pontificio con il nome di Leone X. Per la situazione instabile in cui l’Italia si trovava, papa Leone X cercò di attuare una politica meno guerrafondaia, attraverso un’efficace azione di mediazione diplomatica, dal perdono accordato ai cardinali che avevano organizzato il “conciliabolo” di Pisa, alla pacificazione ufficiale con Pompeo Colonna, che aveva cercato invano di provocare una rivolta popolare e di instaurare una repubblica, alla buona opera di mediazione compiuta a Firenze, nella scoperta della congiura di Boscoli e Capponi. Infatti il pontefice convinse i suoi parenti a rimettere in libertà Niccolò Machiavelli, Niccolò Valori e Giovanni Falchi che erano stati coinvolti nella congiura. Non coltivava odio verso la Francia, né si preoccupò di aumentare la potenza dello stato pontificio. All’inizio del suo pontificato seguì una linea di condotta simile a quella di Giulio II, infatti con Enrico VIII d’Inghilterra, Ferdinando di Spagna e Massimiliano d’Asburgo sottoscrisse la Lega Santa di Malines (5 aprile 1513) contro Francia e Venezia che avevano stipulato un’alleanza con i francesi il 23 marzo a Blois. Il papa voleva a tutti i costi realizzare una pace ma il guelfo Trivulzio e il generale francese Tremoille, appoggiati dai veneziani, sferrarono l’attacco durante la battaglia di Marignano (1515) che si concluse con la riconquista francese del ducato di Milano. Nello stesso anno le truppe francesi vennero attaccate nei propri confini dagli inglesi e dai tedeschi e furono sconfitte a Guinegatte in Piccardia, e dagli svizzeri che riuscirono ad arrivare fino a Dijan. Il papa rimase immobile anche quando il re francese conquistò Parma e Piacenza, che erano state assegnate allo stato pontificio tre anni prima, e il pontefice lo lasciò fare, per intavolare poi trattative segrete al fine di ricomporre tutte le divergenze esistenti a Bologna, dove furono buttate le fondamenta per un concordato che regolasse definitivamente la questione religiosa in Francia. Gli accordi si conclusero con un trattato di pace firmato a Viterbo, il 13 ottobre 1515, con il quale il pontefice cedette Parma e Piacenza alla Francia e il sovrano francese si impegnò a garantire l’autorità dei Medici a Firenze. Il 18 agosto 1516 venne stipulato un concordato che conteneva la soppressione della Pragmatica sanzione di Bourges del 1438, ma la curia papale dovette cedere al re di Francia il diritto di nomina per tutti i vescovadi (novantatre fra cui dieci arcivescovadi), le numerose abbazie e i priorati del suo regno; al papa rimase solo il diritto immediato di collazione per un numero limitato di casi e la possibilità di confermare i candidati alle sedi vescovili, da nominarsi entro sei mesi dalla vacanza. Questa sistemazione ebbe il buon effetto di stroncare le tendenze scismatiche della nazione francese e di riannodare più strettamente il paese alla Santa Sede fino alla rivoluzione. Papa Leone X in realtà era più interessato all’ampliamento del potere della propria famiglia che a quello dello stato pontificio. Il ramo della famiglia de’ Medici, di cui Leone era a capo, si componeva di Giuliano, suo fratello minore, del cugino Giulio e del nipote Lorenzo (figlio di Pietro de’ Medici e di Alfonsina Orsini). Leone X nominò cardinale Giulio, ma siccome si pensava che fosse figlio illegittimo di Giuliano de’ Medici (ucciso nella congiura ordita dalla famiglia de’ Pazzi), e di Fioretta Antoni, il 20 settembre 1513 il papa impose con pubblico atto che Giulio era legittimo, anche se nato da matrimonio segreto. Alla medesima promozione, cioè al cardinalato, furono elevati il Bibbiena, autore della trasgressiva commedia “La Calandra”, Lorenzo Pucci, già datario ai tempi di Giulio II e letterato, amico personale del papa, e Innocenzo Cibo, figlio di una sorella del papa, di soli ventun’anni. Il 13 dicembre 1513 il papa fece eleggere i suoi nipoti patrizi romani. Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, era caduto in disgrazia di papa Leone X, perché nelle ultime guerre di Lombardia aveva avvantaggiato in modo subdolo i nemici della chiesa. Il pontefice gli tolse allora il ducato e lo diede al nipote Lorenzo, già signore di Firenze. La resistenza opposta da Francesco Maria fu debole, tanto che dovette cedere il campo e ritirarsi a Mantova. Nel 1517 la vita del pontefice corse serio pericolo per una congiura ordita all’interno del Sacro Collegio, ad opera del cardinale Alfonso Petrucci, figlio di quel Pandolfo signore di Siena, da alcuni sospettato di aver fatto uccidere Pio III. Quando Pandolfo morì lasciò il potere della signoria di Siena all’altro suo figlio, Borghese, ma Leone X nel 1516 lo fece scacciare dalla città, affidandone la signoria ad un altro Petrucci, Raffaello, vescovo di Grosseto, che aveva dalla sua parte la profonda amicizia verso il pontefice. Il cardinale Alfonso Petrucci, sentendosi tradito dal papa, tentò in diverse occasioni di sopprimere Leone X. Una volta andò in Concistoro con il pugnale nascosto nella manica della sua veste, più di una volta partecipò alle battute di caccia a cui partecipava il papa con l’intenzione di ammazzarlo, ma dopo un po’ lo scarso coraggio e la mancanza del momento propizio lo fecero desistere dal compiere personalmente l’evento malvagio ed egli si ritirò nei feudi dei Colonna. Da lì il Petrucci corruppe il medico del pontefice, Pietro Vercelli e lo convinse ad avvelenare la medicatura che era solito dare ad una fistola di cui Leone X soffriva da tempo. Quando furono intercettate alcune lettere del medico Vercelli la congiura venne scoperta e il cardinale Petrucci, rientrato imprudentemente in Roma il 19 maggio 1517, fu imprigionato insieme al cardinale di San Giorgio, Raffaello Riario, pure lui acerrimo nemico della famiglia Medici. Anche il chirurgo Vercelli, fatto venire da Firenze, venne incarcerato. Al processo, tutti gli imputati confessarono il loro disegno criminoso e tra i sospetti furono presi altri due cardinali, il Solderini di Volterra e Ariano di Corneto, essi però per insufficienza di prove ottennero perdono dal papa, e furono liberati dalla commissione giudicatrice dopo che ciascuno ebbe sborsato la multa di venticinquemila ducati. Il 20 giugno i cardinali rei confessi furono privati del cardinalato e di tutti i loro privilegi ed averi. Nel concistoro del 24 luglio il cardinale Riario riuscì ad essere reintegrato nella sua dignità e nelle cariche, a patto di comprare la propria libertà con la somma di quindicimila fiorini d’oro e con l’impegno di lasciare al fisco pontificio, dopo la sua morte, il suo palazzo di Roma. I capi congiurati furono trattati invece con estrema durezza: il cardinale Petrucci morì strangolato in carcere; il chirurgo Pietro Vercelli e il segretario del cardinale Petrucci, un certo Antonio de Nini, furono condotti al supplizio fra i più orribili tormenti. Quelle condanne a morte cancellarono di colpo i precedenti atti di magnanimità del pontefice e le grazie concesse sub condizione ai quattro cardinali furono fortemente criticate in Italia e in Germania. Leone X si accorse che i rimanenti tredici cardinali gli procuravano apprensione, per quanto concerneva la loro fedeltà, così creò in una sola volta trentuno cardinali, scegliendone molti tra parenti ed amici fidati, ma anche tra persone meritevoli per cultura e devozione al Signore: Tommaso de Vio di Gaeta, generale dei Domenicani, Egidio, generale degli Agostiniani, Numechi da Forlì, generale dei Francescani, il Piccolomini di Siena, Adriano di Utrecht, il Cesarini e Paolo Emilio Cesi di Roma. Vi erano inclusi anche i due Trivulzi di Milano, Raffaello Petrucci, Luigi Borbone, fratello del conestabile, e l’infante Alfonso di Portogallo, che fu designato alla porpora quando aveva appena sette anni. I neoeletti cardinali, secondo la consuetudine dell’epoca, fecero generose oblazioni al pontefice, il quale si trovava nella necessità di far denaro per mantenere la sua corte dispendiosa. Dopo quelle nomine la posizione del papa e della sua famiglia migliorarono sensibilmente, infatti il nipote Lorenzo si unì in matrimonio con Maddalena, principessa della casa regnante di Francia, nel Castello d’Amboise. Gli sposi non godettero a lungo della loro felicità, perché Maddalena morì il 28 aprile 1519, dando alla luce una bambina che divenne famosa nella storia, Caterina de’ Medici. Durante il suo pontificato Leone X si fece promotore di una crociata contro i Turchi che minacciavano l’Europa cristiana, ma le varie divergenze di predominio sull’Europa che c’erano fra i vari regnanti cattolici (in particolare Carlo V d’Asburgo e Francesco I di Francia) mandarono in fumo le sue iniziative. Il pontificato di Leone X fu caratterizzato dall’elezione del nuovo imperatore del Sacro Romano Impero, successore del defunto Massimiliano I d’Asburgo. Il 28 giugno 1519 i principi elettori elessero a Francoforte l’appena ventenne Carlo V di Spagna, figlio di Filippo d’Asburgo e Giovanna di Castiglia, che fu incoronato ad Aquisgrana nell’ottobre 1520. Il giovane imperatore era riuscito a far convergere su di lui i voti appoggiandosi alla potente banca dei Fugger (850.000 fiorini di prestito promessi), che venne ripagata del favore imperiale con vasti possedimenti. Il giovane imperatore era così venuto a trovarsi improvvisamente nella posizione di sovrano più potente d’Europa, a capo di un complesso blocco eterogeneo frutto di quattro eredità distinte, con una costellazione di principati e città libere, un agglomerato di repubbliche mercantili urbane e di signorie feudali, sovente travagliate da lotte interne, la Castiglia e le conquiste castigliane nell’Africa settentrionale, nell’area caraibica e nell’America Centrale, l’Aragona ed i domini aragonesi d’oltremare e cioè Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Il movimento protestante non fu sottovalutato da papa Leone X, l’unica colpa che si può attribuire a questo pontefice umanista e mecenate è di non aver ponderato bene dove sarebbe potuta arrivare la riforma provocata da Martin Lutero, da lui definito un incallito ubriacone, impregnato di contenuti di teologia astratti. Il movimento protestante non fu solo un movimento religioso, che si ricollocava in parte alle eresie di Giovanni Wicleff, di Giovanni Huss, di Girolamo da Praga; esso fu un fenomeno complesso. Furono molte le cause che provocarono la ribellione di cui Lutero si trovò a capo: la decadenza del papato nell’influenza politica e morale; la corruzione e lo sfarzo della corte pontificia simile a tutte le altri corti principesche, il venir meno in molti prelati della fede e più ancora della pratica della vita cristiana; l’Umanesimo e il Rinascimento che dalle forme esterne passavano a far rivivere il pensiero pagano, il rinascere della competizione delle razze tedesche con le latine, le differenze sociali nella ripartizione delle ricchezze per cui l’alto clero secolare e regolare sfruttava la plebe lavoratrice ed affamata. La rivoluzione protestante dal lato esterno presentava aspetti dogmatici e religiosi, ma nella sua essenza era anche politica sociale ed intellettuale. Lutero aveva nelle vene troppo sangue tedesco, e disprezzava tutto quanto proveniva da Roma, la questione delle indulgenze fu solo una circostanza determinante. Con Carlo V stava iniziando l’avventura storica, politica e umana del monarca spagnolo che costruì un impero “sul quale non tramontava mai il sole”. Leone X si convinse a dargli il suo appoggio quando si rese conto che Carlo V poteva rappresentare un grande aiuto per cercare di realizzare l’unità politica e religiosa dell’Europa. Qualche tentativo di riforma e unificazione fu avviato con la conclusione del Concilio Lateranense V, aperto da Giulio II nel maggio 1512, che si era protratto per parecchio tempo, anche con Leone X. Nella sessione VIII (dicembre 1513) fu condannata la dottrina della duplice verità in filosofia e teologia e nella sessione XI (dicembre 1516) con la bolla Pastor Aeternus venne rigettata la pragmatica sanzione di Bourges e la teoria conciliarista, con la dichiarazione solenne che al romano pontefice spettava una giurisdizione plenaria sopra tutti i concili, la loro convocazione, il loro trasferimento e scioglimento. Circa la questione specifica della riforma, furono emanate alcune buone disposizioni concernenti la nomina ai benefici ecclesiastici, la condotta del clero e dei laici, l’esenzione, le tasse curiali, i diritti dei religiosi rispetto all’esercizio della cura delle anime. Nel loro complesso erano norme troppo superficiali e blande, come dimostrarono le clausole restrittive aggiunte, ma il vero problema era rappresentato dalla mancanza di una decisa volontà della Chiesa di riformarsi. Quello della politica religiosa era del resto un capitolo estremamente controverso del pontificato leonino. L’esaurimento delle già compromesse finanze papali (il mantenimento della corte leonina costava ben centomila ducati annui), la necessità di reperire i fondi per la costruzione della basilica di San Pietro in Roma, i cui lavori procedevano sempre più lentamente, costrinsero il papa ad un sensibile aggravio delle imposte, che aveva già causato il complotto del Petrucci. A ciò si aggiungeva l’esigenza di fronteggiare il pericolo turco, che ormai spadroneggiava con molte incursioni per tutto il Mediterraneo. Inoltre, le costanti richieste di interventi di riforma, specie nel nord Europa, dove la situazione religiosa e politica era ormai in rapidissima evoluzione, convinsero Leone X a concedere, come già prima di lui i suoi predecessori, un’indulgenza plenaria da divulgarsi in tutta la cristianità. L’indulgenza era un condono delle pene che il credente avrebbe dovuto scontare nel Purgatorio e in vita, condono che il papa concedeva a quei fedeli, sinceramente pentiti, disposti a compiere particolari penitenze (pellegrinaggi, elemosine, opere meritorie). Lo “sconto” offerto da questi certificati d’indulgenza era proporzionato all’importo del denaro versato. Quale commissario dell’Indulgenza per gran parte della Germania il papa nel 1515 nominò il giovane principe di Hohenzollern di Brandeburgo. I redditi ricavati dall’indulgenza dovevano venire devoluti per metà alla fabbrica di San Pietro, mentre l’altra metà veniva rilasciata all’arcivescovo, per dargli modo di pagare le gravi tasse dovute alla curia papale per la conferenza della sua elezione e per la cumulazione di tre vescovadi, più esattamente per estinguere il debito di quasi trentamila fiorini contratto a tale scopo presso i banchieri Fugger di Augusta. Fu proprio in Germania che si verificarono abusi e scandali, addirittura il predicatore domenicano Johann Tetzel giunse ad affermare che per ottenere l’indulgenza per i defunti bastava la sola offerta dell’elemosina (“appena il tintinnio delle monetina tocca il fondo della cassetta delle offerte”) anche senza lo stato di grazia. Chi, pagando una certa somma, riusciva ad entrare in possesso del documento scritto (i vivi direttamente, i morti tramite i parenti ancora in vita), poteva ottenere uno sconto sulla pena (per i vivi anche sulle pene future), a prescindere naturalmente dalla fede personale di chi lo acquistava o di chi ne beneficiava. In tal modo i benestanti potevano mettersi il cuore in pace. La cosa scandalosa fu la creazione di un tariffario (la “taxa canarae”, composta di trentacinque articoli), che divideva le colpe in base alla loro gravità; in questo modo tutti i crimini, anche i più truci, potevano essere perdonati in cambio di denaro. Ricordiamo alcuni articoli più importanti: “I sacerdoti che volessero vivere in concubinato con i loro parenti, pagheranno 76 libre, un soldo. La donna adultera che chieda l’assoluzione per restare libera da ogni processo e avere ampie dispense per proseguire i propri rapporti illeciti, pagherà al papa 87 libre, 3 soldi. Il vescovo o abate che commettesse omicidio per imboscata, incidente o per necessità pagherà, per raggiungere l’assoluzione, 179 libre, 15 soldi. Il frate che per miglior convenienza o gusto volesse passare la vita in un eremo, con una donna, consegnerà al tesoro pontificio 45 libre, 19 soldi. I laici contraffatti o deformi che vogliono ricevere ordini sacri e possedere benefici, pagheranno alla cancelleria apostolica 58 libre, 2 soldi. Uguale somma pagherà il guercio dell’occhio destro, mentre il guercio dell’occhio sinistro pagherà al papa 10 libre, 7 soldi. Gli strabici pagheranno 45 libre, 3 soldi, gli eunuchi che intendessero entrare negli ordini pagheranno la quantità di 310 libre, 15 soldi.” Come si può vedere la Chiesa cattolica aveva raggiunto il massimo della corruzione. Tra il malcontento generale si levò una voce, quella del monaco agostiniano tedesco Marthin Luter (latinizzato in Lutero), nel cui sistema teologico (ricordiamo il voto di farsi monaco, l’esperienza della torre, il suo commento alla lettera ai romani) ormai non c’era più posto per l’indulgenza. Il 31 ottobre 1517 questi affisse, secondo l’uso accademico, all’ingresso della chiesa del castello e dell’università di Wittemberg novantacinque tesi formulate in latino, sul valore e l’efficacia delle indulgenze (Disputatio circularis pro declaratione virtutis indulgentiarum) e altri problemi connessi. Queste tesi ebbero una risonanza enorme ed in poche settimane si diffusero in tutta la Germania. Molti speravano che dal suo intervento provenisse la spinta decisiva per una reale riforma della Chiesa, ma il suo scritto non fece altro che suscitare polemiche: Tetzel contrappose alle tesi luterane delle sue tesi contrarie, il celebre teologo cattolico Eck lo accusò di sostenere le stesse tesi di Jan Hus, vale a dire la negazione dell’autorità del papa e dei concili. La Curia romana cercò di ridurre all’obbedienza Martin Lutero, ma invano; poi, nel luglio del 1518, papa Leone X decise di convocare il monaco a Roma. Lutero confermò nuovamente le proprie posizioni; il mese successivo Leone X optò di farlo convocare in Germania dal cardinale Caietano, suo inviato alla dieta imperiale di Augusta, con l’ordine di farlo incarcerare e mandarlo a Roma se avesse perseverato nella sua linea; se invece fosse stato contumace, di scomunicarlo. Accolse quindi in modo fiducioso le generiche promesse di sottomissione del monaco e attese fino al 1 giugno 1520 prima di condannare i punti fondamentali della sua dottrina (bolla Exurge Domine). A sua volta, il 10 dicembre, il teologo ribelle di Wittenberg bruciò in pubblico platealmente la bolla papale. Il pontefice Leone X rispose il 3 gennaio 1321 con la scomunica bolla Decet Romanum Ponteficem. Si stava prospettando la rottura definitiva fra il papato e il monaco,ma quando, il 25 maggio 1521, arrivò la promulgazione dell’editto imperiale di Worms con cui Carlo V poneva Lutero al bando dell’impero e ordinava la distruzione dei suoi scritti, il mondo germanico e del Nord Europa aveva già deciso di staccarsi dalla Chiesa Cattolica di Roma, e il monaco tedesco aveva già trovato rifugio presso il principe elettore Federico di Sassonia. Di fronte a questi avvenimenti, si capisce che papa Leone X non seppe affrontare