IL NEPOTISMO FRA MEDIOEVO,
RIFORMA PROTESTANTE E CONTRORIFORMA
di Roberto d’Amato
INTRODUZIONE
Il Nepotismo fu un fenomeno che coinvolse la Chiesa Cattolica, soprattutto prima del
Concilio di Trento, ed in particolare nei secoli XV, XVI e XVII, periodi di un’accentuata
attività politica del potere temporale dei papi. Esso si esprimeva con il favorire i propri
familiari nei posti di potere (lucrosi vescovati, porpore cardinalizie e appetitose prebende),
sotto alcuni pontefici (per esempio Alessandro VI Borgia e di Paolo III Farnese) i nepoti (da
cui il nome) spesso furono i loro stessi figli. Questa forma di clientelismo parentale si
corroborò talmente tanto che divenne un formidabile strumento di tutela degli interessi
dinastici della casata d’origine del pontefice; essa si perpetuò anche dopo la controriforma,
con la figura del cardinale nipote, questi era di solito un prelato parente del papa e per
questo motivo elevato ad altissime cariche nel governo della Chiesa. Dobbiamo tuttavia
riconoscere che alcuni pontefici, nonostante la piaga del nepotismo, furono artefici di un
grande fermento culturale, poiché furono dei sublimi mecenati, infatti furono protettori ed
incentivatori della cultura e delle arti e molti artisti, come Michelangelo Buonarroti, che fu
l’autore degli affreschi della Cappella Sistina, Raffaello Sanzio ed altri ancora, i quali
grazie a loro poterono esprimere tutto il proprio ingegno ed estro. Possiamo affermare che
questi artisti contribuirono all’affermazione dell’Umanesimo e in seguito del
Rinascimento, grazie a papi e cardinali intelligenti e colti, anche se in questo periodo come
ho poc’anzi detto si diffuse nella corte Papale quel triste fenomeno conosciuto come
nepotismo, aspetto sociale che in seguito penetrò in diversi periodi della storia e che
l’uomo ha palesemente mostrato di avere nel proprio DNA.
Se vogliamo essere pignoli, forme di nepotismo nella Chiesa si erano già verificate con
papa Adriano I (salito al soglio pontificio il 9 febbraio 772, morto il 25 dicembre 795 e
sepolto in S. Pietro), infatti suo zio Teodato ed i suoi nipoti Teodoro e Pasquale ricoprirono
le più alte cariche amministrative e giuridiche, gettando così le basi di quella piaga del
nepotismo che avrebbe caratterizzato la lunga storia dello Stato Pontificio. Il papa Adriano
I è ricordato anche come l’artefice della caduta dell’ultimo re longobardo Desiderio, il
quale non voleva restituirgli i territori pontifici che aveva occupato. Il Pontefice Adriano I
convinse Carlo Magno ad intervenire contro il re longobardo Desiderio che voleva fare
incoronare sua sorella Gerberga ed i suoi figli, quali eredi del regno del defunto
Carlomanno, fratello di Carlo Magno. Carlo Magno scese in Italia e sconfisse le truppe di
Adalgiso, Desiderio si rifugiò allora nella fortezza di Pavia e dovette subire l’assedio dei
Franchi. Carlo Magno, durante la sua permanenza in Italia, dato che era in guerra con
Desiderio, ebbe in San Pietro con il papa Adriano I dei colloqui politici che scaturirono
nella solenne firma della “donazione di Carlo Magno”, andata in seguito perduta, dove il
re franco concedeva la sovranità papale su quasi tutta l’Italia. L’attuazione di questa
concessione fu messa in pratica molto a rilento, perché il 10 luglio 774 a Pavia Carlo
Magno prese la corona ferrea, prendendo il titolo di “re dei Franchi e Longobardi” e il
titolo di “Patricius Romanarum” e non aveva nessun interesse che i domini pontifici si
allargassero, anche se il papa Adriano I scrisse molte lettere accorate affinché fosse attuata
la promessa della donazione.
Il discorso del nepotismo va correlato con il potere temporale dei papi, questa pratica di
avvantaggiare nelle cariche ben remunerate i propri parenti dipendeva infatti dal potere e
dai beni che lo stato della Chiesa possedeva. Tutto era cominciato con la controversa
donazione di Costantino del 321, un documento in base al quale l’imperatore donava alla
Chiesa (nella persona di papa Silvestro I) la città di Roma e l’Impero Romano d’Occidente,
spostando a Costantinopoli la sede del potere imperiale. Questo documento risultò falso
grazie all’illuminista Lorenzo Valla (1405-1457) che ne dimostrò la non esistenza. Con
questa presunta donazione e dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, la fisionomia della
Santa Sede assunse determinati connotati politici essendo di quell’impero diventata
l’erede (persino nella terminologia: sommo pontefice non è altro che la denominazione
cristiano-cattolica di pontefice massimo, una delle funzioni religiose esercitate dai re di
Roma, da Giulio Cesare e dagli imperatori romani fino al 375 d.C.), da questi possedimenti
territoriali reali o presunti nacque il nepotismo, cioè dalla facoltà del papa di esercitare il
potere temporale, quindi la possibilità di avvantaggiare i propri parenti.
Alcuni studiosi di storia danno una definizione schematica del nepotismo dicendo che
esso fu una tendenza manifestata da molti papi nei secoli XV - XVIII a privilegiare i
parenti con benefici (cariche ecclesiastiche e domini territoriali). Nei secoli XV e XVI il
nepotismo dette luogo alla formazione di domini e signorie da parte di abili avventurieri
legati da rapporti di parentela con singoli papi, come i Borgia. Nei secoli XVI – XVIII il
nepotismo si ridusse all’elargizione di cariche onorifiche e di rendite ecclesiastiche. Non
bisogna dimenticare che vi fu una forte connessione tra nepotismo e riforma protestante,
infatti nel 1500 il processo di mondanizzazione, cuore del potere e della ricchezza,
caratterizzava la corte pontificia. La politica del Papato era circoscritta all’ambito italiano e
la Santa Sede era contesa fra le grandi casate della penisola (della Rovere, de’ Medici,
Farnese, Borgia, Odescalchi, Orsini, Piccolomini, ecc.). La corruzione era talmente diffusa
nella Chiesa che ancor prima che le idee di Martin Lutero si diffondessero ci furono due
concili: quello di Costanza (1414-1418) e quello di Basilea (1437), che avevano provato a
mettere in discussione e tentato di ridimensionare il potere “monarchico” del papa. Nei
fatti però la Chiesa non volle cedere sul potere del pontefice e perseguì la sua concezione
politica della teologia universale, adducendo che con il riconoscimento del particolarismo
dell’autorità dei re nei loro rispettivi stati, si sarebbe creata una forma di anarchia
implicita. Questa precarietà politica, sempre secondo la Chiesa, avrebbe creato dei
potenziali conflitti in Europa, quindi solo il papa era in grado di assicurare pace ed
armonia in Europa, grazie al potere temporale che gli derivava direttamente da Dio.
Nepotismo significa favorire i propri parenti a causa del loro legame familiare, senza
tenere conto delle loro capacità, il termine deriva dalla parola latina nepos, che significa
“nipote”, viene di solito usato in senso negativo. Ad esempio, se un manager assume o
promuove un parente, piuttosto che un estraneo più qualificato, quel manager verrà
accusato di nepotismo. Alcuni biologi hanno sostenuto che la tendenza al nepotismo è
istintiva, una forma di selezione parentale. Il nepotismo, in particolare quello storico, fu
una piaga schifosa che gettò molto fango alla Chiesa come istituzione. Attualmente forme
di nepotismo si verificano nelle famiglie che in uno stato detengono il potere,
rappresentando così un pericolo per la democrazia perché determina una concentrazione
di autorità nelle mani di ristretti gruppi famigliari, questo sistema ostacola l’accesso
universale e meritocratico alle istituzioni e alla pubblica amministrazione, che sono
impostate su un rapporto fiduciario, anziché impersonale, tipico di uno stato moderno. I
legami personali possono compromettere l’indipendenza di un’istituzione e la sua
credibilità morale. Se si verifica ai più alti livello dello stato, fra dirigenze dei partiti di
maggioranza e opposizione (oppure ministri, presidenze dei rami del parlamento e della
repubblica), può trasformare una democrazia in una specie di monarchia costituzionale.
Le leggi sul conflitto d’interesse talora contengono dei vincoli di incompatibilità anche fra
parenti e consanguinei.
Per quanto concerne il nepotismo nella storia e in politica, nel Medioevo alcuni papi e
vescovi cattolici, che avevano optato per il voto di castità, allevarono i loro figli illegittimi
come nipoti e concedettero a loro dei favori, infatti diversi papi passarono alla storia per
aver elevato nipoti ed altri parenti al cardinalato. Sovente questi incarichi erano un
formidabile strumento per portare avanti una “dinastia papale”, ad esempio papa Callisto
III, della famiglia Borgia, rese cardinali due dei suoi nipoti; uno di loro, Rodrigo, in seguito
usò la sua posizione di cardinale come punto di lancio verso il papato, divenendo papa
Alessandro VI. Contestualmente Alessandro VI fu uno dei papi più corrotti, ed elevò
Alessandro Farnese, fratello della sua amante, alla porpora cardinalizia, in seguito questi
raggiunse il soglio di San Pietro con il nome di papa Paolo III; questo pontefice nominò
due nipoti di quattordici e sedici anni cardinali. Questa consuetudine scellerata cessò
formalmente con papa Innocenzo XII, il quale emise una bolla nel 1692; in questo
documento si proibiva in modo tassativo ai papi di concedere feudi, titoli nobiliari,
incarichi o benefici economici, al massimo un parente qualificato poteva essere nominato
cardinale.
Nepotismo è un’accusa comune in politica, quando il parente di un personaggio potente
raggiunge alti livelli sul lavoro, senza averne la qualifica. Ad esempio, negli USA, famiglie
politicamente potenti come la famiglia Kennedy e la famiglia Bush, sono talvolta accusate
di nepotismo dai critici. Altri esempi di famiglie che hanno dominato la politica del
proprio paese sono Tun Abdul Razak, secondo Primo Ministro della Malaysia, o come Lee
Kuan Yew, Primo Ministro di Singapore, e suo figlio, Lee Hsien Loong, che è recentemente
succeduto a Goh Chok Tonk nello stesso incarico. Nel Regno Unito la popolare
espressione “And Bob’s your uncle” (e Bob è tuo zio) ebbe inizio quando il Primo Ministro
Robert Cecil Lord Salisbury nominò suo nipote Arthur Balfour ad un prestigioso incarico.
In Cina, il nepotismo è visto in luce positiva, come un motivo legittimo per essere assunti,
infatti alcuni cittadini cinesi fecero causa al governo cinese a causa delle migrazioni
coattive, adducendo tra le altre cose che questa divisione forzata dalla famiglia
influenzava la possibilità di essere assunti. L’attuale record di nepotismo tra i capi di stato
è detenuto dal presidente Mammoon Abdul Gaymoon delle Maldive che conta almeno
undici parenti e amici nel suo gabinetto, oltre a numerosi altri nei più alti incarichi di
governo.
Come alcuni sanno, strettamente collegata al nepotismo fu la riforma protestante, perché
la vendita di cariche e prebende scandalizzò i principi tedeschi che usarono il pretesto del
malcostume della Chiesa per creare una propria religione cristiana incamerando i beni
ecclesiastici in Germania, anche se bisogna ammettere che la causa scatenante la riforma
protestante fu la vendita delle indulgenze. Artefice di questa mercificazione dell’anima fu
papa Leone X nel 1517 (in pieno periodo di nepotismo) al fine di reperire i fondi
indispensabili per costruire la cupola di San Pietro. La stretta correlazione fra nepotismo e
riforma protestante in Germania raggiunse l’apice con Alberto di Hohenzollern, vescovo
di Magdeburgo e amministratore di Halberstadt, il quale aspirava anche all’arcivescovado
di Magonza. Dato che il cumulo dei benefici era vietato, Alberto di Hohenzollern iniziò le
trattative con Roma ed alla fine ottenne ciò che voleva in cambio di parecchio denaro. Il
futuro arcivescovo di Magonza, per pagare la Chiesa di Roma al fine di ottenere
l’agognata sede arcivescovile, aveva contratto un debito con i banchieri Fugger e per
chiudere il debito ricorse alla predicazione delle indulgenze. Il domenicano Giovanni
Tetzel ebbe il compito di diffondere le indulgenze, ed egli, al fine di convincere i propri
fedeli ad acquistarle, non si fece scrupoli ed usò gli argomenti più disparati e dozzinali: ad
esempio le indulgenze potevano essere chieste in qualsiasi momento della vita, il
pentimento, anche per i peccati mortali, poteva essere rimandato e l’eventuale rinvio non
comprometteva l’efficacia immediata delle indulgenze acquistate in suffragio delle anime
dei defunti. Da qui lo scandalo! E’ rimasto famoso anche un suo slogan: “Sobald das Geld in
Kasten klingt/ die Seele in den Himmel springt“, appena il denaro risuona nella
cassetta/l’anima salta in Cielo. L’Elettore di Sassonia non concesse che la pratica delle
indulgenze venisse predicata nei suoi territori (di cui Wittenberg era capitale) ed il monaco
teologo Martin Lutero (1) apprese la notizia di questa odiosa compravendita dai fedeli che
si erano recati ad ascoltare il prete domenicano Tetzel. L’insegnamento propugnato dal
domenicano incontrò la ferma ostilità di Lutero, che di fronte a questo perverso
mercanteggiare elaborò le famose novantacinque tesi (com’era in uso tra i professori di
teologia) e la tradizione afferma che esse furono affisse alla porta della chiesa di
Wittenberg il 31 ottobre 1517 (vigilia della festa di Ognissanti, cui era dedicata la chiesa del
castello), invitando i dotti a discuterne; inoltre, devoto alla gerarchia, ne inviò copia ad
Alberto, pregandolo di fare di tutto affinché questo scandalo non si perpetuasse. Alberto,
arcivescovo di Magonza, invece di ascoltare i consigli di Lutero, lo denunciò a Roma e
cercò, con i teologi di Magonza, di controbatterne le tesi. Trascorsero tre anni, durante i
quali Lutero ebbe i famosi scontri teologici con Eck e con il Caetano, i quali accrebbero la
fama di Lutero e dei suoi proseliti. Nel 1520 papa Leone X con la bolla Exurge Domine
condannava le quarantuno proposizioni degli scritti di Lutero e ingiungeva al monaco di
ritrattare le sue tesi, pena la scomunica. Alla fine del 1520 Lutero bruciò la bolla
pubblicamente e questo gesto segnò la rottura definitiva con la Chiesa di Roma, infatti con
la bolla Decet Romanum Ponteficem, il 3 gennaio 1521 Lutero fu scomunicato. Durante la sua
nobile battaglia Lutero nel 1520 aveva pubblicato tre opere che sono alla base del
protestantesimo: La libertà del cristiano, La cattività babilonese della Chiesa e Alla nobiltà
cristiana di nazione tedesca. In queste opere Lutero sosteneva che il sacerdozio era universale
e non c’era distinzione fra clero e laici, inoltre veniva rifiutato il diritto della sola gerarchia
ecclesiastica d’interpretare la Sacra Scrittura. Nemico numero uno dell’Impero, Lutero
trovò riparo a Wartburg e in questo luogo iniziò la traduzione della Bibbia in tedesco, che
fu pubblicata nel 1534 (prima il Nuovo e poi l’Antico Testamento). Nel frattempo la
Germania veniva scossa dalle forti rivolte contadine, che si erano accentuate in seguito alla
predicazione di Lutero, quindi molti principi tedeschi cattolici accusarono il teologo
tedesco di aver fomentato l’odio verso l’autorità e le istituzioni preesistenti (clero, nobiltà),
dando troppa dignità spirituale al popolo, che per le classi privilegiate era solo
un’espressione animalesca da sfruttare. Lutero ebbe una forte polemica intellettuale con
Erasmo da Rotterdam, infatti questo pensatore e filosofo olandese nei suoi due scritti
espresse il proprio pensiero (De libero arbitrio diatribe, 1575 e Hyperaspites, 1526). I due in
realtà erano su posizioni antitetiche che non potevano incontrarsi, Erasmo respingeva la
dottrina del peccato totale, e riteneva che nell’uomo sussisteva una parte di libertà, mentre
Lutero non negava che l’uomo peccatore fosse capace di scelte intelligenti e di decisioni,
ma ciò non violava la sovranità assoluta di Dio, perché secondo il monaco tedesco la fede
doveva essere un abbandono totale a Dio e all’uomo non spettava nessun merito né
iniziativa per la sua salvezza. Il movimento riformatore continuò a diffondersi, si
costituirono i primi gruppi di luterani in molte città tedesche. Nella Dieta di Spira del 1529
i luterani (che avevano cinque principati e quattordici città) furono messi in minoranza
nella Dieta stessa. Essi allora protestarono contro la maggioranza che voleva imporre loro
la conformità religiosa e da lì nacque il termine appunto protestare, vuole dire attestare
pubblicamente, impegnarsi a favore di qualcosa. L’intenzione originaria era quella di far
capire alla Chiesa romana di riformarsi in conformità al Vangelo. La divisione
confessionale fu una deformazione posteriore, la rottura della Comunione con Roma non
era stata prevista e venne registrata come una reazione dolorosa e inattesa ma ormai
inevitabile. Gli avvenimenti si acuirono nel 1530 alla Dieta di Augusta, durante la quale
l’imperatore Carlo V propose una nuova riappacificazione, ma i protestanti lessero
solennemente la loro professione di fede, redatta da Filippo Melantone, la Confessione di
Augusta, che non fu accettata e Carlo V ordinò loro di fare atto di sottomissione, in
risposta i protestanti si organizzarono nel 1531 nella Lega di Smalcalda. Ormai le posizioni
erano troppo antitetiche. Si arrivò con alterne vicende al 1555 (Lutero era morto nel 1546)
con la pace di Augusta che stabiliva il principio, da un lato, della “Cuius regio eius religio”
(ogni territorio deve mantenere la religione del suo principe), tranne i territori ecclesiastici
secolarizzati prima del 1552, che non erano più rivendicati dalla Chiesa cattolica, mentre
se un principe ecclesiastico si convertiva al protestantesimo dopo il 1552 doveva
rinunciare ai possedimenti che appartenevano alla Chiesa Cattolica, invece nelle città era
tollerata la coesistenza pacifica delle due confessioni.
Per quanto concerne la teologia di Lutero, nel corso dei secoli il contatto del cristianesimo
con l’ellenismo ed il platonismo aveva cambiato l’originaria concezione ebraico-cristiana
dell’uomo e della sua salvezza; la concezione realistica e unitaria dell’uomo derivata
dall’ebraismo, per cui l’uomo era una persona, cioè anima e corpo insieme, si era
trasformata in un dualismo per cui l’uomo era fatto di due sostanze diverse separate e in
lotta tra loro. L’anima veniva considerata immortale per sua natura e non per grazia
divina e quindi l’uomo poteva salvarsi grazie alle sue sole forze, con dei metodi ascetici, in
definitiva l’uomo non era più messo in difficoltà dal Vangelo, ma si era adeguato ad una
specie di paganesimo ottimistico. Lutero ribadì con forza che solo Cristo era l’unica via di
salvezza, mentre l’uomo non poteva fare nulla da solo. Il monaco tedesco era contro una
concezione che aveva trasformato Dio in un essere a servizio dell’uomo, di cui l’uomo
potesse servirsi a piacimento per i suoi fini. Dio per Lutero era un Deus absconditus, la cui
realtà e azione erano riconoscibili solo per mezzo della fede, nel paradosso, nella
sofferenza, nella problematicità della vita, morte e resurrezione di Cristo. Da qui le quattro
affermazioni di Lutero: Solus Christus, sola scriptura, sola gratia, sola fide. La cosa
fondamentale era la conversione ad una nuova concezione che decideva di stabilire il
fondamento della propria vita di credente non sull’uomo, ma su Cristo. Da qui la libertà
dell’uomo che non si concentrava più su se stesso, ma si fondava sulla fede in Cristo e che
si abbandonava totalmente a Dio. Neppure la Chiesa poteva considerare sé stessa
superiore alla critica che su di essa esercitava il Vangelo, l’alternativa era tra il confessore
Cristo come “Via, Verità e Vita”, oppure trasferire alla Chiesa e ai suoi rappresentanti i
privilegi che erano solo di Cristo. La Chiesa infatti, nel corso dei secoli, era diventata essa
stessa oggetto di fede. L’assimilazione tra la Chiesa e Cristo era ispirata in modo
determinante alla funzione del papa, alla gerarchia episcopale, al ministero sacerdotale, in
cui si pretendevano di attuare le funzioni del solo Cristo come maestro, sacerdote e
signore. Se la Chiesa annunciava che Cristo era il maestro, allora doveva riconoscersi come
sua discepola e non proclamare sé stessa maestra. La Chiesa doveva quindi riconoscere la
propria umana possibilità di sbagliare ed accettare l’esigenza riformatrice, altrimenti il
magistero della Chiesa si sostituiva a quello di Cristo. Attribuire solo a Cristo la funzione
del magistero comportava per Lutero un’innovazione radicale nelle istituzioni della
Chiesa che finiva di essere un organismo garante della verità e dell’ortodossia, per
diventare alla fine serva dell’Evangelo. Proseguire il regime sacerdotale come nel
cattolicesimo significava per Lutero non aver capito la novità del Cristianesimo, che
segnava la liberazione dei credenti da ogni mediazione e dipendenza sacerdotale. Il ciclo
millenario dei sacrifici era ormai concluso: non vi erano più sacerdoti ma solo predicatori
che annunciavano la buona novella (= Evangelo) che Dio si era incarnato in Gesù. Dire che
Gesù era sacerdote significava che egli aveva messo fine al sistema sacerdotale, ponendosi
come unico mediatore tra Dio e gli uomini. Ogni credente era inoltre “sacerdote” nel senso
che offriva sé stesso al Padre ed ai fratelli, in questo modo non poteva esserci un ordine
sacerdotale diverso dagli altri credenti, e ciò perché nel protestantesimo la questione
decisiva non era la celebrazione di un sacrificio da parte di un sacerdote (Messa), ma era
l’annuncio di Cristo e la fede che accoglieva questo annuncio. La norma per conoscere Dio
non era l’uomo, la ragione, la religione in genere; Dio poteva essere conosciuto solo
accettando la parola della predicazione basata sulla testimonianza delle scritture. Sta qui
una decisione di fede: la decisione di impostare tutti i problemi nella prospettiva gioiosa
dell’azione di Dio in noi. L’uomo era nello stesso tempo peccatore e giusto: l’uomo viveva
nella sua umanità peccatrice ma viveva anche nella fede salvato da Cristo. Ciò gli
impediva da una lato la disperazione e dall’altro l’orgoglio di credersi salvo per le proprie
opere (pecca fortemente ma credi ancora più fortemente, scrisse in una lettera a Melantone
del 1 agosto 1521). Avere fede vuole dire mettere fine a tutte le situazioni mondane e
religiose, lasciarsi “catapultare” dal Cristo al di fuori di noi stessi, per liberarci da noi
stessi. Il Vangelo, quando era accolto con fede, creava degli uomini liberi “Se rimanete
fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà
liberi”. Inoltre esso non poteva essere prerogativa o proprietà esclusiva di nessuna
confessione cristiana (cattolica, protestante, ortodossa). La confessione dell’Evangelo
doveva avvenire in un respiro di libertà: libertà significava essere animati da uno spirito
critico verso sé stessi, evitando le sicurezze “assolutistiche”, problematizzando tutto ciò
che era nuovo e storico e quindi anche le convinzioni sia personali che ecclesiastiche.
(1)Martin Luther nacque ad Eisleben (Sassonia) il 10 novembre 1483 da Hans Luther o
Luder e da Margherita Lindemann. La famiglia si trasferì a Mansfeld Magdeburgo,
Eisenach e infine a Erfurt. Qui Lutero divenne magister artium nel 1505 e il padre scelse per
lui la carriera forense. Il 2 luglio 1505, sorpreso da un forte temporale presso Stotterheim,
fece voto a S. Anna che, se si fosse salvato, si sarebbe fatto frate e difatti il 17 luglio entrò
nel convento degli eremiti agostiniani di Erfurt. Gli consentirono di proseguire negli studi
e nel 1512 divenne dottore in teologia. Ottenne subito l’incarico di insegnare all’università
di Wittenberg, dove Lutero rimase quasi tutta la vita (tranne un breve periodo a Wartburg,
dove fu nascosto dopo la scomunica). Nel 1525 contrasse matrimonio con Catherina Von
Bora da cui ebbe sei figli. Nello stesso anno Lutero pubblicò il “De servo arbitrio” contro
Erasmo. Nel 1534 pubblicò la traduzione della Bibbia in tedesco, l’opera avrà un successo
ed un’influenza enorme contribuendo ad unificare la lingua ed il popolo tedesco. Il 13
dicembre 1545 si aprì finalmente il Concilio di Trento, mentre Lutero morì dopo poco, il 18
febbraio 1546, la sua salma fu tumulata nella chiesa di Wittenberg.
CAPITOLO I
Concezione ideologica del nepotismo dei papi.