in modo adatto questa meteora tedesca, soprattutto non seppe prevedere tutta la sua gravità, perché tutto il suo buon senso si perdeva in frivolezze e provinciali intrighi politici. Il mito della corte papale nacque quando il papa Leone X disse, salendo gli appartamenti vaticani, a suo fratello Giuliano: “Godiamoci il papato, perché Dio ce l’ha dato”, e difatti il pontificato del primo Medici fu per la città di Roma una festa continua: la città eterna divenne la patria di tutti gli eruditi e la cultura classica raggiunse l’apice. Questa sua predilezione verso gli intellettuali si era manifestata già dai tempi di quando era cardinale, infatti già allora teneva una piccola corte di letterati, di scienziati e di artisti. Egli stesso era poeta, musicista, archeologo e filosofo. D’ingegno versatile, cultura varia, animo sensibile ad ogni forma del bello, mancava però di profondità. A Roma, durante il suo pontificato, si tennero continue feste, nelle quali si mischiavano paganesimo e cristianesimo: mascherate carnevalesche, spettacoli di mitologia antica, storie romane rappresentate da magnifiche scene e dall’altra parte processioni, splendide feste di chiesa, rappresentazioni della passione nel colosseo, classiche declamazioni in Campidoglio e altre feste e discorsi nell’anniversario della fondazione di Roma. Ogni giorno si vedevano eleganti cavalcate di cardinali, cerimonie d’ingresso di ambasciatori e di principi con comitive così numerose che parevano eserciti. Papa Leone X, quando andava a caccia alla Magliana, a Palo, a Viterbo, con i falchi in pugno, si portava dietro tantissimi cani, molti servi, il seguito dei cardinali, degli oratori stranieri, uno stuolo di allegri poeti, senza contare il coacervo di baroni, di duchi, di principi. Il carnevale ufficiale di Roma, che nella città eterna era già tanto attraente, perse la sua importanza e divenne qualcosa di secondario di fronte alle quotidiane comparse dei cortei per le vie. Il cardinale Riario, per esempio, quando cavalcava per la città si faceva seguire da cento cavalli montati e bardati. Olimpicamente sereno e felice, il giovane pontefice guardava e godeva, seduto sul suo trono, la vita gaia e spassosa che si manifestava attorno. Questo papa fu un mondano elegante, un esteta, ma i suoi costumi furono moralmente virtuosi. Il suo cameriere Serafica, aveva il compito di introdurre negli appartamenti pontifici ogni tipo di buffone che avesse la capacità di sollazzare con motti e battute elaborate, mentre il poeta Duerno, vestito da Venere, intonava versi di diversi argomenti ovviamente tutti goderecci e contestualmente beveva come una spugna, per queste sue ridicole prestazioni il poetastro godeva di duecento ducati di provvigione e di centocinquanta fiorini di stipendio mensile, ma la cosa che più suscitava ilarità al papa era il fatto che questo poetastro cantava i versi seduto su uno sgabelletto basso, però il suo buffone preferito era frate Mariano, il quale diceva al suo signore “Viviamo babbo santo, che ogni cosa è burla”. Papa Leone X fece scalpore a Roma fin dall’inizio del suo pontificato con l’eleganza più vistosa, con la quale prese possesso della sua alta missione ricevuta da Dio. Indimenticabili furono le giornate del settembre 1513, in cui si celebrò la nomina a patrizi romani di Giuliano, fratello del papa, e di Lorenzo, nipote. Il piazzale del Campidoglio fu trasformato dall’architetto Pier Passello in un teatro pieno di statue e di pitture simboliche concernenti l’antica Roma. La festa si aprì con la celebrazione della Santa Messa su un apposito altare costruito nello stesso teatro. Alla festa di gala parteciparono circa quarantaquattro persone, tutte le posate e le suppellettili erano d’argento e d’oro; i tovaglioli erano piegati in modo che contenessero al loro interno uccelletti vivi di ogni tipo. Dopo che i vari commensali si furono lavate le mani con acque odorose, spiegarono i tovaglioli facendo così fuggire gli uccelletti, fra i quali vi era qualcuno addomesticato che saltava sulla tavola. Nel 1514 Leone X inaugurò il carnevale, partecipando ad una partita di caccia (di cui era appassionato dilettante) nei feudi del cardinale Farnese. Il papa, in abito da cacciatore, accompagnato da dodici cardinali e seguito da una serie di cortigiani e di letterati, il 10 gennaio uscì da Roma e si diresse verso Bracciano e Cassino, questa partita di caccia è stata riportata in poesia da vari poeti che nei loro versi ne diedero un’impronta mitologica. Gli artisti migliori del tempo furono mobilitati ad organizzare tutti gli anni le mascherate del carnevale, il pontefice si divertiva un mondo a vedere le corse dei polli, le lotte con i tori, anche see sovente qualcuno ci rimetteva la pelle. Per volere del pontefice questi giochi furono trasferiti dal quartiere Testaccio a Piazza San Pietro. La fama che ha fatto di Leone il più grande dei pontefici mecenati è eccessiva, egli infatti salì al pontificato quando Roma era già la patria di tutti gli intellettuali dell’Europa d’allora, ma forse il merito principale di Leone fu di aver dato un vigoroso impulso alla vita letteraria ed artistica di Roma. Papa Leone X amava molto l’oreficeria e la gioielleria, infatti le sue tiare, mitrie e pettorali erano tempestate di pietre preziose, rubini, zaffiri, diamanti e perle, e alla sua morte si calcolò che il pontefice aveva speso oltre duecentomila ducati per questa passione. Se la politica religiosa fu un vero disastro, nel corso dei nove anni di pontificato di Leone X fu tanto lo splendore a cui salirono le arti e le lettere italiane da essere uno dei papati più prolifici che la storia ricordi. Ciò che valse a rendere illustre questo papa e a farlo annoverare fra i grandi italiani, fu l’aver riunito intorno a sé e l’avere incoraggiato e protetto i maggiori ingegni dell’epoca. Basti ricordare Michelangelo, Raffaello, Bembo, Sodoletto, Sannazzaro, Castiglione, Guicciardini, Erasmo, Giuliano e Antonio da Sangallo, Sansovino, Peruzzi, Romano, più freddo verso l’Ariosto, ostile verso il Machiavelli. Il papa Leone X arricchì la biblioteca vaticana, restaurò e ampliò la biblioteca già voluta dal padre (detta appunto Laurenziana) dopo i saccheggi fatti dai seguaci di Savonarola: compito questo che avrebbe portato a termine il cugino Clemente VII incaricando dei lavori Michelangelo. A quest’ultimo commissionò la facciata di San Lorenzo a Firenze. Affidò a Raffaello la decorazione delle logge del Vaticano. Mandò dotti esploratori alla ricerca di preziose antichità, acquistò manoscritti latini che erano all’estero, contribuì allo sviluppo e alla diffusione della stampa, protesse e favorì la stamperia del Muzio. Istituì scuole e università che divennero famose per gli uomini che vi pose a insegnare. Creò un collegio per gli studi greci sotto la direzione di Giano Lascaris. Favorì gli studi di arabo ed ebraico ed ebbe come segretari i bravi umanisti quali Pietro Bembo, Jacopo Sadoleto e Angelo Colocci (che fu anche segretario apostolico). Bembo (a Roma dal 1512 al 1519) raccolse poi epistole e brevi papali, esempi del suo gusto ciceroniano, negli “Epistolarium Petri Bembi Cardinalis et Patricidi Veneti, nomine Leonix X Pontificis maximis scriptarum libri XVI”. Colocci fece della sua villa romana (detta anche Horti Colotiani) un importante luogo di elaborazione e diffusione dell’umanesimo romano dopo l’esperienza dell’Accademia Romana di Pomponio Leto. Su sollecitazione di Leone X Jacopo Sannazaro attese all’edizione del poemetto cristiano lungamente elaborato “De portu Virginis” e Marco Girolamo Vida diede inizio alla “Cristias”, un poema sulla vita e la passione di Cristo, che completò tuttavia soltanto nel 1527, sotto il pontificato di Clemente VII. In questa vera e propria “età dell’oro” delle arti giunse a maturazione quel linguaggio antichizzante e classicista su cui si erano esercitati gli umanisti quattrocenteschi, e che cominciò davvero ad affermarsi come strumento di comunicazione universale. Non fu da meno la passione architettonica: sotto il pontificato di Leone X Raffaello progettò Palazzo Branconio dall’Aquila e poi Palazzo Vidoni Caffarelli; Antonio da San Gallo elaborò, in Palazzo Baldassini, nuove proposte tipologiche di derivazione antiquaria che poi trovarono applicazione anche al momento della costruzione di Palazzo Farnese, in via Giulia, mentre in Palazzo Alberini Cacciaporci e in Palazzo Maccaroni, Giulio Romano mise a punto ulteriori varianti tipologiche dello stesso segno. Baldassarre Peruzzi realizzò la residenza suburbana di Agostino Chigi alla Lungara (la Farnesina) che può ben dirsi il luogo dove, anche grazie al determinante appoggio decorativo di Raffaello, forse più che in altri si raggiunse quell’auspicata “unione delle arti” che ne fa ancor oggi uno degli edifici più rappresentativi e ben conservati dell’epoca. La passione antiquaria di Leone X portò questo insigne mecenate a prendere dei provvedimenti al fine di salvaguardare e conservare il patrimonio monumentale antico della città di Roma, minacciato dalle attività edilizie più disparate; per questa sua passione e amore per l’antico nominò Raffaello sovrintendente dei Magistri Viarum , con mansioni di ispettore generale del patrimonio. Raffaello svolse per il papa anche la funzione di architetto della fabbrica di San Pietro, proponendo per la chiesa un progetto a pianta longitudinale che risentiva di stilemi bramanteschi ed elaborando un’idea di nuova piazza rettangolare dominata al centro dalla presenza di un alto obelisco (1514). Per il cardinale Giulio de’ Medici l’Urbinate progettò inoltre la Villa Madama a Monte Mario, realizzata solo in parte, che venne esemplata esplicitamente sul modello della villa pliniana di Tusci e rappresenta una delle più complesse opere architettoniche realizzate attingendo elementi compositivi derivati dal vocabolario progettuale dell’antichità. La presenza di Antonio da Sangallo in qualità di assistente di Raffaello in questi due ultimi cantieri ricorda l’alta considerazione che di lui ebbe il papa il quale lo impiegò anche in progetti più direttamente collegati alla sua persona, come nel caso della complessa opera di riprogettazione di piazza Navona e adiacenze per dare forma ad una vera e propria “cittadella medicea” nell’area più rappresentativa dell’antico Campo Marzio. Nelle intenzioni del pontefice l’area tra il Pantheon e piazza Navona avrebbe dovuto accogliere un’enorme residenza papale (dapprima progettata da Giuliano da Sangallo nel 1513 e poi da Antonio da Sangallo), oltre ad altre funzioni direzionali. La facciata del palazzo si sarebbe proiettata sulla piazza, che veniva così ad essere a sua volta l’emanazione fisica del potere papale e principesco dei Medici. Se questo progetto urbanistico sfumò altri non meno importanti vennero realizzati. La fama di Leone X si diffuse ovunque e il fatto che il suo pontificato coincise con l’apogeo del Rinascimento ha spinto alcuni storici e letterati a chiamare quel periodo con il nome di “papa Medici”. Dopo aver da poco elevato Carlo V a difensore della fede cattolica contro il luteranesimo dilagante, una volta aver visto ritornare Milano nella mani degli Sforza, assicurate allo stato pontificio Parma e Piacenza, il papa Leone X morì improvvisamente il 1 dicembre 1521. La sua inaspettata scomparsa a soli 46 anni, dopo solo otto anni di pontificato, fece pensare che fosse stato avvelenato; per questo motivo fu arrestato il suo coppiere Bernabò Malaspina. Il maestro delle cerimonie di corte, Paride de Grassis, insistette presso i medici per l’autopsia, ma non se ne fece nulla e tutto fu messo a tacere. La voce che parlò invece come sempre, fu quella di Pasquino, che tra sarcasmo e maldicenza così salutava il papa mediceo: “Di certo la continua ebbrezza intellettuale e materiale (non sono poche le testimonianze intorno ad una sua presunta omosessualità) in cui visse questo papa fece coincidere la sua volontà di vita con la voglia di vivere del suo tempo.” Il suo desiderio di godere la vita e di evitare grandi responsabilità gli fece tollerare scandali di prelati e cortigiani, lo indusse a creare cardinali indegni, per brama di appoggi e ricchezze, senza rendersi conto che ormai l’unità cristiana dell’Europa era definitivamente compromessa. Floscio e obeso come lo dipinge Sebastiano da Piombo, ci appare idealizzato in una placida signorilità nel famoso ritratto di Raffaello (oggi ammirabile nella galleria di Palazzo Pitti a Firenze). Papa Leone X dava banchetti sontuosi alla corte, ma il suo era sobrio e parco: al mercoledì non prendeva carni, al venerdì si cibava soltanto di legumi e di erbaggi; il sabato era giorno di digiuno, pare che non bevesse vino, il giovedì voleva sempre sentir discutere di lettere ed anche di questioni religiose. Fu sepolto provvisoriamente in San Pietro, fu poi trasferito nel suo mausoleo, disegnato dal Sangallo, in Santa Maria sopra Minerva. Papa Adriano VI (1522 – 1523) fu uno dei pochi papi che in quel periodo combatté la piaga del nepotismo, è giusto parlare dei pontefici che combatterono questo maledetto cancro, sennò sembra che io lancio solo fango ai papi di quell’epoca, anche se mi viene il sospetto che quelli che osteggiarono quella triste perversione che va sotto il nome di nepotismo furono avvelenati, perché i loro pontificati furono delle brevi meteore. La successione di Leone X fu caratterizzata da un notevole lavoro diplomatico anche per l’inserimento sulla scena politica di Enrico VIII re d’Inghilterra. Carlo V, al fine di evitare che il nuovo pontefice potesse adottare la stessa politica ambigua del suo predecessore, perorò la candidatura del cardinale Giulio de’ Medici, persona che riteneva a sé fedele, ma questa candidatura non fu ben accolta dal re di Francia. Il conclave si aprì il 27 dicembre 1521 e l’attività del Sacro Collegio terminò dopo tredici giorni, allorquando lo stesso cardinale Giulio de’ Medici, benché candidato, al fine di superare il voto del sovrano francese e di altri, propose l’elezione di Adrian Florensz, fiammingo di Utrecht, vescovo di Tortosa, cittadina spagnola a metà strada tra Barcellona e Valencia. Nonostante fosse straniero e neppure presente in conclave, fu accettato da Sacro Collegio e il 9 gennaio 1522 fu eletto papa con grande compiacimento di Carlo V del quale il nuovo pontefice era stato precettore. Egli ipotizzava di poter creare con lui un rapporto privilegiato se non addirittura una rapida alleanza. Adriano aveva 63 anni, era un uomo di umili origini ma laureato all’università di Lovanio, si esprimeva in latino perché non conosceva l’italiano, non per niente era stato scelto dall’imperatore Massimiliano quale precettore del nipote Carlo, futuro re e imperatore. La sua rettitudine morale era senza dubbio assoluta, infatti egli la espresse da subito, affermando che lui prendeva possesso dell’alta carica spirituale per volere del Signore. L’imperatore Carlo V, il re di Francia e il re d’Inghilterra Enrico VIII tentarono in tutti i modi di avere dalla loro parte il pontefice, ma nessuno riuscì a realizzare il proprio fine. Il neoeletto temporeggiò molto in Spagna prima di raggiungere Roma, e appena insidiato sul trono di San Pietro fece subito capire che lui intendeva mantenere la sua neutralità in quanto si considerava capo della Chiesa Universale cattolica, quindi pastore di tutti i cristiani. Improntò la politica del suo pontificato al più alto rigore morale, facendo della corte vaticana una specie di monastero con una gestione economica estremamente rigorosa. Per esempio la cerimonia dell’incoronazione ufficiale al soglio pontificio fu molto semplice e austera. Il rapporto tra l’imperatore e il papa si rivelò subito molto arduo e pieno d’incomprensioni, infatti mentre Carlo V cercava di screditare l’immagine di Francesco I, re di Francia, il pontefice si prodigava per creare un’alleanza fra i molti sovrani europei al fine di combattere il nemico comune che era rappresentato dall’impero ottomano e che egli considerava il vero nemico dell’Europa cristiana. Concesse a Carlo V di poter riunire nella sua persona il titolo di Gran Maestro dei tre ordini cavallereschi di Santiago, Alcantara e Colatrava, con conseguente enorme potere di controllo politico ed economico su tutta la Spagna. Il re di Francia, invece, all’indomani della elezione di Adriano, visto che non riusciva nello scopo di stringere un’alleanza preferenziale con il pontefice, assunse comportamenti e iniziative tali da entrare in contrasto con la Santa Sede. Si ostinò a non riconoscere Adriano come papa solo perché era stato precettore di Carlo d’Asburgo, minacciò d’impedire la raccolta delle decime a favore della Chiesa di Roma, infine cominciò a tessere una losca trama con la curia romana, avente come scopo un’ipotetica riconquista del Regno di Napoli, considerandosi erede dei vecchi possedimenti angioini finiti nelle mani degli aragonesi. Questi comportamenti di Francesco I, tutt’altro che concilianti, indussero il papa a schierarsi palesemente con l’imperatore Carlo V. Nei mesi di luglio e agosto del 1523 si formò una grande coalizione antifrancese, tra Carlo V, Enrico VIII d’Inghilterra, Ferdinando d’Asburgo, il papa, Venezia, Firenze, Genova e Milano, che entrò in guerra quando Francesco I invase l’Italia. Papa Adriano VI non vide i frutti di questa alleanza, perché una malattia lo condusse rapidamente a morte il 14 settembre 1523. Il conclave che si aprì verso la fine di settembre del 1523 era destinato a durare a lungo perché non si erano placate ancora le dispute del conclave precedente. Il candidato che aveva ottime possibilità di essere eletto papa era il cardinale Giulio de’ Medici, fiorentino, grande elettore di papa Adriano. In antitesi vi era la candidatura di Alessandro Farnese, appoggiato da tutto il gruppo dei cardinali francesi, convinti, questa volta, di non lasciarsi sfuggire l’elezione di un papa favorevole a Francesco I. Ma all’interno del Sacro Collegio esisteva una terza componente che faceva capo alla famiglia di Pompeo Colonna, in antitesi alla famiglia de’ Medici. Il cardinale Farnese e Giulio de’ Medici riuscirono a trovare un accordo per cui quest’ultimo fu eletto il 19 novembre 1523, cinquanta giorni dopo l’apertura del conclave e fu incoronato il successivo 26 novembre con il nome di Clemente VII (1523-1534), all’età di 45 anni. A differenza del cugino suo predecessore, Giulio aveva dato prova, negli anni passati, di grandi doti diplomatiche e ragguardevoli conoscenze di sana politica economica, bene operando all’interno della cancelleria vaticana. La prima iniziativa del nuovo papa fu quella di rendersi promotore di una pace universale. A tal fine inviò come ambasciatore alle corti di Spagna, Inghilterra e Francia, l’arcivescovo di Capua, Nicolò Schomberg, ma la missione non ebbe buon esito. Dopo pochi mesi dall’elezione di Clemente VII, nel 1524, Francesco I di Francia riprese le ostilità contro l’imperatore e conquistò nuovamente il milanese, Parma e Piacenza e pose sotto feroce assedio la città di Pavia, dando l’impressione che la guerra stesse volgendo definitivamente a favore dei francesi. Clemente VII, che aveva ereditato l’alleanza con Carlo V dal suo predecessore Adriano VI, si convinse che l’imperatore fosse sul punto di essere sconfitto definitivamente e per non essere travolto, rischiando una nuova perdita della signoria di Firenze e della Toscana da parte dei Medici, effettuò nel 1525 un rovesciamento di alleanza, offrendo il suo appoggio al re di Francia e ricevendo in cambio la restituzione delle città di Parma e Piacenza e la garanzia del ripristino della signoria dei Medici in Toscana, dopo la cacciata del 1498. Francesco I avrebbe ottenuto anche il diritto di passaggio per le proprie truppe attraverso lo Stato Pontificio, per poter raggiungere Napoli e tentarne la riconquista, ma il lungo assedio alla città di Pavia costò la sconfitta al re di Francia, il quale fu addirittura catturato e portato prigioniero a Madrid, mentre l’esercito francese fu pressoché annientato. Clemente VII, sbalordito dalla inaspettata sconfitta dell’alleato francese e temendo la vendetta dell’imperatore Carlo V optò per un altro cambiamento di alleanza, cercando di passare nuovamente nel campo degli imperiali. Era palese, però, che una trattativa diretta con Carlo V era non ipotizzabile, così cercò di superare l’ostacolo in modo indiretto, stringendo alleanza con il viceré di Napoli, Consalvo di Cordova, e il Gran Capitano, al quale propose il riconoscimento da parte della Santa Sede delle pretese imperiali sul ducato di Milano in cambio della tutela della difesa dei diritti dello Stato Pontificio e dei Medici su Firenze. L’alleanza, però, avrebbe dovuto essere ratificata dall’imperatore entro quattro mesi, cosa che non avvenne a causa della poca fiducia di Carlo V verso il pontefice, che non aveva rispettato le alleanze e quindi veniva considerato una persona inaffidabile, che usava la sua carica del soglio di San Pietro per proteggere i suoi interessi e quelli della sua famiglia. Nei mesi successivi a questa profferta del papa, mentre il pontefice cercava di convincere l’imperatore a ratificare gli accordi, si aprì una trama segreta tra la curia romana e Francesco I, prigioniero a Madrid, per la creazione di una nuova alleanza contro Carlo V. Questo convinse il re francese ad accettare, nel gennaio 1526, l’umiliante pace di Madrid, pur di rientrare in Francia e riprendere le ostilità. Nella tarda primavera del 1526, mentre Carlo V mandava i suoi ambasciatori a suggellare l’alleanza con il pontefice, in base alle offerte fattegli pervenire dallo stesso papa l’anno precedente, Clemente VII cominciò ad orientarsi nella direzione opposta, dando la propria adesione alla nuova alleanza che Francesco I costituì attraverso la Lega di Cognac, assieme alla Repubblica di Venezia, il ducato di Milano e Firenze. Clemente VII era convinto che se Carlo V, già padrone dell’Italia meridionale, avesse conquistato anche l’Italia settentrionale, avrebbe messo a repentaglio l’esistenza stessa dello Stato Pontificio. In altri termini la sopravvivenza dello Stato della Chiesa era legata ad una concezione dell’Italia divisa in almeno tre entità politiche, con lo Stato della Chiesa nel mezzo e le altre due sotto il controllo di stati diversi. Ovviamente non fu questa la motivazione addotta dal papa alla richiesta dell’imperatore di una spiegazione circa l’ennesimo rovesciamento di alleanza. Contemporaneamente a questi avvenimenti si verificò un conflitto all’interno della curia romana tra il cardinale Pompeo Colonna, filoimperiale, e il papa. Il Colonna iniziò una guerra contro il papa all’interno delle mura vaticane, apparentemente per rivalersi della sconfitta subita in conclave. In effetti l’azione armata era sobillata dall’imperatore per convincere il pontefice a chiedere il suo aiuto e quindi a stipulare un’alleanza con lui contro il re di Francia. All’inizio il papa stava perdendo e chiese effettivamente l’appoggio dell’imperatore per fermare il suo alleato, ma in seguito, con una velocità estrema, sorretto dai francesi intervenuti tempestivamente prima di Carlo e su richiesta proprio del pontefice, sconfisse il Colonna e lo spogliò di tutte le sue cariche. A questo punto Clemente VII, avendo sconfitto militarmente un cardinale filoimperiale, per giunta con l’aiuto degli avversari storici dell’imperatore, dovette per forza schierarsi apertamente con il re di Francia. Questo comportamento fu interpretato come un’offesa per l’imperatore, il quale, infuriato per questo ennesimo rovesciamento di alleanza, reagì violentemente adottando due decisioni importanti. La prima, nella Dieta di Spira, dove concesse pari dignità a tutte le confessioni religiose, annullando i precedenti provvedimenti restrittivi adottati nella Dieta di Worms del 1521; la seconda mandando contro Roma un contingente di “lanzichenecchi”, mercenari germanici, in maggioranza protestanti-luterani al comando di Georg Von Frundsberg, facendo nascere per la prima volta un conflitto armato tra Carlo V e la Chiesa di Roma. Nel maggio 1527 le squadracce germaniche entrarono in Roma e la misero a ferro e fuoco per molte settimane provocando distruzione, morte e devastazione: i lanzichenecchi si scatenarono contro tutto e tutti, infuriati perché non ricevevano lo stipendio da mesi e senza comando, poiché il loro capo Frundsberg era ritornato in Germania per motivi di salute. Questo avvenimento, noto come il “sacco di Roma” suscitò sconcerto in tutto il mondo e da esso persino Carlo V prese le distanze. Il primo attacco fu respinto dai difensori di Renzo de’ Ceri che disponeva di quattromila uomini, in maggioranza servi e popolani, al secondo attacco il principe Borbone che comandava questa teppaglia mercenaria partecipò personalmente all’attacco delle mura di Roma, ma fu colpito in fronte mentre stava salendo la scala che aveva tolto ad un suo soldato e cadde morente, ma ordinò di coprire il suo capo con un lenzuolo. I lanzichenecchi entrati nelle mura dilagarono in città massacrando tutti quelli che incontravano sul loro cammino, i Vandali, gli Ostrogoti e i Saraceni furono meno feroci. Questi mercenari spagnoli, tedeschi e italiani rinnegati cercavano l’oro e l’argento, quindi ogni casa fu saccheggiata e data alle fiamme, le donne e le vergini furono violentate e uccise. Un cronista del tempo descrisse i Lanzichenecchi come uomini crepuscolari e brutali, rivestiti di abiti di seta ricamati; con catenelle d’oro al collo, pietre preziose e anelli intrecciati nella barba, col viso annerito dal fumo, camminavano ubriachi per la città, conciati in modo goffo. Poiché molti erano luterani, presero l’occasione per coprire di scherno e d’onta la Chiesa, infatti con rossi cappelli cardinalizi in testa, rivestiti di abiti sacri, passeggiavano su asini per le vie abbandonandosi ad ogni pazzesco dileggio. Un capitano bavarese travestito da abiti papali si faceva baciare i piedi e le mani dai soldati mascherati da cardinali, aspergendoli con una scopa che intingeva in un secchio di vino. La soldataglia al suono dei tamburi e di pifferi passò alla città Leonina, ove con grida indiavolate fu invocato papa Martin Lutero e qualcuno di questi mercenari urlava dicendo che voleva mangiare un pezzo di papa. Le chiese furono saccheggiate e le varie tombe dei pontefici depredate, San Pietro divenne un bivacco, molte opere d’arte andarono distrutte come molti quadri di Raffaello, le suore vennero uccise o violentate, i preti passati con la lama, venduti, obbligati a servire i lanzichenecchi indossando abiti da donna. Il papa e la sua corte, rifugiatisi a Castel Sant’Angelo, osservavano la distruzione della città eterna. Il sacco di Roma del 1527 fu davvero il diluvio che lavò la città dei pontefici dalle turpitudini dell’umanesimo paganeggiante, e segnò la rinascita cattolica. Quando cadde Castel Sant’Angelo gli imperiali catturarono il pontefice e lo tennero prigioniero per sette mesi. Clemente VII dovette pagare un riscatto di ben 70.000 ducati d’oro, e una volta libero si rifugiò prima ad Orvieto e poi a Viterbo. Rientrò a Roma soltanto nel mese di ottobre del 1528, ma trovò la città completamente devastata e distrutta. Il pontefice, dopo la prova di forza, fu di fatto costretto a stipulare un’alleanza con l’imperatore, anziché con il re di Francia. Due cose lo convinsero, la promessa di non convocare subito il Concilio sulla questione luterana, e quella di un aiuto militare per liberare Firenze dalla repubblica che si era insediata contemporaneamente ai fatti concernenti il sacco di Roma (la cosiddetta terza cacciata dei Medici). Furono questi avvenimenti storici che indussero Clemente VII a concludere a Barcellona un trattato con l’imperatore Carlo V, il papa si vide riconosciuto il possesso della Romagna, nonché i ducati di Modena e Reggio, in cambio l’imperatore ricevette l’investitura del Regno di Napoli. Il 22 febbraio 1530, a Bologna, Carlo V fu incoronato re d’Italia con la corona ferrea dei re longobardi e due giorni dopo fu incoronato anche imperatore. Questa fittizia pacificazione aveva imposto a Carlo V di tenere un comportamento armonioso e conciliante sia con la Chiesa di Roma che con la Chiesa riformata, ma nonostante la pace i rapporti fra papa Clemente VII e Carlo V furono sempre caratterizzati da reciproca diffidenza e scarsa fiducia. L’avvicinamento di Clemente VII a Francesco I continuò, infatti la sua pronipote Caterina de’ Medici andò in sposa ad Enrico d’Orleans, secondogenito di Francesco I, ma questo fu un gravissimo errore di calcolo politico, perché l’allontanamento da Carlo V fece avanzare il protestantesimo in molti stati europei. Un altro problema che colpì il pontificato di papa Clemente VII fu lo scisma d’Inghilterra. Il re inglese Enrico VIII, per appagare i suoi appetiti sessuali, ripudiò la moglie Caterina d’Aragona, sposata per motivi politici, perché la cortigiana Anna Bolena non gli si sarebbe concessa se egli non l’avesse sposata. A Roma, Clemente VII, nel concistoro pubblico del 23 marzo 1534, dichiarò valido il matrimonio con Caterina, e impose al re di riprendersi la legittima sposa, pena la scomunica per pubblico adulterio se non l’avesse fatto. Enrico VIII reagì abolendo l’autorità della Santa Sede in Inghilterra e nell’Irlanda, e si proclamò capo supremo della Chiesa Anglicana. Il parlamento inglese approvò la deliberazione, riconoscendo nel re non solo il capo dello stato, ma anche il capo della religione nazionale quale vicario di Cristo nelle terre inglesi. Clemente VII morì il 25 settembre 1534 a 56 anni. Sotto il suo pontificato migliaia di protestanti “anabattisti” furono fatti decapitare, ardere vivi, annegare e torturare a morte. Si racconta che nel letto di morte Clemente VII disse che se il pontificato si fosse conferito per eredità lo avrebbe dato al cardinale Farnese, e infatti fu proprio il cardinale Alessandro Farnese ad essere eletto suo successore. La felicità dei romani fu enorme, dopo 103 anni vedevano finalmente un loro cittadino salire sul soglio di San Pietro. Egli fu eletto papa a 67 anni ed assunse il nome di Paolo III (1534-1549). Venne incoronato il 3 novembre, ma prese possesso del soglio pontificio soltanto l’11 aprile 1535 con una solenne cerimonia che si svolse nella basilica lateranense. L’illustre famiglia Farnese aveva avuto una forte ascesa sociale con papa Alessandro VI, anche grazie alla passione del cardinale Rodrigo Borgia per la sorella di Alessandro, Giulia, soprannominata “la Bella”. Quando Rodrigo divenne papa nominò cardinale Alessandro Farnese il quale migliorò la propria posizione grazie alla sua abilità politica ed alla sua grande cultura. Prima di prendere la porpora cardinalizia Alessandro aveva sposato un’aristocratica che gli aveva dato dei figli, però lui ne legittimò solo due: Pierluigi e Paolo, nel 1505; la storia ricorda anche la figlia Costanza. Nel 1513 il cardinale Farnese troncò ogni aspetto galante e godereccio della vita e così anche le sue relazioni amorose, e si dedicò interamente alla Chiesa. Si ricorda anche per aver cambiato il nome da “Santa Inquisizione” con la denominazione “Sacra congregazione della romana e universale inquisizione o Sant’Uffizio”. Papa Farnese fu un grande nepotista: Alessandro e Ranunzio, i figli del suo figlio prediletto Pierluigi, furono fatti cardinali; di quelli della figlia Costanza, sposata a Bosio Sforza, conte di Santa Fiora, creò cardinale Guido Ascanio. Il cardinale nipote Alessandro (1514-1589) fu nominato diacono di Sant’Angelo il 18 dicembre 1534. Egli fu ambasciatore presso la corte di Francesco I re di Francia e dell’imperatore il quale si augurava che tutto il collegio cardinalizio si componesse di simili uomini, in seguito Alessandro ebbe diversi episcopati in Italia e Francia e in ciascuna sede le sue virtù e la sua generosità rimasero indelebili. Il suo palazzo era un ritrovo di sapienza e di fermento culturale: dalla sua abitazione uscirono molti vescovi, cardinali e pontefici. Lui continuava a studiare ed a leggere senza tralasciare i doveri del suo ministero e ripeteva spesso che non sopportava non solo un soldato vigliacco, ma neanche un ecclesiastico ignorante. Il cardinale nipote Alessandro spese immense fortune in opere edilizie di grande rilevanza, condusse a termine il palazzo della sua casata (che ancora oggi porta il nome di Palazzo Farnese), fece costruire molte chiese, fra le quali la più famosa è la Chiesa del Gesù. Non meno capace del cardinale Alessandro fu il fratello Ranuzio (1530-1565) che morì prematuramente a Parma. Egli fu un cardinale nipote virtuoso, intelligente ed abile, e condusse egregiamente gli arcivescovadi di Napoli, di Ravenna e di Bologna; di carattere mite e caritatevole, meritò i più grandi elogi da papa Pio IV e da San Carlo Borromeo. Guido Ascanio Sforza, detto comunemente cardinale di Santa Fiora (1518-1564), fu elevato cardinale all’età di sedici anni assieme al cugino Alessandro Farnese, divenne in seguito vescovo di Parma e amministratore di diverse chiese, nonché arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore: qui fece erigere, su disegno del Buonarroti, la Cappella dell’Assunta, che fu denominata Sforza. A beneficio della fabbrica della stessa basilica, rinunciò, con il consenso del papa, alla prebenda di Santa Prudenziana, che gli produceva un reddito annuale di trecento ducati d’oro. Il cardinale Ascanio Sforza fu nominato da papa Paolo III Camerlengo di Santa Romana Chiesa, anche se la sua fortuna si oscurò quando divenne papa Paolo IV, essendosi egli nel conclave posto contro il Carafa, il quale aveva posizioni politiche in antitesi alla famiglia Sforza. Una spiccata intelligenza dimostrò Tiberio Crespi (1497-1566), figlio di Vincenzo, fratellastro di Costanza Farnese, che fu creato cardinale nel 1544 da Paolo III. Il pontefice diede molte onorificenze e benefici a tanti dei suoi parenti, ma il grande nepotismo si espresse con il figlio prediletto Pierluigi, infatti papa Paolo III cercò di dargli un proprio ducato, dal momento che non era riuscito a fargli avere da Carlo V il ducato di Milano dopo la morte di Francesco II Sforza. Il fine di Paolo III era di elevare la propria famiglia al grado delle famiglie sovrane (come aveva cercato di fare il papa Alessandro VI per suo figlio Valentino, per il quale aveva quasi creato un regno). Paolo III incominciò a formare un piccolo ducato con capitale Castro nello stato pontificio e nel 1537 lo infeudò al figlio prediletto Pierluigi ed ai suoi discendenti. Il papa vi aggiunse anche il governo perpetuo di Nepi e la contea di Ronciglione e Caprarola. Nel 1545 Paolo III staccò dai domini ecclesiastici le città di Parma, Piacenza e Guastalla, ne formò un ducato, e ne concesse l’investitura, con l’onere di un canone annuo verso la camera apostolica, a Pierluigi. Questi si dimostrò un governante incapace e scellerato, odiato dal popolo e dai nobili, tanto che contro di lui fu ordita una congiura e fu ucciso a pugnalate. Questo omicidio ebbe il consenso dell’imperatore Carlo V, dato che il duca Pierluigi Farnese parteggiava per la Francia. Mentre Francesco Gonzaga si stava muovendo da Milano per impadronirsi del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, il figlio Ottavio Farnese riuscì a proclamarsi duca di Parma, quindi successore del padre assassinato, mentre la città di Piacenza rimase di Ferrante I Gonzaga. Il nipote Ottavio Farnese fu dato in sposo a Margherita d’Austria, figlia di Carlo V, già maritata con Alessandro de’ Medici (morto anche lui per una congiura organizzata da suo cugino Lorenzino de’ Medici), grazie all’opera mediatrice di Paolo III che convinse l’imperatore Carlo V a concedere la mano di sua figlia. Ella non riteneva Ottavio al suo livello, dato che era principessa di sangue reale, addirittura si rifiutò di vivere con lui, nonostante le trattative intercorse fra Carlo V e papa Paolo III addoloratissimo di queste incomprensioni. Margherita d’Austria ebbe due gemelli dall’odiato Ottavio Farnese, ma non si piegò mai totalmente al volere del marito. Ella fu certamente una donna di non comuni doti, come dimostrò governando le Fiandre con spiccata intelligenza e animo virile. Durante il pontificato del Farnese non cessarono mai a Roma i divertimenti carnevaleschi, e lo stesso pontefice vi partecipava, in particolar modo nei primi anni. Possiamo dire che il pontificato di Paolo III rappresentò il passaggio da periodo del Rinascimento a quello della Restaurazione cattolica. Il Conclave che doveva eleggere il successore di Paolo III si aprì il 29 novembre 1549. Vi parteciparono 47 cardinali che erano suddivisi, come prevedibile, in due schieramenti: uno favorevole al re di Francia e l’altro favorevole all’imperatore. Sul trono di Francia sedeva in quel momento Enrico II, figlio di Francesco I, che era morto nel 1547. Le trattative furono molto laboriose, protraendosi lungamente e dopo oltre due mesi, l’8 febbraio 1550, fu eletto il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, romano di 63 anni che assunse il nome di Giulio III (1550-1555). Papa Giulio III aveva un carattere debole e non seppe resistere alle pressioni dei parenti che lo importunavano in continuazione per ottenere favori e protezioni. Dapprima resistette, ma poi divenne accondiscendente, per quanto non sia arrivato al grande nepotismo di Paolo III; i suoi protetti non ottennero grandi posizioni politiche, né poterono esercitare in quel campo una grande influenza. Un intenso affetto lo legava al fratello maggiore, Baldovino, che ebbe alloggio negli appartamenti pontifici. Nel 1550 egli fu nominato governatore di Spoleto, e da Cosimo de’ Medici ottenne in feudo la contea di Monte San Savino, di recente formazione. Dei figli maschi di Baldovino rimase in vita solamente Giovanni Battista, che ebbe dallo zio il governo di Fermo e Nepi, e fu nominato Gonfaloniere della Chiesa. Il nipote era tutto per il mestiere delle armi e incontrò la morte il 14 aprile 1552 all’assedio di Mirandola. Giovanni Battista era senza prole e quindi la casata si estinse nel ramo maschile. Giulio III suggerì al fratello di adottare come figlio