Il nepotismo non può essere bollato come una mera superficialità dei papi nel gestire la
cosa pubblica, questa concezione perversa di gestire il potere trova le radici nell’amore per
il proprio sangue, dunque in pratiche sociali molto arcaiche, quasi di origine biologica,
contestualmente trae alimento da numerose altre fonti, associandosi a valori morali,
comportamenti sociali, strutture politiche e di potere, è onnipresente e poliedrico. Esso
condiziona sviluppi storici diversissimi che spaziano dall’evoluzione del sentimento
religioso ai processi di costituzione statale, all’affermazione del potere temporale del papa
(la cosiddetta potestà d’impero superiore anche all’autorità dei sovrani), al potere di
mobilità e ricambio delle aristocrazie. In pratica possiamo affermare che con il nepotismo
viene istituzionalizzata la capacità della Chiesa di adeguarsi agli assetti politici e sociali,
assumendo forme e impostazioni diverse, per questo motivo da duemila anni la Chiesa
come struttura ha mantenuto la sua influenza (ricordo ai miei gentili lettori che il Vaticano
ha abolito la pena di morte appena nel 1969). Nella lingua odierna, nepotismo designa, in
modo superficiale, una forma di malcostume aperta ad ogni personaggio dotato di
influenza e potere. L’origine del suo significato è precisa nel senso che la negatività del
termine era circoscritta all’ambiente romano, o meglio, curiale e papale; sarebbe troppo
limitativo definire il nepotismo una forma perversa di decadenza della Chiesa, perché era
nato già nel XIII secolo, ma questo modus operandi ebbe il suo apogeo nel Seicento,
culminando in una pratica che da circa un secolo veniva seguita da tutti i papi, al punto di
trasformarsi in un’istituzione: il cardinale nipote. Il papa neoeletto elevava al cardinalato
un parente stretto, di solito appunto un nipote, al quale venivano conferite funzioni
fondamentali, di natura tanto istituzionale, come la carica di “Sovrintendente allo Stato
ecclesiastico”, quanto informale, di massimo referente del tessuto clientelare. Per
estensione, il nepotismo già allora non indicava soltanto il ricorso alla figura del cardinale
nipote, ma più in generale quel radicato atteggiamento di tutela e di favore verso i parenti,
comune a tutti i pontefici e ai grandi prelati. Così superficialmente inteso il nepotismo è
una costante della storia della Chiesa nel tempo che ha provocato reazioni e giudizi vari, i
più noti sono sicuramente le terzine dantesche sui simoniaci e su papa Nicola III. Possiamo
cogliere anche parole di difesa e giustificazione del nepotismo, infatti il chierico Lambert
di Huy sosteneva che non era bene legare estranei al proprio ombelico. Per alcuni storici (e
apologeti) della Chiesa attivi alla fine del secolo scorso, le più antiche pratiche nepotistiche
risalirebbero addirittura a Cristo stesso, che non avrebbe esitato ad accogliere fra i suoi
discepoli alcuni parenti. Il nepotismo è stato oggetto di valutazioni diverse, che tuttavia
appaiono collegate da un omogeneo comune denominatore, come quelle di corruzione e
decadenza, considerate fuorvianti per comprendere la reale effettività e le cause storiche
delle pratiche nepotistiche. Molti studiosi della Chiesa e dei primi sviluppi dello Stato
Pontificio, hanno provato a dare un’interpretazione politico-amministrativa del
nepotismo, visto come uno strumento di governo, pur essendo una consuetudine
controproducente ma organicamente connessa al tipo di organizzazione curiale e statale
voluta dai papi. Il nepotismo, le sue modalità, il contesto in cui si svolse, le sue
conseguenze e simili argomenti restano tematiche trattate ai giorni nostri, e non solo dagli
studiosi dei secoli anteriori. Gli studi sul XVI e XVII secolo fanno ampio ricorso a modelli
molto precisi e specifici di derivazione sociologica. Wolfgang Reinhard, forse il maggiore
studioso del fenomeno, sostiene di applicare alla Corte della Roma rinascimentale e
barocca le teorie transazionali sviluppate dalla produzione sociologica contemporanea
(innanzitutto le categorie di patronage e clientela), per comprendere la ripartizione del
potere e i meccanismi di mobilità sociale. Renata Ago, adoperando le tematiche elaborate
dalle ricerche sulla società di corte, ha analizzato in modo specifico come i gruppi sociali si
formavano e si comportavano, sia soprattutto quali interazioni esistevano fra cultura,
comportamenti collettivi, scelte e motivazioni individuali. Nell’età moderna, lo storico ha
avuto a disposizione un materiale documentario immenso, costituito da lettere private,
memorie, autobiografie e carteggi diplomatici, prodotti fra l’età medievale e l’età moderna.
Non c’erano solamente difformità di fonti documentarie, diversa era la forma storica del
nepotismo, infatti nel tardo quattrocento almeno, le pratiche nepotistiche finivano per
comporsi in un fenomeno già in partenza ben individuato. Dal 1538, con la nascita della
figura del cardinale nipote, il nepotismo assunse una precisa fisionomia istituzionale, ma
già nei decenni precedenti lo sviluppo dei comportamenti nepotistici e i loro eclatanti
effetti sull’evoluzione storica della Chiesa avevano fatto di esso una realtà ben radicata
negli ordinamenti pontifici, anche se dobbiamo ammettere che il nepotismo restò latente,
in fase embrionale, poi nel XIII secolo conobbe una fisionomia composita, variata, poco
definibile. Il nepotismo, anche se fu un’esclusiva dei Papi, fu molto diffuso anche fra i
cardinali che ne fecero il loro trampolino di lancio per aspirare al soglio pontificio,
coltivando così anche il loro reticolo clientelare. Possiamo affermare con tutta tranquillità
che il nepotismo poté avere forti radici, perché la “monarchia papale” era dotata di poteri
immensi, sia in campo ecclesiastico che temporale, e non dimentichiamo il rapporto tra il
papa e la grande aristocrazia romana, che supportò palesemente ed indirettamente la
pratica scellerata del nepotismo. Alcuni storici e studiosi del fenomeno tendono a
giustificare questa pratica usata dai vari papi per mantenere e perpetuare il loro potere,
adducendo che anche i re e i sovrani di molti stati avevano agevolato i propri figli fino ad
accaparrarsi tutto il potere e i privilegi che potevano al fine di accrescere la propria
ricchezza e mantenere lo splendore della propria casata. Queste persone però dimenticano
che il papa non era solo un monarca elettivo dotato di potere temporale, ma rappresentava
la cristianità intera dal punto di vista morale, etico e spirituale, quindi il fenomeno non va
visto in senso positivo. Probabilmente se Gesù fosse vissuto nel 1500 (in pieno
Rinascimento), sarebbe rimasto come minimo schifato da un comportamento così
decadente, diseducativo e soprattutto contrario a quei precetti religiosi (onestà, rettitudine,
fedeltà, dedizione al lavoro) che caratterizzano il suo insegnamento. Il nepotismo va
analizzato studiando la dialettica sociale e politica del tempo, tenendo conto delle vicende
della Curia e dell’Istituzione pontificia e i loro rapporti con la parentela e i ceti nobiliari e
soprattutto la localizzazione del fenomeno a Roma e nel Lazio.
CAPITOLO II
Il nepotismo nel Medio Evo
Il papato nei secoli X – XI subì l’influenza della nobiltà romana, che esercitò un regime fra
oligarchia e il principato, in pratica il pontefice subiva la pressione della propria famiglia.
Verso il 1050, grazie all’intervento degli imperatori del Sacro Romano Impero (tra cui
ricordiamo Enrico III) la Chiesa di Pietro fu affrancata dal condizionamento esercitato
dall’aristocrazia del posto, dalle lotte fratricide e dalla decadenza dei costumi. Il papato si
liberò dal suo esasperato sapore localistico riacquistando universalità, fama e sovranità.
Alcuni studiosi riconoscono al papato nobiliare alcune peculiarità fondamentali: per
mezzo delle alleanze e dei possessi delle famiglie più influenti si creò una sinergia fra città
e territorio molto più efficiente ed empirica in antitesi alle astratte pretese temporali dei
papi alto medievali. Il papato nobiliare tentò di mediare tra la sovranità formale del Papa e
gli interessi reali dell’alta aristocrazia (Crescenzi, Tuscolani), esercitando nel contempo un
controllo del territorio. La decadenza della grande nobiltà romana e al contempo la
mancanza del controllo sul papa furono dovute all’errore di queste grandi famiglie
nobiliari che non estesero i propri domini, in pratica questo si tradusse in una perdita di
potere, anche se altre famiglie nobili romane (Frangipane, Pierleoni) riuscirono a
soppiantare le vecchie aristocrazie. Possiamo affermare che già all’inizio del papato di
Anacleto II, e in misura determinante dopo la sua morte, si ebbe una riforma radicale della
Chiesa, infatti fu valorizzato lo spirito universale dell’ordinamento papale, affermando
con decisione la preminenza del vescovo di Roma sulle strutture religiose. Il papa quindi
non poteva più subire l’egemonia delle famiglie nobili di Roma, ormai questo pensiero era
completamente superato. Il papato impiegò quasi cent’anni per realizzare la propria
affrancazione dall’alta nobiltà romana, ma alla fine vi riuscì, infatti per l’elezione del papa
fu creato un collegio cardinalizio ristretto, composto da sessanta cardinali influenti. Con
decreto di Nicola II, nel 1059 ai cardinali era stato riservato il diritto di esclusione di
eleggere il papa, l’apparato amministrativo del Laterano fu gradualmente sminuito come
esercizio del potere papale, perché dominato dalle famiglie aristocratiche della città e al
suo posto si formò la curia pontificia (XI secolo circa). Basilare fu la nascita del collegio dei
cardinali, perché questo importantissimo organismo affiancò sempre il papa nel governo
dello stato pontificio, quindi questi grandi prelati abbandonarono la loro funzione
spirituale (papa Urbano II fu l’artefice di questa riforma) per dedicarsi alla gestione dello
stato. Vicino al collegio cardinalizio furono create altre strutture amministrative, quali la
cappella, che sostituiva i cardinali nei loro compiti pastorali presso il pontefice, la
cancelleria, efficace ed articolato strumento di registrazione e scrittura, e infine la camera,
organo centrale di amministrazione finanziaria e di controllo burocratico amministrativo.
Con la creazione di questi nuovi organi il papa si liberava della presenza ingombrante
dell’alta aristocrazia, consuetudinariamente dominatrice dei posti di rilievo dello Stato
della Chiesa. La Chiesa si convinse che per mantenere questa indipendenza dalle famiglie
nobili doveva ingrandirsi territorialmente al fine di essere credibile, infatti con papa
Eugenio III (1145-1153) e papa Adriano IV (1154-1159) furono conquistati o annessi decine
di possedimenti (castelli, casali, ecc.). Molte famiglie aristocratiche furono costrette a
sottomettersi al papa tramite la meschina formula del vassallaggio: queste famiglie nobili
soggiogate dal pontefice dovevano fornire aiuti militari e tributi monetari in caso di
guerra, stipulare trattati di pace su ordine del papa e altri obblighi modificabili di volta in
volta. Il formarsi del comune di Roma rese più democratica la vita cittadina, infatti i
senatori che governarono il comune di Roma erano di estrazione popolare, anche se
bisogna ammettere che l’influenza degli aristocratici non cessò, ma fu più discreta e
diplomatica, infatti molti membri del senato erano di provenienza nobiliare. I contrasti con
il papa non mancarono, perché il comune di Roma non voleva sottostare all’influenza dei
pontefici, che tentarono vanamente di avere sotto la propria egemonia il collegio
senatoriale della città di Roma. Ritornando ai dissidi tra papato e comune, essi erano di
natura prettamente finanziaria, il sacro pontefice pretendeva dai cittadini grosse somme di
denaro per poter mantenere la corte pontificia, la curia apostolica, la cancelleria, e le altre
istituzioni, queste sovrapposizioni costrinsero sovente i papi a soggiornare fuori Roma.
Nel 1188 il papato raggiunse la pace con il comune di Roma. Non si trattò di una vittoria
del pontefice, bensì di un compromesso, infatti negli accordi di pace i senatori si
impegnavano a rispettare la sovranità della Chiesa, a giurare fedeltà alle istituzioni
religiose, rispettando i cardinali, chierici di curia, permettendo di nuovo alla Chiesa di
battere moneta e di avere il controllo di alcuni possedimenti come il Pantheon, Castel
Sant’Angelo, Ostia, ed altri ancora. Nel XII secolo si ebbero le prime forme di nepotismo,
dopo la morte di papa Innocenzo II la sua famiglia, i Papareschi, raggiunsero un notevole
rilievo nella città di Roma fino alla metà del XII secolo. Lo stesso dicasi per i Boveschi che
ottennero feudi (Bovarano e Empigliene) dal loro parente, papa Celestino III, questi,
durante il lungo cardinalato, prima di accedere al soglio di Pietro, nominò due suoi
parenti cardinali. Clemente III durante il suo pontificato fece dei favori alla sua famiglia,
quella degli Scolari, ma questo dopo la sua morte non migliorò la posizione del suo casato,
infatti questa famiglia tornò ad avere pochissimo rilievo nell’aristocrazia romana, anche se
bisogna ricordare che un suo nipote divenne cardinale, e altri suoi parenti ottennero dei
feudi nella zona di Lariano. Celestino III, eletto pontefice, favorì molto un ramo del suo
casato, quello del nipote Orso. I figli di suo nipote ottennero cospicue concessioni
territoriali ed assunsero il cognome di Orsini. Forme di nepotismo si sono sviluppate
anche nel periodo antecedente al XIII secolo, però è solamente in questo periodo storico
che il nepotismo segnò progressi così enormi, condizionando le strutture ecclesiastiche, la
vita politica e la società. Diciamo che questa forma di malgoverno fu dovuta all’enorme
crescita del potere dei papi e dei cardinali verificatosi nell’ordinamento ecclesiastico;
l’enorme espansione territoriale dello stato della Chiesa incrementò ulteriormente
l’autorità papale e di conseguenza il nepotismo, l’enorme flusso di risorse finanziarie di
cui disponeva il pontefice fece il resto perché molti papi medievali, attraverso cariche ben
remunerate date ai parenti, fecero confluire enormi risorse di denaro, accentuando
ovviamente il favoritismo verso i propri nipoti, fratelli, cugini.
CAPITOLO III
L’organizzazione politico-amministrativa della Chiesa nel Medio Evo
Nel XI secolo assistiamo ad un aumento vertiginoso del potere teocratico della Chiesa e
del potere d’Imperio romano che si tradusse nella formazione di una monarchia papale, che
si espresse in senso politico, nel rapporto con le strutture ecclesiastiche e nell’esercitare il
potere temporale. L’impostazione politica del pontefice si esprimeva come suprema
istituzione nel dirimere conflitti internazionali e proporsi come ultimo mediatore, queste
sue prerogative politiche nel XI – XII secolo traevano origine dal potere che Dio gli
delegava, quindi l’autorità papale era di origine divina e superiore a qualsiasi altra
istituzione o forza politica. Dove si estrinsecò maggiormente la cosiddetta monarchia
elettiva e papale fu l’ambito politico. Innocenzo III ammise la distinzione dei due poteri,
spirituale e temporale, attribuendo importanza al primo, però aggiunse che in caso di
bisogno il papa aveva il diritto di esercitare il potere temporale. Papa Innocenzo IV ribadì
in modo più intransigente la sovranità papale universale, che poteva deporre re e
imperatori e scegliere i vari contendenti alla corona. Durante i vuoti di potere imperiale il
pontefice poteva sostituirsi temporaneamente finché l’autorità dei sovrani non venisse
ripristinata: non solo, ma la giurisdizione ecclesiastica aveva preminenza su quella civile.
L’apice del potere teocratico fu raggiunto con Bonifacio VIII, che per giustificare
ideologicamente la sua teoria di supremazia del potere sui vari re e imperatori d’Europa
emanò la bolla Unam Sanctum del 1303. Secondo alcuni studiosi il nepotismo si sviluppò in
correlazione con l’affermarsi del potere papale, diciamo che nel XIII secolo la figura del
pontefice si avvicinò molto a quella di Cristo, egli infatti non veniva più definito, come
nell’alto medioevo, “vicario di Pietro”, bensì “vicario di Cristo”, sua immagine vivente in
terra. Papa Innocenzo III, per rendere ancora più divina la figura del papa, sostenne
l’infallibilità del capo della Chiesa. Il nuovo Stato della Chiesa aveva bisogno di una
struttura articolata e complessa per poter esercitare il proprio potere, di conseguenza
presso la curia romana, cioè nel cuore dell’ordinamento ecclesiastico, si verificò un
sensibile proliferare di uffici, aventi come obiettivo principale quello di assicurare ed
esprimere il controllo del pontefice sulla cristianità. Anche il personale addetto alla
cancelleria aumentò, si formò inoltre un accentuato gruppo di procuratori e l’ufficio
dell’auditor litterarum contradictorum. Sul piano giuridico si fece una totale riorganizzazione
di uffici e procedure, con la formazione di personale legislativo finalizzato e preparato che
era composto da cappellani papali e più tardi di auditores sacri palatii. A livello economico
si creò un sistema d’imposte centralizzato ed esoso, formato dalle decime che servivano a
finanziare le Crociate, per la riscossione dei diritti percepiti e per il conferimento o la
conferma di benefici ecclesiastici. Si creò anche la camera apostolica, fino all’istituzione
presso la curia di commissioni aventi come scopo precipuo i processi di canonizzazione
(con il papa Alessandro III la facoltà di pronunciarsi sulla santità fu sottratto ai vescovi e
riservato solo al papa).
Già mille anni fa il nepotismo era radicato nel tessuto sociale italiano, oggi ci lamentiamo
che gli avvocati, i notai, i professori ed altre categorie tendono a far fare ai propri figli le
loro professioni avvantaggiandoli in tutte le maniere. Il malcostume del nepotismo ha
un’origine atavica, teniamoci il nostro paese per quello che è, potremo gridare allo
scandalo, ma ormai questa aberrante pratica di aiutare figli e nipoti è insita nella
concezione politica sociale dell’Italia, ci vorrebbero forti trasfusioni di moralità ed etica per
salvare questo nostro paese. Io ormai sono rassegnato, come dicevano Pirandello, Tomasi
di Lampedusa e Verga, le cose nel Mezzogiorno non cambieranno mai, io aggiungo nella
nostra nazione resterà tutto statico perché è un paese di vecchi o affidato ai Matusalemme,
dove ogni cambiamento viene visto con sospetto.
Lo Stato della Chiesa cercò di attuare nelle sue province un controllo sistematico dei
fermenti religiosi e dei movimenti spirituali, l’esempio più palese fu la conferma dei
grandi ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. Altra innovazione fu
l’istituzione di quel formidabile strumento di sorveglianza e repressione rappresentato
dall’Inquisizione. Importante poi fu la crescente facoltà d’intervento dei pontefici nella
nomina dei vescovi voluta da Bonifacio VIII (1294-1303) attraverso la riserva generale ed il
diritto di appello, questi strumenti permettevano ai papi di scavalcare la consuetudine fino
ad allora seguita che assegnava al clero della diocesi e in particolare ai canonici della
cattedrale il ruolo prioritario nell’elezione del nuovo vescovo. Anche la Chiesa, come gli
stati dell’epoca, realizzò un sistema bicefalo fra potere centrale e poteri periferici,
possiamo affermare che nel XIII secolo si affermò la differenza fra città e territori soggetti
per via diretta alla Chiesa, e città e territori soggetti ad un controllo compromissorio,
perché in primis erano sotto il controllo dei comuni maggiori o di casati nobili o religiosi.
La piccola città protetta da mura che era sotto una famiglia gentilizia, o il territorio rurale
di un convento, oppure le zone inserite in un contado comunale, risultavano precisamente
mediate subiecti alla Chiesa. Sudditi diretti del papato erano formalmente le famiglie
aristocratiche, l’ente monastico o il comune, i quali esercitavano sui propri soggetti (i
contadini del villaggio, gli abitanti del territorio monastico, gli abitanti del contado della
città) potere assoluto, mentre i sudditi diretti della Chiesa (nobili, comuni, monasteri)
avevano riconosciuti enormi margini di autonomia e di autogoverno. La Chiesa sviluppò il
nepotismo anche per due fattori che per essa rappresentavano l’anello debole: il pontefice
non riusciva a tenere sotto controllo i comuni più forti, che pagando esose tasse e imposte
riuscivano a sottrarsi all’autorità papale e potevano per esempio nominare il podestà,
invece nei comuni più deboli, che avevano meno capacità contributiva, la sovranità
pontificia si estrinsecava in modo più palese imponendo la nomina del podestà e in alcuni
casi scegliendo fra tre o cinque candidati quello di suo gradimento. La nobiltà, se da un
lato era maggiormente tutelata dai suoi privilegi, quando lo stato pontificio esercitava
pienamente il suo potere d’imperio in quel determinato territorio, era fortemente limitata
nella sua capacità di agire e quindi nella sua discrezionalità di gestire autonomamente il
suo feudo e di amministrare la giustizia locale. Questo punto debole della Chiesa sul
controllo dei territori più turbolenti e dei relativi comuni con circondario accentuò il
disagio delle autorità papali che, per sopperire a questa carenza, misero nei posti chiave
parenti e nipoti al fine di creare un organo omogeneo legato da vincoli di sangue. Sul
piano esterno la Chiesa rivendicava i territori delle Marche e parte dell’Umbria (ducato di
Spoleto). Gli imperatori tedeschi (Enrico VI, Federico e poi Ottone di Brunswick) presero
tempo e mandarono i loro governatori imperiali perché quelle regioni erano d’importanza
basilare, erano l’unione fra l’Italia centro-settentrionale e il Regno di Sicilia. La Chiesa, dal
canto suo, voleva inglobare legittimamente questi territori perché erano una concessione
dei sovrani carolingi. Nel 1201 Innocenzo III riuscì ad avere il riconoscimento dei territori
rivendicati dallo stato pontificio da parte del sovrano imperiale, perché fu determinante
per l’elezione di Ottone di Brunswick, ma quest’ultimo, appena ottenuta l’investitura
imperiale, rinnegò la sua promessa di riconoscere il ducato di Spoleto e la Marca come
sovranità pontificia e mandò i propri governanti imperiali.
Il nepotismo ebbe un terreno molto fertile anche per la presenza della curia perché i vari
parenti del papa e lo stesso capo della Chiesa, per realizzare un governo capillare ed
attuare un clientelismo efficace, avevano aumentato notevolmente l’apparato curiale che
ormai a Roma contava più di mille persone tra membri stretti della curia, esponenti dei
seguiti cardinalizi, procuratori di ogni tipo, inviati di chiese e monasteri, vescovi che
facevano la visita al papa e tutti i cortigiani. Mantenere una struttura ecclesiastica così
complessa e particolare era molto dispendioso, per il popolo era un costo enorme avere
tante persone al servizio del pontefice, invece per i mercanti e commercianti essa
rappresentava benessere ed enormi vantaggi economici.
Il nepotismo fu un fenomeno circoscritto solamente al papa nel Medioevo, nel
Rinascimento e durante la Controriforma, ma questo disdicevole comportamento riguardò
anche cardinali, vescovi, abati, sovente anche arcipreti, canonici e altri chierici di
estrazione sociale popolare. Questo atteggiamento di malcostume di tutti i livelli della
Chiesa danneggiò profondamente i fedeli, che videro travisato il messaggio di Cristo di
umiltà, onestà e purezza, e la Chiesa delle gerarchie ecclesiastiche, piuttosto che essere
vicino al popolo, dimostrò la sua venalità e immoralità usando la religione per arricchirsi.
Il nepotismo del papa e del cardinale erano molto affini, sovente il papa continuava con la
sua politica d’ingrandimento economico che aveva già iniziato quando ancora aveva la
porpora, dando ai parenti ed amici strettissimi pensioni, donativi di vario genere, feudi. In
pratica, quando veniva eletto un papa, che quasi sempre proveniva dall’alta aristocrazia
romana, avveniva il sacco del Vaticano, perché al parente (nipote di solito) venivano dati
castelli, terreni e titoli nobiliari per acquisire una certa rispettabilità e il casato del papa
acquistava enorme lustro. Molti re ed imperatori cercavano di accattivarsi le simpatie dei
porporati del Sacro Collegio che era composto di solito da sessanta cardinali, però alcuni
papi nel tardo Medioevo per non avere un collegio ostile ridussero a trenta, venti, dieci, gli
alti ecclesiastici cioè in pratica quelli che eleggevano il papa. Questa complementarietà tra
il papa ed i cardinali si estrinsecava nelle funzioni di consigliere che sovente il porporato
faceva, infatti il pontefice si consultava con gli alti ecclesiastici per problemi concernenti il
governo della Chiesa e questioni teologiche. Tuttavia la consuetudine di consultare i
cardinali variò a seconda del papa e delle varie epoche. Tali consultazioni potevano
avvenire nel corso delle grandi assemblee pubbliche (Concistoro), oppure nelle riunioni
ristrette tenute nella camera del papa alla presenza dei soli membri del Sacro Collegio, o
ancora attraverso colloqui informali con alcuni cardinali di fiducia. Nel Medioevo si era
corroborata la prassi dell’obbligatorietà su alcune materie di consultazione tra il papa e i
porporati, realizzando così una funzione di controllo della gestione del potere papale. Ad
esempio alcuni papi, come Innocenzo III, ascoltavano solo i consigli dei loro cardinali
prediletti, invece Bonifacio VIII limitò molto l’influenza del Sacro Collegio al fine di
affermare la piena supremazia e l’autonomia del papa. Si capisce come la gestione del
potere dello stato della Chiesa era molto conteso fra le due massime autorità, il papa e il
Sacro Collegio. Il potere d’influenza dei cardinali dipendeva molto dal grado d’intimità e
amicizia che avevano con il papa, dal rapporto che egli aveva con gli apparati curiali, dei
legami con i maggiori sovrani della cristianità, delle alleanze e dalle parentele. Si teneva
conto della preparazione giuridica e del modo di coltivare le relazioni pubbliche, diciamo
che l’autorità del cardinale a volte era talmente potente che poteva essere in antitesi al
papa stesso su questioni di alta politica; il cardinale del Sacro Collegio aveva anche la
possibilità e la capacità di dare ai propri parenti feudi, privilegi e generose pensioni. Molti
comuni laziali, su pressione dei vari papi che favorivano i propri parenti, cedettero i loro
diritti e i loro beni immobili al nobile casato del pontefice dal momento che trasformava
una libera città in un feudo. Vediamo così avvicendarsi gli Annibaldi, i Colonna, i Caetani.
Queste famiglie nobili attuarono una forma di vassallaggio nei confronti degli abitanti che
dovevano pagare loro le imposte, fornire uomini in caso di guerra, lavorare gratuitamente
nelle terre del loro signore, il quale a sua volta affittava loro alcuni terreni del feudo
acquisito, anche se prima magari queste terre appartenevano agli abitanti del comune
acquistato in modo fittizio (per impedire che altri aristocratici rivendicassero quei feudi).
L’elemento penetrante delle famiglie gentilizie per impossessarsi dei terreni del comune e
degli abitanti era la carica di podestà che permetteva loro, come un cavallo di Troia, di
avere sotto controllo la città.
Riassumendo, l’attività di nepotismo esercitata dal cardinale si estrinsecava in diverse
funzioni, vi era un intervento diretto (acquisizioni patrimoniali, finanziarie e politiche) che
il casato otteneva per merito dell’intervento dell’alto prelato, o indirettamente quando il
porporato per conoscenze e amicizie procurava benefici economici (pensioni, vitalizi,
cariche) e territoriali (feudi) alla propria famiglia di origine.
Nel XIII secolo assistiamo alla rincorsa delle famiglie nobili romane delle varie cariche
politiche che arrecavano prestigio al casato: senatori di Roma, podestà di altri comuni
urbani, rettori e capitani nello stato della Chiesa. Era raro che i cardinali facessero ottenere
queste cariche ai loro nipoti e parenti, di solito gli aristocratici ottenevano queste cariche
più per prestigio al loro potere, alle loro capacità e conoscenze con i potenti e con la curia
romana: un membro di un casato illustre dava più autorità e splendore alla città. Molti
cadetti di queste famiglie gentilizie all’inizio intrapresero la carriera ecclesiastica,
prendendo gli ordini minori; in seguito, accumulati benefici su benefici, potevano sposarsi
e tornare al pieno stato laicale, garantendo la sopravvivenza della stirpe (questo era
possibile solo se avevano preso i primi voti ecclesiastici, cioè chierici). Addirittura la
grande nobiltà romana per non mescolarsi con i casati minori e per non perdere i propri
beni o vedersi diminuire il proprio patrimonio immobiliare chiedeva delle dispense
matrimoniali per sposarsi tra parenti, aggirando il diritto canonico che vietava
rigorosamente i matrimoni tra cugini di secondo e terzo grado. Queste unioni dell’alta
nobiltà romana venivano fatte per corroborare la solidarietà fra la stessa famiglia nobile
che con il susseguirsi delle generazioni tendeva ad attenuarsi, e per permettere ai parenti
più lontani di ereditare i beni del ramo della famiglia estinto.