Fabiano, il quale era un figlio naturale dello stesso Baldovino, così tutte le tenerezze papali si riversarono sopra di questo giovine. Per ingraziarsi il pontefice, Cosimo de’ Medici diede in sposa la propria figlia Lucrezia a Fabiano; il pontefice acconsentì, ma non permise che questo matrimonio assumesse una connotazione politica. Tra i figli delle due sorelle, Giulio III creò due cardinali, i quali non fecero disonore né allo zio né alla porpora, non così invece Fabiano che assunse il nome di Innocenzo del Monte quando fu adottato da Baldovino. Appena Giulio III divenne papa ricoprì il giovine Fabiano di maggiori dignità e delle più laute prebende, questo giovane però portò scandalo per il suo comportamento licenzioso e nonostante tutti sconsigliassero il papa, egli elevò Innocenzo alla porpora cardinalizia a soli diciassette anni. I nemici di Giulio III lo accusarono di essere una persona avida e accecata dal nepotismo più estremo. Il giovane cardinale Innocenzo del Monte con i suoi facili costumi e la sua vita scandalosa creò non poco imbarazzo al suo zio pontefice , era soprannominato in senso dispregiativo scimmia. Il cardinale Pallavicino raccontò di una rissa del cardinale Montino (così fu anche chiamato Innocenzo del Monte), a causa di una famosa cortigiana durante un banchetto in casa di Andrea Lanfranchi, segretario del Duca di Paliano, il primo gennaio 1559. Dopo alcuni mesi dal litigio, Innocenzo del Monte uccise due persone, padre e figlio, per cui il pontefice Pio IV lo fece rinchiudere nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Appena uscì di prigione non solo continuò, ma addirittura accentuò la sua vita malavitosa, allora il pontefice Pio IV gli tolse tutte le rendite e lo mandò in esilio a Tivoli, con un assegno annuo di mille scudi, molto misero per il suo stile di vita. Neanche questo bastò a fermarlo e, continuando il suo stile di vita dissoluto, fu fatto rinchiudere a Montecassino dal papa, e appena finì l’esilio obbligato tornò a Roma, dove si rese odioso e disprezzato da tutti. Morì nel 1577, a 46 anni, in modo molto disonorevole e fu sepolto nella chiesa di San Pietro in Montorio. Alla morte di papa Giulio III fu eletto Marcello II, nato Marcello Cervini degli Spannocchi. Il suo pontificato durò solamente venti giorni (dal 9 aprile 1555 al 1 maggio 1555); la sua vita fu umile e devota solamente a Dio, egli stabilì che la corte papale dovesse vivere senza lusso e rincorrere la povertà, per questo fece togliere dalla tavola tutto il vasellame d’oro e d’argento. Partecipò con convinta umiltà alle funzioni della settimana santa, infatti si recò a piedi alle funzioni di questo evento religioso, così pure fece per raggiungere San Pietro. Aveva una parentela numerosa ma non volle assolutamente macchiarsi di nepotismo. Fece scrivere ai suoi parenti di Montepulciano di non venire a Roma per pretendere favori, benefici, titoli o prebende, dato che lui in primis era servo del Signore e i beni della Chiesa, i suoi congiunti non dovevano neanche annusarli. Ad esempio, un figlio di una sua sorella, residente in Orvieto, venne a Roma pieno di speranze per poter migliorare la sua posizione sociale, ma lo zio papa non gli concesse udienza e lo invitò a ritornare alla sua città. Da papa Adriano VI in poi nessun papa si era mostrato così deciso a contrastare la piaga bestiale e infernale del nepotismo, perciò rendo omaggio a papa Marcello II che combatté questo maledetto cancro. Papa Marcello II non acconsentì a suo fratello di trasferirsi a Roma e neanche ai due nipoti quindicenni, pur essendo di ottimi costumi e amanti dello studio. Amante della pace, della mitezza e interprete del vero pensiero cristiano, pensò di abolire la guardia svizzera, ma la morte lo raggiunse dopo pochi giorni dal suo magistero. Si dice che sia morto di morte naturale, ma l’autopsia non venne mai fatta, pare che avesse una piaga segreta in una gamba. Il 23 maggio 1555 fu eletto pontefice Gian Pietro Carafa, settantanovenne campano di nobile famiglia, Decano del Sacro Collegio, con il nome di Paolo IV (1555-1559). La sua elezione fu molto osteggiata da Carlo V in quanto il Carafa odiava l’imperatore, in particolare disprezzava gli spagnoli che aveva conosciuto quando ricopriva l’incarico di cappellano maggiore presso la corte di Ferdinando il Cattolico. Considerava gli spagnoli eretici e scismatici, nonostante loro esprimessero un cattolicesimo fortissimo, solo perché aveva la convinzione che nel popolo iberico vi fosse una mescolanza di sangue giudeo e moresco. Dubitava di Carlo V e della sua fedeltà alla Santa Romana Chiesa, probabilmente ricordava lo scempio malvagio perpetrato nei confronti della città di Roma da parte dei lanzichenecchi al soldo del cattolicissimo imperatore. Gian Pietro Carafa all’età di sessant’anni era stato nominato cardinale da Paolo III, che gli aveva affidato l’arcivescovado di Napoli, ma non poté assolvere a questo incarico per la tenace opposizione di Carlo V a cui Napoli apparteneva essendo possedimento spagnolo. Avendo agito sempre con intransigenza all’interno del Santo Uffizio, l’organo preposto a prevenire e reprimere ogni eventuale manifestazione eretica, molti erano entusiasti di lui e pensavano che si fosse occupato di riformare la Chiesa al fine di poter riunificare tutto l’Occidente cristiano, ma il suo interesse si rivolse alla politica, infatti egli era propugnatore del concetto del papa-re, verso il quale anche l’autorità imperiale doveva inchinarsi, inoltre si proponeva di scacciare gli spagnoli dal suolo d’Italia, per poterla unire. Fu un buon nepotista, si affidò alla guida di suo nipote Carlo Carafa, un avventuriero spregiudicato che fu nominato dallo zio non solo cardinale, ma anche segretario di stato. Carlo Carafa organizzò false trame contro il papa attribuendone la responsabilità ai Colonna e al cardinale di Santa Fiora Ascanio Sforza, tutti filoimperiali. Il papa, indotto in errore dal nipote, fece incarcerare il cardinale Sforza in Castel Sant’Angelo e confiscò i possedimenti dei Colonna assegnandoli al nipote Giovanni Carafa (fratello di Carlo), nominato, nel frattempo, Duca di Paliano. Papa Paolo IV fu una delusione, sembrava che tutto dovesse essere improntato alla povertà, parsimonia e sobrietà, invece i primi giorni del suo pontificato furono caratterizzati da feste e sontuosi banchetti, ma la cosa peggiore fu che egli si lasciò circuire da astuti e indegni parenti, ai quali assegnò i primi posti, non tanto per esasperato amore di sangue, quanto nella speranza di utilizzarli come fidati strumenti della sua politica antispagnola. Nominò cardinali tre suoi nipoti: Carlo che fu il genio satanico, Diomede ed Alfonso che ebbero scarsa influenza sullo zio. Nominò ancora generalissimo delle armi della Chiesa Giovanni Carafa, e il pronipote Antonio fu eletto marchese di Mirabello e capitano delle guardie pontificie. Questi nipoti furono tutti degli intriganti politici, che approfittarono dei loro incarichi e della fiducia che in loro riponeva lo zio. Negli ultimi anni del suo pontificato, Paolo IV abbandonò gli affari politici e si dedicò alla riforma della Chiesa. Il suo zelo non si fermò davanti a niente, scacciò dalla Chiesa i nipoti indegni, dando così l’esempio per combattere la triste piaga del nepotismo. Il nipote Carlo in gioventù ebbe una vita libertina, quando era militare, e quando lo zio gli diede la porpora, pensò che probabilmente il suo cardinale nipote avesse avuto fino ad allora un comportamento altamente morale ed etico ma si sbagliava, infatti al pontefice giunsero presto notizie sui comportamenti depravati del suo parente, comportamenti che andavano dall’omosessualità alla sodomia. Possiamo immaginare la vergogna, l’umiliazione e l’amarezza dell’austero pontefice quando seppe e verificò che il comportamento dei nipoti e parenti era molto immorale. Li privò delle cariche e degli stipendi e li scacciò, solo al nipote Carlo lasciò la porpora. Formalizzò queste decisioni il 27 gennaio 1559 convocando il Collegio dei cardinali e molti personaggi dello stato in Concistoro. Affermando che si sentiva tradito per non aver mai saputo la verità sui suoi congiunti, condannò senza compromessi la perversa vita dei nipoti e, chiamando Dio in suo soccorso, li espulse dalla corte pontificia. Così mandò via dalla città i monaci indegni e fornicatori. Questa ingratitudine dimostrata dai parenti ferì molto papa Paolo IV, perché lui pensava che nominando i propri nipoti agli incarichi più importanti della Chiesa il suo pontificato sarebbe stato retto, onesto e pulito, ma così non fu. Questo enorme dispiacere in pochi mesi lo portò alla morte (19 agosto 1559). Si racconta che durante l’agonia del pontefice i suoi parenti, in particolare i nipoti, depredarono il suo appartamento e lo indussero a firmare un testamento che lui non voleva, conducendogli la mano. Le disposizioni testamentarie del papa si rivelarono viziate da autenticità. Un nipote, il cardinale di Napoli, fu accusato di aver rubato gemme e denari in quantità nella camera dei papa morente, per questo atto criminoso fu imprigionato a Castel Sant’Angelo e ne uscì pagando una forte multa (100.000 scudi). Dopo vari scontri fra cardinali filoimperiali (Carpi, Pozzi, Medici, Araceli), porporati del partito filofrancese (Guisa, Ippolito di Ferrara), e quelli del cosiddetto partito intermedio (Carafa e Farnese), alla fine si raggiunse un compromesso e venne eletto papa il cardinale Giovannangelo de’ Medici, che assunse il nome di Pio IV (1559-1565). Di umile famiglia, era figlio di Bernardino Medici e di Cecilia Serbelloni; suo fratello Giangiacomo Medici, grazie alla sua brillante carriera, divenne marchese di Marignano. Pio IV si macchiò del massacro dei Valdesi “calabresi”, che prima di essere uccisi furono torturati (sgozzati, squartati, bruciati e mutilati). Il 31 gennaio 1560 elevò alla sacra porpora tre suoi parenti: Antonio Serbelloni, vescovo di Foligno, Giovanni de’ Medici (figlio di Cosimo) e il giovane nipote Carlo Borromeo. Pio IV fu nepotista, ma i suoi parenti non gli fecero disonore. Carlo Borromeo fu il buon genio a cui Pio IV dovette i suoi migliori successi. Carlo non aveva ancora compiuto ventidue anni quando fu fatto cardinale. Era nato in Arona da Giberto Borromeo e da Margherita de’ Medici, sorella di Pio IV. Educato a Milano, entrò in tenera età nello stato ecclesiastico, studiò giurisprudenza a Pavia e conseguì il grado di dottore nel 1559. Lo zio lo chiamò a Roma dopo averlo insignito della porpora e lo nominò arcivescovo di Milano (8 febbraio 1560) per ricompensarlo del suo grande lavoro dotto; Pio IV raccolse benefici, dignità e favori sul Borromeo. Quando il cardinale Morone si rifiutò di assumere la direzione degli affari ecclesiastici e politici dello stato pontificio, il papa diede quella mansione a Carlo e lo mise a capo della segreteria segreta, con l’autorità di cardinale nipote. Anche il fratello maggiore Federico fu molto favorito dallo zio, aveva venticinque anni e gli si doveva dare un collocamento principesco affinché fondasse la potenza territoriale della casata Borromeo. Federico sposò Virginia della Rovere, figlia del duca d’Urbino, la quale gli portò in dote Camerino. Il 5 maggio l’atto di sposalizio fu firmato nelle stanze del fratello cardinale. La sposa venne a Roma nell’ottobre, per il matrimonio fu fatto un ricevimento degno di una regina. Alle nozze parteciparono, tra gli altri, il duca di Urbino (padre della ragazza) e Cosimo de’ Medici, al quale il papa promise il titolo di re di Toscana se l’imperatore Ferdinando e Filippo II di Spagna non si fossero opposti. La sposa fu accolta alle porte della città da quattro cardinali, da prelati, dalla nobiltà e dall’intero corpo diplomatico, le cavalcarono ai lati due cardinali: Della Rovere e Borromeo, onore riservato di solito alle regine e alle imperatrici. Di queste preferenze papali erano gelosi e invidiosi i Serbelloni e i signori di Altemps (Hohenaus), che erano piombati a Roma appena il loro parente era salito sul soglio pontificio. Le insidie e le discordie dei nipoti fra di loro addolorarono papa Pio IV, il quale non sapeva più cosa fare per accontentarli e tenerli in pace. La condotta nepotista del Medici fu in parte perdonabile in vista dell’immenso vantaggio che egli procurò alla Santa Chiesa inserendo una persona estremamente di valore come Carlo Borromeo. La nomina di questi a segretario di stato non fu molto gradita ai diplomatici, i quali si rendevano conto che non potevano influenzare il vecchio pontefice attraverso il giovane nipote, che era una persona colta, preparata, adatta al governo, al comando e fornito di una dirittura morale ineccepibile. Pio IV, constatando il buon operato che il cardinale nipote dava dimostrazione di saper fare, gli assegnò sempre nuovi incarichi e uffici: lo nominò protettore del Portogallo, dell’Austria inferiore e dei sette Cantoni cattolici della Svizzera, protettore degli ordini religiosi francescano, carmelitano, degli umiliati, dei canonici regolari della Santa Croce e di altri ancora. Il cardinale Borromeo non perse il senno per i tanti oneri e la grande autorità che stava acquistando, ma si gettò nelle sue occupazioni con tanto zelo che non aveva neppure il tempo di riposare e di toccare cibo, infatti i familiari a lui vicino temevano per la sua salute. Tutto il giorno era accanto a suo zio papa Pio IV, coadiuvato da Tolomeo Gallio, apriva la corrispondenza e ne riferiva al pontefice, tutte le risposte alle lettere ricevute venivano controllate dal cardinale prima di essere spedite. Anche le relazioni diplomatiche venivano gestite dal cardinale nipote Borromeo, che dimostrava un attivismo paradossale, palesando una notevole forza sia nella mente che nel corpo. Dopo giornate di intenso lavoro il cardinale Borromeo interveniva alle discussioni serali dell’accademia da lui costruita e inaugurata con il nome di Accademia Vaticana, nell’intento di accentuare lo studio delle lettere, dato che suo zio papa Pio IV voleva che le lettere si sviluppassero al pari delle arti. Spiccavano tra gli accademici del Borromeo: Silvio Antoniano, Francesco Alciati, Carlo Visconti, Guido Ferrari, Tolomeo Gallio, Francesco Gonzaga, Agostino Voliero, i quali tutti furono premiati con il cappello cardinalizio. Questi dotti erano portatori di un classicismo cristiano in antitesi al primo umanesimo paganizzante esaltato da alcuni papi come Alessandro VI, Leone X e Clemente VII. Nei loro scritti c’era maggiore attenzione verso il contenuto rispetto alla forma, la bellezza estetica era sì rispettata, ma non esaltata. Questa accademia assunse una funzione teologica, infatti scienza e fede erano in perfetta simbiosi. Il principe Federico Borromeo, fratello di Carlo, frequentando l’Accademia Vaticana e praticando delle esercitazioni oratorie riuscì in parte a superare il difetto della balbuzie. Delle gravi sciagure si abbatterono sui nipoti del papa: il principe Federico Borromeo morì a soli ventisette anni, dopo soli tre giorni di malattia un altro nipote cardinale passò a miglior vita, il pontefice Pio IV pensò che il Signore dal cielo non approvasse il suo sviscerato nepotismo e che gli mandasse un messaggio come per porre un freno a questa triste piaga. Il nepotismo in casa Carafa creò una immane tragedia: alcuni mesi prima che morisse il papa Paolo IV, donna Violante Diaz Garbom, duchessa di Paliano e contessa di Montorio, sposata con il duca Giovanni Carafa, venne scoperta mentre tradiva il marito. Quest’ultimo, appena apprese dalla dama di sua moglie dell’adulterio perpetrato dalla sua consorte con un gentiluomo del suo servizio, Marcello Capace, lo fece imprigionare e torturare, convocando il fratello di sua moglie il conte d’Alife. Accecato dall’odio il duca Giovanni Carafa uccise l’amante di sua moglie con una coltellata e dopo un mese sua moglie fu strangolata da suo fratello il conte d’Alife, il quale pensava in questo modo di salvare l’onore della sua casata. Grazie allo zio papa Paolo IV Carafa, i nipoti la fecero franca. Quando venne eletto, il de’ Medici aveva istituito subito una commissione di nove cardinali che doveva accertare le colpevolezze degli accusati, il Pallantieri, loro grande accusatore, fece condannare a morte tutti i Carafa. Il cardinale Carlo Carafa fu impiccato, suo fratello duca subì analoga sorte, si salvò solo il cardinale Alfonso che sborsò centomila scudi per avere salva la vita. In seguito papa Pio V volle verificare le singole colpe dei Carafa e risultò che, nonostante il nepotismo, il cardinale era innocente, così come il cardinale Alfonso Carafa, quindi furono assolti dal reato di fellonia e i beni confiscati furono restituiti ai legittimi eredi, invece il malvagio Pallantieri fu condannato. Questo dimostrò anche che i Carafa furono perseguitati perché approfittarono della triste piaga del nepotismo quando c’era il loro parente, papa Paolo IV. Questi tragici fatti furono di avvertimento ai cardinali, come a dire che se un giorno fossero saliti al soglio pontificio, avrebbero dovuto stare molto attenti a come avrebbero esercitato il nepotismo. Il nipote del papa Pio IV, Annibale Altemps, futuro marito di Ortensia Borromeo (nipote di San Carlo Borromeo) venne nominato conte dell’impero dall’imperatore Ferdinando I e da Filippo II gli venne assegnato, grazie a suo zio papa Pio IV, il feudo di Gallarate. Il pontefice concesse a sua nipote una dote di cinquantamila scudi, anche se inizialmente voleva dargliene centomila, ma la morte del pontefice fece ridurre della metà la dote, grazie all’intervento del suo successore Pio V. Il matrimonio fu celebrato con gran lusso, una festa da far impazzire anche i più brillanti e goderecci nobili dell’epoca: famoso rimase il torneo svoltasi nel teatro Belvedere, al quale assistettero cinquemila spettatori, circondati da statue classiche, mentre i migliori cavalieri si esibivano con grande abilità, coraggio e maestria. Il grande successo di Pio IV fu quello di avere concluso il concilio di Trento, grazie anche all’aiuto da parte del cardinale Ercole Gonzaga. Alla morte di Pio IV, il 7 gennaio 1566, fu inaspettatamente eletto papa Antonio Ghisleri, grazie ad un accordo tra i cardinali Borromeo, e venne consacrato il giorno del suo compleanno, dieci giorni dopo con il nome di Pio V. La sua elezione fece tremare la curia romana, niente festeggiamenti e sontuosi banchetti per solennizzare l’evento, infatti Pio V era di carattere rigido e intransigente e le somme raccolte per la sua incoronazione furono destinate interamente ai poveri. Egli cercò con ogni mezzo di migliorare i costumi della gente emettendo bolle, punendo l’accattonaggio, vietando il dissoluto carnevale, cacciando da Roma le prostitute, condannando i fornicatori, i bestemmiatori e i profanatori dei giorni festivi. Difese strenuamente il vincolo matrimoniale, infliggendo pene severe agli adulteri. Ridusse il costo della corte papale, impose l’obbligo di residenza dei vescovi ed asserì l’importanza del cerimoniale. Si dedicò alla pubblicazione del catechismo romano, del breviario