CAPITOLO IV
I vari papi del nepotismo.
Papa Innocenzo III (1198-1216) fu uno dei papi più importanti del Medioevo, egli ribadì
con veemenza e determinazione il potere temporale su Roma, sullo stato pontificio e su
tutte le materie concernenti le strutture ecclesiastiche, economiche, fiscali e dei culti.
Grazie al suo enorme potere e alla macchina amministrativa che elaborò per far funzionare
l’articolato e complesso Stato della Chiesa, egli accentuò i favoritismi ed i privilegi nei
confronti di parenti e amici, sempre però in funzione dello Stato della Chiesa. Innocenzo
III apparteneva per via paterna alla piccola nobiltà dei Segni (i Conti), invece la nobiltà
materna (gli Scotti) non possedeva grossi domini ma aveva molte alleanze e parentele. Suo
figlio Lotario, cioè il futuro papa Innocenzo III, dopo aver studiato alle università di
Perugina e Bologna fu nominato cardinale nel 1189 e dieci anni dopo, nel 1198, venne
eletto papa. In brevissimo tempo, il casato di papa Innocenzo III da una condizione
modesta divenne, alla morte del papa, la famiglia aristocratica più potente di Roma e del
Lazio, infatti il fratello Riccardo Conti (camerlengo papale), acquistò castelli e terreni e con
il denaro che gli aveva fornito il fratello pontefice, creò grandi fortezze e milizie armate
sempre più agguerrite, senza contare tutti i prestiti che Riccardo concedette ai vari nobili
romani. Anche un’altra famiglia di media nobiltà, gli Annibaldi, grazie ad un matrimonio
con la famiglia Conti riuscì ad ottenere feudi e benefici da papa Innocenzo III, mentre la
famiglia del precedente papa Celestino III, gli Orsini, temeva di essere schiacciata dal
nuovo casato emergente dei Conti.
Un altro papa che fece del nepotismo un credo politico ed ideologico fu il genovese
Sinibaldo Fieschi che fu eletto pontefice con il nome di Innocenzo IV dopo una lunga serie
di papi romani e laziali. Appartenente alla potentissima famiglia dei conti di Lavagna, che
estendevano la propria egemonia su tutta la Liguria orientale e dell’Appennino parmense,
Innocenzo IV Fieschi apparteneva alla grande nobiltà settentrionale, era imparentato con
famiglie ghibelline, e comunque, provenendo dall’alta aristocrazia del nord Italia, era
tradizionalmente fedele all’impero. Appena l’imperatore Federico II apprese la sua
elezione al soglio pontificio ne fu entusiasta, ma la sua grande felicità durò poco, perché
Innocenzo IV riprese con vigore la lotta nei confronti dell’Impero, al fine di affermare la
supremazia politica della Chiesa. I parenti di papa Innocenzo IV fornirono un aiuto
fondamentale al loro congiunto, mettendolo al sicuro dalle rappresaglie di Federico II che
nel frattempo era stato scomunicato, non solo, ma grazie al suo casato (Fieschi), poté
contare su contingenti militari provenienti dalla Repubblica Marinara di Genova e
soprattutto dalla sua flotta. In cambio Innocenzo IV attuò il nepotismo più esasperato, le
carriere dei congiunti ecclesiastici vennero fortemente favorite. Con Sinibaldo si ebbe una
crescita enorme nell’ambito della curia romana: altri due Fieschi, il giovanissimo
Guglielmo e Ottobono (il futuro papa Adriano V) vennero inseriti nel Sacro Collegio,
mentre altri parenti ottennero prebende e benefici economici e territoriali. L’enorme
potere accumulato da Innocenzo IV non fu solo dovuto all’appoggio di alcuni sassoni
come Guglielmo d’Olanda, ma le enormi risorse finanziarie di cui la Chiesa poteva
disporre furono proiettate all’acquisizione di una serie di vastissimi territori, tali da
costituire una signoria nella zona di La Spezia, che però finì per entrare in contrasto con
Genova, provocando la guerra. Alla fine la città di Genova ne uscì vincitrice e i Fieschi
perdettero molti possessi. Rinunciando a crearsi un grosso dominio, puntarono più alla
grande finanza ed allo spostamento di capitali, questo sempre grazie allo stimolo di papa
Innocenzo IV e dei suoi nipoti cardinali, che, come ho già detto, fornirono ingenti somme
di denaro.
Ritornando al discorso del nepotismo, esso non può essere liquidato in modo superficiale
e sbrigativo, ovviamente la sua base fondamentale era rappresentata dall’amore per il
proprio sangue, quindi in consuetudini sociali molto arcaiche che avevano una
correlazione probabilmente biologica, ma questo sistema scellerato attingeva da fonti
morali, comportamenti sociali e da strutture politiche e di potere ed inoltre era
onnipresente e poliedrico. Condizionò sviluppi storici differenti, che vanno dal pensiero
religioso ai sistemi di costruzione statuale, all’esaltazione del potere papale
sull’ordinamento ecclesiastico al processo di cambiamento e modifica delle aristocrazie,
diciamo che il nepotismo era come il camaleonte, si adeguava all’evolversi degli assetti
politici e sociali, configurandosi sempre in forme e direzione diverse. In origine il termine
nepotismo assunse una posizione ben precisa, priva di aspetti negativi, questa parola è
nata secondo alcuni studiosi all’inizio del XVII secolo per configurare una consuetudine
che ormai da tempo veniva seguita da tutti i pontefici: il papa appena scelto dal collegio
cardinalizio ristretto nominava un parente molto vicino e strettissimo al cardinalato, al
quale venivano date funzioni politico–amministrative, come la carica di Sovrintendente
allo Stato Ecclesiastico; egli in modo ufficioso faceva da filtro al sistema clientelare che era
molto diffuso nella Roma papalina, e non solo presso i pontefici e gli eminenti prelati.
Oggi comportamento prettamente italiano e latino, nei paesi nordici e protestanti queste
forme di favoreggiamento avvengono, ma non in maniera così palese come nel nostro
Paese e poi, se scoperto, chi ricopre incarichi istituzionali si dimette. In Italia invece, si
fanno una bella risata e poi magari il reato cade in prescrizione. Alcuni studiosi hanno
dato un’interpretazione sociologica del nepotismo, l’approccio mi sembra esagerato,
perché di solito la sociologia studia fenomeni di massa, invece questa forma distorta della
gestione del potere papale, riguardava una ristretta cerchia di persone che ruotava attorno
al pontefice, il quale dispensava incarichi, privilegi e favori, quindi è una forzatura
demagogica ricondurre questa gestione politico-amministrativa del papa e dei suoi parenti
e pochi amici, quelli che vogliono dare un aspetto legalitario ed istituzionale del
nepotismo commettono un’ipocrisia politica, questa forma scellerata del governo dello
stato della Chiesa rappresentò la forma più meschina di clientelismo. Possiamo
aggiungere che il nepotismo dei papi e dei cardinali più potenti e del loro casato fu
caratterizzato dalla dislocazione nell’area romana e laziale (secoli XII – XIII), in seguito,
quando la corte pontificia si spostò nell’area di Avignone, nella Provenza, assunse altre
connotazioni.
Nella metà del Duecento, la vita del papato fu fortemente influenzata dal problema del
Regno di Sicilia e dalla “soluzione angioina” poi raggiunta in quel periodo. All’epoca la
maggioranza dei papi fu di provenienza francese e questo fatto modificò molto le forme
del nepotismo.
La morte di Federico II, nel dicembre del 1250, non aveva posto fine alla “questione
siciliana”, che era quella di garantire una netta separazione fra impero e Regno di Sicilia,
togliendo l’Italia meridionale agli Svevi. Verso la fine del suo pontificato Innocenzo IV si
adoperò per trovare fra i principi europei un candidato da contrapporre dapprima al figlio
di Federico II, Corrado IV e poi, dopo la sua morte nel maggio 1254, a Manfredi, un figlio
illegittimo di Federico II che aveva preso il potere a scapito del giovanissimo Corradino,
l’erede legittimo. La diplomazia papale offrì di conquistare il regno e di ottenere
l’investitura feudale della Chiesa dapprima a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia
Luigi IX, e poi ad Edmondo, fratello del re d’Inghilterra. Nel 1255 Edmondo fu investito
ufficialmente della corona siciliana da papa Alessandro IV, succeduto ad Innocenzo IV.
Nel frattempo il principe inglese temporeggiava ad organizzare la conquista del Regno di
Sicilia e questo destava fortissima preoccupazione al papa, tanto più che nel 1258 Manfredi
si fece incoronare re di Sicilia, mettendo in giro la voce che il figlio legittimo Corradino era
morto, non solo, ma attaccò con successo lo Stato della Chiesa. Alla morte di Alessandro
IV il contrasto di trovare una soluzione fra chi era favorevole ad un accordo con cui il
principe inglese ed i partigiani spinse i cardinali, dopo tre mesi di conclave, ad eleggere un
personaggio non italiano ed esterno al Sacro Collegio, il francese Giacomo di Troyes,
patriarca di Gerusalemme, che divenne papa con il nome di Urbano IV (1261-1264).
Questo carismatico papa si distinse per la sua energia, intelligenza e soprattutto per la sua
azione diplomatica nel sottrarre a Manfredi il Regno di Sicilia. Infatti dopo l’accordo con il
papa, Carlo d’Angiò, appoggiato dal fratello Luigi IX, poté attuare la conquista dell’Italia
meridionale. Alla morte di Urbano IV venne eletto un altro papa francese, Clemente IV
(1265-1268). Bisogna ricordare che nel frattempo ci furono innumerevoli promozioni di
cardinali francesi. Carlo d’Angiò, dopo le vittorie di Benevento e Tagliacozzo divenne
l’espressione politica più condizionante d’Italia, effettuando un controllo rigido sullo stato
della Chiesa ed i suoi territori, anche se papa Gregorio X (1271-1276) cercò di mitigare e
contenere le pretese egemoniche degli angioini.
Un altro papa che attuò una forma di nepotismo più o meno vistosa fu Alessandro IV
(1254-1261), di famiglia nobile, che diede feudi e cariche ai propri parenti, ad esempio al
nipote Rinaldo donò i castelli di Trevi, Filettino e Vallepietra, ad un cugino il rettorato
delle province del Ducato di Spoleto e ad un nipote il rettorato della Marca di Ancona.
Urbano IV (1261-1264) francese, di lignaggio modesto, favorì i parenti nelle attribuzioni di
benefici e privilegi, nominò suo nipote Ancher cardinale.
Il suo successore, sempre francese, Clemente IV (1265-1268), discendente dai conti di
Tolosa, rifiutò ogni forma di nepotismo e cercò di limitare le prerogative.
Papa Gregorio X (1271-1276) apparteneva ad una famiglia dell’antica nobiltà cittadina ma
di limitato spessore, concentrò la sua attenzione più che sulle questioni politiche, sulla sua
attività nel riconquistare la Terra Santa, nel porre fine alla divisione con la Chiesa greca e
nel purificare la concezione del clero e l’ordinamento interno della Chiesa. Durante il suo
pontificato, la rettoria di numerose province dello stato fu affidata al fratello visconte e ad
altri parenti, suo nipote Giovanni ottenne la porpora di cardinale, anche se questa nomina
non rappresentò per la famiglia un apporto di rilievo.
Papa Niccolò III (Giangaetano Orsini, che fu papa dal 1277 al 1280) riuscì a raggiungere il
soglio pontificio per una serie di circostanze favorevoli: la malattia di Carlo d’Angiò che
impedì al nuovo re di Sicilia di raggiungere Viterbo, dove si stava svolgendo il conclave, al
fine di condizionare l’elezione del nuovo papa, e la morte di alcuni cardinali favorevoli
agli angioini. Alla fine i pochi membri rimasti nel conclave elessero l’Orsini che assunse il
nome di Niccolò III. I francesi non riuscirono questa volta ad eleggere un loro compatriota
o un papa a loro favorevole, perché impegnati nella guerra dei vespri siciliani e con gli
Aragonesi. Nella storia del nepotismo la tradizione attribuisce a Niccolò III una posizione
di prestigio perché viene indicato come il precursore del nepotismo papale e biasimato per
l’uso eccessivo di simonia nei confronti dei suoi parenti, infatti inserì nel collegio
cardinalizio il proprio fratello Giordano e un nipote, Latino Malabranca. I nipoti laici,
soprattutto Bertoldo e Orso furono utilizzati per il governo dello Stato della Chiesa, per
esempio Bertoldo Orsini fu utilizzato per amministrare la nuova provincia della Romagna.
Papa Niccolò III cercò di limitare l’influenza francese in seno alla curia e nello Stato della
Chiesa, dando cariche oltre che ai familiari anche a persone di sua fiducia. Se papa Niccolò
III poté agevolmente muoversi nella politica italiana fu perché proveniva da un casato
potentissimo, che poteva vantare numerosi castelli e molti uomini armati. Durante il suo
pontificato gli Orsini ottennero una piazzaforte d’importanza strategica come Castel
Sant’Angelo, che divenne fortezza famigliare. Nello Stato della Chiesa i familiari di papa
Niccolò III assunsero rettorie, uffici provinciali e la podesteria dei comuni; le fonti parlano
di una quindicina di cariche conferite ai parenti, oppure spontaneamente assegnate dai
comuni al fine di accattivarsi il pontefice. La famelicità degli Orsini, grazie all’appoggio
del loro parente papa, si estese anche nel viterbese, molti castelli e feudi caddero nelle
mani di questa famiglia, ed in particolare di Orso Orsini. Le vecchie famiglie aristocratiche
che possedevano questi castelli da generazioni furono scacciati, per eresia (scomunicandoli
o mettendoli fuori legge) o per revoca della concessione, le truppe del papa e gli armati
della famiglia Orsini fecero il resto.
Papa Niccolò IV (1288-1292), marchigiano di nascita, era un francescano dai natali semplici
che non avvantaggiò i propri parenti, bensì una potente famiglia della nobiltà romana, i
Colonna. Questo papa si appoggiò moltissimo a questa famiglia per amministrare lo Stato
della Chiesa, infatti molti membri del casato dei Colonna ottennero podesterie, rettorati
provinciali, senatorie di Roma, incarichi militari. Il cardinale Giacomo Colonna fu
coadiuvato nel Sacro Collegio dal giovane nipote Pietro. Possiamo dire che la famiglia dei
Colonna con questo papa raggiunse l’apice della sua potenza, essi infatti possedevano
decine di castelli in Calabria, Abruzzo e in altre regioni del Regno di Sicilia, in Romagna,
in Francia, nel Lazio e possedevano alcune fortezze dell’Augusta, di Montecitorio e dei SS.
Apostoli. Molti studiosi si sono chiesti le motivazioni che spinsero papa Niccolò IV ad
arricchire sempre di più questo illustre casato, già di per sé ricco e potente. Alcuni storici
attribuiscono questa generosa disponibilità ad elargire benefici e privilegi ai Colonna al
riconoscimento che il papa Niccolò IV doveva per la sua elezione a papa, altri ricercano
questa devozione al buon rapporto che Niccolò IV aveva con questa famiglia quando era
cardinale vescovo di Palestrina, la città che era il principale fulcro di potere dei Colonna.
Altri studiosi insistono sui rapporti diplomatici militari e politici che questa famiglia aveva
con le alte aristocrazie di Roma, del Lazio e di altre parti d’Italia.
Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, nacque circa nel 1235, da illustre famiglia, forse
di lontana origine spagnola. Per via della madre Emilia, della nobil casa dei Patrasso di
Alatri, era imparentato con papa Alessandro IV. I Caetani appartenevano ad un casato
gentilizio proveniente dalla città di Anagni, di una nobiltà non rilevante, infatti non
avevano né castelli né vassalli: questa famiglia per affermarsi puntava tutto sulla carriera
ecclesiastica dei propri membri. Fu educato a Todi presso il vescovo Pietro, suo zio, il
quale ottenne nel 1260 dai canonici di Todi che ricevessero nel loro collegio Benedetto,
benché non avesse ancora preso i voti religiosi. Conseguì il dottorato nel diritto civile e in
quello canonico: pare che il futuro Bonifacio VIII avesse frequentato anche l’università di
Pavia, risulta certo che le sue conoscenze giuridiche erano profonde ed accentuate, infatti
servì con zelo i vari uffici della curia romana con il ruolo di avvocato concistoriale,
Partecipò a diverse legazioni pontificie in Italia e all’estero; il 23 marzo 1281 venne
nominato cardinale di S. Nicola in Carcere Tulliano da papa Martino IV. Benedetto, uomo
dotato d’intelligenza superiore alla media, era fornito di un’eccellentissima cultura
giuridica ed ebbe una grandissima esperienza in curia come notaio papale, fu anche
avvocato concistoriale facente funzioni diplomatiche importanti per il papa, infatti come
cardinale espletò articolate missioni diplomatiche e delicati incarichi acquisendo stima e
prestigio. Durante gli anni in cui vestì la porpora Benedetto accumulò ingenti ricchezze
che gli permisero di acquistare alcuni castelli prima di essere eletto papa. Nel 1283 il
pontefice affidò al Caetani l’incarico di impedire che avvenisse il duello fra Carlo I
d’Angiò e Pietro d’Aragona, giacché i due rivali si erano promessi di scontrarsi in singolar
tenzone nella città di Bordeaux il primo giugno alla presenza di Edoardo re d’Inghilterra e
signore di quella città. L’opera di dissuasione del cardinale Caetani presso il caparbio re di
Napoli non diede l’esito sperato; il duello tuttavia non si svolse perché l’astuto aragonese
non arrivò puntuale al luogo prestabilito, e l’angioino ne approfittò per dichiararsi
onorevolmente sciolto dal battersi. Bonifacio VIII salì al soglio di Pietro dopo che il suo
predecessore Celestino V si persuase ad abbandonare la guida della Chiesa, molti dicono
che questo pontefice avesse mostrato una certa inettitudine a reggere la cristianità ed a
portare avanti il concetto di Chiesa Universale, nonostante il re di Napoli, molti cardinali e
capi di ordini religiosi avessero fatto tutto per dissuaderlo dall’attuare la rinuncia. Ai
cardinali presenti in Napoli non rimase che raccogliersi in conclave per poter arrivare alla
nomina del successore. Alcuni cronisti dell’epoca sostennero che Celestino V prima di
abdicare abbia sentito il cardinale Benedetto Caetani, il quale sembra che l’abbia convinto
a tornare a fare l’eremita. I due cardinali Colonna facenti parte del Sacro Collegio diffusero
tre libelli contro il Caetani, affinché non fosse eletto, ma le calunnie ordite dai Colonna non
sortirono l’effetto voluto. Il 23 dicembre 1294, ventidue cardinali si riunirono in Castel
Nuovo a Napoli e al terzo scrutinio risultò eletto, il giorno seguente, il cardinale Caetani.
Carlo II di Napoli non fu entusiasta di quella elezione, perché il primo atto di Bonifacio
VIII fu di palese ostilità al re, infatti in una prima apparizione ai cardinali espresse delle
lamentele sostenendo che al debole ed inesperto Celestino V erano state ottenute delle
concessioni che egli doveva assolutamente revocare. Dopo questo discorso decise di fare
ritorno a Roma per poter esplicare il suo mandato di pontefice, il re angioino tentò allora
di trattenere il pontefice a Napoli nell’intento di dominarlo come aveva fatto con Celestino
V, ma ben presto capì che aveva a che fare con un uomo di grande carisma, quindi dovette
accettare il nuovo corso ed accompagnare di persona il nuovo papa nella città eterna. Il
corteo papale partì da Napoli, il 4 gennaio del 1295, alla volta di Roma, dove arrivò il 23
gennaio 1295. Subito il Caetani fu consacrato vescovo all’altare di San Pietro, quindi venne
incoronato con una bellissima tiara, a doppia corona, avente il significato dei due poteri
del pontefice: spirituale e temporale. Carlo II, re di Napoli, e il figlio Carlo Martello, re
eletto di Ungheria, entrambi con la corona in testa tennero le briglie al cavallo bianco sul
quale, dopo la funzione religiosa, il papa fece la trionfale cavalcata fino alla basilica di San
Giovanni in Laterano. Nel lasciare Napoli, Bonifacio aveva deciso di portare con sé
Celestino, perché temeva che i suoi avversari potessero usare ogni metodo di convinzione
affinché egli si riappropriasse del soglio pontificio. Celestino, il cui vero nome era Pietro
Morrone, sognava di fare l’eremita tra le rocce dei monti della Maiella, presso Sulmona;
egli era fuggito e si era nascosto al suo paese natale dove il popolo lo accolse in modo
entusiastico, in seguito, sentendosi braccato, raggiunse le spiagge del mare Adriatico ma,
per ordine di Carlo II, fu catturato e fu portato a Roma con tutti gli onori. Bonifacio VIII,
tormentato su come si dovesse comportare nei suoi riguardi, chiese consiglio ai cardinali, i
quali lo consigliarono di tenere sotto controllo il Morrone al fine di prevenire l’unità e la
pace della Chiesa. Il pontefice lo tenne dapprima presso di sé nel suo palazzo di Anagni e
dopo un certo periodo lo fece sistemare nel castello di Fumone nel quale, per accattivarsi il
pio eremita, gli fece allestire una grotta simile a quella da lui già abitata sulla Maiella.
Bonifacio VIII cercò, nella sua ambizione e nel suo orgoglio, di rappresentare l’ultima
grandezza medievale del papato, anche se eventi storici, circostanze sfortunate e il non
aver capito la laicità dei nuovi sovrani lo portarono a commettere errori madornali sul
nuovo corso politico che si era instaurato in Europa. Papa Caetani provocò subito odi e
rancori, fu intransigente nell’affermare la superiorità papale e manifestò la sua enorme
ingordigia nell’acquisire ricchezze e potere. Fu spietato con gli avversari ed intollerante
nei confronti degli intellettuali che non accettavano la sua arroganza nel gestire la cosa
pubblica. Appena Bonifacio VIII assunse la cattedra pontificia, fu colpito dalle guerre di
cui l’Europa era dilaniata, annunciando che la sua missione sarebbe stata soprattutto di
pace. Suo primo compito fu di riportare l’armonia nell’Italia meridionale, attraversata
dalla guerra che scaturì con i vespri siciliani. Il 5 giugno 1295 in un’adunanza svoltasi in
Anagni, Giacomo d’Aragona arrivò alla pace con Carlo II d’Angiò, rinunciando ad ogni
suo diritto sulla Sicilia, ricevendo in cambio l’investitura del regno di Aragona. Bonifacio
nominava poi Giacomo d’Aragona ammiraglio generale della Chiesa (20 gennaio 1296). A
suggellare la pace con l’angioino una sorella di Giacomo d’Aragona andava in sposa al
figlio di Carlo II d’Angiò, ovviamente portandosi i diritti della Sicilia, ma i siciliani
nutrivano un fortissimo odio verso gli angioini, i quali, sentendosi traditi da Giacomo
d’Aragona, acclamarono re il fratello minore Federico III d’Aragona. Questo colpo di stato
provocò un conflitto che durò cinque anni, finché Carlo di Valois intervenne su
sollecitazione di Bonifacio VIII in difesa degli angioini. Dopo alterni eventi si arrivò alla
pace di Caltabellotta e con il trattato del 29 agosto 1302 Federico fu riconosciuto re di
Sicilia e si impegnò a sposare Leonora, figlia di Carlo II di Napoli, a condizione che alla
morte di Federico la Sicilia dovesse ritornare agli Angioini di Napoli. Appena Bonifacio
VIII divenne papa, Carlo II d’Angiò assegnò a suo fratello Roffredo II la contea di Caserta,
concedendogli in feudo alcuni castelli molisani e campani. Questa acquisizione di territori
e castelli ben presto provocò lo scontro con i Colonna. Il confronto violento con questo
casato di antico lignaggio scaturì per diversi fattori: innanzitutto per le posizioni
antitetiche in politica internazionale, i Colonna infatti erano ben disposti verso gli
Aragonesi, mentre il papa e il suo casato erano favorevoli agli angioini; i Colonna inoltre
avevano fortissimi legami con la corrente francescana degli Spirituali, avversari di
Bonifacio; infine il papa non rispettava le ataviche consuetudini della nobiltà romana con
le relative prerogative.
Nel Sacro Collegio cardinalizio lo scontro tra i cardinali Giacomo e Pietro Colonna ed il
Caetani subì una fortissima accelerazione dopo che Stefano Colonna il 3 maggio 1297
attaccò e depredò un convoglio proveniente da Anagni. Dopo questo grave atto Bonifacio
VIII impose ai Colonna responsabili di questi misfatti a presentarsi davanti al giudice per
essere giudicati, ma loro si rifiutarono di sottoporsi all’autorità giudiziaria. I problemi dei
Colonna non erano solo rappresentati dal rapporto conflittuale con il papa Bonifacio ma
anche con la loro innumerevole parentela, perché i due cardinali Giacomo e Pietro si
erano impadroniti dei castelli appartenenti a tutto il casato. Il papa ordinò loro di restituire
i castelli usurpati, in risposta i due cardinali non solo non ottemperarono alle richieste del
papa, ma iniziarono a diffamarlo sollevando dubbi di legittimità sulla sua elezione a papa
e sulla rinunzia fatta da Celestino. Nel Concistoro del 10 maggio 1297, il pontefice assunse
provvedimenti duri nei confronti dei due cardinali che vennero scomunicati ed i loro beni
sequestrati, i due cardinali in risposta divulgarono un libello diffamatorio contro il
Caetani, si rinchiusero nel castello di Palestrina e diffusero un manifesto per sostenere
l’illegittimità di papa Bonifacio VIII e per chiedere un nuovo concilio. Parteggiavano per i
Colonna ribelli come frate Jacopone da Todi ed altri religiosi chiamati Spirituali; il fanatico
giullare di Dio (fra Jacopone da Todi) scriveva dei versi aggressivi contro Bonifacio. Con la
bolla Lapis Abscissus (23 maggio) il pontefice scomunicò in maniera ufficiale i due cardinali
Colonna, i loro partigiani ed i loro parenti, dichiarando Giacomo e Pietro decaduti dalla
loro dignità e da ogni ufficio ecclesiastico, nonché dal possesso dei loro beni ed
estendendo l’interdizione a tutte le terre che avessero dato ospitalità ai ribelli. Le milizie
ghibelline si concentrarono in Palestrina ed altre si attendevano da Filippo il Bello re di
Francia e da Federico re di Sicilia, ai quali i Colonna avevano chiesto aiuto. Bonifacio VIII
non sentendosi sicuro a Roma si rifugiò a Orvieto. I ribelli si stavano rinforzando,
diventando sempre più potenti e potevano minacciare l’unità della Chiesa, così il 14
dicembre 1297 fu organizzata una crociata contro i Colonna ribelli. A capo dell’esercito
papale fu messo Landolfo Colonna, cugino dei ribelli e il cardinale Matteo d’Acquasparta
che girò l’Italia per raccogliere uomini e fondi in difesa di papa Bonifacio VIII. Lo scontro
fu circoscritto vicino a Palestrina, la roccaforte dei Colonna ribelli, essi si difesero
duramente ma, alla fine, di fronte alle soverchianti forze del papa i due cardinali si
arresero insieme al loro parente Agapito Sciarra Colonna. Dopo lunghe trattative, alla fine
dell’estate del 1298 i due Colonna si recarono a Rieti, al cospetto del papa, indossando
vesti di penitenti per chiedere umilmente perdono. I due porporati ottennero il perdono
ma non furono reintegrati nella dignità cardinalizia. Bonifacio VIII, per convincere a
desistere chiunque avesse intenzioni rivoltose, con la bolla del 13 giugno 1299 fece radere
al suolo Palestrina e gli abitanti si dovettero trasferire nella pianura sottostante dove
costruirono una nuova città. I Colonna, non avendo ottenuto la riammissione alla carica
cardinalizia, ritrattarono il pentimento e iniziarono una guerra non dichiarata contro
Bonifacio VIII, con slealtà, astuzia, cattiveria e diffondendo dicerie, infamie e calunnie.