romano riformato e del messale romano. Rafforzò gli strumenti della Controriforma per combattere l’eresia ed il protestantesimo e diede nuovo impulso al Tribunale dell’Inquisizione, il papa di persona partecipava alle sedute dell’Inquisizione Romana. Non abbandonò mai il suo semplice saio domenicano e riposava regolarmente sopra un pagliericcio. Si alzava di buon mattino e dedicava le prime ore alla celebrazione della Messa e alle pratiche di pietà. Subito dopo la colazione attendeva agli affari d’ufficio e alle udienze, senza guardare se la stagione era rigida o torrida. Nel vitto era estremamente parco e sobrio, a mezzodì pan bollito con due uova e mezzo bicchiere di vino; a pranzo minestra di legumi, insalata, alcuni crostacei e frutta cotta, due volte alla settimana mangiava carne. Egli interpretò in maniera quasi letterale i dettami del Concilio di Trento che erano improntati all’umiltà, alla sobrietà e alla devozione al Signore, combatté tutti i cardinali che si ostinavano a mostrarsi mondani. Il suo primo atto dopo l’incoronazione fu di bandire dal palazzo Vaticano il buffone di corte di Pio IV, istituì una commissione cardinalizia formata dai cardinali Borromeo, Savelli, Alciati e Sirleto, che doveva vigilare sui costumi e sull’istruzione del clero, abolì il diritto di asilo di cui godevano i palazzi cardinalizi e dispose che la giustizia potesse mettere le mani sui colpevoli persino nel palazzo apostolico. I diversi tribunali e dicasteri pontifici furono alleggeriti dal personale parassitario. Pio V fu un rigido oppositore del nepotismo: ai numerosi parenti accorsi a Roma con la speranza di qualche privilegio, egli disse che un parente del papa poteva considerarsi sufficientemente ricco se non conosceva l’indigenza. Dietro insistenza dei cardinali nominò cardinale il nipote Michele Monelli, perché fungesse da intermediario nelle relazioni con i principi, egli era nipote di una sua sorella e, come lui, era domenicano e lo coadiuvava nel disbrigo degli affari. Un giorno gli fece visita il pontefice nei suoi alloggi e gli ordinò di rimuovere i cortinaggi di seta e di non usare abiti di seta e vasellame d’argento. Il padre del cardinale nipote, venuto a Roma a visitare il figlio e forse con segreta speranza di rimanervi, ebbe l’ordine del pontefice di ritornarsene quanto prima al suo paese. Il papa si prese cura dei giovani nipoti, ma solo affinché potessero avere una buona educazione presso i Gesuiti. Ad un figlio di suo fratello permise di venire a Roma a far servizio militare avendo già altrove dimostrato il suo valore. Nel maggio 1567 fu nominato comandante della guardia del corpo (milizia pontificia), ma appena lo zio papa si accorse che coltivava amori illeciti e scandalosi lo cacciò dallo stato pontificio. Venne minacciato di pena di morte se fosse rientrato e nessuna intercessione valse a far revocare quel bando. In politica estera Pio V adottò una strenua difesa dei diritti giurisdizionali della Chiesa entrando in conflitto con Filippo II di Spagna. Durante le guerre di religione in Francia sostenne i cattolici contro gli ugonotti. Appoggiò la cattolica Maria Stuarda contro Elisabetta I, di fede anglicana, che scomunicò nel 1570. Terrorizzato dall’avanzata turca, promosse una lega dei principi cristiani contro i Turchi e con Genova, Venezia e Spagna, istituì la Lega Santa. Le forze navali della Lega si scontrarono con la flotta ottomana a Lepanto, il 7 ottobre 1571, riportando una strepitosa vittoria, che però non si concretizzò, come il papa avrebbe sperato, nella liberazione del Santo Sepolcro. Tuttavia si narra che ebbe una visione, in occasione della battaglia di Lepanto ed esclamò: “Sono le dodici, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto” e da quel giorno le campane suonano ogni giorno a mezzogiorno. L’anno successivo, il 7 ottobre 1572, venne celebrato il primo anniversario della vittoria di Lepanto con l’istituzione della festa di Santa Maria della Vittoria, successivamente trasformata nella festa del Santo Rosario. Emanò la bolla “Hebraeorum gens sola quondam a Deo dilecta” contro gli ebrei, con cui se ne ordinava l’espulsione dallo stato pontificio, ad eccezione di Ancona e Roma. Gli ebrei di Bologna trovarono rifugio nel territorio estense e si portarono via anche i morti, dato che la bolla dichiarava che bisognava eliminare ogni traccia della loro presenza nel territorio della Chiesa, quindi anche i cimiteri. Alcune comunità ebraiche scomparvero, come quelle di Ravenna, Fano, Camerino, Orvieto, Spoleto, Viterbo e Terracina. Papa Pio V si spense all’età di 68 anni il primo maggio 1572. Il 14 maggio successivo fu eletto, come suo successore, il cardinale Ugo Boncompagni, che assunse il nome di Gregorio XIII. Il Boncompagni fu un papa indeciso e debole, durante il suo pontificato la nobiltà si servì spesso di banditi per attuare le proprie angherie, quindi le leggi non venivano rispettate e l’autorità papale veniva derisa. Addirittura il capitano di giustizia Gian Battista Pace, che metteva tutto il suo zelo per prendere briganti e delinquenti che spesso trovavano rifugio nelle case dei vari nobili come gli Orsini ed i Piccolomini, fu condannato a morte dal pontefice solo perché voleva arrestare un delinquente incallito che si era rifugiato in un palazzo gentilizio. Gregorio XIII cercò di moderare le feste e il carnevale romano, ma non vi riuscì. Il figlio Giacomo si sposò con la sorella del conte di Santa Fiora, nipote del cardinale Sforza, con un solenne e pomposo matrimonio. Gregorio XIII, che lo aveva concepito prima che lui abbracciasse la carriera ecclesiastica, quando divenne pontefice gli diede la carica di Generale di Santa Chiesa, carica riconfermata successivamente anche da Sisto V. Papa Gregorio XIII adorava il proprio figlio ed egli non disonorò mai il padre, anzi mise molto zelo nell’adempiere agli uffici del suo incarico. Filippo Boncompagni, figlio del fratello, fu creato cardinale nipote, ma questo incarico nepotista, con Gregorio XIII, perse molto prestigio, perché venne appannato dal nuovo incarico creato nella Curia Romana del segretario di stato, che aveva più potere dei cardinali parenti. Questo fu l’inizio della crisi del nepotismo, che però continuò lo stesso a prosperare. Papa Gregorio XIII divenne famoso per aver riformato il calendario civile, che era ancora improntato su quello creato da Giulio Cesare, creando il famoso calendario gregoriano. Ricordiamo che il suo pontificato fu macchiato dalla strage degli Ugonotti avvenuta a Parigi la notte tra il 23 e il 24 agosto 1572, dove migliaia di protestanti, su istigazione del duca di Guisa e di sua madre la regina Caterina de’ Medici, furono massacrati e uccisi; qualcuno vociferò che l’ispiratore indiretto fosse stato papa Gregorio XIII. Papa Sisto V, di umili origini ma di carattere forte e deciso, fu eletto papa il 24 aprile 1585. Rispetto al debole predecessore attuò una politica forte e decisa contro il brigantaggio e in pochi anni liberò Roma e lo Stato Pontificio da innumerevoli bande di criminali che avevano in pratica un esercito numericamente superiore a quello pontificio. Sisto V fu duro e inflessibile, e alcuni nobili che si opposero alle sue decisioni furono strangolati o uccisi in altri modi. La giustizia tornò a funzionare in modo esemplare, gli stati circostanti che diedero rifugio ai briganti, come il Gran Ducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie, dovettero restituire i scellerati individui o eseguire nel posto la sentenza. Molti romani sostennero che durante le esecuzioni Sisto V partecipava alla visione delle torture e delle sofferenze dei propri condannati, mangiando davanti a loro, perché tanto sangue saziava la sua smodata voglia di giustizia. Stabilì che il carnevale si potesse svolgere a Roma, ma con ordine e disciplina, e che gli atti criminosi non erano assolutamente tollerati. La popolazione si sentiva protetta da queste rigide disposizioni e partecipò con felicità a questo carnevale, così riformato. Durante il suo pontificato la parsimonia divenne una sublime virtù e Sisto V organizzò il debito pubblico della Santa Sede, i prestiti di stato vennero chiamati “monti” e si dividevano in due categorie, quelli che duravano un brevissimo tempo e quelli che perduravano un periodo più lungo, i cosiddetti debiti di Stato consolidati (così si chiamerebbero oggi). Nel 1589 iniziò la revisione della Vulgata, traduzione latina della Bibbia che era stata opera di San Gerolamo del IV secolo ed aveva un posto determinante nel Medioevo, ma purtroppo nel corso dei secoli erano stati prodotti molti errori e la stampa aveva accentuato il numero degli sbagli, quindi egli pensava che, come i protestanti avevano prodotto una bibbia nella loro lingua, era giusto che anche i cattolici producessero un’altra più affidabile. Nella sua vasta opera di riordino si batté contro l’accumulazione di benefici e delle cariche ecclesiastiche, e contro le ingerenze delle famiglie aristocratiche. Anche questo papa, nonostante la sua rigidità, non fece a meno di favorire i numerosi parenti, tra cui il cardinale nipote di Montalito, Alessandro Peretti, ed i suoi discendenti. Questi ultimi ottennero ricchi feudi nelle Marche ed anche nel Polesine: Bagnolo, Castelguglielmo, Conda, Cesenelli, Villaflora, Salvaterra, Crocetta, Spizine, Cavalon e Compagnon. Durante il suo pontificato Sisto V si interessò anche di un argomento attualissimo: l’aborto. Se i suoi predecessori avevano mitigato le pene per le donne che interrompevano la gravidanza entro i quaranta giorni dal concepimento, egli decise con la bolla “Effre natum” del 1588 che l’aborto era da considerarsi, sempre ed in ogni caso, omicidio e poteva essere colpito da eventuale scomunica. In seguito, i suoi successori adottarono misure meno rigide, solo Pio IX, prendendo a modello papa Sisto V, inasprì le posizioni. Nel 1589 autorizzò la partecipazione degli eunuchi nei cori, ma si espresse duramente contro coloro che perpetravano questa pratica, ormai divenuta dilagante ed incontenibile. Con la bolla “Cristiana Pietas” del 1586 Sisto V liberò molti ebrei da diverse restrizioni economiche e sociali che erano state imposte da Paolo IV e Pio V. Gli ebrei, con questo provvedimento papale hanno goduto di diritti per un tempo laconico, perché nel 1593 il papa Clemente VIII ripristinò molte leggi precedenti che sono rimaste in vigore fino al XIX secolo. Anche papa Gregorio XIV fu un nepotista, nominò infatti segretario di stato suo nipote Paolo Emilio Sfrondati, il quale si rivelò incompetente e plagiò il papa al suo volere, dissipando le finanze pontificie in imprese deleterie, come quella costosissima affidata dal papa ad un altro nipote, Ercole Sfrondati, che con quattromila mercenari svizzeri doveva detronizzare Enrico IV di Navarra re di Francia. Si capisce che ormai la politica estera era in mano ai nipoti. Alla morte del papa il Sacro Collegio dei cardinali era formato da 65 membri, ma il cardinale Juan Hurtado de Mendoza, morì durante la sede vacante e dieci cardinali non parteciparono al conclave, pertanto il nuovo papa fu eletto da cinquantaquattro cardinali. Il 30 gennaio 1592, dopo venti giorni di conclave, grazie ai voti dei cardinali oppositori della Spagna, fu eletto pontefice il cardinale Ippolito Aldobrandini, che prese il nome di Clemente VIII. Il 2 febbraio 1592 questi venne consacrato vescovo di Roma dal decano del Sacro Collegio ed il 9 febbraio fu incoronato dal cardinale Francesco Sforza di Santa Fiora. Fin dall’inizio del suo pontificato Clemente VIII s’impegnò con tutta la sua forza per tentare di fare una riforma del cattolicesimo in tutti i paesi. L’abilità politica di questo papa fu quella di aver gestito la successione al trono di Francia senza provocare la suscettibilità della Spagna. Il re Enrico IV di Navarra si convertì al cattolicesimo e Clemente VIII lo riconobbe come legittimo sovrano di Francia. Enrico IV di Navarra prese questa decisione il 25 luglio nella chiesa di S. Dionigi, alla presenza del cardinale di Borbone, dell’arcivescovo di Bourges e di parecchi vescovi, solennemente, dinanzi all’altare, fece la sua affermazione che mise per iscritto in questi termini: “Io protesto e giuro al cospetto dell’Onnipotente di vivere e di morire nella religione cattolica e romana, di proteggerla e difenderla contro tutti, a costo del mio sangue e della mia vita, rinunciando a qualsivoglia eresia ad essa contraria”. Uscendo quindi di chiesa, dopo aver ricevuto i santi sacramenti ed ascoltata la messa, fu dal popolo entusiasticamente acclamato col grido di “Viva il re!”. Papa Clemente VIII ci mise un po’ di tempo a riconoscere il nuovo re di Francia, Enrico IV, addirittura del problema fu investita l’Inquisizione romana. Nel frattempo, il re di Francia veniva incoronato e consacrato nella cattedrale di Chartres. Il 30 aprile 1598 fu emanato l’editto di Nantes, che riconosceva il cattolicesimo come unica religione ufficiale del regno francese, anche se le altre confessioni venivano tollerate; con questo provvedimento si sbarrava la strada ad un possibile scisma che poteva essere innescato dagli Ugonotti e dai Gallicani. Problemi sorsero anche con la Spagna di Filippo II d’Asburgo, malato di cesaro-papismo, perché il sovrano spagnolo affermava la supremazia del re nei confronti della Chiesa, infatti l’Inquisizione spagnola divenne un vero strumento del sovrano e molte immunità degli ecclesiastici furono abolite. Un’ ombra sul papato di Clemente VIII fu il caso di Giordano Bruno, un ex religioso di umili origini ma molto dotto e preparato, che abbandonò l’abito talare per andare a insegnare, in varie università europee (Parigi – La Sorbona, Oxford – Inghilterra, Wittenberg – Germania). Bruno pubblicò diverse opere filosofiche in cui si scagliava contro la Chiesa, contro il papato, e contro ogni forma di cristianesimo. Egli non credeva nella divinità di Cristo, che equiparava a Pitagora e Platone, diciamo che Giordano Bruno fu un pagano panteista, che giustificava la prostituzione e la poligamia, seguace della dottrina copernicana. Questo pensatore fu dichiarato eretico e venne catturato a Venezia, in seguito venne estradato dallo stato pontificio e subì un processo che durò sei anni alla fine del quale, non avendo abiurato totalmente le sue idee pagane, laiche e meccanicistiche, fu condannato al rogo e venne arso vivo in Campo dei Fiori, la mattina del 17 febbraio 1600. Anche Clemente VIII si macchiò di nepotismo, arricchì la sua famiglia con cariche lucrose e privilegi, infatti nipoti e pronipoti ottennero grandi benefici. Creò due nipoti cardinali, Cinzio e Pietro Aldobrandini, però dopo poco tempo tutti i discendenti maschi morirono e quindi il casato si estinse. Alla sua morte, nel 1621, venne eletto papa il cardinale Alessandro Ludovisi che assunse il nome di Gregorio XV (1621-1623). Il nuovo papa subito si distinse per il suo nepotismo palese, nominò cardinale nipote o meglio cardinale padrone il nipote Ludovico Ludovisi, che si dimostrò un abile governante e assieme a suo zio Gregorio XV ebbe come fine il bene della Chiesa, anche se bisogna ammettere che nella loro posizione arricchirono molto la loro famiglia, al fine di inserirla nelle grandi famiglie patrizie romane. Il cardinale nipote fu ricoperto di dignità, di uffici lucrosi e di grandi benefici ecclesiastici, a cominciare dall’arcivescovado di Bologna. Ludovico ricevette l’ufficio di Camerlengo con la rendita di diecimila scudi, la legazione di Avignone e molte abbazie ben dotate. La prodigalità dello zio verso il prediletto nipote era inesauribile, pareva che avesse previsto la brevità del suo pontificato e che temesse di non arrivare in tempo per arricchirlo abbastanza. Il nipote, conscio dell’appoggio dello zio papa, fece notevoli acquisti di terreni e di palazzi a Roma e nelle zone circostanti. Il cardinale Ludovisi inoltre comprò il palazzo dei Colonna e il ducato di Zagarolo, con i castelli dei Colonna, Gallicano e Passerano, un’estensione di venti miglia a sud di Roma. Gli abitanti di quelle terre furono felici di cambiare padrone, perché il nuovo signore era mite e benefico. Per la villeggiatura estiva il cardinale nipote Ludovisi acquistò dal duca di Altemps la Villa di Frascati, già di pertinenza del cardinale Gallio, e che ingrandita e abbellita, poteva competere con la famosa villa Aldobrandini; inoltre fece erigere un’altra villa entro le mura dove si stendevano gli orti Sallustiani. Il Domenichino, architetto papale, costruì inoltre una palazzina all’ingresso del parco, nel quale fu ancora edificato il casino del Belvedere, le cui volte e pareti furono affrescate e decorate da Guido Reni, dal Guercino, nonché dal Domenichino stesso. C’era anche una superba galleria di statue, giacché il cardinale era un collezionista appassionato e intelligente. Nella villa del cardinale nipote Ludovisi si venne formando la più ricca e preziosa collezione di statue antiche e dei più celebrati scultori moderni, oltre la galleria dei quadri. Quando il cardinale nipote più potente della storia dei papi morì, nel suo museo personale si contarono 216 statue, 94 teste e busti, 21 colonne, 11 lapidi, 13 rilievi, 4 sarcofaghi, 2 vasche e 19 vasi, ma tutte queste opere andarono disperse perché la villa nel XIX secolo andò completamente distrutta. Il cardinale nipote Ludovisi non fu solo uno sperperatore del denaro della Santa Sede, ma diede molti soldi per la carità, circa trentaduemila scudi all’anno. A sue spese funzionavano centocinquanta posti letto presso l’ospedale del Laterano, e per suo conto mattina e sera si distribuivano pane e legumi ai poveri. Per quanto generoso fosse il papa Gregorio XV con il nipote e con gli altri parenti, egli non permise che i parenti interferissero negli affari di stato. Ad altri nipoti che gli chiesero il cappello cardinalizio, egli lo rifiutò, ma ciò non toglie che molte persone della loro corte e gli altri nobili si trovassero a criticare l’eccessivo favore accordato dal papa ai propri parenti. Il 6 agosto 1623 venne eletto papa il cardinale Maffeo Barberini, che assunse il nome di Urbano VIII (1623-1644). Egli apparteneva a una famiglia distinta che si era arricchita con il commercio, aveva studiato presso i Gesuiti a Roma, conosceva la lingua greca e quella latina e addirittura con questa lingua componeva poesie meglio che con la lingua italiana. Egli nutriva simpatie per la Francia, invece disprezzava e odiava il predominio che esercitavano gli spagnoli in Italia. Questo papa fu molto generoso e benevolo nei confronti dei suoi parenti, perché con lui il piccolo nepotismo toccò il massimo apogeo, infatti il 2 ottobre del 1623 creò cardinale il nipote Francesco Barberini, che aveva solo ventisei anni. Un anno dopo il papa concesse la porpora a suo fratello Antonio che era religioso cappuccino. Nominò generale di Santa Chiesa e in seguito governatore di Roma un secondo nipote, Taddeo Barberini. Nel 1628 creò cardinale un terzo nipote, Antonio Barberini, appena ventenne, e in seguito lo nominò anche Camerlengo e Prefetto della Segnatura. Creò cardinali