Questo comportamento scellerato provocò loro l’odio del pontefice, che diede ordine ai
nuovi sgherri di arrestare i Colonna ribelli (Giacomo e Pietro ex cardinali, Stefano e
Sciarra), ma essi si rifugiarono in Francia presso il re Filippo il Bello.
Il nepotismo di Bonifacio VIII fu molto similare a quello dei papi precedenti, con l’unica
palese differenza che il suo pontificato si caratterizzò per il forte scontro ideologico e
teologico fra la Chiesa e l’impero per quanto concerne la sovranità universale sull’Europa.
Anche papa Caetani aiutò moltissimo i parenti con denaro e acquisizioni di beni immobili
(castelli, feudi, ecc.), condizionò processi, trattò matrimoni fra benestanti, concesse ed
impose donativi, alzò al cardinalato nipoti e diede ai parenti gli incarichi più alti dello
stato, quindi il suo comportamento rientrava nella consuetudine ormai consolidata della
pratica del nepotismo. Tutte queste differenze di vedute e attriti sfociarono in una guerra
sanguinosa contro le fortezze dei Colonna e la stessa Palestrina, sede originaria della
signoria dei Colonna, fu distrutta e messa a ferro e fuoco. Bonifacio VIII, per attuare il suo
programma di annientamento dei Colonna, si avvalse dell’appoggio di Firenze e di altri
comuni toscani, di mercenari e di altre famiglie della nobiltà romana. I feudi e i territori
sottratti ai Colonna vennero dati in concessione alle altre famiglie gentilizie romane come
gli Orsini, i Bocca, i Mazza, ed altre ancora, ed anche i suoi parenti acquisirono feudi in
Lazio ed in Umbria. Questo espansionismo non fu dovuto solamente alla capacità militare
del papa e dei suoi congiunti, dotati di ingenti somme di denaro, ma anche agli intrighi
orchestrati da Bonifacio VIII. Alla morte del parente papa i Caetani dominavano su veri e
propri principati, anche se i Colonna cercarono in tutti i modi di riappropriarsi dei
possedimenti che erano stati loro sottratti con la forza e l’inganno da Bonifacio VIII. Lo
stesso comportamento fu seguito da quelle famiglie nobili romane danneggiate
dall’arrogante e autoritaria politica patrimoniale di questo papa.
Se volessimo fare una comparazione fra il nepotismo del papa e quello del cardinale,
l’elemento più palese che si nota è la facilità con cui il papa poteva derogare alla
normativa canonica per quanto concerne l’alienazione di beni ecclesiastici, il pontefice
infatti, come massima espressione dello stato poteva decidere che nei confronti dei propri
parenti non venissero applicate le costituzioni provinciali che vietavano ai grandi nobili di
Roma di impossessarsi di nuovi feudi e territori, lo stesso Bonifacio VIII concesse molte
deroghe ai suoi parenti per acquisizioni territoriali. Nella designazione del Sacro Collegio
non solo i sovrani stranieri potevano fare pressione per eleggere cardinali vicini alle
posizioni dei sovrani francesi, spagnoli o inglesi, ma molti papi, per assicurarsi un
maggiore controllo di questo organismo fondamentale per il corretto funzionamento dello
stato, nominava due o tre cardinali, suoi stretti parenti. Per quanto concerne l’acquisizione
di feudi, raramente un cardinale riusciva ad ottenere un possedimento ad un proprio
parente, solo in caso di situazioni favorevoli o causali, ma di solito non erano territori
d’importanza politica o strategica. La pratica nepotistica fu più palese per i papi romani e
laziali rispetto ai pontefici francesi ed italiani provenienti da altre regioni della penisola,
forse perché la loro rete di clientelismo era maggiormente accentuata grazie ad un
maggiore radicamento romano in seno alla curia, alla cancelleria e al Sacro Collegio. Tutti
questi fattori determinarono una fortissima influenza sull’estrinsecazione del nepotismo,
per esempio Bonifacio VIII, appena eletto papa attuò un grande ricambio di personale
nella curia romana e nella cancelleria con l’obiettivo di rompere le antiche clientele ed
instaurare le sue. Il nepotismo non favorì solamente i grandi casati romani, infatti
Innocenzo III e Bonifacio VIII, pur provenendo da famiglie modeste, riuscirono a fare
moltissimo per il loro casato. Un altro particolare che molti trascurano è che il nepotismo
romano e laziale fu più accentuato, perché questi papi vivevano più a lungo rispetto ai
pontefici stranieri o provenienti da altre regioni italiane, per il semplice motivo che
conoscendo le condizioni climatiche di Roma, quando le condizioni atmosferiche
rendevano la città eterna insopportabile, i papi del loco si spostavano in luoghi dove il
clima era più mite, vediamo infatti che un papa romano o laziale viveva in media oltre
nove anni dalla sua elezione, mentre un papa di altre regioni italiane viveva tre anni e sei
mesi, e addirittura quelli stranieri solamente due anni e mezzo.
Altro sogno che Bonifacio VIII voleva attuare era quello di promuovere una crociata per
liberare la Terra Santa dagli infedeli, però le varie divisioni politiche che si erano create fra
Adolfo di Nassau, Edoardo re degli Inglesi e Filippo, re dei Francesi, rendevano
improbabile che la missione di liberare la Terra Santa e il Sacro Sepolcro fosse realizzata. A
complicare la situazione c’era la guerra sorta fra le due repubbliche marinare Genova e
Venezia, infatti queste due dovevano fornire la flotta per trasportare le truppe in Terra
Santa, non solo, ma Filippo il Bello era in aperta ostilità con Bonifacio VIII, per quanto
concerne la teologia universale del papa che affermava che l’autorità della Chiesa era
superiore ai singoli stati nazionali e soprattutto ai re. Le mire di Bonifacio VIII si estesero
alla Toscana dove prima furono sconfitti i ghibellini, poi, instauratosi nella signoria di
Firenze, i guelfi, i quali a loro volta si divisero in due fazioni: bianchi e neri, i primi erano
sì favorevoli al papa, ma non volevano una totale interferenza nella città di Firenze, invece
i secondi ritenevano necessario che il governo fosse affidato al papa. Facevano parte dei
bianchi Dante Alighieri, Dino Campagni, Giovanni e Guido Cavalcanti. Dante, rivestendo
la carica del priorato, si scontrò con la fazione avversa, cioè quella dei neri, capeggiata da
Corso Donati. Il papa dapprima mandò il cardinale d’Acquasparta poi, vedendo che lui
non risolveva le diatribe fra le varie fazioni, chiamò il fratello del re di Francia, Carlo II
d’Angiò. Questi puntò su Firenze con un esercito di armati ed entrando in città mostrò alle
varie autorità fiorentine l’incarico che aveva avuto dal papa per mediare fra le parti in
discordia, il Valois instaurò la fazione a lui favorevole cioè alla corona di Francia. Così i
neri con Corso Donati presero il potere ed eliminarono dalla gestione del governo i
bianchi, molti dei quali furono costretti ad andare in esilio per sfuggire alle persecuzioni
dalla parte avversa. Bonifacio VIII si sentì preso in giro dal Valois e da Filippo il Bello re di
Francia, il cui fine era di limitare il potere del papa; il pontefice, sentendosi tradito,
riconobbe come re di Sicilia Federico d’Aragona, anche se con poco entusiasmo. Lo scontro
tra Filippo IV il Bello, re di Francia e Bonifacio VIII può essere visto come l’ultima lotta
medievale tra l’autorità laica e quella ecclesiastica. Bonifacio VIII, uomo vigoroso e di
polso, orgoglioso assertore dei diritti della Chiesa, avrebbe desiderato ripetere i tempi di
Innocenzo III e di Alessandro III, ma purtroppo si scontrò con il re francese, ambizioso e
superbo, privo di scrupoli, falso, immorale e tiranno insaziabile, il quale voleva
sottomettere la Chiesa per la sua politica personale. Attorniato da uno stuolo di uomini di
legge, Filippo voleva ribadire l’autorità dello stato sopra quella della Chiesa, privandola di
tutte le prerogative e dei diritti di giurisdizione e di immunità che esercitavano da molto
tempo. A causa delle continue guerre che Filippo il Bello doveva sostenere aumentava il
suo fabbisogno finanziario, per questo motivo gli esattori regi avevano colpito con
imposte straordinarie i beni degli ecclesiastici, i quali si rivolsero al papa per protestare
contro questi aumenti indiscriminati e vessatori dei tributi. Bonifacio VIII pubblicò il 25
febbraio 1296 la bolla Clericis Laicos, con la quale proibiva ai laici di tassare gli ecclesiastici.
I sovrani di Inghilterra e Germania, seppur contrari, accettarono le direttive della bolla
papale, ma essa provocò in Francia notevoli polemiche. Il pontefice fu accusato di essersi
intromesso negli affari interni della Francia, in questo documento papale infatti si
affermava che le imposte straordinarie non potevano essere pagate dagli ecclesiastici se
non dietro previo consenso della Santa Sede. Il re francese Filippo IV, sentendosi offeso,
vietò ai suoi sudditi di inviare a Roma denaro sotto qualsiasi forma. Bonifacio VIII con
numerose lettere cercò di smorzare le forti polemiche che erano sorte con la bolla Clericos
Laicos , con la quale non si proibivano le donazioni spontanee che il clero faceva al re, né si
mettevano in discussione i diritti feudali del sovrano, ma si vietavano le imposte
straordinarie degli ufficiali regi, senza il previo consenso del papa, inoltre si permetteva al
re di imporre balzelli straordinari in caso di necessità. Il conflitto fra Bonifacio VIII e il re
Filippo il Bello sembrò attenuarsi anche in seguito alle lettere esplicative del pontefice.
L’11 agosto 1297 con grande maestosità si celebrò la canonizzazione di San Luigi IX di
Francia, avo del re di Francia e la pace parve ristabilita in modo definitivo. Il 6 febbraio
1298 Edoardo d’Inghilterra e Filippo il Bello conclusero un armistizio e il papa fu
nominato mediatore, ma al re francese parve che le decisioni del pontefice fossero troppo
favorevoli al suo avversario inglese. Alla corte del re francese trovarono rifugio i Colonna,
avversari di papa Bonifacio VIII, i quali, con l’appoggio dei consiglieri, convinsero il re di
Francia della malafede del pontefice. Nel frattempo a Roma giunsero in modo più deciso
le lamentele del clero di Francia per le continue vessazioni fiscali che dovevano subire
dagli ufficiali regi, mentre i vassalli si rifiutarono di pagare le decime agli ecclesiastici.
Bonifacio VIII mandò allora a Parigi, con titolo di nunzio, Bernardo Soisset, vescovo di
Panners, al fine di convincere il re a partecipare alla crociata. Il nunzio non fece una buona
impressione a Filippo il Bello, il quale lo fece arrestare e rinchiudere in prigione. Pietro
Flotte, consigliere personale del re, attaccò il Soisset di fronte al Consiglio di Stato, dove fu
dichiarato colpevole di alto tradimento per aver ordito una congiura contro il re. Bonifacio
VIII difese in modo deciso il suo nunzio, scomunicò il re e invitò il clero di Francia a
convenire a Roma per un concilio al fine di discutere i provvedimenti da prendere nei
confronti di Filippo. Il 10 febbraio 1302, al cospetto della corte, mentre il messo pontificio
leggeva la bolla Ausculta, fili carissime, il conte d’Artois, cugino del re, come gesto di
disprezzo tolse l’atto all’inviato papale, buttandolo nel fuoco. Il guardasigilli Pietro Flotte
diede una sua interpretazione della laconica lettera pontificia, affermando che il contenuto
di tale documento era avverso alla regia dignità, nel senso che il papa non solo offendeva
il principio spirituale ma rivendicava anche il potere temporale sulle terre di Francia. Il
sovrano francese ebbe l’appoggio della nobiltà e della borghesia francese. Papa Bonifacio
VIII si era intanto rifugiato ad Anagni, dove organizzò un concistoro e con formale
giuramento manifestò la propria innocenza per le calunnie ordite dai ministri francesi con
la complicità dei Colonna. Contestualmente venne compilata una bolla di scomunica
contro Filippo e i sudditi del suo regno, i quali furono prosciolti dal giuramento di fedeltà.
Il giorno in cui doveva essere pubblicata ufficialmente la Bolla, Guglielmo di Nogaret,
cancelliere del regno, e Sciarra Colonna vennero in Italia e puntarono al castello di Anagni
dove si era rifugiato Bonifacio VIII che li accolse nella stanza dove era ubicato il trono
indossando gli abiti pontificali. Appena giunsero al suo cospetto Guglielmo di Nogaret
(cancelliere del regno) e Sciarra Colonna, il pontefice, con modo di fare arrogante ed
altezzoso, affermò in modo assoluto che lui si sacrificava per il bene della Chiesa e Sciarra
Colonna colpì il papa con uno schiaffo. Dopo tre giorni che era tenuto prigioniero nel suo
castello di Anagni il popolo insorse e liberò il pontefice che, scortato da quattrocento nobili
cavalieri, poté fare ritorno a Roma dove fu accolto trionfalmente dal popolo. A Roma però
l’attendeva un’altra brutta sorpresa perché la casata degli Orsini, che in precedenza lo
aveva protetto, gli disse che doveva ritenersi loro prigioniero, questo fu per il Caetani un
colpo durissimo, così dopo un mese dalla liberazione morì di crepacuore l’11 ottobre 1303.
La grande lotta medievale svoltasi tra il pontificato romano e l’impero tedesco concernente
la lotta delle investiture si era conclusa con la vittoria del papato; la Chiesa, allontanandosi
dall’impero, si avvicinò sempre di più alla monarchia francese, tanto che la sede apostolica
fu spostata da Roma ad Avignone, questo periodo è conosciuto come “cattività
avignonese”. Questo cambiamento di luogo del centro della cristianità fu dovuto
all’egemonia che esercitò la corona di Francia nei confronti della Chiesa, questo periodo da
alcuni storici venne denominato anche “schiavitù babilonica” in ricordo della settantenne
servitù del popolo ebreo sotto i babilonesi. I sette pontefici che risedettero ad Avignone
furono papi prettamente francesi, mentre Roma e lo stato pontificio caddero in preda
all’anarchia ed alle angherie dell’alta nobiltà romana e laziale. Non bisogna pensare che
questi papi fossero persone incapaci di gestire l’alta carica che avevano o che mancassero
d’intelligenza religiosa, piuttosto questi pontefici furono succubi dell’influenza del re di
Francia. Di positivo i papi avignonesi ebbero come ambizione di diffondere il
cristianesimo non solo in Europa, ma anche in Asia (India e Cina), Crimea e Africa
Settentrionale. Ad Avignone sorse, per iniziativa di alcuni pontefici, una maestosa
costruzione che era un misto di reggia e fortezza, con alte torri e poche finestrelle, al fine di
dimostrare che anche gli alti prelati con il papa non erano più padroni della loro divina
sovranità. Fuori Avignone, nelle zone circostanti, i cardinali costruirono ville e palazzi,
ove si diedero convegno con le lettere e le arti anche le più raffinate mondanità. Nella
Provenza i pontefici romani possedevano già il contado di Venasque (Venosino) che
faceva parte del delizioso territorio di Valchiusa, questo feudo era stato consegnato nel
1229 alla Santa Sede da S. Luigi IX, in ricompensa dell’aiuto che i pontefici avevano dato
per annientare gli eretici Albigesi. Filippo III l’Ardito nel 1274 aveva riconfermato la
donazione in perpetuo di quella terra a Papa Gregorio X.
Il papato del successore di Bonifacio VIII, Benedetto XI, durò solamente otto mesi, egli
infatti fu eletto pontefice il 22 ottobre 1303 e morì a Perugia il 7 luglio 1304, si sospettò che
il re di Francia l’avesse avvelenato, dato che lui era stato uno dei preferiti di Bonifacio VIII.
Il conclave fu promosso dopo i nove giorni esequiali e durò ben undici mesi. Subito si
formarono due fazioni contrapposte, una francese e l’altra italiana, la prima per la pace
con la Francia ad ogni costo e l’altra tutta proiettata alla vendetta nei confronti del sovrano
francese Filippo il Bello, per lo schiaffo subito da Bonifacio VIII in Anagni. Il popolo di
Perugia, stanco per l’inusuale prolungamento del conclave, alla fine perse la pazienza e
danneggiò il tetto del palazzo dove si erano riuniti i cardinali, inoltre furono ridotte le
razioni del vitto ai conclavisti fino ad imporre loro un rigido digiuno. Alla fine l’accordo fu
raggiunto su Bertrando de Goth, arcivescovo di Bordeaux, che scelse il nome di Clemente
V (1305-1314). Egli non era cardinale e, nonostante fosse francese di origine, era suddito
dell’Inghilterra ed era già stato al servizio di Francesco Caetani, nipote di Bonifacio VIII.
Appena eletto molti cardinali lo supplicarono di venire a Roma al fine di tenersi lontano
dai re e dai popoli, invece il nuovo pontefice volle che l’incoronazione avvenisse a Lione il
16 novembre 1305 nella chiesa di S. Giusto. Il re Filippo il Bello tenne le briglie del cavallo
del nuovo papa durante il corteo, ma la grandiosità del corteo papale fu turbata dal crollo
di un muro, che provocò alcune vittime tra cui un fratello del pontefice. Filippo di Francia
chiese al nuovo papa la condanna della memoria di Bonifacio VIII, la reintegrazione dei
cardinali Colonna, l’abrogazione delle famose bolle Clericis laicos ed Unam Sanctam. Per
paura delle fazioni politiche Clemente V non andò a Roma, ma stabilì l’intera corte papale
ad Avignone: certamente la pressione del sovrano francese fu determinante. Filippo il
Bello aveva le finanze dissestate e stava tramando contro i Templari per impossessarsi dei
loro beni, ubicati in Francia, il sovrano infatti era dominato dall’avidità e dall’ingordigia.
Possiamo affermare che l’ordine dei Templari cadde nella disciplina quando perse
Tolemaide nel 1291, l’ordine crocesignato fece ritorno in Occidente, in particolare in
Francia. Molti cavalieri non avevano tenuto un comportamento altamente morale ma
diciamo piuttosto licenzioso, infatti alcuni di essi facevano uso di droghe (hashish), inoltre
furono accusati di essere dediti all’omosessualità e di essere apostati sacrileghi. Tutte
queste accuse convinsero il re di Francia, il quale si proclamava paladino della fede e della
moralità, a pretendere che il pontefice Clemente V prendesse rigidi provvedimenti nei loro
confronti. Il papa, capendo l’infondatezza di certe accuse che rasentavano la calunnia, fu
molto cauto nell’agire e cercò di prendere tempo. L’odio di Filippo il Bello verso l’ordine
dei Templari non era dovuto solo al fatto che essi costituivano uno stato nello stato e i loro
beni gli facevano gola, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto dei Templari di
prendere nel loro ordine suo figlio, questo affronto fu determinante nell’attuazione della
vendetta del sovrano francese. Nel 1307 Clemente V propose la fusione dei Templari con
l’ordine affine dei cavalieri di San Giovanni, ma il gran maestro dei Templari Giacomo de
Molay si oppose e si disse pronto a subire un severissimo giudizio. Il re Filippo, vedendo
che il papa si mostrava titubante, il 13 ottobre 1307 ordinò che tutti i Templari presenti nel
suolo francese fossero imprigionati e i loro beni confiscati, e l’Inquisizione prese a
funzionare intensamente a Parigi. Ai templari che confessavano i loro delitti veniva
concesso il perdono, quelli che opponevano resistenza alla confessione venivano sottoposti
a tortura ed estremo supplizio. Molti Templari furono inquisiti alla presenza del sovrano,
altri furono condannati ad ardere vivi, infatti in un solo giorno (il 12 maggio 1310)
cinquantasei Templari finirono al rogo, con l’accusa di essere degli eretici recidivi, avendo
ritrattato le deposizioni fatte prima sotto la tortura. Il gran maestro dei cavalieri templari
Giacomo de Molay seguì la stessa sorte urlando la propria fede cristiana. Il debole papa
Clemente V, succube del re di Francia Filippo il Bello, stava lì a guardare, senza
intervenire energicamente sul trattamento iniquo riservato ai Templari e, comportandosi
come Ponzio Pilato, deferì la causa dei Templari al concilio generale, che si aprì finalmente
il 16 ottobre 1311 sotto la personale presidenza del pontefice. Le problematiche inerenti la
causa dei Templari si protrassero in modo fervido per quasi sei mesi, le prove raccolte non
riuscirono a convincere i religiosi presenti al concilio, quindi la soppressione dell’ordine
non pareva giustificabile, allora il re Filippo il Bello si presentò di persona nel febbraio
1312 con la sua corte e coi suoi tre figli per fare pressione sul debole e titubante pontefice e
per intimidire i difensori dei Templari. Guglielmo Durando, vescovo di Menale, propose
una via d’uscita: la soppressione senza la condanna. Difatti nella bolla Vox in Excelso del 22
marzo 1312 il pontefice soppresse l’ordine in virtù della pienezza dell’autorità apostolica,
per via di provvedimento amministrativo e non per sentenza giudiziale.
Non possiamo dire che Clemente V fu un grande nepotista, ma cercò sempre di
salvaguardare gli interessi della Chiesa, non cedette alle pressioni di Filippo il Bello che
voleva infangare la memoria del suo antagonista papa Bonifacio VIII, infatti forte era
l’odio e il rancore che il re francese aveva ancora nei confronti di questo papa nonostante
fosse morto.
Giovanni XXII, nato Jacques Duèse a Cahors nel 1249, fu papa dal 7 agosto 1316 fino alla
sua morte, avvenuta il 4 dicembre 1334. Clemente V si era spento il 20 aprile del 1314,
qualche giorno dopo, il primo maggio, ventitré cardinali si riunirono in conclave nel
palazzo vescovile di Carpentras. Dal conclave emersero tre correnti opposte: quella dei
Guasconi, quella degli Italiani e quella dei Francesi. Nessuna candidatura era riuscita a
raccogliere l’adesione unanime, così si arrivò ad una situazione di stallo. Dopo due anni,
re Filippo V di Francia riuscì ad organizzare un conclave di ventitré cardinali a Lione, dal
quale uscì eletto Giovanni XXII, che venne incoronato papa a Lione. Anche questo
pontefice stabilì la sua residenza ad Avignone, come il suo predecessore. Giovanni fu
trascinato suo malgrado nella politica e nei movimenti religiosi di molte nazioni europee,
al fine di portare avanti gli interessi della Chiesa, questo fece di lui un papa molto
controverso. Al momento della sua elezione egli aveva più di sessant’anni e sembrò
pertanto a tutti un papa di transizione destinato a non influire nella storia, ma pochi giorni
dopo manifestò la sua ferma intenzione di stabilirsi, con la curia, ad Avignone, in quella
città che conosceva molto bene, avendovi risieduto in qualità di vescovo. Il nuovo papa
proveniva da una famiglia di notabili molto agiati e si era dimostrato ben presto un buon
studioso di diritto e di teologia, tanto da meritarsi, dopo aver compiuto gli studi a
Montpellier ed a Parigi, una cattedra all’università di Tolosa. Fece una folgorante carriera
grazie al suo attivismo e soprattutto alla sua profonda intelligenza; gli fu riconosciuta da
tutti una reale integrità di costumi e una grande semplicità di vita. Giovanni XXII cercò di
contrastare la simonia, ma non riuscì ad estirpare la consuetudine del nepotismo. Si fece
portatore di una politica centralista, già appartenente ai suoi predecessori, ed elaborò con
alcune bolle papali una regolamentazione tale da permettere allo stato della Chiesa di
raccogliere maggiori tributi. S’impegnò a porre fine alla controversia sulla povertà di
Cristo, che aveva in realtà come fine quello di regolare lo statuto delle proprietà
ecclesiastiche. Si diede da fare per risolvere in effetti una problematica controversia sorta
in seno all’ordine dei frati minori (i francescani), fra i sostenitori (che costituivano la
maggioranza) di una povertà moderata e i pochi integralisti, i cosiddetti “spirituali”,
fautori invece di una povertà assoluta, seguaci di San Francesco. Il papa convocò gli
spirituali ad Avignone e qui essi, rappresentati da Bernard Deliceux, non riuscirono a
difendersi dall’accusa di eresia. Alcuni furono mandati via dall’ordine, altri ancora
finirono sul rogo in compagnia di Beghini e Fraticelli. Nel 1317 con una bolla il papa
insistette sull’ordine gerarchico delle tre virtù religiose, che vedeva la povertà solamente al
terzo posto, dopo l’obbedienza e la castità. Ma i francescani continuarono a sostenere la
povertà di Cristo, mentre i consiglieri del papa consideravano eretica questa concezione.
Nel 1322 Giovanni fece restituire all’ordine dei francescani la proprietà dei beni, fino ad
allora gestita dall’autorità pontificia, ma l’anno successivo venne dichiarata eterodossa (e
quindi eretica) la posizione sostenuta dall’ordine. Michele di Cesena, allora ministro in
carica dei francescani, fuggì da Avignone, ove era stato convocato per discolparsi, e si
rifugiò alla corte di Ludovico di Baviera. Il papa lo scomunicò, assieme ai pochi
rappresentanti dell’ordine che nel frattempo non si erano uniformati, e poco dopo volle
approfittare dell’aperto dissidio venutosi a creare fra Ludovico il Bavaro e Federico
d’Austria, entrambi eletti contemporaneamente re di Germania. Seguendo la dottrina
teocratica, secondo la quale quando l’impero era vacante la sua amministrazione ritornava
alla Santa Sede, licenziò i funzionari in precedenza nominati dall’imperatore Enrico VII,
confermando invece la nomina di Roberto di Napoli a Vicario imperiale in Italia. Ludovico
di Baviera reagì con durezza, e in un concilio generale fece dichiarare eretico Giovanni
XXII a causa della sua opposizione alle dottrine degli spirituali. Nel 1328 si fece eleggere
imperatore a Roma nominando poco dopo come papa uno spirituale francescano, Pietro
Rainalducci, con il nome di Niccolò V; ma l’anno successivo Ludovico ritornò in
Germania, abbandonando a Roma il suo antipapa che, senza più protezione, pensò bene di
recarsi ad Avignone per ottenere il perdono del vero pontefice. Giovanni XXII ritornò
pertanto papa a pieno titolo, e nel 1329 condannò ventotto preposizioni del ministro
tedesco Meister Eckhart. Gli ultimi anni di pontificato di Giovanni XXII furono turbati da
nuove accuse di eresia. Ludovico il Bavaro si adoperò per organizzare un concilio generale
per la deposizione del papa, ma nel 1334 Giovanni si ammalò gravemente e poco dopo
morì. Secondo alcune fonti sul letto di morte egli ritrattò le sue tesi. Durante il suo
pontificato Giovanni fece molto per Avignone, determinante fu la sua scelta di risiedere
nel palazzo vescovile, ma in pratica né il palazzo né la città stessa gli appartenevano. Era
ospite infatti di Roberto d’Angiò, re di Sicilia e conte di Provenza. Cominciò così a
costruire una unità politico–geografica che manifestasse palesemente il potere temporale
del papato nella regione del Rodano, a partire dal contado venassino che nel 1274 era stato
restituito alla Chiesa da re Filippo di Francia, portando così al papa il titolo dovuto di
conte. Avvalendosi di tale titolo, Giovanni XXII dette inizio alla riconquista delle terre
circostanti in modo da fornire una solida base territoriale attorno alla città che voleva
eleggere a sua dimora. La città in effetti divenne proprietà dei pontefici solo nel 1348,
quando papa Clemente VI l’acquistò da Giovanna, contessa d’Angiò e di Provenza. Di
grande impatto fu il cantiere che si aprì a Pont de Sourges, a nord di Avignone, per la
costruzione di un nuovo palazzo, e molto importante fu la decisione di battere moneta,
per i contemporanei vero simbolo del potere politico.
Alla morte di Benedetto XXII gli succedette il cardinale Pietro Roger di Beaufort della
diocesi di Limoges, monaco benedettino, che assunse il nome di Clemente VI (1342-1352).
Questo nuovo pontefice alla corte del re di Francia era stato guardasigilli del regno,
durante quel periodo aveva imparato il fasto ed ad essere brillante. A differenza del papa
precedente, egli fu liberale nel concedere benefici ecclesiastici, soprattutto ai parenti. Ecco
il ritorno del nepotismo, anche se bisogna ammettere che Clemente VI aiutò i poveri ed i
diseredati. Infatti durante l’orrenda pestilenza che sconvolse molti stati europei egli fu
generoso nei soccorsi e negli aiuti. Filippo V ricevette più di mezzo milione di fiorini d’oro
dal pontefice, e alla regina Giovanna di Napoli quasi quattro milioni d’oro, dalla
medesima acquistò la città di Avignone per diciottomila fiorini. Per capire la prodigalità di
questo papa, riporterò ora quanto riportato dai cronisti dell’epoca riguardo la festa che si
tenne durante la sua incoronazione pontificia svoltasi il 19 maggio 1342, domenica di
Pentecoste. Senza tener conto delle spese per gli addobbi e gli apparati nel castello papale
e nella chiesa dei domenicani, per il cibo dei diversi banchetti servirono: 118 buoi, 101
vitelli, 1023 montoni, 914 capretti, 60 porci, 69 quintali di lardo, 15 storioni, 300 lucci, 3031
capponi, 3043 galline e 7428 polli. Si presero in prestito 116 caldaie, 26 cuochi con 41
aiutanti, 14 macellai, 20 garzoni, oltre alcune centinaia di inservienti. Si consumarono 102
botti di vino comune, oltre i vini scelti e prelibati. Si comperarono 2200 anfore di vetro, e
più di cinquemila bicchieri; per l’illuminazione si consumarono dieci quintali di cera, in
conclusione il costo di questa megalomania spendereccia arrivò a dodicimila fiorini d’oro
e a millecinquecento scudi d’oro, vale a dire ad un milione di euro attuali. Nel 1350 papa
Clemente VI accolse le istanze dei romani per quanto concerne la concessione del Giubileo,
e stabilì che esso potesse avvenire ogni cinquant’anni e non ogni cento come aveva
stabilito Bonifacio VIII. Questo per la città di Roma si tramutò in un fonte di ricchezza,
perché enormi folle di pellegrini provenienti da tutta Europa andavano a venerare i luoghi
sacri e le tombe dei Santi Apostoli. Il papa Clemente VI subì feroci critiche da molti
intellettuali e uomini di cultura, addirittura il Petrarca definì Avignone la nuova Babilonia,
altri come il Muratori accusarono questo papa di essere mondano e godereccio, dominato
dall’ingordigia del denaro e di facili costumi. Clemente VI riprese con vigore la pratica del
nepotismo, molti suoi congiunti e parenti ottennero la porpora cardinalizia, privilegi e
prebende riducendo la Chiesa ad un mero affare di famiglia.
Papa Gregorio XI, al secolo Pietro Roger dei conti di Beaufort, papa dal 1370 al 1378, era
nipote di Clemente VI che lo aveva creato cardinale a soli diciotto anni. Gregorio XI non fu
un grande nepotista, cioè non avvantaggiò in maniera spudorata i propri parenti. Il suo
pontificato viene ricordato come la fine della cattività avignonese, grazie anche all’opera di
convincimento svolta da Santa Caterina da Siena, che riuscì a riportare il papa a Roma
nonostante l’opposizione del re di Francia e dei parenti del papa. La ragione principale che
indusse papa Gregorio XI a ritornare nella città eterna fu quello di evitare che venissero
creati due papi (uno ad Avignone e l’altro a Roma). Il ritorno a Roma della sede papale fu
visto dai romani come una forma di liberazione dalla crisi profonda che si era avuta con
l’abbandono della sede universale della cristianità: l’assenza dei pontefici aveva fatto
decadere Roma in modo miserevole, chiese e monumenti erano stati abbandonati a sé
stessi, i ruderi degli antichi monumenti erano stati trasformati in cave da materiali di
costruzione, le strade e le piazze erano state trascurate fino al punto da crescervi l’erba,
pecore, porci e altri animali domestici si aggiravano indisturbati per le strade, i commerci e
le industrie erano in crisi. La città sacra della cristianità, a causa di tutte queste
problematiche, scese a venticinquemila abitanti rispetto al milione che ne contava quando
era sede dell’impero. Durante il periodo avignonese del papato, molti feudatari sudditi
della curia pontificia si erano proclamati signori di quei territori, basti ricordare ad
esempio le città di Ancona, Faenza, Rimini, Forlì, Cesena, Bologna. Neanche personaggi
carismatici e popolari come Cola di Rienzo riuscirono a restaurare l’autorità pontificia sui
territori della Chiesa (Romagna, Emilia, Marche ed Umbria furono in preda all’anarchia
feudale), inoltre a complicare la sovranità pontificia ci furono alcuni sovrani come il re di
Francia, il re di Napoli e l’imperatore, che volevano che la città di Roma fosse avvolta nella
perenne instabilità politica, in modo da rendere innocuo il potere temporale dei papi. Nel
Concilio di Costanza, che pose fine allo scisma d’Occidente (parteciparono 1800
ecclesiastici, 300 dottori in teologia, 150 vescovi, 33 arcivescovi, 3 patriarchi, 29 cardinali di
due obbedienze, l’imperatore Sigismondo, i rappresentanti di tutti i principi d’Europa,
compresi quelli dell’imperatore di Costantinopoli, Emanuele III Paleologo, i legati del
pontefice vero, quelli dell’antipapa avignonese, e del papa pisano che fu il protagonista
principale alle prime sessioni, si aggiunsero migliaia di cavalieri, di soldati e numerosi
faccendieri) furono decisi ed emanati dei decreti generali di riforma che confermarono le
pene canoniche contro la simonia; ai possessori di beneficio fu imposto l’obbligo di
prendere le sacre ordinazioni corrispondenti e quello della residenza, e di conseguenza fu
vietato il cumulo dei benefici nella stessa persona.
Papa Martino V (1417-1431) cercò di mettere in atto le decisioni prese al Concilio di
Costanza, anche se si dovette scontrare con l’ostilità di molti cardinali, gelosi delle loro
scandalose prerogative.
Il 1° marzo 1431, i quattordici cardinali presenti in Roma e raccolti in conclave nel
convento di Santa Maria sopra Minerva elessero papa Gabriele Condulmer di Venezia che
assunse il nome di Eugenio IV (1431-1447). Egli era nipote di Gregorio XII che l’aveva
nominato vescovo di Siena nel 1407 e l’anno successivo cardinale col titolo di S. Clemente.
Apparteneva alla congregazione degli Agostiniani, nella quale era entrato in tenera età,
dopo aver regalato ventimila ducati del suo immenso patrimonio. Si racconta che quando
Eugenio IV, non ancora papa, era custode del suo monastero gli si presentò un giorno un
eremita ed egli lo accompagnò nella Chiesa a fare le sue preghiere, quando il pellegrino
prese la via del ritorno gli predisse che sarebbe diventato prima cardinale e poi papa e che
durante la sua missione spirituale sarebbero accaduti gravi eventi che avrebbero
caratterizzato il suo pontificato. Ritornando al periodo precedente alla sua elezione, fu
stabilito dal collegio cardinalizio che il papa appena fosse stato eletto doveva riformare
assolutamente la corte romana nelle sue fondamenta e s’impegnava a non trasferire la sede
pontificia fuori Roma senza l’approvazione degli alti prelati. I vari signorotti dello stato
pontificio avevano l’obbligo di giurare fedeltà non solo al papa, ma anche al collegio dei
cardinali, che aveva la facoltà di controllare preventivamente gli atti compiuti dal capo
della Chiesa cattolica. Il papa eletto era costretto ad osservare questa serie di limitazioni
dell’autorità spirituale e temporale perché, secondo il diritto canonico del tempo, il
controllo della potestà d’imperio minava il primato pontificio. Papa Eugenio IV, per il
quieto vivere accettò le condizioni poste dai cardinali e con una bolla del 12 marzo 1431 le
confermò proprio il giorno dopo la sua solenne elevazione al soglio pontificio che venne
celebrata sulla scalinata della basilica di San Pietro. Egli cercò di combattere il nepotismo
che la famiglia dei Colonna, eredi di Martino V, continuarono a praticare. Dopo aver
svuotato le casse pontificie essi volevano mantenere privilegi e terre, come Ostia, così il
nuovo papa fu costretto a scomunicare i Colonna e privarli di ogni prerogativa. Per attuare
questi provvedimenti fu aiutato dalla regina Giovanna di Napoli, dalla città di Firenze e
dalla Repubblica di San Marco. Confermò al cardinale Cesarini la delega di presiedere il
Concilio di Basilea, anche se il papa voleva spostarla in Italia per permettere all’imperatore
d’Oriente, Giovanni VIII Paleologo, d’intervenire. Eugenio IV, forse più di Martino V,
voleva raggiungere l’unità della Chiesa anche con i fratelli d’Oriente (greci, bizantini,
russi). Il 23 luglio 1431, nella cattedrale di Basilea, si inaugurò l’assemblea conciliare,
purtroppo non vi presenziava neppure un vescovo, erano invece presenti abati, canonici e
teologi, non era presente neanche il cardinale Cesarini, impegnato in Germania nella
crociata contro gli Hussiti, in sua vece andarono Giovanni di Ragusa e Giovanni di
Palamar, che riscosse molto successo. Quando giunse il cardinale Cesarini si affrettò ad
inviare a Roma Giovanni Beaupère, canonico di Besonzone, per informare il pontefice
sull’andamento del concilio. Il Beupère probabilmente esagerò sull’opportunità di tenere il
Concilio di Basilea, città insicura e maldisposta verso gli ecclesiastici. A papa Eugenio IV
inoltre pervennero delle notizie concernenti un possibile dialogo con gli Ussiti per
dibattere le loro dottrine, tutte queste apprensioni lo indussero a sciogliere il Concilio e
con una bolla indirizzata a tutti i fedeli lo fece trasferire a Ferrara. I convenuti a Basilea,
con a capo il cardinale Cesarini interpretarono il gesto come un affronto, si opposero allo
scioglimento del concilio e non si presentarono all’adunanza generale del 13 gennaio 1342,
in cui venne letta pubblicamente la bolla pontificia. Il cardinale Cesarini inviò una forte
lettera di protesta a Roma, in cui descriveva i gravi danni che la cristianità avrebbe subito,
perché questo concilio era l’unico strumento per risanare la Chiesa, in pratica si era
manifestata palesemente una ribellione all’autorità pontificia. Quell’atto di ribellione dei
partecipanti al concilio di Basilea fu appoggiato da molte corti europee, fra cui quella di
Sigismondo, il quale sperava nell’opera del concilio per sradicare il moto rivoluzionario
degli Ussiti di Boemia. I prelati ed i dottori di teologia del Concilio di Basilea
ripubblicarono quei decreti di Costanza che affermavano che la sovranità del concilio
derivava direttamente da Dio e che lo stesso papa doveva riconoscerla. Fu stabilito che lo
stesso concilio di Basilea non si poteva né sciogliere, né trasferire altrove, senza il proprio
consenso e che nessun partecipante poteva essere allontanato e nessuno dei convenuti
poteva lasciare spontaneamente il Concilio senza il permesso unanime dei convenuti. I
ribelli di Basilea ebbero l’appoggio anche di alcune università, tra le quali la Sorbona. Nel
Concilio di Basilea, molto dissenziente nei confronti del papa, fu stabilito che il pontefice
non poteva nominare nuovi cardinali senza l’autorizzazione della medesima assemblea, in
pratica il papa venne privato dei suoi poteri. Il capo della Chiesa di Roma si mostrò
all’inizio arrendevole nei confronti dei sinodali, nella speranza di arrivare ad una
riconciliazione fra le parti, al fine di evitare una divisione in seno alla Chiesa cattolica.
Sigismondo, dopo l’iniziale appoggio ai dissidenti del Sinodo di Basilea, cominciò a
prendere le distanze ed a riavvicinarsi al pontefice al fine di avere da lui l’incoronazione
imperiale e il suo appoggio nella guerra di Boemia. Dobbiamo ricordare che durante il suo
pontificato papa Eugenio IV fu molto spietato infatti, durante il suo mandato papale,
furono commesse scellerate malvagità come la condanna al rogo della giovanissima
Giovanna d’Arco che fu ingiustamente accusata di stregoneria e fu bruciata viva nel 1431;
nel medesimo periodo furono arsi vivi due semplici popolani, Merenda e Matteo, per il
semplice motivo che doveva essere fatto un favore alle famiglie gentilizie dei Colonna e
dei Savelli, come immensamente riprovevole fu il massacro attuato nei riguardi dei
seguaci di Jan Hus, i quali furono costretti ad entrare in un fienile al quale fu dato fuoco
dopo averne sbarrato le entrate. Questo evento tragico fu descritto dalla cronaca cattolica
come segue: “Appena entrati, si chiusero le porte e si appiccò il fuoco, e in tal modo quella
feccia, quel rifiuto della razza umana, dopo aver commesso tanti delitti, pagò finalmente
tra le fiamme la pena del suo disprezzo per la religione” (Fonti: Marchetti M. La santa
inquisizione, Ragusa 1999)
Durante l’adunanza del concilio di Basilea, il 7 maggio 1437, i prelati più autorevoli
l’abbandonarono, quelli rimasti, molto polemici con il papa, lo incitarono a comparire. Il
sommo pontefice non si presentò e così fu minacciato di essere sospeso. Eugenio IV, di
fronte a questo atteggiamento oltranzista trasferì il concilio a Ferrara, dove ebbe inizio l’8
gennaio 1438 sotto la guida di Niccolò Albergati. Appena il pontefice giunse a Ferrara
scomunicò il conciliabolo di Basilea e proclamò ecumenico quello della città estense, ma il
re di Francia Carlo VII si mise a proteggere i ribelli di Basilea ed impedì ai suoi sudditi di
partecipare al Concilio di Ferrara. I pochi prelati rimasti a Basilea deposero il papa (24
gennaio 1438) e il 5 novembre 1439 nominarono papa con il nome di Felice V il principe
Amedeo VIII di Savoia che viveva in solitudine a Ripaglia. Questo anziano principe non
sapeva nulla di chiesa, egli non aveva nessun ordine sacro, né conosceva la teologia, ma
accettò di fare il papa e si prese come segretario Enea Silvio Piccolomini, ottenne gli ordini
sacri e iniziò a parlare in lingua latina. Questa farsa durò cinque anni, quando Felice V si
accorse di avere poco seguito depose la tiara e riconobbe il papa di Roma, Niccolò V. Il
pontefice fu molto generoso con lui, perché lo nominò vescovo di Ginevra e Losanna. La
fine dei due papi interruppe le anomalie nella chiesa cattolica, perché accadeva soprattutto
in Germania che in certe città ci fossero due vescovi, uno nominato da Felice V e l’altro dal
papa di Roma Eugenio IV.
Le febbrili trattative in corso fra Roma e Basilea e fra Eugenio e Sigismondo non riuscirono
ad approdare ad un accordo fra il pontefice ed i dissidenti sinodali, infatti i delegati del
papa erano pronti a riconvocare il Concilio a Basilea a patto che gli atti presi in quel sinodo
venissero annullati, in particolare quelli contrari all’autorità pontificia, ma i ribelli di
Basilea non erano disposti a cedere. Sigismondo si fece incoronare con la corona ferrea re
d’Italia a Milano il 25 novembre 1431 dall’arcivescovo Bartolomeo Capra. Successivamente
si portò vicino a Roma, si riappacificò con il papa Eugenio IV e il 21 novembre 1432 entrò
in Roma accolto in modo pomposo dal popolo dopo aver giurato fedeltà a papa Eugenio
IV e alla Santa Chiesa romana, fu incoronato imperatore in San Pietro il 31 maggio 1433.
Questo atto rinforzò la posizione del pontefice Eugenio IV, mentre si indebolì quella dei
membri del Concilio di Basilea, infatti quando Sigismondo tornò in Germania fece
pressione con le persone partecipanti a Basilea affinché si raggiungesse un accordo. Il
pontefice, aderendo ai desideri di Sigismondo, il 1° agosto 1433 pubblicava una bolla con
nuove proposte di pace: egli riconosceva il Concilio di Basilea, purché si desse la
presidenza ad un suo legato e si annullassero gli atti contrari alla dignità pontificia. I
condottieri di Filippo Maria Visconti duca di Milano, Francesco Sforza, Niccolò
Fortebraccio ed altri capitani, che si sospettava fossero comandati dal Concilio di Basilea,
invasero nel novembre 1433 le terre pontificie; il Fortebraccio arrivò nelle vicinanze di
Roma, dalla quale fuggirono alcuni cardinali, ma quasi tutta la nobiltà si schierò contro
Eugenio IV. Il papa, sentendosi minacciato, lasciò Roma nonostante avesse concesso la
vicaria di Ancona e il titolo di gonfaloniere di Santa Chiesa allo Sforza perché lo liberasse
dal Fortebraccio. Ma l’evento che costrinse il papa ad abbandonare Roma fu la sommossa
del popolo, fomentata dai Colonna e dagli altri ghibellini romani che gli avevano
promesso la libertà. Ponceleto di Pietro Venerameli si impossessava del Campidoglio
proclamando la Repubblica e veniva creato l’antico governo dei Banderesi con sette
governatori; costoro andarono a prendere il pontefice e lo portarono forzatamente in
Campidoglio. Il papa, di fronte a queste palesi umiliazioni e costante delegittimazione
della sua autorità scelse la fuga. Con addosso un saio da frate benedettino, la notte del 4
giugno 1434, accompagnato da una suo partigiano andò alla riva del Tevere e prese una
barca, ma fu riconosciuto presso San Paolo, dove subì il lancio di frecce e pietre, ma non si
perse d’animo, si sdraiò sul fondo della barca e protesse il suo corpo con uno scudo.
Giunto ad Ostia, prese il mare e giunse a Firenze il 23 giugno, qui fissò la sua dimora nel
convento dei domenicani a Santa Maria Novella. La fortuna volle che Leone Sforza,
fratello di Francesco, che era schierato a Castel Sant’Angelo, riuscisse audacemente a
riconquistare Roma, ponendola nuovamente sotto l’autorità del pontefice, il quale mandò
a rappresentarlo Giovanni Vitelleschi, vescovo di Recanati, nonché uno dei migliori
combattenti del periodo. Da Firenze papa Eugenio IV spedì a Basilea i cardinali Albergati
e Cervantes con proposte di pace, ma essi non furono presi in considerazione. Il pontefice
allora reiterò il decreto di scioglimento del concilio di Basilea e con una lettera invitò i
sovrani europei a far ritirare i propri rappresentanti dal concilio.
Nessun papa fece maggiori sforzi e sacrifici del papa Eugenio IV affinché si realizzasse
nuovamente l’unità della Chiesa cattolica con le chiese scismatiche d’Oriente; questo fa
onore a Eugenio IV che nonostante fosse assediato dai suoi nemici d’Occidente si prodigò
fino all’inverosimile per riportare spiritualmente l’Oriente nella sfera della fede di Roma. Il
Concilio di Ferrara nella strategia del pontefice doveva essere il concilio dell’unione, a
questo nuovo concilio giunsero nel marzo 1438 l’imperatore d’Oriente Giovanni Paleologo
con il fratello Demetrio, accompagnati dal patriarca Giuseppe di Costantinopoli e dai
vicari dei patriarchi di Alessandria, di Antiochia, di Gerusalemme, nonché dai migliori
filosofi e teologi dell’Oriente, come Marco d’Efeso, Bessarione di Nicea e Gemisto Pletone.
Durante il concilio, per affrontare meglio le problematiche scismatiche, fu istituita una
commissione di dieci persone che doveva analizzare i vari punti di disaccordo. Superate le
difficoltà formali, si affrontarono gli aspetti sostanziali di differenza: 1) la dottrina della
processione dello Spirito Santo, del Padre e del Figlio; 2) il pane azzimo invece del comune
per sacrificio eucaristico; 3) la dottrina del Purgatorio come luogo di espiazione per le
anime non del tutto monde, per quanto libere dal peccato mortale; 4) il primato pontificio
su tutta la Chiesa e su tutti i fedeli. Su questi argomenti dogmatici il confronto fu molto
serrato, mentre l’imperatore d’Oriente trascorreva il tempo andando a caccia, le
discussioni si protrassero per ben sedici sessioni che durarono tre mesi. All’improvviso a
Ferrara si diffuse la peste, allora papa Eugenio IV, non avendo più i mezzi economici per
mantenere i settecento greci convenuti, fece spostare il concilio a Firenze, città che gli
aveva promesso notevoli appoggi economici. Nella città del giglio si raggiunse un accordo
per l’unione delle due Chiese, quella d’Oriente e quella d’Occidente. L’imperatore
bizantino voleva a tutti i costi raggiungere l’intesa anche per interesse politico, dato che i
turchi premevano ai confini. Appianate le dispute dogmatiche i convenuti fecero ritorno
in Russia, a Costantinopoli ed in Grecia, ma l’unione delle due chiese ebbe breve durata,
perché gli alti prelati orientali, tornati alle proprie sedi, dovettero fuggire dal proprio
paese perché i monaci e gli ecclesiastici sobillarono i popoli orientali contro questa unità
che poneva nuovamente le chiese d’Oriente sotto lo scettro di Roma, quindi lo scisma
riprese.
Alla morte di Eugenio IV fu eletto papa Tomaso Parentucelli, che prese il nome di Niccolò
V (1447-1455). Durante il suo pontificato cadde Costantinopoli e l’ultimo lembo
dell’Impero d’Oriente (1455). L’ultimo imperatore Costantino XII Dragases tentò invano di
avere aiuti dall’Occidente, ma Niccolò V riuscì a raccogliere soltanto esigui aiuti. Al
sultano Maometto II fu riservato il merito di aver conquistato Bisanzio con i suoi
ventiseimila uomini che avevano accerchiato i nemici per terra e per mare; i difensori greci
erano appena settemila e duemila tra veneziani e genovesi (questi ultimi appena capirono
che le sorti si volgevano loro contro si ritirarono). Anche alcune centinaia di catalani si
batterono strenuamente, fino a farsi massacrare dall’invasore turco. Dopo 54 giorni di
battaglia, sotto la spinta dell’artiglieria degli ottomani che avevano cento cannoni tra cui
uno enorme che sparava palle di pietra del peso di 800-1200 libbre, gli assedianti
capitolarono. Costantino XII si batté furiosamente, anche quando ormai la scimitarra turca
era entrata dappertutto nella sua città, uccidendo dieci pascià e sessanta giannizzeri, ma
alla fine la sua spada si spezzò e la sua lancia si spuntò, ed egli, sopraffatto cadde da
cavallo. Ancora in fin di vita gli venne tagliata la testa ed infilzata sopra una lancia, mentre
il corpo fu seppellito sotto una pianta d’alloro, mentre il capo dell’ultimo imperatore
venne collocato sulla colonna di porfido che aveva eretto Costantino Magno. Il saccheggio
e il massacro dilagarono in città, la mezzaluna prese il posto della croce sulla cupola di
Santa Sofia e Costantinopoli divenne Stambul, una delle capitali del mondo islamico.