ancora due nipoti, di suoi cugini; nel 1624 nominò cardinali Lorenzo Magalotti, e nel 1641 Francesco Machiavelli, entrambi fiorentini ed amici suoi. Urbano diede ai suoi parenti un cumulo di benefici al fine di elevare il suo casato alla più alta opulenza. Della prodigalità verso i parenti forse ebbe qualche rimorso lo stesso pontefice, poiché volle interpellare i più celebri giuristi del tempo per sapere fino a che limite poteva il pontefice regalare benefici ai suoi parenti. I dotti gli risposero che tenuto conto che il pontefice era anche principe temporale, gli era consentito donare ai parenti circa centomila scudi annui. Tra questi canonisti vi era il dotto gesuita Giovanni Lugo, che fu creato cardinale nel 1643, e che prima di morire si sentì in obbligo di rettificare la prima risposta, dicendo che il limite massimo era di cinquantamila scudi annui. Quando Urbano VIII morì la sua famiglia era straordinariamente ricca di denari e di possessi. Si calcolò che i soli tre cardinali Barberini poterono accumulare in pochi anni più di cento milioni dalla Camera Apostolica, così da indebitarla, mentre godevano già di rendite annue complessivamente per quattrocentomila scudi. Il papa Urbano VIII fu molto generoso con il popolo romano e così questo pontificato fu caratterizzato da un periodo di dissesto delle finanze dello stato. Battute di caccia, giochi, rappresentazioni sceniche, feste eleganti e costosissime si svolgevano ad ogni occasione e non pochi cardinali furono trascinati dalla passione del gioco, vedendo il clima di pieno piacere, godimento e l’ambiente frivolo di cui era intrisa la corte pontificia. Il papa Urbano VIII non permetteva ingerenze di parenti nel disbrigo degli affari ecclesiastici e statali e nulla scappava al suo occhio, giacché era un grande lavoratore, infatti tutta la mattina era rivolta esclusivamente agli affari oppure sovente vi si poteva dedicare prima che tramontasse il sole. Il pomeriggio era riservato al riposo e alle occupazioni varie: si vedeva con i parenti, si dilettava con recitazioni poetiche e di musica, cavalcava per i giardini del Vaticano e del Quirinale. In autunno trascorreva il tempo sui colli romani: all’inizio fu ospite nella villa di Mondragone del cardinale Borghese, in seguito a Castel Gandoldo, dove la Camera Apostolica acquistò la villa, già appartenente a monsignor Visconti. L’architetto Carlo Maderno ebbe l’incarico di trasformare la villa in una residenza papale. Il cardinale nipote Francesco fu un grande raccoglitore di libri, di antichità, di monete, di iscrizioni e di rarità d’ogni genere. Egli fondò la biblioteca Barberiniana, che a Roma raggiunse il primo posto dopo quella Vaticana, e che nel 1902, per l’impegno del papa Leone XIII, fu incorporata con la stessa Vaticana. Il cardinale nipote affidò la direzione e lo sviluppo della biblioteca al celeberrimo teologo, antiquario e critico di Amburgo, Lukas Holste. Il mecenatismo del cardinale nipote Francesco diede i suoi frutti, perché molti intellettuali, dotti e letterati convennero a Roma, e trovarono una gentile ospitalità a palazzo Barberini. La città eterna divenne uno dei centri di maggiore fermento culturale di tutta l’Europa. Papa Urbano VIII, facendosi condizionare dall’epoca in cui viveva dove la superficialità, il formalismo e il lusso sfrenato dominavano, volle elevare i componenti del collegio cardinalizio. In realtà già da molto tempo i cardinali tenevano una corte splendida e ostentavano fasto e lusso al pari dei principi e dei sovrani, nonostante essi rimanessero inferiori a titoli nobiliari. Il papa decise di attribuire al ristretto gruppo di cardinali che formava il Sacro Collegio dei titoli corrispondenti all’alta posizione che occupavano nella Chiesa e nella società, e nel giugno 1630 dispose che ai porporati competessero i titoli di eminenza e di eminentissimo. Urbano VIII con due bolle confermò la costituzione di papa Pio V, la quale proibiva di alienare e di infeudare di nuovo i territori dello stato pontificio; in conformità a questa costituzione seppe farsi valere contro le pretese imperiali e quelle del governo fiorentino verso il ducato di Urbino, che comprendeva le città costiere di Sinigaglia, Fano e Pesaro, importanti per il commercio marittimo. Il duca Francesco Maria della Rovere, perso l’unico suo figlio Federico, morto a causa della sua vita dissoluta, sperava che, tramite il matrimonio della nipote Vittoria con un membro della casata dei de’ Medici, il suo ducato sarebbe andato a Firenze, ma così non andò. Urbano VIII indusse il vecchio duca a cedere il suo territorio, il quale, dopo aver ricevuto centomila scudi dalla Santa Sede, si ritirò a vita privata a Castel Durante, nella valle del Menauro. Il pontefice incaricò Berlingherio Gessi di prendere possesso del ducato in nome dello Stato Pontificio. Un problema per papa Urbano VIII furono le reminiscenze del grande nepotismo, in particolare riguardanti il ducato di Castro che Paolo III aveva concesso alla famiglia Farnese. Il piccolo ducato, che si trovava alle porte di Roma, si trovava ora in possesso di Odoardo Farnese, che era già duca di Parma. Egli aveva aspirato persino al ducato di Milano, che sperava di ottenere per mezzo del cardinale Richelieu e della Francia, ma il suo piano non andò in porto per la ferma opposizione del cardinale nipote Barberini, ciò provocò nel Farnese un odio sviscerale verso quella famiglia e verso papa Urbano VIII. Il duca Odoardo Farnese era contrario a strappare il Regno di Napoli alla Spagna, e disprezzava i Barberini, perché li considerava gente nuova e rifatta, privi di quell’antica nobiltà che li rendeva divini. Il duca Farnese fortificò il ducato di Castro e raccolse molti uomini armati, ma il governatore di Roma, il nipote del papa Taddeo Barberini, gli mandò contro diecimila mercenari, i quali si impadronirono del ducato di Castro. Odoardo Farnese non si perse d’animo e riuscì a creare una lega composta dal duca di Modena, il Granduca di Toscana e la Repubblica di San Marco. Il conflitto iniziò nell’ottobre 1641 e terminò il 31 marzo 1644 a causa dell’esaurimento delle finanze di entrambi i belligeranti, così il duca Farnese restituì i territori occupati nel bolognese mentre il papa concesse l’assoluzione delle censure e restituì il ducato di Castro e i beni confiscati. Nel conclave dei mesi di agosto e settembre del 1644 i due cardinali Francesco e Antonio Barberini lavorarono affinché le chiavi di San Pietro giungessero nelle mani di una persona che avesse amato Urbano VIII e la sua casata, ma i contrasti tra i due Barberini su chi dovesse reggere il papato erano talmente forti che un giorno fra di loro scoppiò una fortissima lite e addirittura vennero alle mani. Alla fine di un lungo conclave, con il gran caldo che era deleterio per la salute di molti cardinali anziani, dopo febbrili trattative fu raggiunto l’accordo sul nome del cardinale Giambattista Pamphili, che assunse il nome di Innocenzo X (1644-1655) in onore di Innocenzo VIII, gran benefattore dei Barberini. Il nuovo pontefice aveva già settant’anni, ma era un romano, perciò l’elezione fu accolta con grande felicità dal popolo. Le feste per l’incoronazione e per la presa di possesso furono celebrate con grande sfarzo e per la prima volta in suo onore si fece l’illuminazione della cupola di San Pietro. Il 23 novembre, in occasione della presa di possesso del trono pontificio, si fecero straordinari spettacoli di fuochi di artificio in onore del papa, grazie all’impegno degli ambasciatori di Francia e Spagna. In piazza Navona, dinanzi al palazzo Pamphili, si eresse una gran macchina raffigurante il monte sul quale s’era posata l’arca di Noè. Il papa si affacciò con le braccia aperte per ricevere la palomba, che scese lungo un filo del culmine del palazzo per incendiare la macchina. Nella stessa piazza l’ambasciatore di Francia aveva fatto erigere un’altra montagna, sopra della quale c’era un carro trionfale tirato da due tigri e una dama con corona reale in testa, rappresentante la Francia. L’ambasciatore di Spagna fece incendiare “un toro con sopravveste piena tutta di razzi e soffiani, che appena esplodevano provocavano il movimento del toro finto, che tutto arso iniziava a correre per la piazza”. Questi esordi indicano come la corte pontificia si riappropriò di quel carattere mondano e spensierato dell’età precedente alla riforma protestante, andando contro i dettati del Concilio Tridentino che imponevano sobrietà, umiltà, equilibrio e soprattutto di essere puri servi di Dio. I cardinali avevano sperato che Innocenzo X, noto per la sua rigidità di costumi e per la severità amministrativa, avrebbe ridato un tenore di serietà alla corte e avrebbe purificato la sede apostolica dal nepotismo. All’inizio del suo pontificato Innocenzo X sembrava illuminato da un’onestà profonda, infatti mise sotto processo tutti i Barberini, accusandoli di aver dilapidato le finanze dello stato pontificio, perché il loro zio papa Urbano VIII aveva elargito a loro tanto denaro e cariche ben retribuite, palesando il nepotismo più sviscerale che la Roma del barocco avesse mai conosciuto. Nominò segretario di stato non un suo parente bensì il cardinale Giovanni Giacomo Panciroli. Gli avversari dei Barberini erano molti e potenti, essi li accusavano di essere degli avidi speculatori, di aver dilapidato il denaro e i beni della Santa Sede, in particolare il cardinale Antonio Barberini. Il popolo faceva loro i conti in tasca di tutte le ville, le case, i terreni che possedevano e che avevano a volte preso con la forza, e molti pretendevano che rispondessero essi stessi della cattiva gestione economica portata avanti dal precedente papa Urbano VIII, loro parente. I Barberini, sentendosi minacciati, si misero sotto la protezione del re di Francia, in particolare del cardinale Mazzarino che era succeduto al cardinale Richelieu. Il Mazzarino non aveva simpatia verso Innocenzo X, che era stato eletto contro il suo parere e cosa ancora più grave, il pontefice aveva come segretario di stato il cardinale Giovanni Giacomo Panciroli, nemico personale del Mazzarino. Un altro punto di attrito era l’ostinazione di papa Innocenzo X a non voler dare il cappello cardinalizio a Michele, il fratello del Mazzarino. Il cardinale Antonio Barberini, non sentendosi più sicuro, fuggì in Francia, mentre a Roma Francesco e Taddeo Barberini issavano sulle loro case lo stemma di Francia a significare che si mettevano sotto il protettorato di quella nazione. Nel gennaio del 1646 anche i due Barberini rimasti a Roma scapparono in Francia giacché la commissione nominata per la revisione dei conti della guerra di Castro aveva posto il sequestro sui beni depositati presso tutte le banche dei Barberini. Il pontefice, sconcertato per la fuga dei due cardinali Barberini, dichiarò in concistoro che con quel gesto essi si erano attribuiti implicitamente le loro responsabilità. I Barberini vennero condannati in contumacia e persero tutte le cariche che avevano: cardinale camerlengo, al posto di Antonio, fu nominato il cardinale Sforza, che era il presidente della commissione d’inchiesta. Il cardinale Mazzarino, massima autorità in Francia si schierò apertamente con i cardinali Barberini esiliati, e la regina Anna d’Austria scrisse una lettera di forte protesta al papa. Si minacciò di compensare i Barberini dei danni economici subiti con il sequestro in loro favore dei proventi del contado di Avignone (e che dopo il congresso di Vienna non tornò più alla Santa Sede, infatti il papa di quel periodo non oppose la propria firma alla conclusione dello storico congresso). Il pontefice non aveva interesse a rompere le relazioni diplomatiche con la Francia, perché sentiva il bisogno del suo appoggio per poter arginare le nuove eresie dei Giansenisti che si diffondevano in quel regno (Giansenismo di Giansenio, o Cornelio, Jansen, vescovo di Ypres, 1585-1638, autore dell’Agostinus pubblicato postumo nel 1640, in cui richiamava e sosteneva dottrine di Sant’Agostino sulla grazia, il libero arbitrio e la predestinazione la dottrina gianseniana, veniva professata dai religiosi di Port Royal, tra cui Pascal, Racine e da molti, condannata dalla Chiesa, perché portatrice di un ideale cristiano purista, rigorista). Non solo, ma Innocenzo X nominò cardinale il fratello del Mazzarino, come da lui desiderato, ma purtroppo questo suo familiare morì dopo neanche un anno dalla nomina, il 31 agosto 1648. Il pontefice concesse il perdono ai Barberini, così il cardinale Francesco e Antonio poterono tornare in Italia. Anche al loro parente Carlo Barberini fu concessa la “porpora” cardinalizia, mentre al fratello di quest’ultimo il papa diede in moglie una sua nipote. Papa Innocenzo X introdusse in Vaticano un nuovo nepotismo, che diede luogo a dicerie, infondate, sull’onestà del venerando vegliardo. La casata Pamphili doveva molta riconoscenza a donna Olimpia Maidalchini, perché aveva portato ingenti ricchezze in dote a Pamphilio Pamphili, fratello maggiore del papa. Donna Olimpia Maidalchini nata a Viterbo, il 26 maggio 1594 e morta il 26 settembre 1657, fu una nobile italiana. Fu una delle protagoniste della storia di Roma nel XVII; era figlia di un appaltatore viterbese, il capitano Sforza Maidalchini e di Vittoria Gualterio, patrizia di Orvieto, patrizia romana e nobile di Viterbo. Il padre, fermamente convinto di lasciare come unico erede il figlio maschio, aveva destinato le tre figlie femmine al convento, come accadeva normalmente all’epoca (si pensi alla storia della monaca di Monza, raccontata da Alessandro Manzoni). Olimpia però non aveva nessunissima intenzione di lasciarsi rinchiudere; affidata ad un direttore spirituale incaricato di convincerla a prendere il velo, lo accusò di tentata seduzione, procurando uno scandalo tale che il pover’uomo fu sospeso a divinis e sembrò destinato a tristissima sorte. Ma siccome questa vicenda le aveva permesso di obbligare il padre a permetterle di prendere marito, che all’epoca era una spesa non indifferente perché i padri erano tenuti a dotare le figlie, donna Olimpia non si dimenticò del suo direttore spirituale e anni dopo, acquistato il potere e divenuta “la papessa” lo fece nominare vescovo. Olimpia si sposò dunque giovanissima, con Paolo Rini, un ricco borghese che la lasciò vedova, ricca e libera dopo soli tre anni. La giovane donna, forse di natura ambiziosa e anche avida, ma certo estremamente volitiva e che aveva ben imparato sulla propria pelle che l’unica difesa da un mondo fondato sulla prepotenza, l’avidità e l’ipocrisia era combatterlo con le stesse armi, scelse come secondo marito un romano di famiglia nobile, ma impoverita, più vecchio di lei di 31 anni, Pamphilio Pamphili, che sposò nel 1612. Questi la introdusse nella società romana e soprattutto la imparentò con suo fratello Giovanni Battista, brillante avvocato di curia e futuro papa Innocenzo X. La presenza di Olimpia ed il suo supporto economico accompagnarono la carriera del cognato Giovanni Battista Pamphili fino al conclave ed oltre il soglio di San Pietro, e non fu una presenza discreta: tutta Roma parlava e sparlava di come Donna Olimpia apparisse molto più legata al cognato che al marito, di come chiunque volesse arrivare all’ecclesiastico Pamphili dovesse passare attraverso la cognata e di come costassero cari i suoi favori. È certo che, come era stata la principale artefice dell’elezione a papa del cognato, quando questa fu conclusa Olimpia divenne la dominatrice indiscussa e assoluta della corte papale e di tutta Roma. Si disse che la sua beneficenza fosse sempre interessata: che la protezione assicurata alle cortigiane mascherasse una vera e propria organizzazione del traffico della prostituzione, e che i comitati caritatevoli per l’assistenza ai pellegrini del Giubileo del 1650 fossero organizzati a scopro di lucro, che il Bernini, allora in disgrazia, avesse ottenuto la commessa per la fontana dei quattro fiumi di piazza Navona solo per aver fatto omaggio alla Pimpaccia (come veniva chiamata dal popolo romano Donna Olimpia) di un modello in argento alto un metro e mezzo del lavoro che voleva eseguire. Rimasta vedova nel 1639 di Pamphilio (che naturalmente il popolo volle morto avvelenato) ricevette dal cognato papa il titolo di principessa di San Martino (Viterbo) nel 1645. Si ritirò da Roma dopo la morte del papa, nel 1655, e morì di peste nelle sue tenute viterbesi di San Martino al Cimino nel 1657, lasciando in eredità due milioni di scudi. L’aspetto più interessante del carattere di Donna Olimpia sono gli eccessi che gli furono attribuiti, dovuti soprattutto alla sua vorace avidità ed ingordigia per il denaro come se fosse un’ossessione, qualità tipica degli uomini di solito. Molti studiosi affermarono in modo categorico che papa Innocenzo X fu succube della cognata, la quale ebbe feroci scontri, intrighi e dispetti con la nipote del papa, Olimpia Aldobrandini. Possiamo affermare con categorica certezza che Donna Olimpia fu una donna dotata di un talento non comune, ma ambiziosa ed avida di potere; sull’animo del vecchio pontefice esercitava un ascendente che era piuttosto un dominio. Gli ambasciatori ed i cardinali si rivolgevano a Donna Olimpia per ottenere quanto desideravano dal pontefice, tutti la ossequiavano e cercavano di accattivarsela con ricchi doni, altri addirittura ornavano i loro appartamenti con il suo ritratto, quasi che fosse quello di una regina. Questa figura femminile concorse non poco a riempire la corte di vanitose frivolezze e di intrighi che causarono gravi dispiaceri al pontefice e ne offuscarono la sua immagine presso i posteri. Il Seicento traboccava dal campo intellettuale e artistico nella vita pubblica e nei costumi: venne esaltato il concetto del bello estetico, con grave pregiudizio della morale. Anche le cerimonie sacre risentirono della moda del tempo, nel 1650 i pellegrini accorsi a Roma per il Giubileo videro l’ambasciatore di Filippo IV recarsi all’udienza pontificia con un seguito di trecento carrozze e ciascuna carrozza, che era di proporzioni monumentali, era accompagnata da lacché e da mori dalle sontuose livree e da cavalli bordati condotti a mano. L’oratoria sacra si trasformò in tronfia esercitazione retorica; i predicatori divennero istrioni da palcoscenico. Donna Olimpia chiamò nel suo palazzo a sermoneggiare l’applauditissimo gesuita padre Oliva, ed invitò ad ascoltarlo dame e cavalieri ed essi accorsero come ad un sollazzo. Accanto al segretario di stato, cardinale Panciroli, Innocenzo X affiancò il cardinale nipote. Il papa aveva nominato il figlio di Olimpia, Camillo, generale della Chiesa, comandante supremo della flotta e governatore di Borgo; ma il nipote preferì diventare cardinale, perciò depose quelle cariche e il 14 novembre 1644 fu assunto nel Sacro Collegio. Lo zio riversò allora tutte le sue grazie sul nipote. Nella segreteria di stato sottoscriveva lettere e dispacci al pari del cardinale segretario e vi lavorava con assiduità, ma dopo un paio d’anni decise di lasciare la porpora per sposare la giovane vedova del principe