Con il papa Callisto III (1455-1458) il nepotismo prese fortemente vigore. Egli era nato
Alfonso de Borja y Cabanilles ed era imparentato con il primo Borgia (de Borja, questa
casata proveniva da Tarragona, Spagna). Tre famiglie in particolare con le quali aveva
contratto parentela per via di nozze con le sue sorelle, furono avvantaggiate oltre il
dovuto: i Mila, i Lanzol e i Borgia. Da Isabella Borgia e da Goffredo Borgiay Gomis furono
generati Pier Luigi Borgia e Rodrigo Borgia, quest’ultimo fu talmente ambizioso che riuscì
a diventare papa con il nome di Alessandro VI. Callisto III nominò Pierluigi Capitano
generale di Santa Chiesa e Comandante di Castel Sant’Angelo, successivamente fu
nominato anche prefetto di Roma e governatore di parecchie città. Rodrigo, appena
raggiunse venticinque anni, fu fatto cardinale, vicecancelliere della Chiesa, capitano delle
milizie del pontefice e infine vescovo di Valenza. Anche Luigi Giovanni, figlio della sorella
Caterina, moglie di Giovanni de Mila, fu elevato alla porpora cardinalizia e nominato
legato pontificio a Bologna. I parenti del pontefice a loro volta portarono altri congiunti ed
amici, creando un giro vizioso e clientelare che indignò il popolo romano. Purtroppo il
malcostume introdotto da papa Callisto III fece cattiva scuola e così molti papi lo
imitarono. Il nepotismo dei pontefici trovò in parte una sua giustificazione nella rigida
necessità di avvalersi di persone devote e impegnate a sostenere l’operato del pontefice
nell’attività di governo dello stato contro i riottosi signorotti usurpatori di cariche e di
terre statali. Gli storici continuano a distinguere un piccolo ed un grande nepotismo, a
seconda che i papi concedessero ai parenti favori e dignità, oppure avessero come fine più
ambizioso di costituire per i membri della propria famiglia una signoria. Questo sogno
pare che fosse coltivato da Callisto III nei confronti del proprio nipote prediletto Pietro
Luigi, al quale sperava di assegnare il Regno di Napoli visto che Alfonso V d’Aragona era
morto senza aver generato un erede legittimo, invece Callisto III morì prima di aver
portato a termine il suo disegno.
Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, era nato nel villaggio di Corsignano, il 19
ottobre 1405, dall’illustre famiglia Piccolomini di Siena. Enea frequentò l’università di
Siena, e in quella di Firenze apprese il greco alla scuola del Filelfo. Di ingegno perspicace,
portato per gli studi classici, eccellente nella poesia e nell’arte oratoria, fu al servizio di
diversi cardinali (Capranica, Albergati, Cesarini), dimostrando così la sua capacità
diplomatica. Appoggiò l’elezione dell’antipapa Felice V, ma in seguito passò alla corte
dell’imperatore Federico III. Pio II fu molto libertino, infatti scriveva componimenti e
lettere d’amore ed ebbe diversi figli illegittimi, ebbe insomma una vita brillante e galante.
Quando venne a Roma come ambasciatore di Federico III si presentò a papa Eugenio IV, si
pentì dei suoi peccati e del suo comportamento licenzioso e diventò ecclesiasta ricevendo
gli ordini minori. In seguito divenne vescovo di Trieste, e successivamente ottenne la sede
episcopale di Siena. Fu eletto papa con i voti determinanti dei cardinali Borgia, Tebaldo e
Prospero Colonna nel 1458 e morì nel 1464. Fu un abile politico, protesse letterati e artisti,
ma neanche lui fu immune dal nepotismo: nominò cardinale un figlio della sorella
Laudamia, e agli altri procurò posizioni molto proficue e grandi appannaggi. La corte
papale fu invasa dai suoi paesani senesi, sempre in cerca di posizioni di favore.
Alla morte di Pio II i cardinali decisero di mettere un limite al potere del papa, così
durante il conclave, prima di eleggere un nuovo pontefice, stabilirono alcune regole che il
nuovo papa avrebbe dovuto rispettare, tra le quali quella di poter nominare un solo
cardinale tra i parenti. Fu eletto il veneto Pietro Barbo, che prese il nome di Paolo II (14041471). Questo pontefice cercò di estirpare la piaga del brigantaggio e delle discordie fra le
varie famiglie gentilizie che terrorizzavano Roma ed i suoi dintorni, infatti la famiglia
Anguillara fu annientata e le sue rocche espugnate dai soldati pontifici, dove furono
rinvenute parecchie cose scellerate: strumenti per falsificare monete, persone rinchiuse in
orridi carceri. Paolo II costituì un tribunale speciale per prevenire le risse e gli scontri fra i
vari casati nobili, i quali si circondavano di molti delinquenti che, con la protezione delle
famiglie nobili, compivano ogni nefandezza ai danni della popolazione inerme.
Il 9 agosto 1471 risultò eletto il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto
IV (1471-1484), perché il conclave era iniziato appunto nella festa di San Sisto papa e
martire. Egli era nato a Celle di Savona il 21 luglio 1414, appartenente ad una famiglia di
umili origini, compì i suoi studi nell’università degli studi di Pavia e di Bologna e in quegli
atenei fu anche professore. Fu un abile politico, anche se si trovò ad operare in realtà
complicate ed agitate dovute all’epoca, nella quale gli stati italiani erano in continuo
fermento. Papa Sisto IV acquistò la città di Imola ed in seguito la donò a suo nipote
Gerolamo Riario, il quale non si sentì sicuro finché nell’Italia centrale dominava Lorenzo
de’ Medici, il principe mecenate, che per quasi cinquant’anni mantenne la pace nell’Italia
centrale. Il pontificato di Sisto IV si caratterizzò per un forte nepotismo, infatti al momento
della sua nomina contava già quindici nipoti di diverso grado di parentela. Due di essi,
Pietro Riario e Giuliano della Rovere, vennero nominati vescovi ed in seguito vennero
innalzati cardinali nel dicembre 1471; il primo aveva venticinque anni ed il secondo
solamente diciotto. Il nipote di Giuliano della Rovere, Leonardo, fu fatto prefetto di Roma
e prese in sposa una figlia naturale del re di Napoli. Leonardo morì improvvisamente nel
1476, e allora fu nominato prefetto della città Giovanni, che era fratello del cardinale
Giuliano. Il fratello del cardinale Pietro Riario, Gerolamo, prese possesso del ducato di
Ferrara, e fu ricoperto di onorificenze dal papa, dal duca di Milano e dai veneziani.
Quando Luigi XI di Francia restituì alla Santa Sede le contee di Valentinois, e di Saint-Die
chiese che venissero intestate a Gerolamo. Il nipote di Gerolamo, Rafaello Riario Sansoni,
fu fatto cardinale a soli diciassette anni. Il cardinale Pietro Riario era figlio di Bianca della
Rovere, sorella del papa, faceva parte dell’ordine francescano ed era il preferito di Sisto IV,
purtroppo era pieno di orgoglio e di ambizione ed attratto dal lusso. Nella sua persona si
concentrarono l’arcivescovado di Firenze, il patriarcato di Costantinopoli e molti altri
vescovadi ed abbazie, tanto che le sue rendite sfioravano i sessantamila fiorini d’oro.
Nonostante queste laute entrate il cardinale Pietro Riario era sempre alla ricerca di nuove
risorse economiche per poter mantenere brillante la sua corte, sovente dedita alle orge e a
prodigalità esagerate. Negli aneddoti storici rimane famoso il banchetto che egli preparò a
Roma il 1 giugno 1473, in onore di Leonora figlia del re di Napoli, la quale passava per la
città eterna per andare in sposa ad Ercole d’Este, signore di Ferrara. Al suo arrivo essa fu
accolta con fasto orientale, infatti Leonora camminava seduta su una chinea “la più vistosa
e la più guarnita che mai si fosse vista in Roma”. I due prelati nipoti del papa, che
precedevano il corteo, per farsi largo tra la moltitudine degli spettatori lanciavano da tutte
le parti, e quanto più potevano, manciate di monete. Il banchetto fu consumato nella sala
maggiore del palazzo dei Riario, abbellita di bellissimi arazzi, rinfrescata da appositi
mantici nascosti nell’alto, profumata da sottilissimi spruzzi di acque odorose che un
fanciullo rivestito di foglioline d’oro spruzzava sugli invitati. L’elenco delle portate, dei
cibi e delle bevande che ci hanno fatto pervenire alcuni commensali richiama a quei mitici
banchetti greci e romani caratterizzati dalla scenografia delle orge, viste più come un rito
che un mero appagamento materiale. Sisto IV era molto affranto dal comportamento
libertino dei nipoti e dei suoi parenti ma, per il buon funzionamento della macchina
politica e amministrativa dello stato pontificio, ormai non poteva fare a meno di loro. Il
chiacchierato e scandaloso nipote cardinale Pietro Riario morì il 5 febbraio del 1474. Alcuni
studiosi di storia dei papi non sono teneri con questo pontefice, che approfittò delle
enormi ricchezze accumulate dal crudelissimo inquisitore domenicano, Tomaso de
Torquemada, tramite i beni confiscati ai condannati (ebrei ed accusati di eresie e
stregonerie) ed i beni abbandonati dalla popolazione che, spaventata dalla sua fama, al suo
arrivo scappavano in massa abbandonando tutto nelle sue mani, obbligandolo a versargli
la metà dell’ignobile bottino. Si pensi che il de Torquemada, con l’omertà del pontefice,
riuscì a mandar via dalla sola Spagna ottocentomila ebrei, confiscando loro tutti i beni, e
condannandoli a pena di morte qualora fossero restati o ritornati. Inoltre, sotto il
pontificato di Sisto IV furono bruciati vivi centoduemila ebrei e di quasi settemila di essi
furono riesumati i cadaveri per essere arsi in quanto condannati post mortem alla confisca
dei beni, altri novantasettemila ebrei furono condannati al carcere a vita dopo essere stati
privati delle proprietà. Contemporaneamente, in tutte le piazze di Roma, venivano messi a
morte in spettacolari roghi i non cattolici i cui patrimoni erano requisiti dalla
”Confraternita di San Giovanni Decollato”, per conto di papa Sisto IV, che non badò a
spenderli per i suoi sollazzi, tanto che regalava vasi da notte d’oro alle dame che si
intrattenevano con lui. Papa Sisto IV, da buon politico consumato, aveva capito che per
tenere quieta la plebaglia romana bisognava distribuire pane e divertimenti: gliene diede
un’infinità. Possiamo affermare in modo categorico che le festività e il lusso al tempo di
Sisto IV superarono senza confronto quelli di ogni altro tempo. I suoi nipoti, carichi di
dignità ecclesiastiche e civili, ostentarono una generosità scandalosa e su questo furono
coadiuvati da molti cardinali, per esempio il cardinale nipote Pietro Riario si circondava di
una corte di cinquecento persone, infatti in due anni di cardinalato spese trentamila scudi
per i piaceri della tavola, spegnendosi a soli ventinove anni, indebitato. Indimenticabile fu
il carnevale del 1473 da lui organizzato per festeggiare il cardinale Carafa, proveniente
dall’Oriente con pochi allori, ma mostrando spoglie opime messe su dodici cammelli
portati da venticinque turchi che erano stati fatti prigionieri sul litorale Adriatico. Nel
corso mascherato venivano rappresentate battaglie contro i turchi, i quali finivano vinti e
incatenati. Preziosi premi venivano dati a coloro i quali producevano dal punto di vista
scenografico le migliori comparse: di fronte a questo pullulare di spettacoli il popolo
andava in delirio e riceveva molte elargizioni. La prodigalità del cardinale nipote non si
limitò solo al popolo, ma si estense anche alla nobiltà, per la quale preparava nel suo
palazzo feste e ricevimenti che sorpassavano l’ultimo limite di sontuosità e di fasto. I
mobili delle sale avevano fregi d’oro e d’argento, le pareti erano coperte di arazzi, di
damaschi e di drappi d’oro, i vasellami per la tavola erano finemente lavorati in oro e in
argento. Torce e doppieri illuminavano a giorno le sale durante tutta la notte, giacché i
banchetti si protraevano fino al mattino tra danze, suoni e canti. Il carnevale romano
divenne talmente grandioso che superò quello veneziano, senza contare poi le festività
religiose alle quali il popolo partecipava. Possiamo affermare che Sisto IV buttò molte
risorse economiche per le feste pagane e religiose, ma fece anche parecchie cose buone,
come rimettere a posto le strade e le piazze di Roma. Egli fu un grande mecenate (si
circondò di artisti e letterati), e il suo più grande merito è quello di aver fatto costruire la
Cappella Sistina, la magnifica cappella che serve per le funzioni papali. Sisto IV ideò
questo luogo nei minimi particolari in modo da dare alle funzioni religiose che vi si
celebravano una rigida solennità ed un accentuato raccoglimento. A dipingere la Cappella
Sistina furono chiamati i migliori pittori: Michelangelo, il Botticelli, il Perugino, mentre
architetto capo della Cappella fu Giovannino de’ Dolci. Purtroppo il nome di Sisto IV si
ricollega anche alla creazione dell’Inquisizione in Spagna, regno nel quale era permesso
agli ebrei di esercitare l’usura e se convertiti avevano maggiori libertà, ma queste pratiche
erano contrarie alla morale cristiana e tutto ciò provocava nel popolo spagnolo un forte
sentimento di odio e di disprezzo. Molti ebrei erano inoltre riusciti ad inserirsi nelle
gerarchie ecclesiastiche, mettendo così a repentaglio la purezza della dottrina cristiana,
quindi i sovrani spagnoli, di fronte a questa subdola penetrazione, si rivolsero al pontefice
per avere il permesso di istituire un apposito tribunale di vigilanza. Sisto IV, con bolla del
1° novembre 1478, autorizzò Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia a nominare
inquisitori due o tre ecclesiastici che dovevano avere approfondite conoscenze di dottrina
e saggezza. Questi inquisitori avevano ampia facoltà di procedere per affermare la verità
della fede contro gli eretici e gli pseudo cattolici (cosiddetti maranos, cioè quelli convertiti
al cattolicesimo, basti ricordare i duchi di Medina e Modana che furono i principali
finanziatori della missione di Cristoforo Colombo). L’incarico fu conferito a due
domenicani, Miguel Morillo e Juan de San Martin, i quali estrinsecarono un
comportamento molto zelante nell’adempiere la loro missione. I roghi arsero in tutta la
Spagna con estrema facilità. Il primo grande inquisitore fu Tomaso de Torquemada, che
entrò a ricoprire l’incarico il 2 agosto 1483, era di nomina regia ma riceveva la facoltà di
adempiere alla sua funzione legislativa dalla Santa Sede. Egli venne affiancato da un
consiglio speciale, i cui membri furono scelti dal re, ovviamente su indicazione del grande
inquisitore; possiamo affermare che l’istituto dell’Inquisizione si caratterizzò per il suo
dualismo, avendo un’impostazione prettamente ecclesiastica ma essendo allo stesso tempo
un formidabile strumento della politica. Il primo anno di attività dell’Inquisizione
spagnola fu molto attivo, infatti finirono sotto processo diciassettemila persone, duemila
delle quali furono condannate al rogo. Altra cosa positiva che fece Sisto IV fu quella di
potenziare di molti libri la biblioteca vaticana che era stata fondata da Niccolò V. Alcuni
maligni affermarono che questo smodato interesse di Sisto IV per l’arte e la cultura poteva
produrre direttamente una forma di neopaganesimo strisciante, trascurando la cura delle
anime cristiane e allontanando il pontefice dalla retta via, insomma il papa si discostava
dalla fede cristiana.
Innocenzo VIII (1485-1492), nato Giovanni Battista Cibo, oltre ad essere stato un corrotto
simoniaco, fu un incallito libertino, anche se quando abbracciò la carriera ecclesiastica
attenuò rigorosamente quel comportamento licenzioso che aveva avuto in passato. Ebbe
sette figli riconosciuti che dovette mantenere, i più famosi furono Franceschetto e
Teodorina. A differenza di Sisto IV, il pontefice Innocenzo VIII fece di tutto per accattivarsi
Lorenzo il Magnifico infatti combinò il matrimonio tra Maddalena, figlia di Lorenzo, e suo
figlio Franceschetto. La sposa fu accompagnata dalla madre Clarice, il papa offrì agli sposi
un sontuoso banchetto e regalò ai novelli sposini gioielli per un valore di diecimila ducati.
Egidio da Viterbo criticò aspramente il papa Innocenzo VIII per essere stato il primo dei
pontefici a porre in mostra i propri figli e per averne celebrato il matrimonio. Le nozze di
Franceschetto, anche se furono celebrate nel palazzo Vaticano, non furono idilliache
perché egli, uomo di gusti triviali, cercava solo la ricchezza che prontamente sperperava
nelle orge. Nello stesso periodo papa Innocenzo VIII festeggiò il matrimonio della nipote
Peretta (figlia di Teodorina) col mercante genovese Gherardo Usodimare. Al banchetto
partecipò anche il pontefice, contro la buona consuetudine che proibiva alle donne di
sedere a mensa con il papa. Il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni de’ Medici, fu
elevato al cardinalato dal pontefice Innocenzo VIII all’età di quattordici anni, però con
riserva, perché per tre anni il giovinetto cardinale non doveva portare insegne, né avere
seggio e voto nel sacro collegio. Passati quegli anni il giovane Giovanni de’ Medici andò a
Roma e il pontefice lo accolse nel Concistoro con le solite cerimonie. Papa Innocenzo VIII
progettò una crociata contro i turchi, ma optò per raggiungere un accordo con il sultano ed
accettò da lui una pensione di quarantamila ducati: questo evento fu festeggiato con uno
dei carnevali più mondani che Roma ricordi. Altra cosa negativa che fece fu quella
d’impegnare la tiara e parte del tesoro vaticano presso una banca romana, poi, per avere
altro denaro, creò nuovi posti nella segreteria papale anche se non c’era proprio bisogno,
mettendoli in vendita (furono aumentati i segretari da sei a trenta, inoltre fu creato un
nuovo collegio di cinquantadue ufficiali, detti Plumbatores), questo provocò un abuso di
potere, perché spinse ad affidare gran parte degli uffici dell’amministrazione curiale a
persone inette che pensavano solo ad arricchirsi economicamente, tanto da diventare una
regola quotidiana nella Santa Sede. Tutti gli impiegati erano corrotti, e si corroborò l’abuso
di fabbricare bolle false che concedevano privilegi e dispense da precetti ecclesiastici
dietro compensi in denaro, questo abuso era talmente diffuso che lo stesso Innocenzo VIII
dovette mandare al patibolo parecchi falsificatori romani delle bolle pontificie. La più
famigerata bolla di questo papa fu la Summis desiderantes, con la quale dichiarava “essere
cosa accertata che molti individui d’entrambi i sessi, nelle città e nelle campagne,
abbandonata la religione cattolica, avevano contatto carnale con i demoni sotto spoglie
umane maschili e femminili e, con l’ausilio di questi loro alleati infernali, compivano le
maggiori nefandezze ed arrecavano i peggiori guai”. In virtù di questa bolla, come ricorda
Rau (1911), Innocenzo VIII diede l’incarico a tre monaci di scacciare dalla Germania i
demoni della stregoneria. Ebbero allora inizio, sulla base di indicazioni superficiali, di
denunce basate su nulla di concreto, persecuzioni terribili che furono condotte con voluttà
fanatica di far scempio, di uccidere. Serviva un codice formale che servisse nei processi
alle streghe e portasse cioè un’esatta e completa descrizione delle loro scellerate azioni, la
stregoneria venne considerata come un’espressione vera e propria di criminalità diabolica.
Nel frattempo, in Spagna, l’ultima roccaforte dei mori, Granata, cadde il 2 gennaio 1492,
con grande gioia del popolo spagnolo. Il sovrano Ferdinando d’Aragona ottenne il titolo di
“Maestà Cattolica”. Carlo Verardo compose un’azione drammatica in ventitré scene
distese in prosa latina ad illustrazione della presa di Granata, la rappresentazione si svolse
nel cortile del palazzo della Cancelleria Apostolica e gli spettatori si divertirono
tantissimo. Questa espressione teatrale ebbe successo e Pomponio Leto ispirò i suoi
accademici alla nuova arte, possiamo affermare che dai festeggiamenti della presa di
Granata ebbe origine il teatro italiano in Roma. Il 2 marzo 1492 Innocenzo VIII si ammalò,
ma in seguito si riprese al fine di prendere parte alla grande festa, che si celebrò a Roma il
31 maggio per venerare la Sacra Lancia con la quale Longino aveva trafitto il costato di
Gesù in croce e che il sultano Bayazet aveva inviato al papa per farselo amico, affinché non
aiutasse il suo fratello ribelle Zizim. La notte del 25 luglio 1492 il pontefice Innocenzo VIII
morì ed in seguito venne sepolto in San Pietro. Questo papa genovese morì poche giorni
prima che il magnifico cittadino Cristoforo Colombo salpasse da Palos per la grande
impresa che doveva dare alla Chiesa un mondo nuovo da evangelizzare e ai sovrani
spagnoli immensi territori da sfruttare.
Il suo successore, papa Alessandro VI (1492-1503, al secolo il valenzano Rodrigo Borgia),
fu l’esempio vivente della lussuria, della trasgressione e della più grande bassezza morale:
molti lo utilizzarono per lanciare critiche feroci al papato e sulla Chiesa. Alcuni storici non
si scandalizzarono di quel comportamento immorale che era frutto dell’epoca (pieno
Umanesimo) in cui il paganesimo s’intrecciava con lo spirito cristiano dei papi. Lo spirito
dell’epoca aveva fatto trionfare il paganesimo sia nei troni che nell’altare di Pietro, non
solo, ma un pericoloso sofisma si era impadronito della mente dei regnanti: il bene e il
bello diventarono tutt’uno, quindi ogni cosa che esprimeva estetica ed arte veniva
accettato senza beneficio d’inventario, infatti la religione con le splendenti cerimonie
divenne solo un’espressione superficiale di formalità e le chiese rappresentavano ormai
dei templi che erano monumenti d’arte privi di attrazione spirituale religiosa. La
decadenza dei costumi si manifestò perché sia il delitto che il vizio assunsero una
consuetudine normale, dove non veniva riscontrata nessuna negatività. L’omicidio
diventò una prassi costante, la politica diventò solo espressione di forza, la vita umana
venne considerata una nullità, l’adulterio diventò una virtù nelle corti principesche, dove
addirittura i figli bastardi e illegittimi prevalevano sui figli legittimi delle dinastie
regnanti. Nella Chiesa, in questo preciso momento storico, prevalse l’elemento umano e
politico a scapito dell’aspetto divino e religioso, il pontefice venne considerato un principe
che per arguzia doveva essere oltre i re. Alessandro VI seppe impersonare il papato
dell’epoca che assunse una posizione ideologica in antitesi ai principi cristiani. Le
probabilità maggiori per essere eletti papi erano per i cardinali Carafa e Costa, ma durante
la notte il collegio cardinalizio optò per il Borgia. Alcuni suoi nemici sostennero che egli
fosse stato eletto simoniacamente, infatti concesse molti benefici che lui aveva avuto come
cardinale ai cardinali elettori. Nominò il cardinale Antonio Sforza vice cancelliere di Santa
Chiesa e gli concedette il palazzo dei Borgia. Alcuni studiosi dei conclavi (come
Ferdinando La Torre) sostengono che era prassi comune in quell’epoca promettere nei
conclavi ai vari cardinali elettori privilegi, cariche e prebende, pure se questo
comportamento era contrario alla morale cristiana. La maggioranza dei prelati del
conclave optarono per il Borgia perché videro la sua abilità diplomatica, il suo carattere
energico, inoltre, essendo straniero, pensavano che sarebbe stato meno influenzato dai vari
stati italiani. I primi atti di Alessandro VI sembrarono confermare le buone speranze,
infatti durante la malattia di Innocenzo VIII l’autorità pubblica era caduta talmente in
basso che furono commessi più di duecento omicidi: egli ripristinò in modo rigoroso la
sicurezza pubblica e creò una giustizia esemplare, inoltre fece una saggia politica di
gestione economica dello stato pontificio. All’inizio il nuovo papa costrinse la corte
pontificia ad una vita austera, abituata com’era a sperperare il denaro pubblico,
addirittura la sua tavola era così semplice che i suoi parenti preferivano non partecipare
come commensali. Pareva che il Borgia avesse l’intenzione di moderare i privilegi verso i
figli e i parenti, ma in seguito si lasciò trascinare da questo amore sfrenato e permise che
tutti convenissero a Roma. La sua prediletta era la figlia Lucrezia, che tutti i
contemporanei descrivono piena di grazia e fornita di grande amabilità. Di media statura
e di aspetto gentile, Lucrezia aveva il viso alquanto lungo, il naso prominente, i capelli
biondi, gli occhi splendenti, i denti chiarissimi, il collo bianco fine, robusto ma tuttavia ben
proporzionato. Molti la descrissero come donna colpevole di numerosi delitti e
compromessa nei peggiori scandali, possiamo affermare che questa donna pur vivendo nel
corrotto ambiente romano ne subì l’influenza, ma non fu la donna perversa e depravata
come comunemente si crede. Di altro carattere era il fratello Cesare: di aspetto gentile e
giocondo, fornito di ingegno, le sue passioni erano l’arte della guerra e la politica. Pur di
raggiungere i fini che si prefiggeva non guardava i mezzi che usava, per Machiavelli
incarnava il principe ideale, nonostante la sua alta immoralità. Il 14 giugno 1497 la
famiglia del papa fu funestata da una tragedia, fu infatti ucciso il figlio di Alessandro VI,
Juan, in circostanze misteriose. Juan (o Giovanni) era stato nominato dal papa principe di
Squillace con quarantamila ducati annui di rendita, aveva ottenuto anche il ducato di
Gandia e nel concistoro segreto del 7 giugno 1497 gli era stato assegnato il ducato di
Benevento. La sera del 14 giugno, Giovanni col fratello Cesare ed alcuni amici cenarono
allegramente nella vigna della madre Vanozza Cutanei, presso San Pietro in Vincoli, ma
dopo la cena i due fratelli si separarono. Il cadavere del duca di Gandia (figlio di papa
Alessandro VI) venne trovato galleggiante nelle acque del Tevere. Di quell’omicidio non
fu mai trovato il colpevole, si sospettò del fratello Cesare, ma non vennero raccolte prove a
sufficienza; il padre pianse ininterrottamente da mercoledì fino a sabato mattina, non
dormì, non mangiò per una settimana, meditò di rinunciare al pontificato ma il re
Ferdinando di Spagna lo convinse a rimanere, dicendo che il tempo avrebbe rimarginato le
sue ferite. Luigi XII re di Francia, in segno di stima e di amicizia, donò a Cesare il contado
di Valentinois dal quale prese il titolo di “duca di Valentino”, titolo che fu il preferito dal
Borgia. Luigi offrì inoltre a Cesare in sposa la sorella del re di Navarra, Carlotta d’Abrette,
fanciulla diciottenne. Nel frattempo alla figlia di Alessandro VI, Lucrezia, fu trovato il
terzo sposo, Alfonso d’Este, erede del ducato di Ferrara. Appena fu siglato l’accordo e
concertato il matrimonio la corte pontificia iniziò i festeggiamenti, lo stesso papa
Alessandro VI assistette alla danza notturna in onore della vanitosa e frivola Lucrezia, il
pontefice affermava che sua figlia doveva essere la principessa che aveva maggior numero
di perle e fra le più belle. Il matrimonio fu celebrato in Roma, nel Vaticano, il 30 dicembre
1501. La sposa era vestita di broccato d’oro e di velluto cremisino con guarnizioni di
ermellino. Le maniche del suo abito scendevano fino a terra: il lungo strascico era
sostenuto da damigelle di corte. Un nastro recingeva la sua aurea chioma e il suo capo era
leggermente coperto da un vezzo d’oro e di seta. Portava intorno al collo un monile di
perle con un pendente consistente in uno smeraldo, un rubino ed una grossa perla. Le
feste si protrassero fino a quando Lucrezia se ne partì (6 gennaio 1502) ed i festeggiamenti
continuarono fino al più gaudente carnevale, con balli e rappresentazioni teatrali,
baccanali ed orge da far invidia al più peggior paganesimo decadente. Alessandro VI si
divertiva tantissimo e non voleva essere importunato con i soliti affari di stato, così
riferisce anche l’oratore veneto Sanuto, che aveva tentato di avvicinare il papa per
parlargli della crociata contro i Turchi mentre il pontefice stava sul balcone a vedere le
maschere. Terminate le feste di Roma, il Valentino ritornò alla carica contro i tirannelli
degli stati pontifici, conquistò Camerino, sottraendo quella terra a Guidobaldo, duca di
Urbino, e fece prigioniero Giulio Cesare Varano. Con ambizione il Valentino adoperò il
nome di Cesare Borgia di Francia, per la grazia di Dio duca di Romagna, di Valenza e di
Urbino, principe di Adria, signore di Piombino, gonfaloniere e capitano generale della
Chiesa. Si volse quindi contro Bologna, la quale sperava nell’appoggio di Luigi XII di
Francia per conservare la propria indipendenza, ma il Valentino riuscì a convincere il re
francese a schierarsi con lui. I Bentivoglio di Bologna e tutti i signorotti si riunirono
segretamente, crearono una lega e ordinarono una congiura, chiamata della Magione.
L’astuto duca, facendo finta di non sapere nulla della congiura, portò a compimento un
colpo molto ardito. Il Valentino invitò i suoi avversari il 31 dicembre 1502, e quando i
signorotti ingenuamente accorsero, il duca di Valentinois li fece imprigionare; nella stessa
serata furono strozzati senza pietà Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo, i quali avevano
ideato di uccidere il Valentino; subirono giustizia sommaria anche Paolo e Francesco
Orsini. Papa Alessandro VI meditava di fare di suo figlio Valentino re d’Italia, quindi di
creare un regno vassallo della Chiesa, e a tal fine intavolò trattative con l’imperatore del
Sacro Romano Impero, con il re di Francia e con Ferdinando il Cattolico, ma la morte
sopraggiunse prima che il pontefice potesse attuare il suo ambizioso progetto. Alessandro
VI, oltre ad essere stato il famigerato organizzatore delle più aberranti orge e ad essere
stato incestuoso con la propria figlia Lucrezia, all’età di dodici anni, nel 1443, aveva ucciso
con molte pugnalate un giovinetto suo coetaneo, soltanto perché, essendo di condizione
sociale inferiore alla propria, gli si era rivolto in maniera poco garbata. Egli era un maestro
nel confezionare filtri velenosi e con l’assistenza del figlio Cesare aveva potuto
perfezionare a dismisura questa sua arte. Non soltanto dalla morte di questo o di quel
cardinale il pontefice traeva denaro, ma anche dallo loro elevazione alla porpora, perché
alla consegna del cappello rosso il prescelto doveva pagare una forte somma di denaro. Si
ricordano Girolamo Savonarola, bruciato vivo insieme ai suoi discepoli Domenico da
Pescia e Silvestro da Firenze il 23 maggio 1498 solamente per aver predicato un
cristianesimo primitivo in netta antitesi al paganesimo imperante nelle varie corti
principesche fra cui quella pontificia, e tre ebrei anonimi arsi vivi il 13 gennaio 1498 in
campo dei Fiori a Roma. Una delle cose più riprovevoli che fece Alessandro VI fu quella
nei confronti degli indios o indigeni del “nuovo mondo”, perché formalizzò l’occupazione
delle Americhe e quindi il suo esoso sfruttamento, riconoscendo questi territori come
possedimenti spagnoli e portoghesi. Papa Alessandro VI fu arbitro della controversia che
divideva Spagna e Portogallo per l’occupazione delle Americhe, assegnando ai sovrani
spagnoli i territori ad occidente e al Portogallo quelli ad oriente.
Giulio II (Giuliano della Rovere, papa dal 1503 al 1513) fu un papa equilibrato che non
cadde nella perversa spirale del nepotismo, infatti non s’interessò della sua casata, ma si
occupò di riordinare lo stato pontificio e di sanare il bilancio dello stato della Chiesa che il
vizioso papa Alessandro VI aveva dissipato. Fu un papa mecenate che chiamò al proprio
servizio per la pittura e scultura geniali maestri del tempo come Raffaello e Michelangelo,
che dipinsero la Cappella Sistina, la stanza della segnatura e le logge vaticane. Alcuni
studiosi ostili al papato affermano che questo pontefice, padre di tre figlie, fu un accanito
sostenitore della condanna a morte e durante il suo pontificato, tra le moltissime condanne
capitali, si ricorda quella di quattro donne accusate di stregoneria e fatte bruciare vive a
Cavalese nel 1505. A Lograno, sempre nel 1505 e per lo stesso motivo, furono fatte bruciare
vive ben trenta persone. Nel 1506 Diego Portoghese fu fatto impiccare, perché accusato di
“eresia”; nel 1507 per lo stesso motivo fu fatto impiccare Agostino Grimaldi; nel 1513
sempre per lo stesso motivo furono fatti impiccare i fratelli Orazio e Giacomo di Rifreddo
e nello stesso anno furono fatti massacrare dalle guardie svizzere quindici cittadini
romani, anche loro perché accusati di “eresia”.
A Giulio II successe Giovanni de’ Medici, che aveva solo 38 anni di età quando salì al
soglio pontificio con il nome di Leone X. Destinato dal padre alla carriera religiosa ottenne
cospicui benefici: nomina ad abate di Montecassino e di Morimondo, nomina a
Protonotaio Apostolico a soli sette anni, nomina cardinalizia da parte di Innocenzo VIII
avvenuta a soli tredici anni (con l’obbligo però di assumere le insegne soltanto dopo tre
anni). Studiò per un triennio diritto canonico a Pisa, dove ebbe come compagno Cesare
Borgia. Nel 1492, una volta preso pubblicamente il cappello cardinalizio si trasferì a Roma,
ma si trovava a Firenze quando, nel 1494, ebbe luogo la caduta dei Medici e fu proclamata
la repubblica. Allora per alcuni anni Giovanni prese a girare, trovando asilo dapprima alla
corte urbinate di Guidobaldo di Montefeltro ed Elisabetta d’Este Gonzaga insieme al
fratello minore Giuliano e al cugino Giulio (il futuro Clemente VII), poi viaggiò nei Paesi
Bassi, in Germania e in Francia, dove conobbe molti uomini illustri, ma venne arrestato a
Rowen (nei Paesi Bassi) e quindi fu espulso. Ritornò a Roma nel 1500 e qui prese alloggio
nel palazzo di San Eustachio, attuale palazzo Madama, residenza dei Medici in città,
facendo vita mondana e dedicandosi agli studi umanistici, al teatro contemporaneo
(nell’autunno del 1514 farà rappresentare nelle sue stanze la commedia Calandria del
cardinale Dovizi e del Bibbiena) nonché al collezionismo di antichità e al mecenatismo
artistico (tra i pittori da lui ricercati e protetti, figura l’ammiratissimo Raffaello, cui
commissionò svariati lavori). Nel 1511 ricevette da Giulio II l’incarico di Legato per la
Romagna; l’11 aprile 1512 assistette alla battaglia di Ravenna, dove venne catturato e fatto
prigioniero dai francesi vincitori. Condotto a Milano riuscì tuttavia a fuggire prima di
essere trasferito in Francia. Grazie al contributo dell’esercito ispano-pontificio riuscì a
ristabilire la signoria medicea a Firenze (1512-1513) che governò insieme al fratello
Giuliano. I Medici, quando ripresero possesso di Firenze, avevano esiliato a Ragusa il
gonfaloniere Pier Soderini, e fecero richiamare dall’esilio Piero. Fin dai primi atti del suo
governo espresse un’indole non aggressiva rispetto al suo predecessore. Figlio di Lorenzo
il Magnifico, aveva avuto come maestri Pico della Mirandola, il Ficino, il Bibbiena, il
Poliziano; era una persona che esprimeva un buon carattere il giovane Giovanni de’
Medici, pur essendo di salute cagionevole, tanto che durante il suo conclave dovette stare
a letto per curarsi, infatti molti porporati accettarono di votarlo perché erano convinti che
non sarebbe vissuto tanto a causa della sua salute alquanto delicata. L’11 aprile 1513
Giovanni prese possesso del soglio pontificio con il nome di Leone X. Per la situazione
instabile in cui l’Italia si trovava, papa Leone X cercò di attuare una politica meno
guerrafondaia, attraverso un’efficace azione di mediazione diplomatica, dal perdono
accordato ai cardinali che avevano organizzato il “conciliabolo” di Pisa, alla pacificazione
ufficiale con Pompeo Colonna, che aveva cercato invano di provocare una rivolta popolare
e di instaurare una repubblica, alla buona opera di mediazione compiuta a Firenze, nella
scoperta della congiura di Boscoli e Capponi. Infatti il pontefice convinse i suoi parenti a
rimettere in libertà Niccolò Machiavelli, Niccolò Valori e Giovanni Falchi che erano stati
coinvolti nella congiura. Non coltivava odio verso la Francia, né si preoccupò di
aumentare la potenza dello stato pontificio. All’inizio del suo pontificato seguì una linea di
condotta simile a quella di Giulio II, infatti con Enrico VIII d’Inghilterra, Ferdinando di
Spagna e Massimiliano d’Asburgo sottoscrisse la Lega Santa di Malines (5 aprile 1513)
contro Francia e Venezia che avevano stipulato un’alleanza con i francesi il 23 marzo a
Blois. Il papa voleva a tutti i costi realizzare una pace ma il guelfo Trivulzio e il generale
francese Tremoille, appoggiati dai veneziani, sferrarono l’attacco durante la battaglia di
Marignano (1515) che si concluse con la riconquista francese del ducato di Milano. Nello
stesso anno le truppe francesi vennero attaccate nei propri confini dagli inglesi e dai
tedeschi e furono sconfitte a Guinegatte in Piccardia, e dagli svizzeri che riuscirono ad
arrivare fino a Dijan. Il papa rimase immobile anche quando il re francese conquistò
Parma e Piacenza, che erano state assegnate allo stato pontificio tre anni prima, e il
pontefice lo lasciò fare, per intavolare poi trattative segrete al fine di ricomporre tutte le
divergenze esistenti a Bologna, dove furono buttate le fondamenta per un concordato che
regolasse definitivamente la questione religiosa in Francia. Gli accordi si conclusero con un
trattato di pace firmato a Viterbo, il 13 ottobre 1515, con il quale il pontefice cedette Parma
e Piacenza alla Francia e il sovrano francese si impegnò a garantire l’autorità dei Medici a
Firenze. Il 18 agosto 1516 venne stipulato un concordato che conteneva la soppressione
della Pragmatica sanzione di Bourges del 1438, ma la curia papale dovette cedere al re di
Francia il diritto di nomina per tutti i vescovadi (novantatre fra cui dieci arcivescovadi), le
numerose abbazie e i priorati del suo regno; al papa rimase solo il diritto immediato di
collazione per un numero limitato di casi e la possibilità di confermare i candidati alle sedi
vescovili, da nominarsi entro sei mesi dalla vacanza. Questa sistemazione ebbe il buon
effetto di stroncare le tendenze scismatiche della nazione francese e di riannodare più
strettamente il paese alla Santa Sede fino alla rivoluzione. Papa Leone X in realtà era più
interessato all’ampliamento del potere della propria famiglia che a quello dello stato
pontificio. Il ramo della famiglia de’ Medici, di cui Leone era a capo, si componeva di
Giuliano, suo fratello minore, del cugino Giulio e del nipote Lorenzo (figlio di Pietro de’
Medici e di Alfonsina Orsini). Leone X nominò cardinale Giulio, ma siccome si pensava
che fosse figlio illegittimo di Giuliano de’ Medici (ucciso nella congiura ordita dalla
famiglia de’ Pazzi), e di Fioretta Antoni, il 20 settembre 1513 il papa impose con pubblico
atto che Giulio era legittimo, anche se nato da matrimonio segreto. Alla medesima
promozione, cioè al cardinalato, furono elevati il Bibbiena, autore della trasgressiva
commedia “La Calandra”, Lorenzo Pucci, già datario ai tempi di Giulio II e letterato,
amico personale del papa, e Innocenzo Cibo, figlio di una sorella del papa, di soli
ventun’anni. Il 13 dicembre 1513 il papa fece eleggere i suoi nipoti patrizi romani.
Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, era caduto in disgrazia di papa Leone X,
perché nelle ultime guerre di Lombardia aveva avvantaggiato in modo subdolo i nemici
della chiesa. Il pontefice gli tolse allora il ducato e lo diede al nipote Lorenzo, già signore
di Firenze. La resistenza opposta da Francesco Maria fu debole, tanto che dovette cedere il
campo e ritirarsi a Mantova. Nel 1517 la vita del pontefice corse serio pericolo per una
congiura ordita all’interno del Sacro Collegio, ad opera del cardinale Alfonso Petrucci,
figlio di quel Pandolfo signore di Siena, da alcuni sospettato di aver fatto uccidere Pio III.
Quando Pandolfo morì lasciò il potere della signoria di Siena all’altro suo figlio, Borghese,
ma Leone X nel 1516 lo fece scacciare dalla città, affidandone la signoria ad un altro
Petrucci, Raffaello, vescovo di Grosseto, che aveva dalla sua parte la profonda amicizia
verso il pontefice. Il cardinale Alfonso Petrucci, sentendosi tradito dal papa, tentò in
diverse occasioni di sopprimere Leone X. Una volta andò in Concistoro con il pugnale
nascosto nella manica della sua veste, più di una volta partecipò alle battute di caccia a cui
partecipava il papa con l’intenzione di ammazzarlo, ma dopo un po’ lo scarso coraggio e la
mancanza del momento propizio lo fecero desistere dal compiere personalmente l’evento
malvagio ed egli si ritirò nei feudi dei Colonna. Da lì il Petrucci corruppe il medico del
pontefice, Pietro Vercelli e lo convinse ad avvelenare la medicatura che era solito dare ad
una fistola di cui Leone X soffriva da tempo. Quando furono intercettate alcune lettere del
medico Vercelli la congiura venne scoperta e il cardinale Petrucci, rientrato
imprudentemente in Roma il 19 maggio 1517, fu imprigionato insieme al cardinale di San
Giorgio, Raffaello Riario, pure lui acerrimo nemico della famiglia Medici. Anche il
chirurgo Vercelli, fatto venire da Firenze, venne incarcerato. Al processo, tutti gli imputati
confessarono il loro disegno criminoso e tra i sospetti furono presi altri due cardinali, il
Solderini di Volterra e Ariano di Corneto, essi però per insufficienza di prove ottennero
perdono dal papa, e furono liberati dalla commissione giudicatrice dopo che ciascuno ebbe
sborsato la multa di venticinquemila ducati. Il 20 giugno i cardinali rei confessi furono
privati del cardinalato e di tutti i loro privilegi ed averi. Nel concistoro del 24 luglio il
cardinale Riario riuscì ad essere reintegrato nella sua dignità e nelle cariche, a patto di
comprare la propria libertà con la somma di quindicimila fiorini d’oro e con l’impegno di
lasciare al fisco pontificio, dopo la sua morte, il suo palazzo di Roma. I capi congiurati
furono trattati invece con estrema durezza: il cardinale Petrucci morì strangolato in
carcere; il chirurgo Pietro Vercelli e il segretario del cardinale Petrucci, un certo Antonio
de Nini, furono condotti al supplizio fra i più orribili tormenti. Quelle condanne a morte
cancellarono di colpo i precedenti atti di magnanimità del pontefice e le grazie concesse
sub condizione ai quattro cardinali furono fortemente criticate in Italia e in Germania. Leone
X si accorse che i rimanenti tredici cardinali gli procuravano apprensione, per quanto
concerneva la loro fedeltà, così creò in una sola volta trentuno cardinali, scegliendone
molti tra parenti ed amici fidati, ma anche tra persone meritevoli per cultura e devozione
al Signore: Tommaso de Vio di Gaeta, generale dei Domenicani, Egidio, generale degli
Agostiniani, Numechi da Forlì, generale dei Francescani, il Piccolomini di Siena, Adriano
di Utrecht, il Cesarini e Paolo Emilio Cesi di Roma. Vi erano inclusi anche i due Trivulzi di
Milano, Raffaello Petrucci, Luigi Borbone, fratello del conestabile, e l’infante Alfonso di
Portogallo, che fu designato alla porpora quando aveva appena sette anni. I neoeletti
cardinali, secondo la consuetudine dell’epoca, fecero generose oblazioni al pontefice, il
quale si trovava nella necessità di far denaro per mantenere la sua corte dispendiosa. Dopo
quelle nomine la posizione del papa e della sua famiglia migliorarono sensibilmente,
infatti il nipote Lorenzo si unì in matrimonio con Maddalena, principessa della casa
regnante di Francia, nel Castello d’Amboise. Gli sposi non godettero a lungo della loro
felicità, perché Maddalena morì il 28 aprile 1519, dando alla luce una bambina che divenne
famosa nella storia, Caterina de’ Medici.
Durante il suo pontificato Leone X si fece promotore di una crociata contro i Turchi che
minacciavano l’Europa cristiana, ma le varie divergenze di predominio sull’Europa che
c’erano fra i vari regnanti cattolici (in particolare Carlo V d’Asburgo e Francesco I di
Francia) mandarono in fumo le sue iniziative.
Il pontificato di Leone X fu caratterizzato dall’elezione del nuovo imperatore del Sacro
Romano Impero, successore del defunto Massimiliano I d’Asburgo. Il 28 giugno 1519 i
principi elettori elessero a Francoforte l’appena ventenne Carlo V di Spagna, figlio di
Filippo d’Asburgo e Giovanna di Castiglia, che fu incoronato ad Aquisgrana nell’ottobre
1520. Il giovane imperatore era riuscito a far convergere su di lui i voti appoggiandosi alla
potente banca dei Fugger (850.000 fiorini di prestito promessi), che venne ripagata del
favore imperiale con vasti possedimenti. Il giovane imperatore era così venuto a trovarsi
improvvisamente nella posizione di sovrano più potente d’Europa, a capo di un
complesso blocco eterogeneo frutto di quattro eredità distinte, con una costellazione di
principati e città libere, un agglomerato di repubbliche mercantili urbane e di signorie
feudali, sovente travagliate da lotte interne, la Castiglia e le conquiste castigliane
nell’Africa settentrionale, nell’area caraibica e nell’America Centrale, l’Aragona ed i
domini aragonesi d’oltremare e cioè Napoli, la Sicilia e la Sardegna.
Il movimento protestante non fu sottovalutato da papa Leone X, l’unica colpa che si può
attribuire a questo pontefice umanista e mecenate è di non aver ponderato bene dove
sarebbe potuta arrivare la riforma provocata da Martin Lutero, da lui definito un incallito
ubriacone, impregnato di contenuti di teologia astratti. Il movimento protestante non fu
solo un movimento religioso, che si ricollocava in parte alle eresie di Giovanni Wicleff, di
Giovanni Huss, di Girolamo da Praga; esso fu un fenomeno complesso. Furono molte le
cause che provocarono la ribellione di cui Lutero si trovò a capo: la decadenza del papato
nell’influenza politica e morale; la corruzione e lo sfarzo della corte pontificia simile a tutte
le altri corti principesche, il venir meno in molti prelati della fede e più ancora della
pratica della vita cristiana; l’Umanesimo e il Rinascimento che dalle forme esterne
passavano a far rivivere il pensiero pagano, il rinascere della competizione delle razze
tedesche con le latine, le differenze sociali nella ripartizione delle ricchezze per cui l’alto
clero secolare e regolare sfruttava la plebe lavoratrice ed affamata. La rivoluzione
protestante dal lato esterno presentava aspetti dogmatici e religiosi, ma nella sua essenza
era anche politica sociale ed intellettuale. Lutero aveva nelle vene troppo sangue tedesco, e
disprezzava tutto quanto proveniva da Roma, la questione delle indulgenze fu solo una
circostanza determinante. Con Carlo V stava iniziando l’avventura storica, politica e
umana del monarca spagnolo che costruì un impero “sul quale non tramontava mai il
sole”. Leone X si convinse a dargli il suo appoggio quando si rese conto che Carlo V
poteva rappresentare un grande aiuto per cercare di realizzare l’unità politica e religiosa
dell’Europa. Qualche tentativo di riforma e unificazione fu avviato con la conclusione del
Concilio Lateranense V, aperto da Giulio II nel maggio 1512, che si era protratto per
parecchio tempo, anche con Leone X. Nella sessione VIII (dicembre 1513) fu condannata la
dottrina della duplice verità in filosofia e teologia e nella sessione XI (dicembre 1516) con
la bolla Pastor Aeternus venne rigettata la pragmatica sanzione di Bourges e la teoria
conciliarista, con la dichiarazione solenne che al romano pontefice spettava una
giurisdizione plenaria sopra tutti i concili, la loro convocazione, il loro trasferimento e
scioglimento. Circa la questione specifica della riforma, furono emanate alcune buone
disposizioni concernenti la nomina ai benefici ecclesiastici, la condotta del clero e dei laici,
l’esenzione, le tasse curiali, i diritti dei religiosi rispetto all’esercizio della cura delle anime.
Nel loro complesso erano norme troppo superficiali e blande, come dimostrarono le
clausole restrittive aggiunte, ma il vero problema era rappresentato dalla mancanza di una
decisa volontà della Chiesa di riformarsi. Quello della politica religiosa era del resto un
capitolo estremamente controverso del pontificato leonino. L’esaurimento delle già
compromesse finanze papali (il mantenimento della corte leonina costava ben centomila
ducati annui), la necessità di reperire i fondi per la costruzione della basilica di San Pietro
in Roma, i cui lavori procedevano sempre più lentamente, costrinsero il papa ad un
sensibile aggravio delle imposte, che aveva già causato il complotto del Petrucci. A ciò si
aggiungeva l’esigenza di fronteggiare il pericolo turco, che ormai spadroneggiava con
molte incursioni per tutto il Mediterraneo. Inoltre, le costanti richieste di interventi di
riforma, specie nel nord Europa, dove la situazione religiosa e politica era ormai in
rapidissima evoluzione, convinsero Leone X a concedere, come già prima di lui i suoi
predecessori, un’indulgenza plenaria da divulgarsi in tutta la cristianità. L’indulgenza era
un condono delle pene che il credente avrebbe dovuto scontare nel Purgatorio e in vita,
condono che il papa concedeva a quei fedeli, sinceramente pentiti, disposti a compiere
particolari penitenze (pellegrinaggi, elemosine, opere meritorie). Lo “sconto” offerto da
questi certificati d’indulgenza era proporzionato all’importo del denaro versato. Quale
commissario dell’Indulgenza per gran parte della Germania il papa nel 1515 nominò il
giovane principe di Hohenzollern di Brandeburgo. I redditi ricavati dall’indulgenza
dovevano venire devoluti per metà alla fabbrica di San Pietro, mentre l’altra metà veniva
rilasciata all’arcivescovo, per dargli modo di pagare le gravi tasse dovute alla curia papale
per la conferenza della sua elezione e per la cumulazione di tre vescovadi, più esattamente
per estinguere il debito di quasi trentamila fiorini contratto a tale scopo presso i banchieri
Fugger di Augusta. Fu proprio in Germania che si verificarono abusi e scandali,
addirittura il predicatore domenicano Johann Tetzel giunse ad affermare che per ottenere
l’indulgenza per i defunti bastava la sola offerta dell’elemosina (“appena il tintinnio delle
monetina tocca il fondo della cassetta delle offerte”) anche senza lo stato di grazia. Chi,
pagando una certa somma, riusciva ad entrare in possesso del documento scritto (i vivi
direttamente, i morti tramite i parenti ancora in vita), poteva ottenere uno sconto sulla
pena (per i vivi anche sulle pene future), a prescindere naturalmente dalla fede personale
di chi lo acquistava o di chi ne beneficiava. In tal modo i benestanti potevano mettersi il
cuore in pace. La cosa scandalosa fu la creazione di un tariffario (la “taxa canarae”,
composta di trentacinque articoli), che divideva le colpe in base alla loro gravità; in questo
modo tutti i crimini, anche i più truci, potevano essere perdonati in cambio di denaro.
Ricordiamo alcuni articoli più importanti: “I sacerdoti che volessero vivere in concubinato
con i loro parenti, pagheranno 76 libre, un soldo. La donna adultera che chieda
l’assoluzione per restare libera da ogni processo e avere ampie dispense per proseguire i
propri rapporti illeciti, pagherà al papa 87 libre, 3 soldi. Il vescovo o abate che
commettesse omicidio per imboscata, incidente o per necessità pagherà, per raggiungere
l’assoluzione, 179 libre, 15 soldi. Il frate che per miglior convenienza o gusto volesse
passare la vita in un eremo, con una donna, consegnerà al tesoro pontificio 45 libre, 19
soldi. I laici contraffatti o deformi che vogliono ricevere ordini sacri e possedere benefici,
pagheranno alla cancelleria apostolica 58 libre, 2 soldi. Uguale somma pagherà il guercio
dell’occhio destro, mentre il guercio dell’occhio sinistro pagherà al papa 10 libre, 7 soldi.