Borghese, Olimpia Aldobrandini. Papa Innocenzo X era contrario, ma alla fine si arrese alle insistenze del nipote, e nel concistoro del 21 gennaio 1647 accettò le dimissioni di Camillo e concesse le dispense necessarie perché potesse svolgere le nozze. Il matrimonio fu celebrato modestamente il 10 febbraio 1647, fuori Roma, nella villa di Torre Nova, e gli sposi furono costretti a stabilirsi a Frascati, giacché la madre Olimpia che voleva dominare incontrastata, non voleva vedere la nuora a Roma. Il 7 ottobre di quello stesso anno il papa nominò cardinale Francesco Maidalchini, suo nipote appena diciassettenne. Il nuovo cardinale nipote si dimostrò inetto a trattare con gli ambasciatori, allora Innocenzo X, su suggerimento del cardinale Panciroli, nominò il 19 settembre 1650, al posto di cardinale nipote, Camillo Astalli, lontano parente di Olimpia. La papessa, quando apprese la notizia, andò su tutte le furie, il papa offeso la mise alla porta e a poco a poco si riappacificò con Camillo Pamphili. Il cardinale nipote Astalli ben presto soppiantò nell’influenza sul pontefice il suo benefattore Panciroli, il quale morì quasi in disgrazia il 3 settembre 1651. Intanto si trasferiva a Roma anche Olimpia Aldobrandini, essendo rientrata nelle grazie del papa, incominciarono allora gli intrighi, le invidie, le guerricciole fra le due Olimpie e il papa Innocenzo X si sentiva molto affranto da questo comportamento, anzi non sapeva che comportamento tenere, scacciò più volte Donna Olimpia Maidalchini, ma poi, a causa del suo carattere debole, la riammise alla corte pontificia. Quando Innocenzo X morì, i parenti fecero incetta di tutti i beni che il pontefice possedeva e misero al sicuro anche i loro. Il cadavere rimase esposto per tre giorni in San Pietro e nessuno dei parenti si interessò per la sepoltura, Donna Olimpia addirittura si rifiutò di prendere iniziative per la bara, adducendo come motivo che lei era una povera vedova. Il cadavere fu quindi portato in un locale che serviva da magazzino, dove fu vegliato e gli fu preparata una bara dagli operai che vi erano addetti. Il cardinale Pallavicino rimase sdegnato dal comportamento dei parenti che da papa Innocenzo X avevano ottenuto tanti benefici, e che per loro aveva sacrificato l’onore e soprattutto l’onestà. Alla fine il nipote Camillo Pamphili con il figlio Giambattista provvidero ad una degna sepoltura. Si racconta pure che la Pimpaccia, non contenta di aver gestito in prima persona potere e ricchezze dello stato pontificio, finì con il derubare il povero Innocenzo X durante la sua in agonia, delle casse d’oro nascoste sotto il suo letto. Alcune persone della corte papale sostennero che la Pimpaccia riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli e da buona signora virtuosa lei desse protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni. Dopo vari scontri politici tra Francia e Spagna si arrivò ad un accordo e venne eletto papa il cardinale Fabio Chigi, che assunse il nome di Alessandro VII (1655-1667). Sembrava che con lui la piaga del nepotismo dovesse cessare, poiché proibì ai suoi parenti di lasciare Siena per venire a stabilirsi a Roma, ma la cosa risultò del tutto inusitata e poteva persino generare scandalo; si fece capire al pontefice che era una sconvenienza che i parenti del pontefice vivessero da cittadini privati in Siena, e che questo poteva sembrare un’offesa al Gran Ducato di Toscana. Anche gli ambasciatori esteri non erano felici, perché non avrebbero avuto in Roma una persona con la quale trattare confidenzialmente gli affari. Il padre Oliva, gesuita, giudicò persino peccaminosa l’avversione che il papa mostrava verso i parenti. Possiamo affermare che nonostante da cardinale fosse stato un dichiarato riprovatore del nepotismo papale, da papa divenne uno strenuo nepotista. Fatto sta che nel concistoro del 24 aprile 1656 presentò la questione se si riteneva approvare o meno che negli affari di curia avesse a servirsi dei suoi parenti. La risposta fu positiva, ed anche i teologi consultati risposero in modo affermativo. Il cardinale Pallavicino però consigliò di stabilire in modo chiaro i limiti entro cui dovevano contenersi i parenti, così si istituzionalizzò formalmente il nepotismo, infatti il pontefice per giustificare questa lercia pratica pubblicò apposite costituzioni. Così poterono venire a Roma diversi parenti: il fratello del papa, Mario Chigi, ebbe il generalato della Chiesa e la sorveglianza su Borgo e sull’Annona, il nipote Flavio (figlio di un altro fratello già defunto) fu avviato nel noviziato dei Gesuiti, per prepararsi al sacerdozio e al cardinalato, e assunse la porpora il 9 aprile del 1657. L’autorità del cardinale nipote però era molto limitata, e gli affari di stato venivano gestiti assieme al cardinale Rospigliosi. Agostino, fratello di Flavio, fu nominato castellano di Sant’Angelo, e nel luglio 1658 avendo egli 23 anni, si impalmò con Maria Virginia Borghese nella cappella privata del pontefice con una cerimonia riservata e alla presenza di due soli cardinali. Iniziati i primi passi sulla via del nepotismo, il pontefice si lasciò trascinare oltre le sue intenzioni. Fondatore della casa principesca fu Agostino Chigi, sopra il quale incominciò la pioggia di onori, di cariche e di oro da parte dello zio e di quanti avevano bisogno di ingraziarselo; anche il piccolo nipote Sigismondo ebbe non pochi favori, la porpora però l’ottenne solo da papa Clemente IX. Al cardinalato il papa Alessandro elevò invece un suo lontano parente, Antonio Bighi. Il nepotismo del pontefice andò purtroppo aumentando negli ultimi anni di pontificato, infatti parecchi milioni arrivarono nelle mani dei nipoti, i quali per di più conducevano una vita mondana e dispendiosa. Se l’amministrazione statale sotto Alessandro non fu ottima, egli cercò tuttavia di alleviare le miserie del popolo con elargizioni copiose; sfortunatamente la città di Roma nel maggio del 1656 venne infestata dalla peste. Il papa dalla Villa di Castel Gandolfo, dove passava ogni anno un paio di mesi estivi, si affrettò ad accorrere a Roma per sorvegliare assieme al fratello Mario gli approvvigionamenti e l’assistenza degli appestati. Durante il primo anno del suo pontificato Alessandro VII ebbe la soddisfazione di accogliere a Roma la regina Cristina di Svezia, convertita al cattolicesimo. Essa era figlia di Gustavo Adolfo, il terribile e valente re di Svezia che aveva assestato colpi mortali ai cattolici di Germania. Dopo la tragica morte del padre, aveva ereditato il trono all’età di sei anni. La reginetta, come aveva deciso il padre, nel suo testamento venne educata virilmente come un’amazzone; apprese il latino, il greco, l’italiano, il francese, lo spagnolo, studiò inoltre la storia, l’arte di governo e la poesia acquistandosi una cultura varia e assai superiore a quella che una donna del tempo poteva avere. Suo consigliere ed educatore politico fu Oxenstierna, già intimo collaboratore di Gustavo Adolfo. Dichiarata maggiorenne a diciotto anni, prese le redini del governo con rara competenza e coronò l’opera paterna con la pace di Westfalia. Aveva però un carattere strano e bizzarro, e dopo le delusioni di un breve idillio d’amore col cugino Carlo Gustavo, non volle più sentir parlare di matrimonio. Ripeteva sempre che voleva andarsene da questo mondo libera come era nata. L’arte del governare la impegnava molto, i suoi generali tremavano in sua presenza, e certo, se fosse avvenuta una guerra, lei stessa avrebbe guidato le sue truppe. Le piaceva molto studiare quando gli impegni statali non l’assorbivano in modo eccessivo. La corte di Stoccolma si trasformò in un luogo di convegno e incontro degli uomini più dotti di tutta Europa. La questione religiosa non poteva sfuggire allo spirito vivace e penetrante di Cristina: tra le persone di estrema cultura che frequentavano la corte c’era anche Renato Descartes, fervente cattolico, il quale pare abbia non poco influito sull’animo della regina, non appagata dai dogmi delle chiese protestanti, troppo populisti e demagogici. Segretamente si mise in relazione con il gesuita Antonio Macedo, addetto all’ambasciata portoghese, al quale aprì il suo animo e al quale diede il compito di andare a Roma per ottenere l’invio a Stoccolma di due gesuiti italiani che non destassero sospetti agli svedesi, cioè precisamente i padri Paolo Casati e Francesco de Malines, i quali, per convertire la regina, trovarono la scusa che dovevano discutere con lei di matematica e di scienze. Per quattro anni la regina mostrò sempre di nascosto la sua devozione alla religione cattolica anche se il popolo svedese alla lunga si accorse della sua conversione e così la sovrana svedese arrivò alla tremenda decisione di rinunciare al cattolicesimo o alla corona. Il 16 giugno 1654 nel castello reale di Usala, Cristina rinunciò alla corona in favore del cugino Carlo Gustavo, riservandosi una rendita vitalizia annua. Fuggì dalla Svezia indossando abiti maschili e la notte di Natale del 1654 abiurò il protestantesimo a Bruxelles, nelle mani del padre domenicano Guemes. Francia e Spagna si contesero il merito della conversione della regina Cristina. Papa Alessandro VII fu talmente entusiasta che inviò il custode della biblioteca vaticana, Luca Holstenio, a incontrarla; l’inviato pontificio si vide con l’ex regina di Svezia a Innsbruck, dove la regina era ospite dell’arciduca. Nella chiesa della reggia, con grande solennità, la regina rinnovò l’abiura e la professione di fede tridentina fra la più profonda e viva commozione dei presenti. Cristina decise a stabilirsi a Roma, così appena varcò i confini dello stato pontificio fu accolta dai due arcivescovi inviati dal pontefice e in tutte le città per le quali passò si allestirono festose accoglienze, di cui il pontefice assunse tutte le spese. Al santuario di Loreto, Cristina depose sull’altare della Vergine lo scettro e la corona d’oro massiccio, adorni di brillanti e di rubini; ad Assisi venerò la tomba di San Francesco. Intanto a Roma si organizzò un ricevimento solenne e maestoso, la regina vi entrò il 19 dicembre 1655, e fu ospitata temporaneamente nel palazzo Vaticano, fino al giorno 23 dicembre. Da molto tempo non si vedeva a Roma una pompa simile; la regina nordica cavalcava su un magnifico cavallo bianco, e il Collegio Cardinalizio le faceva scorta d’onore. Fu accompagnata in San Pietro, fece orazione davanti all’altare del Sacramento e alla tomba degli apostoli, poi passò nel palazzo del Vaticano, dove il pontefice la ricevette in solenne concistoro ed in seguito le diede il sacramento della Cresima. La regina Cristina pose la sua dimora nel palazzo Farnese che il duca di Parma le aveva messo a disposizione. Ebbe frequenti udienze dal pontefice, il quale era felice di stare con lei trovandola molto erudita e ben radicata nella passione religiosa. Molti speravano che la conversione della ex sovrana scandinava provocasse molte conversioni fra i protestanti, infatti il conte palatino Carlo Augusto di Sulzbach, abbandonò la sua fede protestante e divenne cattolico. Il comportamento della regina Cristina (che aveva aggiunto il nome di Alessandra, su permesso del papa) però fu caratterizzato da stranezze per il suo modo di vestire e per la vita libertina che conduceva a Roma, quindi se la sua conversione aveva potuto produrre proseliti alla religione cattolica, con questo comportamento licenzioso provocò l’effetto opposto. Ella si giustificava dicendo che la fede è interiore e non va misurata esteriormente, cioè sull’assiduità delle pratiche religiose. Cristina di Svezia divenne la regina delle feste del gran mondo romano; era ricercata e acclamata, dunque la sua vanità non conobbe limiti, l’alto clero e la nobiltà organizzò in suo onore fastosi ricevimenti. Tutte le manifestazioni del carnevale romano del 1656 furono organizzate in onore suo e le famiglie della nobiltà gareggiavano a chi allestiva i carri e le rappresentazioni più spettacolari a costo di spendere interi patrimoni. Anche il cardinale nipote Agostino Chigi preferì seguire l’andazzo mondano, anche se il carnevale romano provocava gravi disordini morali. Quando Cristina s’intromise in politica, perché assieme al cardinale Mazzarino voleva portare via alla Spagna il Napoletano, fu tradita dal suo scudiere Gian Rinaldo Monaldeschi, che vendeva i suoi segreti agli spagnoli, ma quando lei lo scoprì diede ordine a sangue freddo di farlo uccidere. Il pontefice, già irritato con lei per la vita dispendiosa e frivola che conduceva a Roma, anche chiedendo spesso soldi alla Santa Sede, per non rovinare i rapporti con la Spagna cercò di contenere l’irruenta e vivace regina, che nel frattempo aveva raccolto soldati per l’impresa di Napoli, per fortuna il cardinale Decio Azzolini fece da paciere fra la regina Cristina e il pontefice. Con il passare degli anni la regina divenne meno eccentrica e stabilì la sua residenza a palazzo Riario alla Lungara, si dedicò nuovamente e assiduamente alle lettere e alle arte, tanto che il suo palazzo divenne un museo e una biblioteca. Papa Alessandro VII andò a visitarla il 19 marzo 1663 e rimase colpito dai grandi tesori artistici che la regina aveva raccolto, possiamo dire che la regina nordica trovò quelle soddisfazioni che nella vita politica non poté trovare, ed acquistò così fama e lustro indiscutibili. I frequentatori dei convegni letterari della regina Cristina fondarono, un anno dopo la morte della loro grande mecenate, la celebre Accademia dell’Arcadia (1691). I sessantaquattro cardinali partecipanti al conclave che iniziò il 2 giugno 1667 erano divisi in due grandi partiti, l’uno dei cardinali di Alessandro VII, con a capo Flavio Chigi, e l’altro di quelli del defunto papa Urbano VIII con a capo Antonio Barberini, e in due piccoli partiti, lo spagnolo e il francese. Arbitri della situazione erano i dieci cardinali dello Squadrone Volante manovrato dall’Azzolini e dall’Imperatore. Fu appunto l’Azzolini che indusse tutto il Sacro Collegio a pronunciarsi, dopo diciotto giorni di conclave, in favore di Giulio Rospigliosi, che, eletto il 20 giugno, prese il nome di Clemente IX (1667-1669) e per sua insegna scelse un pellicano con l’epigrafe “Alis non sibi clemens”, “Clemente per gli altri e non per sé stesso”. Nato a Pistoia da antica e nobile famiglia il 28 gennaio 1600, aveva studiato a Roma nel collegio dei gesuiti e si era laureato in filosofia e teologia presso l’università di Pisa, nella quale ebbe anche una cattedra. Scienziato e poeta, entrò nella diplomazia pontificia coprendo diversi uffici e incarichi, fu segretario di papa Alessandro VII e nel 1657 da questi fu elevato alla porpora cardinalizia. Papa Clemente IX non si accanì verso i parenti del defunto pontefice privandoli degli uffici che occupavano, si limitò a licenziare alcuni alti impiegati, mettendo al loro posto persone di sua fiducia. Molti suoi paesani pistoiesi, sperando di ricevere qualche incarico, accorsero a Roma, ma furono profondamente delusi. Il cardinale Decio Azzolini fu nominato segretario di stato e fu affiancato dal cardinale nipote Giacomo Rospigliosi, che ricevette la porpora cardinalizia il 12 dicembre 1667. La direzione degli affari rimase al cardinale Azzolini e le rendite assegnate al cardinale nipote furono modeste. Clemente IX, per quanto concerne i parenti, si attenne ai consigli che il cardinale Pallavicino, in letto di morte, aveva dato ai cardinali che entravano in conclave, ovvero un rigido monito da dotto gesuita di prendere in primis provvedimenti preventivi contro il nepotismo dei papi futuri. Più precisamente chiedeva caldamente che ai parenti non venissero dati titoli nobiliari (principi, duchi, marchesi, conti) e che tutto il denaro che si ricavava dallo stato, dalla vendita degli uffici e da altri diritti della Sede Apostolica fosse impiegato per la cura delle anime. I suoi congiunti di Pistoia poterono venire a Roma, ma fu loro negato persino il titolo allora comunissimo di “don”. Il fratello del papa, Camillo, nel settembre 1667 divenne generale della Chiesa e suo figlio Tommaso castellano di Sant’Angelo, ebbero tuttavia soltanto le entrate che questi uffici importavano. I familiari del papa non solo non poterono accumulare nuove ricchezze, ma spesero i loro denari, infatti, con le proprie sostanze economiche costruirono a Roma una casa con un bellissimo teatro, nel quale si rappresentavano opere religiose, si dice anche che l’autore delle opere fosse il papa stesso. Papa Clemente IX non fu contrario ai divertimenti carnevaleschi, purché si svolgessero con onestà, abolì quindi la corsa degli ebrei, che era una reminescenza di barbaria medievale, un ignominioso balzello a cui dovevano sottostare gli ebrei di Roma per sollazzo della città, nei giorni di carnevale. Il successore di Clemente IX fu il cardinale Emilio Altieri, che all’epoca della sua elezione aveva ottant’anni. Egli supplicò il conclave con le lacrime agli occhi affinché non lo eleggessero papa, ma il 28 aprile 1670, con soave violenza, fu condotto nella cappella Sistina, dove i cardinali lo elessero ad unanimità ed assunse il nome di Clemente X (16701676), in onore del suo predecessore, che l’aveva creato cardinale. Clemente X era una persona umile e buona di cuore e voleva imitare il suo predecessore, si avvalse dell’aiuto del cardinale Paluzzi degli Albertoni, che era un suo lontano parente, per occuparsi dei compiti che non era in grado di svolgere a causa della sua avanzata età. I membri della sua diretta famiglia erano tutti morti, quindi alla sua dipartita il casato degli Altieri si sarebbe estinto, così concesse al suo lontano parente e a suo nipote Gaspare di aggiungere al cognome Paluzzi quello di Altieri e con esso il diritto di ereditare i beni. Il cardinale nipote Paluzzi Altieri si mostrò molto abile negli affari ed ebbe il sopravvento nel governo, sopra il segretario di stato. Quanto più il vecchio pontefice si indeboliva, sia fisicamente che mentalmente, tanto più il cardinale nipote aumentava il suo potere e favoriva i parenti. Per compiacere lo zio papa, il cardinale Paluzzi Altieri fece laute elemosine ai diseredati e cercò di mitigare, se non annullare, certe imposte nei confronti dei ceti più umili. Alla morte di papa Clemente X venne eletto il cardinale Benedetto Odescalchi, che era soprannominato “il Carlo Borromeo del collegio cardinalizio”, e che prese il nome di Innocenzo XI, in onore di papa Innocenzo X che l’aveva creato cardinale nel 1646. Laureato in giurisprudenza a Genova, possedeva una grande cultura e forte senso morale. Il suo primo obiettivo fu quello di liberare la Sede Apostolica dal cancro del nepotismo e prima di emanare delle leggi in proposito (la cui elaborazione rinviò negli ultimi anni del suo pontificato), intervenne personalmente dando un esempio pratico tale che da molto tempo non si vedeva. Diede una nuova organizzazione della segreteria di stato e l’affidò al suo amico cardinale Alderano Cibo, persona rispettata presso tutti i cardinali. Eliminò la posizione del cardinale nipote, anzi disse a suo nipote Livio Odescalchi (che era l’unico figlio di suo fratello Carlo) di continuare gli studi nel collegio dei gesuiti e gli proibì di accettare doni ed onorificenze solo per il fatto di essere nipote del papa. Innocenzo XI, per non pesare pesantemente sulle già esauste finanze vaticane, utilizzò il proprio personale patrimonio per mantenersi durante il pontificato, gesto veramente nobile per un pontefice, specialmente in quei tempi. Rifiutò le protezioni imperiali che l’ambasciatore voleva dare ai membri della casata Odescalchi, dicendo che lui avendo assunto la guida spirituale e temporale della Chiesa cattolica non aveva più famiglia e che l’unica certezza per lui era Dio. Si prodigò alacremente per combattere gli eccessi e gli scandali che caratterizzavano la corte e la società romana, cercando di estirpare la corruzione che era molto diffusa e radicata. Emanò leggi molto rigide contro i profanatori del tempio, contro le mode femminili, contro le religiose che avessero passione per le musiche profane; durante un concistoro, invocando l’umiltà di Cristo, supplicò i propri cardinali di abbandonare il fasto delle livree e delle carrozze, rinunciando al lusso, che mal si addiceva al decoro ecclesiastico. Vietò la vendita delle cariche religiose, e neppure quelle civili potevano essere cedute, sciolse il collegio dei ventiquattro segretari che era stato creato da Callisto III. Il 15 ottobre 1678 pubblicò una costituzione con la quale si rivedeva la procedura per le canonizzazioni, in modo da ridurre sensibilmente i costi. Ritoccò, con una serie di leggi, dette innocentine, le tariffe dei tribunali al fine di eliminare ogni forma di venalità, alleggerì il popolo di gravosi balzelli e prese di mira ogni forma di usura. La regina Cristina di Svezia invano intervenne per ottenere dal severo pontefice attenuazioni di pene, in tempo di carnevale, per i teatri e per i pubblici spettacoli. I cantori e i musi degli spettacoli profani furono esclusi dalle sacre funzioni, inoltre fu vietato l’accesso al palazzo pontificio a tutte le donne eccezione fatta per le sole sovrane. La nobiltà di fronte a tale rigore rimase scandalizzata e allibita, ma papa Innocenzo XI lasciò da parte le chiacchiere e proseguì per la sua strada di purificazione materiale della Chiesa romana. Durante il suo pontificato il gran Visir Kara Mustafà, con un esercito di giannizzeri e di duecentomila uomini nel luglio 1683 attaccò Vienna, alla difesa della quale l’imperatore Leopoldo aveva lasciato il conte Ruggero di Stahrenberg, il quale era pronto a morire piuttosto che a cedere. Papa Innocenzo XI invocò l’aiuto dei sovrani cristiani per evitare che i turchi dilagassero nel centro Europa, allora accorsero il re polacco Sobreski e il duca Carlo di Lorena. Sembrava che Vienna dovesse soccombere, ma il provvidenziale aiuto dei principi cristiani la salvò, grazie anche all’inviato particolare del papa, il cappuccino Marco d’Aviano, che riuscì ad appianare le rivalità che erano sorte fra i vari eserciti cristiani, mettendo così in fuga il barbaro esercito turco che lasciò sul campo ventimila uomini, tutta l’artiglieria e le ricchezze che avevano depredato. Il 6 ottobre 1689 venne eletto il cardinale veneziano Pietro Ottoboni che assunse il nome di Alessandro VIII (1689-1691). Con lui tornò in auge il più becero nepotismo, bastarono ventisei mesi di regno per arricchire enormemente i suoi nipoti, possiamo affermare che lui forse fu l’unico papa palesemente nepotista. Il papa Alessandro VIII fece venire a Roma molti suoi parenti, i quali ottennero subito uffici e ricchezze. Creò generale di Santa Chiesa il fratello Antonio Ottoboni, e nominò cardinale nipote il figlio di suo fratello, Pietro. Insomma ripristinò quella ignobile carica che il suo predecessore aveva abolito. Il cardinale nipote Pietro Ottoboni aveva un’entrata annua di settantamila scudi, insufficienti a mantenere il suo tenore di vita, essendo un mecenate spendaccione, gaudente ed astro del gran mondo romano, egli infatti viveva alla francese e consumava patrimoni nei banchetti e negli spettacoli teatrali. Marco Ottoboni, figlio di un altro fratello del pontefice, ebbe la soprintendenza delle fortezze e delle galee pontificie, anche se era gobbo e zoppo, non solo, ma il buon zio papa gli comperò anche per centosettantamila scudi il Ducato di Fiano, e lo fece sposare con Tarquinia Colonna, pronipote del cardinale Altieri. Papa Alessandro VIII soleva ripetere ai suoi familiari che doveva arricchirli più velocemente possibile, perché era anziano (aveva infatti ottant’anni passati) e la sua ora stava per arrivare; ebbe tuttavia il tempo per provare l’amara ingratitudine da parte dei parenti, cosa del resto che capitò forse a tutti i papi nepotisti, come se fosse un castigo divino. Alessandro VIII si conquistò la gratitudine della sua città natale, Venezia, per i cospicui sussidi in denaro che le concedette e per gli aiuti militari (sette galee e duemila fanti) che inviò contro i turchi nella campagna di Albania. Acquistò la biblioteca della defunta regina Cristina di Svezia, i cui libri andarono ad arricchire la Biblioteca Vaticana. Sotto il suo pontificato diminuì l’imposta sul macinato e concesse ai contadini la libertà di commerciare i grani. Papa Innocenzo XII (1691-1700) nato Antonio Pignatelli di Spinazzola fu il 242° papa della Chiesa cattolica. Nato a Spinazzola di Bari da Francesco, quarto marchese di Spinazzola e da Porzia Carafa principessa di Minervino, figlia di Fabrizio Carafa duca di Andria, era stato battezzato nella chiesa di San Giovanni Battista di Regina di Latterico (Cosenza). Venne educato nel collegio dei gesuiti di Roma, a vent’anni divenne un funzionario della corte di papa Urbano VIII, sotto i papi successivi servì come vicedelegato di Urbino e poi come governatore di Perugia, divenne quindi inquisitore nell’isola di Malta nel 1646, due anni dopo fu governatore di Viterbo, nel 1652 nunzio apostolico a Firenze, nel 1660 stessa carica in Polonia e quindi nel 1668 nella prestigiosa città di Vienna. Nel 1671 ebbe l’incarico di guidare la diocesi di Lecce, ma per soli due anni in quanto fu incaricato dal segretario della Congregazione dei vescovi e dei regolari. Il primo settembre 1681 fu nominato cardinale; l’anno dopo arcivescovo di Faenza e legato di Bologna; nel 1687 arcivescovo di Napoli. Alla morte di Alessandro VIII avvenuta il primo febbraio 1681 il conclave si protrasse per cinque mesi, fu il più lungo conclave del XVII secolo e il popolo romano manifestò il proprio dissenso con forti tumulti. Alla fine il nuovo papa fu eletto il 12 luglio 1691, frutto del compromesso tra i cardinali francesi e quelli del Sacro Romano Impero. Al momento della sua elezione Innocenzo XII aveva settantasei anni portati bene e nonostante l’età avanzata era molto energico e determinato. Il suo primo pensiero fu di condurre a termine la riforma antinepotista che Innocenzo XI aveva iniziato e che il successore (papa Alessandro VIII) aveva, con scandalo degli zelanti, interrotto. Il nome di Innocenzo XII sarà per sempre ricordato con onore per la costituzione Romanun Decet Pontificem, che fu promulgata il 13 luglio 1692. Il pontefice aveva interessato alla questione teologi e giuristi, cardinali e principi; ordinò inchieste, richieste, suggerimenti e proposte e alla fine affidò al cardinale Giovanni Francesco Albani il compito di compilare la bolla. Per incarico ancora del pontefice, Celestino Sfondrati componeva l’opuscolo: Nepotismus theologice expensus, quando nepotismus sub Innocentio XII abolitus fuit, per mettere in risalto, con gli argomenti offerti dalla storia, i devastanti effetti provocati dallo smodato amore dei pontefici verso i parenti. Il papa Innocenzo XII quindi diede disposizioni di ordine pratico e concreto, prescrisse ai pontefici di astenersi dal conferire uffici, cariche e beni della Chiesa ai propri parenti, sotto qualsiasi titolo. Sostenne che, se i parenti sono in condizioni misere, è lecito soccorrerli in misura eguale come sarebbe permesso fare con gli estranei. I titoli di generale delle galere, di generale della Chiesa, e di gonfaloniere, soliti a conferirsi ai parenti laici, furono aboliti come inutili: i parenti ecclesiastici non avrebbero potuto ottenere benefici e pensioni dalla Chiesa che eccedessero i dodicimila scudi annui. La bolla doveva venire giurata in ogni conclave da tutti i cardinali e dal papa appena eletto. Innocenzo XII prese una posizione decisa contro il nepotismo che troppo e troppo a lungo era stato uno dei grandi scandali della Chiesa; la bolla Romanum decet pontificiem proibiva ai papi, in qualsiasi momento, di concedere proprietà, incarichi o rendite a qualsiasi parente; inoltre, solo un parente poteva essere innalzato al cardinalato. In tutto il suo pontificato rimase fedele a questo, nessun suo familiare ebbe incarichi in Vaticano e negò perfino la porpora del cardinalato all’Arcivescovo di Taranto, perché suo cugino. Allo stesso tempo cercò di contrastare le pratiche simoniache della Camera Apostolica, e a questo scopo introdusse nella sua corte uno stile di vita più semplice e più economico. Egli stesso disse: “i poveri sono i miei nipoti”, paragonando la sua beneficenza pubblica al nepotismo di molti dei suoi predecessori, infatti il primo a sottoscriverla fu il papa e poi i trentacinque cardinali che si trovavano allora presenti a Roma. Tutto il mondo cattolico accolse con entusiasmo la bolla che poneva fine a tanti disordini, e che palesava la vitalità della Chiesa di Cristo, che sapeva purificarsi ed eliminare il demonio della corruzione, e fu accolta con grande approvazione anche dai protestanti. Solo a Roma, la cui vita mondana si animava grazie al nepotismo papale, questi provvedimenti furono accolti male. Si deve riconoscere che molti casati romani dovevano la loro ricchezza alla fortuna di avere avuto un papa della loro parentela, quindi i romani e soprattutto quelli che facevano parte dell’aristocrazia tentarono di ridicolizzarlo chiamando il pontefice “Pulcinella”, dato che era originario di Napoli. Il venerando pontefice concentrò tutta la sua energia a riformare spiritualmente e materialmente la Chiesa; dopo una visita del rigido cardinale Colloredo al clero romano impose l’obbligo di portare a Roma la veste talare e di fare gli esercizi spirituali due volte all’anno, ai canonici inoltre imposte l’obbligo della residenza. Nel 1694 creò la Congregazione per la disciplina e la riforma degli ordini regolari con lo scopo di riformare verso una maggiore spiritualità la Chiesa. Siccome il Palazzo Laterano ormai non era più abitato dai papi, cercò di mettere i poveri e gli inabili al lavoro perché la città sacra della cristianità era uno spettacolo molto brutto, quindi in questo edificio furono ospitate le donne, mentre gli uomini trovarono riparo nell’ospizio di Ripa. Tutti i diseredati di Roma acclamarono questo papa che fu talmente virtuoso nell’aiutare i bisognosi da consumare il tesoro pontificio, e risparmiando anche rigorosamente sulla sua mensa. Per migliorare l’amministrazione della giustizia fece erigere il Forum Innocentianum (Montecitorio). Questo grande papa, forse il migliore che in quel periodo storico la Chiesa abbia mai avuto, morì il 27 settembre 1700, e per sua volontà fu sepolto in un modesto sarcofago. CONCLUSIONI Anche dopo la bolla Romanum decet pontificiem, solo tre degli otto papi del XVIII secolo non nominarono cardinale un nipote o un fratello, a quanto sembra il collegio cardinalizio desiderava che fosse seguito il criterio dei nipoti rispetto a quello dei favoriti, dato che lo considerava come alternativo, anche se dobbiamo ammettere che l’influenza del cardinale nipote scemò molto rapidamente nel XVIII secolo, in concomitanza con la crescita di quella del cardinale segretario di Stato. La Chiesa di papa Benedetto XIII venne dipinta dallo storico Eamon Duffy come “con tutti i mali del nepotismo”, però la figura del cardinale nipote era scomparsa. Ricordiamo solamente Neri Corsini, cardinale nipote di papa Clemente XII (1730-1740), che fu forse il più influente cardinale nipote del XVIII secolo, anche a causa dell’età avanzata e ai problemi di salute dello zio (era cieco). Papa Benedetto XIV (1740-1758), successore di Clemente XII, venne giudicato positivamente dagli storici, perché scelse in modo categorico la collaborazione del suo segretario di Stato, il cardinale Silvio Valenti Gonzaga. Romoaldo Braschi Onesti, nipote di papa Pio VI (1775-1799), fu il penultimo cardinale nipote. Dopo il vivace conclave del 1800, papa Pio VII (1800-1823) abbandonò l’istituzione e al tempo stesso la consuetudine storica del cardinale nipote e affidò la gestione del governo nelle mani del segretario di stato, Ercole Consalvi. Durante il XIX secolo, solo un nipote di un papa, Gabriel della Genga Sermattei, venne elevato alla porpora cardinalizia, questo avvenne nel concistoro del primo febbraio 1836, ed egli non fu nominato cardinale dallo zio, Leone XII, bensì da papa Gregorio XVI. Sebbene l’istituzionalizzazione del nepotismo fosse decaduta nel XVIII secolo, il ricorso ai familiari nell’amministrazione pontificia perdurò fino al XX secolo, pure se questa prassi divenne gradualmente assai rara. Seguendo l’esempio di Pio VI, Leone XIII (che fece cardinale suo fratello Giuseppe Pecci, il 12 maggio 1879) e Pio XII (1939-1958) indebolirono la burocrazia curiale in favore di un “governo parallelo”, in cui sovente figuravano loro parenti. La perdita del potere temporale sullo stato pontificio (de facto il 20 settembre 1870 con la presa di Roma da parte del Regno d’Italia e de jure nel febbraio del 1929 con la firma dei Patti Lateranensi) annullò inoltre le caratteristiche strutturali che avevano condizionato in modo palese le politiche familiari dei papi del passato. In questo libro ho cercato di ripercorrere attraverso i secoli il perverso male del nepotismo, senza tralasciare qualche nozione storica sulla storia dei papi e l’affermarsi della riforma protestante, con la conseguente risposta della Chiesa attraverso la Controriforma. APPENDICE Per manifestare il mio profondo dolore al Santo Padre dedico queste composizioni al defunto e grande papa Giovanni Paolo II, l’unico pontefice che ho amato dal profondo del cuore, ringrazio mia moglie Silvana Patrizia Iliev d’Amato (nata a Utrecht, Paesi Bassi), per gli scritti che ha dedicato a questo santo papa, condividendo con me l’accentuata costernazione per la sua scomparsa. Caro Padre Santo che ci hai abbandonato in questa vita terrena lasciandoci smarriti e addolorati, privati di quel grande amore che solo tu come Gesù ci hai sempre saputo dare. Tu solo hai saputo insegnarci l’amore più grande, le sofferenze e il perdono ed il tuo ricordo ci rimarrà per sempre impresso. La tua semplicità ha fatto sì che noi ti potessimo sentire vicino come un padre o una madre che ama e perdona sempre i suoi figli. Sei stato l’emblema di Cristo venuto tra noi per donarci quell’amore di cui abbiamo tanto bisogno e che ora ci mancherà. Grazie. Che Dio ti ricompensi nell’alto dei Cieli, per il bene che ti sei meritato e ci consoli col pensiero che dall’alto tu possa vedere quanto l’intero mondo ti ha amato. Addio Giovanni Paolo II Silvana Patrizia Iliev d’Amato O adoratissimo Papa! Che dopo una lunga vita terrena hai raggiunto il tuo Signore, prega per noi misericordiosi mortali rimasti su questa Terra a rimpiangerti. Dinanzi al tuo cospetto ci siamo sentiti piccoli dopo la tua morte, perché finalmente abbiamo appreso il vero significato del tuo vivere e del tuo insegnamento. Accanto alla moralità che ci hai insegnato, ci hai insegnato tanta spiritualità, di cui forse spesso oggi ci dimentichiamo. Ma soprattutto tu ti sei trasformato prima che in un pontefice, un uomo, dandoci prova di una persona di grande umanità e nonostante questo una grande devozione a Dio. Grazie per la tua umiltà. Grazie per averti sentito vicino. Grazie per averci fatto capire il sacrificio di Gesù che a sua volta è stato anche il tuo. Ti ricorderemo sempre con amore e profonda stima. Il tuo ricordo rimarrà indelebile. All’amato Papa Woytila Silvana Patrizia Iliev d’Amato TESTI CONSULTATI Montanelli – Gervaso, Storia d’Italia (L’età delle guerre di religione) – Fabbri Editori 1994-1996 Giulio Ubertazzi – Lutero – 1989 – Fratelli Melita Editori Roberto d’Amato, Concezione politica italiana – stampato in Gorizia, settembre 2005 Roberto d’Amato, L’arte amatoria e il pensiero politico, secondo il divino marchese Donatine Alphonse Francoise de Sade – stampato in Gorizia, 25 agosto 2004 Roberto d’Amato, L’ideologia politica della destra – stampato in Gorizia 23 dicembre 2004 Roberto d’Amato, Concezione politica di Machiavelli – stampato in Gorizia settembre 2005 di Roberto d’Amato Abertone A., Storia delle dottrine politiche, Milano, Edizioni di Comunità, 1990 Bobbio N., Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma – Bari, Laterza 1997 Sabine, Storia delle dottrine politiche, Milano, Universale E.T.A.S., via Mecenate 87/6 Duffy Eamon, La grande storia dei papi, santi, peccatori, vicari di Cristo, di, Mondatori 2001 Zanlari Andrea, Le origini del potere farnesiano: nepotismo e mecenatismo nella Roma del cinquecento (1995) Cronologia dei papi da San Pietro a Giovanni Paolo II: duemila anni di storia della Chiesa. Anno 1999 Editore Vallardi Teodori Marco, I parenti del papa, editore Cedam, Padova 2001 Antonio Menniti Ippolito, Il tramonto della curia nepotista. Papi, nipoti e burocrazia curiale tra il XVI EXVII secolo, Viella Editore La Boa Juan Jaca Bock, La storia dei papi tra il Regno di Dio e le passioni terrene, editore, traduttore Tamburini Zapperi Roberto, Paolo III e i suoi nipoti nepotismo e ritratto di stato. Autore Chiomenti Vassalli, Donata Donna Olimpia del nepotismo nel Seicento, Milano, Mursia 1980 Bernasconi Marzio, Il cuore irrequieto dei papi: percezione e valutazione ideologica del nepotismo sulla base dei dibattiti curiali del 17 secolo Carocci Sandro, Il nepotismo nel Medioevo: papi, cardinali e famiglie nobili, Viella Editore 1999 J. Gelmi, I papi, Rizzoli editore 1987 Il sottoscritto d’Amato Roberto, nato a Bra (CN) il 27/07/1963, residente in Friuli Venezia Giulia dal 1967 presta la propria opera lavorativa nelle scuole dal 7 settembre 1992. Ha pubblicato i seguenti fascicoli: L’ideologia politica della destra, Gorizia 2004 La rivoluzione francese e le sue cause, Gorizia 2004 Tecniche di seduzione e brevi cenni storici, Gorizia, maggio 2004 L’arte amatoria e il pensiero politico secondo il divino marchese Donatien Alphonse Francois de Sade, Gorizia, settembre 2004 Concezione politica italiana, Gorizia settembre 2005 Concezione politica di Machiavelli, Gorizia settembre 2005 Hitler e il suo rapporto con il nazismo, Gorizia settembre 2005 Storia del libertinismo, Gorizia dicembre 2006 Concezione politica di Robespierre, Gorizia dicembre 2006 Mussolini e la Repubblica Sociale (ultimo atto), Gorizia luglio 2007 Adesso ho il sito Interne dove qualsiasi persona può scaricare gratuitamente i miei fascicoli: damatoroberto.altervista.org.