Gli strabici pagheranno 45 libre, 3 soldi, gli eunuchi che intendessero entrare negli ordini
pagheranno la quantità di 310 libre, 15 soldi.” Come si può vedere la Chiesa cattolica
aveva raggiunto il massimo della corruzione. Tra il malcontento generale si levò una voce,
quella del monaco agostiniano tedesco Marthin Luter (latinizzato in Lutero), nel cui
sistema teologico (ricordiamo il voto di farsi monaco, l’esperienza della torre, il suo
commento alla lettera ai romani) ormai non c’era più posto per l’indulgenza. Il 31 ottobre
1517 questi affisse, secondo l’uso accademico, all’ingresso della chiesa del castello e
dell’università di Wittemberg novantacinque tesi formulate in latino, sul valore e
l’efficacia delle indulgenze (Disputatio circularis pro declaratione virtutis indulgentiarum) e
altri problemi connessi. Queste tesi ebbero una risonanza enorme ed in poche settimane si
diffusero in tutta la Germania. Molti speravano che dal suo intervento provenisse la spinta
decisiva per una reale riforma della Chiesa, ma il suo scritto non fece altro che suscitare
polemiche: Tetzel contrappose alle tesi luterane delle sue tesi contrarie, il celebre teologo
cattolico Eck lo accusò di sostenere le stesse tesi di Jan Hus, vale a dire la negazione
dell’autorità del papa e dei concili. La Curia romana cercò di ridurre all’obbedienza Martin
Lutero, ma invano; poi, nel luglio del 1518, papa Leone X decise di convocare il monaco a
Roma. Lutero confermò nuovamente le proprie posizioni; il mese successivo Leone X optò
di farlo convocare in Germania dal cardinale Caietano, suo inviato alla dieta imperiale di
Augusta, con l’ordine di farlo incarcerare e mandarlo a Roma se avesse perseverato nella
sua linea; se invece fosse stato contumace, di scomunicarlo. Accolse quindi in modo
fiducioso le generiche promesse di sottomissione del monaco e attese fino al 1 giugno 1520
prima di condannare i punti fondamentali della sua dottrina (bolla Exurge Domine). A sua
volta, il 10 dicembre, il teologo ribelle di Wittenberg bruciò in pubblico platealmente la
bolla papale. Il pontefice Leone X rispose il 3 gennaio 1321 con la scomunica bolla Decet
Romanum Ponteficem. Si stava prospettando la rottura definitiva fra il papato e il
monaco,ma quando, il 25 maggio 1521, arrivò la promulgazione dell’editto imperiale di
Worms con cui Carlo V poneva Lutero al bando dell’impero e ordinava la distruzione dei
suoi scritti, il mondo germanico e del Nord Europa aveva già deciso di staccarsi dalla
Chiesa Cattolica di Roma, e il monaco tedesco aveva già trovato rifugio presso il principe
elettore Federico di Sassonia. Di fronte a questi avvenimenti, si capisce che papa Leone X
non seppe affrontare in modo adatto questa meteora tedesca, soprattutto non seppe
prevedere tutta la sua gravità, perché tutto il suo buon senso si perdeva in frivolezze e
provinciali intrighi politici. Il mito della corte papale nacque quando il papa Leone X disse,
salendo gli appartamenti vaticani, a suo fratello Giuliano: “Godiamoci il papato, perché
Dio ce l’ha dato”, e difatti il pontificato del primo Medici fu per la città di Roma una festa
continua: la città eterna divenne la patria di tutti gli eruditi e la cultura classica raggiunse
l’apice. Questa sua predilezione verso gli intellettuali si era manifestata già dai tempi di
quando era cardinale, infatti già allora teneva una piccola corte di letterati, di scienziati e
di artisti. Egli stesso era poeta, musicista, archeologo e filosofo. D’ingegno versatile,
cultura varia, animo sensibile ad ogni forma del bello, mancava però di profondità. A
Roma, durante il suo pontificato, si tennero continue feste, nelle quali si mischiavano
paganesimo e cristianesimo: mascherate carnevalesche, spettacoli di mitologia antica,
storie romane rappresentate da magnifiche scene e dall’altra parte processioni, splendide
feste di chiesa, rappresentazioni della passione nel colosseo, classiche declamazioni in
Campidoglio e altre feste e discorsi nell’anniversario della fondazione di Roma. Ogni
giorno si vedevano eleganti cavalcate di cardinali, cerimonie d’ingresso di ambasciatori e
di principi con comitive così numerose che parevano eserciti. Papa Leone X, quando
andava a caccia alla Magliana, a Palo, a Viterbo, con i falchi in pugno, si portava dietro
tantissimi cani, molti servi, il seguito dei cardinali, degli oratori stranieri, uno stuolo di
allegri poeti, senza contare il coacervo di baroni, di duchi, di principi. Il carnevale ufficiale
di Roma, che nella città eterna era già tanto attraente, perse la sua importanza e divenne
qualcosa di secondario di fronte alle quotidiane comparse dei cortei per le vie. Il cardinale
Riario, per esempio, quando cavalcava per la città si faceva seguire da cento cavalli
montati e bardati. Olimpicamente sereno e felice, il giovane pontefice guardava e godeva,
seduto sul suo trono, la vita gaia e spassosa che si manifestava attorno. Questo papa fu un
mondano elegante, un esteta, ma i suoi costumi furono moralmente virtuosi. Il suo
cameriere Serafica, aveva il compito di introdurre negli appartamenti pontifici ogni tipo di
buffone che avesse la capacità di sollazzare con motti e battute elaborate, mentre il poeta
Duerno, vestito da Venere, intonava versi di diversi argomenti ovviamente tutti goderecci
e contestualmente beveva come una spugna, per queste sue ridicole prestazioni il
poetastro godeva di duecento ducati di provvigione e di centocinquanta fiorini di
stipendio mensile, ma la cosa che più suscitava ilarità al papa era il fatto che questo
poetastro cantava i versi seduto su uno sgabelletto basso, però il suo buffone preferito era
frate Mariano, il quale diceva al suo signore “Viviamo babbo santo, che ogni cosa è burla”.
Papa Leone X fece scalpore a Roma fin dall’inizio del suo pontificato con l’eleganza più
vistosa, con la quale prese possesso della sua alta missione ricevuta da Dio.
Indimenticabili furono le giornate del settembre 1513, in cui si celebrò la nomina a patrizi
romani di Giuliano, fratello del papa, e di Lorenzo, nipote. Il piazzale del Campidoglio fu
trasformato dall’architetto Pier Passello in un teatro pieno di statue e di pitture simboliche
concernenti l’antica Roma. La festa si aprì con la celebrazione della Santa Messa su un
apposito altare costruito nello stesso teatro. Alla festa di gala parteciparono circa
quarantaquattro persone, tutte le posate e le suppellettili erano d’argento e d’oro; i
tovaglioli erano piegati in modo che contenessero al loro interno uccelletti vivi di ogni
tipo. Dopo che i vari commensali si furono lavate le mani con acque odorose, spiegarono i
tovaglioli facendo così fuggire gli uccelletti, fra i quali vi era qualcuno addomesticato che
saltava sulla tavola. Nel 1514 Leone X inaugurò il carnevale, partecipando ad una partita
di caccia (di cui era appassionato dilettante) nei feudi del cardinale Farnese. Il papa, in
abito da cacciatore, accompagnato da dodici cardinali e seguito da una serie di cortigiani e
di letterati, il 10 gennaio uscì da Roma e si diresse verso Bracciano e Cassino, questa
partita di caccia è stata riportata in poesia da vari poeti che nei loro versi ne diedero
un’impronta mitologica. Gli artisti migliori del tempo furono mobilitati ad organizzare
tutti gli anni le mascherate del carnevale, il pontefice si divertiva un mondo a vedere le
corse dei polli, le lotte con i tori, anche see sovente qualcuno ci rimetteva la pelle. Per
volere del pontefice questi giochi furono trasferiti dal quartiere Testaccio a Piazza San
Pietro. La fama che ha fatto di Leone il più grande dei pontefici mecenati è eccessiva, egli
infatti salì al pontificato quando Roma era già la patria di tutti gli intellettuali dell’Europa
d’allora, ma forse il merito principale di Leone fu di aver dato un vigoroso impulso alla
vita letteraria ed artistica di Roma.
Papa Leone X amava molto l’oreficeria e la gioielleria, infatti le sue tiare, mitrie e pettorali
erano tempestate di pietre preziose, rubini, zaffiri, diamanti e perle, e alla sua morte si
calcolò che il pontefice aveva speso oltre duecentomila ducati per questa passione. Se la
politica religiosa fu un vero disastro, nel corso dei nove anni di pontificato di Leone X fu
tanto lo splendore a cui salirono le arti e le lettere italiane da essere uno dei papati più
prolifici che la storia ricordi. Ciò che valse a rendere illustre questo papa e a farlo
annoverare fra i grandi italiani, fu l’aver riunito intorno a sé e l’avere incoraggiato e
protetto i maggiori ingegni dell’epoca. Basti ricordare Michelangelo, Raffaello, Bembo,
Sodoletto, Sannazzaro, Castiglione, Guicciardini, Erasmo, Giuliano e Antonio da Sangallo,
Sansovino, Peruzzi, Romano, più freddo verso l’Ariosto, ostile verso il Machiavelli. Il papa
Leone X arricchì la biblioteca vaticana, restaurò e ampliò la biblioteca già voluta dal padre
(detta appunto Laurenziana) dopo i saccheggi fatti dai seguaci di Savonarola: compito
questo che avrebbe portato a termine il cugino Clemente VII incaricando dei lavori
Michelangelo. A quest’ultimo commissionò la facciata di San Lorenzo a Firenze. Affidò a
Raffaello la decorazione delle logge del Vaticano. Mandò dotti esploratori alla ricerca di
preziose antichità, acquistò manoscritti latini che erano all’estero, contribuì allo sviluppo e
alla diffusione della stampa, protesse e favorì la stamperia del Muzio. Istituì scuole e
università che divennero famose per gli uomini che vi pose a insegnare. Creò un collegio
per gli studi greci sotto la direzione di Giano Lascaris. Favorì gli studi di arabo ed ebraico
ed ebbe come segretari i bravi umanisti quali Pietro Bembo, Jacopo Sadoleto e Angelo
Colocci (che fu anche segretario apostolico). Bembo (a Roma dal 1512 al 1519) raccolse poi
epistole e brevi papali, esempi del suo gusto ciceroniano, negli “Epistolarium Petri Bembi
Cardinalis et Patricidi Veneti, nomine Leonix X Pontificis maximis scriptarum libri XVI”. Colocci
fece della sua villa romana (detta anche Horti Colotiani) un importante luogo di
elaborazione e diffusione dell’umanesimo romano dopo l’esperienza dell’Accademia
Romana di Pomponio Leto. Su sollecitazione di Leone X Jacopo Sannazaro attese
all’edizione del poemetto cristiano lungamente elaborato “De portu Virginis” e Marco
Girolamo Vida diede inizio alla “Cristias”, un poema sulla vita e la passione di Cristo, che
completò tuttavia soltanto nel 1527, sotto il pontificato di Clemente VII. In questa vera e
propria “età dell’oro” delle arti giunse a maturazione quel linguaggio antichizzante e
classicista su cui si erano esercitati gli umanisti quattrocenteschi, e che cominciò davvero
ad affermarsi come strumento di comunicazione universale. Non fu da meno la passione
architettonica: sotto il pontificato di Leone X Raffaello progettò Palazzo Branconio
dall’Aquila e poi Palazzo Vidoni Caffarelli; Antonio da San Gallo elaborò, in Palazzo
Baldassini, nuove proposte tipologiche di derivazione antiquaria che poi trovarono
applicazione anche al momento della costruzione di Palazzo Farnese, in via Giulia, mentre
in Palazzo Alberini Cacciaporci e in Palazzo Maccaroni, Giulio Romano mise a punto
ulteriori varianti tipologiche dello stesso segno. Baldassarre Peruzzi realizzò la residenza
suburbana di Agostino Chigi alla Lungara (la Farnesina) che può ben dirsi il luogo dove,
anche grazie al determinante appoggio decorativo di Raffaello, forse più che in altri si
raggiunse quell’auspicata “unione delle arti” che ne fa ancor oggi uno degli edifici più
rappresentativi e ben conservati dell’epoca. La passione antiquaria di Leone X portò
questo insigne mecenate a prendere dei provvedimenti al fine di salvaguardare e
conservare il patrimonio monumentale antico della città di Roma, minacciato dalle attività
edilizie più disparate; per questa sua passione e amore per l’antico nominò Raffaello
sovrintendente dei Magistri Viarum , con mansioni di ispettore generale del patrimonio.
Raffaello svolse per il papa anche la funzione di architetto della fabbrica di San Pietro,
proponendo per la chiesa un progetto a pianta longitudinale che risentiva di stilemi
bramanteschi ed elaborando un’idea di nuova piazza rettangolare dominata al centro dalla
presenza di un alto obelisco (1514). Per il cardinale Giulio de’ Medici l’Urbinate progettò
inoltre la Villa Madama a Monte Mario, realizzata solo in parte, che venne esemplata
esplicitamente sul modello della villa pliniana di Tusci e rappresenta una delle più
complesse opere architettoniche realizzate attingendo elementi compositivi derivati dal
vocabolario progettuale dell’antichità. La presenza di Antonio da Sangallo in qualità di
assistente di Raffaello in questi due ultimi cantieri ricorda l’alta considerazione che di lui
ebbe il papa il quale lo impiegò anche in progetti più direttamente collegati alla sua
persona, come nel caso della complessa opera di riprogettazione di piazza Navona e
adiacenze per dare forma ad una vera e propria “cittadella medicea” nell’area più
rappresentativa dell’antico Campo Marzio. Nelle intenzioni del pontefice l’area tra il
Pantheon e piazza Navona avrebbe dovuto accogliere un’enorme residenza papale
(dapprima progettata da Giuliano da Sangallo nel 1513 e poi da Antonio da Sangallo),
oltre ad altre funzioni direzionali. La facciata del palazzo si sarebbe proiettata sulla piazza,
che veniva così ad essere a sua volta l’emanazione fisica del potere papale e principesco
dei Medici. Se questo progetto urbanistico sfumò altri non meno importanti vennero
realizzati. La fama di Leone X si diffuse ovunque e il fatto che il suo pontificato coincise
con l’apogeo del Rinascimento ha spinto alcuni storici e letterati a chiamare quel periodo
con il nome di “papa Medici”. Dopo aver da poco elevato Carlo V a difensore della fede
cattolica contro il luteranesimo dilagante, una volta aver visto ritornare Milano nella mani
degli Sforza, assicurate allo stato pontificio Parma e Piacenza, il papa Leone X morì
improvvisamente il 1 dicembre 1521. La sua inaspettata scomparsa a soli 46 anni, dopo
solo otto anni di pontificato, fece pensare che fosse stato avvelenato; per questo motivo fu
arrestato il suo coppiere Bernabò Malaspina. Il maestro delle cerimonie di corte, Paride de
Grassis, insistette presso i medici per l’autopsia, ma non se ne fece nulla e tutto fu messo a
tacere. La voce che parlò invece come sempre, fu quella di Pasquino, che tra sarcasmo e
maldicenza così salutava il papa mediceo: “Di certo la continua ebbrezza intellettuale e
materiale (non sono poche le testimonianze intorno ad una sua presunta omosessualità) in
cui visse questo papa fece coincidere la sua volontà di vita con la voglia di vivere del suo
tempo.” Il suo desiderio di godere la vita e di evitare grandi responsabilità gli fece
tollerare scandali di prelati e cortigiani, lo indusse a creare cardinali indegni, per brama di
appoggi e ricchezze, senza rendersi conto che ormai l’unità cristiana dell’Europa era
definitivamente compromessa. Floscio e obeso come lo dipinge Sebastiano da Piombo, ci
appare idealizzato in una placida signorilità nel famoso ritratto di Raffaello (oggi
ammirabile nella galleria di Palazzo Pitti a Firenze). Papa Leone X dava banchetti sontuosi
alla corte, ma il suo era sobrio e parco: al mercoledì non prendeva carni, al venerdì si
cibava soltanto di legumi e di erbaggi; il sabato era giorno di digiuno, pare che non
bevesse vino, il giovedì voleva sempre sentir discutere di lettere ed anche di questioni
religiose. Fu sepolto provvisoriamente in San Pietro, fu poi trasferito nel suo mausoleo,
disegnato dal Sangallo, in Santa Maria sopra Minerva.
Papa Adriano VI (1522 – 1523) fu uno dei pochi papi che in quel periodo combatté la
piaga del nepotismo, è giusto parlare dei pontefici che combatterono questo maledetto
cancro, sennò sembra che io lancio solo fango ai papi di quell’epoca, anche se mi viene il
sospetto che quelli che osteggiarono quella triste perversione che va sotto il nome di
nepotismo furono avvelenati, perché i loro pontificati furono delle brevi meteore. La
successione di Leone X fu caratterizzata da un notevole lavoro diplomatico anche per
l’inserimento sulla scena politica di Enrico VIII re d’Inghilterra. Carlo V, al fine di evitare
che il nuovo pontefice potesse adottare la stessa politica ambigua del suo predecessore,
perorò la candidatura del cardinale Giulio de’ Medici, persona che riteneva a sé fedele, ma
questa candidatura non fu ben accolta dal re di Francia. Il conclave si aprì il 27 dicembre
1521 e l’attività del Sacro Collegio terminò dopo tredici giorni, allorquando lo stesso
cardinale Giulio de’ Medici, benché candidato, al fine di superare il voto del sovrano
francese e di altri, propose l’elezione di Adrian Florensz, fiammingo di Utrecht, vescovo di
Tortosa, cittadina spagnola a metà strada tra Barcellona e Valencia. Nonostante fosse
straniero e neppure presente in conclave, fu accettato da Sacro Collegio e il 9 gennaio 1522
fu eletto papa con grande compiacimento di Carlo V del quale il nuovo pontefice era stato
precettore. Egli ipotizzava di poter creare con lui un rapporto privilegiato se non
addirittura una rapida alleanza. Adriano aveva 63 anni, era un uomo di umili origini ma
laureato all’università di Lovanio, si esprimeva in latino perché non conosceva l’italiano,
non per niente era stato scelto dall’imperatore Massimiliano quale precettore del nipote
Carlo, futuro re e imperatore. La sua rettitudine morale era senza dubbio assoluta, infatti
egli la espresse da subito, affermando che lui prendeva possesso dell’alta carica spirituale
per volere del Signore. L’imperatore Carlo V, il re di Francia e il re d’Inghilterra Enrico
VIII tentarono in tutti i modi di avere dalla loro parte il pontefice, ma nessuno riuscì a
realizzare il proprio fine. Il neoeletto temporeggiò molto in Spagna prima di raggiungere
Roma, e appena insidiato sul trono di San Pietro fece subito capire che lui intendeva
mantenere la sua neutralità in quanto si considerava capo della Chiesa Universale
cattolica, quindi pastore di tutti i cristiani. Improntò la politica del suo pontificato al più
alto rigore morale, facendo della corte vaticana una specie di monastero con una gestione
economica estremamente rigorosa. Per esempio la cerimonia dell’incoronazione ufficiale al
soglio pontificio fu molto semplice e austera. Il rapporto tra l’imperatore e il papa si rivelò
subito molto arduo e pieno d’incomprensioni, infatti mentre Carlo V cercava di screditare
l’immagine di Francesco I, re di Francia, il pontefice si prodigava per creare un’alleanza fra
i molti sovrani europei al fine di combattere il nemico comune che era rappresentato
dall’impero ottomano e che egli considerava il vero nemico dell’Europa cristiana.
Concesse a Carlo V di poter riunire nella sua persona il titolo di Gran Maestro dei tre
ordini cavallereschi di Santiago, Alcantara e Colatrava, con conseguente enorme potere di
controllo politico ed economico su tutta la Spagna. Il re di Francia, invece, all’indomani
della elezione di Adriano, visto che non riusciva nello scopo di stringere un’alleanza
preferenziale con il pontefice, assunse comportamenti e iniziative tali da entrare in
contrasto con la Santa Sede. Si ostinò a non riconoscere Adriano come papa solo perché
era stato precettore di Carlo d’Asburgo, minacciò d’impedire la raccolta delle decime a
favore della Chiesa di Roma, infine cominciò a tessere una losca trama con la curia
romana, avente come scopo un’ipotetica riconquista del Regno di Napoli, considerandosi
erede dei vecchi possedimenti angioini finiti nelle mani degli aragonesi.
Questi comportamenti di Francesco I, tutt’altro che concilianti, indussero il papa a
schierarsi palesemente con l’imperatore Carlo V. Nei mesi di luglio e agosto del 1523 si
formò una grande coalizione antifrancese, tra Carlo V, Enrico VIII d’Inghilterra,
Ferdinando d’Asburgo, il papa, Venezia, Firenze, Genova e Milano, che entrò in guerra
quando Francesco I invase l’Italia. Papa Adriano VI non vide i frutti di questa alleanza,
perché una malattia lo condusse rapidamente a morte il 14 settembre 1523.
Il conclave che si aprì verso la fine di settembre del 1523 era destinato a durare a lungo
perché non si erano placate ancora le dispute del conclave precedente. Il candidato che
aveva ottime possibilità di essere eletto papa era il cardinale Giulio de’ Medici, fiorentino,
grande elettore di papa Adriano. In antitesi vi era la candidatura di Alessandro Farnese,
appoggiato da tutto il gruppo dei cardinali francesi, convinti, questa volta, di non lasciarsi
sfuggire l’elezione di un papa favorevole a Francesco I. Ma all’interno del Sacro Collegio
esisteva una terza componente che faceva capo alla famiglia di Pompeo Colonna, in
antitesi alla famiglia de’ Medici. Il cardinale Farnese e Giulio de’ Medici riuscirono a
trovare un accordo per cui quest’ultimo fu eletto il 19 novembre 1523, cinquanta giorni
dopo l’apertura del conclave e fu incoronato il successivo 26 novembre con il nome di
Clemente VII (1523-1534), all’età di 45 anni. A differenza del cugino suo predecessore,
Giulio aveva dato prova, negli anni passati, di grandi doti diplomatiche e ragguardevoli
conoscenze di sana politica economica, bene operando all’interno della cancelleria
vaticana. La prima iniziativa del nuovo papa fu quella di rendersi promotore di una pace
universale. A tal fine inviò come ambasciatore alle corti di Spagna, Inghilterra e Francia,
l’arcivescovo di Capua, Nicolò Schomberg, ma la missione non ebbe buon esito. Dopo
pochi mesi dall’elezione di Clemente VII, nel 1524, Francesco I di Francia riprese le ostilità
contro l’imperatore e conquistò nuovamente il milanese, Parma e Piacenza e pose sotto
feroce assedio la città di Pavia, dando l’impressione che la guerra stesse volgendo
definitivamente a favore dei francesi. Clemente VII, che aveva ereditato l’alleanza con
Carlo V dal suo predecessore Adriano VI, si convinse che l’imperatore fosse sul punto di
essere sconfitto definitivamente e per non essere travolto, rischiando una nuova perdita
della signoria di Firenze e della Toscana da parte dei Medici, effettuò nel 1525 un
rovesciamento di alleanza, offrendo il suo appoggio al re di Francia e ricevendo in cambio
la restituzione delle città di Parma e Piacenza e la garanzia del ripristino della signoria dei
Medici in Toscana, dopo la cacciata del 1498. Francesco I avrebbe ottenuto anche il diritto
di passaggio per le proprie truppe attraverso lo Stato Pontificio, per poter raggiungere
Napoli e tentarne la riconquista, ma il lungo assedio alla città di Pavia costò la sconfitta al
re di Francia, il quale fu addirittura catturato e portato prigioniero a Madrid, mentre
l’esercito francese fu pressoché annientato. Clemente VII, sbalordito dalla inaspettata
sconfitta dell’alleato francese e temendo la vendetta dell’imperatore Carlo V optò per un
altro cambiamento di alleanza, cercando di passare nuovamente nel campo degli
imperiali. Era palese, però, che una trattativa diretta con Carlo V era non ipotizzabile, così
cercò di superare l’ostacolo in modo indiretto, stringendo alleanza con il viceré di Napoli,
Consalvo di Cordova, e il Gran Capitano, al quale propose il riconoscimento da parte della
Santa Sede delle pretese imperiali sul ducato di Milano in cambio della tutela della difesa
dei diritti dello Stato Pontificio e dei Medici su Firenze. L’alleanza, però, avrebbe dovuto
essere ratificata dall’imperatore entro quattro mesi, cosa che non avvenne a causa della
poca fiducia di Carlo V verso il pontefice, che non aveva rispettato le alleanze e quindi
veniva considerato una persona inaffidabile, che usava la sua carica del soglio di San
Pietro per proteggere i suoi interessi e quelli della sua famiglia. Nei mesi successivi a
questa profferta del papa, mentre il pontefice cercava di convincere l’imperatore a
ratificare gli accordi, si aprì una trama segreta tra la curia romana e Francesco I,
prigioniero a Madrid, per la creazione di una nuova alleanza contro Carlo V. Questo
convinse il re francese ad accettare, nel gennaio 1526, l’umiliante pace di Madrid, pur di
rientrare in Francia e riprendere le ostilità. Nella tarda primavera del 1526, mentre Carlo V
mandava i suoi ambasciatori a suggellare l’alleanza con il pontefice, in base alle offerte
fattegli pervenire dallo stesso papa l’anno precedente, Clemente VII cominciò ad orientarsi
nella direzione opposta, dando la propria adesione alla nuova alleanza che Francesco I
costituì attraverso la Lega di Cognac, assieme alla Repubblica di Venezia, il ducato di
Milano e Firenze. Clemente VII era convinto che se Carlo V, già padrone dell’Italia
meridionale, avesse conquistato anche l’Italia settentrionale, avrebbe messo a repentaglio
l’esistenza stessa dello Stato Pontificio. In altri termini la sopravvivenza dello Stato della
Chiesa era legata ad una concezione dell’Italia divisa in almeno tre entità politiche, con lo
Stato della Chiesa nel mezzo e le altre due sotto il controllo di stati diversi. Ovviamente
non fu questa la motivazione addotta dal papa alla richiesta dell’imperatore di una
spiegazione circa l’ennesimo rovesciamento di alleanza. Contemporaneamente a questi
avvenimenti si verificò un conflitto all’interno della curia romana tra il cardinale Pompeo
Colonna, filoimperiale, e il papa. Il Colonna iniziò una guerra contro il papa all’interno
delle mura vaticane, apparentemente per rivalersi della sconfitta subita in conclave. In
effetti l’azione armata era sobillata dall’imperatore per convincere il pontefice a chiedere il
suo aiuto e quindi a stipulare un’alleanza con lui contro il re di Francia. All’inizio il papa
stava perdendo e chiese effettivamente l’appoggio dell’imperatore per fermare il suo
alleato, ma in seguito, con una velocità estrema, sorretto dai francesi intervenuti
tempestivamente prima di Carlo e su richiesta proprio del pontefice, sconfisse il Colonna e
lo spogliò di tutte le sue cariche. A questo punto Clemente VII, avendo sconfitto
militarmente un cardinale filoimperiale, per giunta con l’aiuto degli avversari storici
dell’imperatore, dovette per forza schierarsi apertamente con il re di Francia. Questo
comportamento fu interpretato come un’offesa per l’imperatore, il quale, infuriato per
questo ennesimo rovesciamento di alleanza, reagì violentemente adottando due decisioni
importanti. La prima, nella Dieta di Spira, dove concesse pari dignità a tutte le confessioni
religiose, annullando i precedenti provvedimenti restrittivi adottati nella Dieta di Worms
del 1521; la seconda mandando contro Roma un contingente di “lanzichenecchi”,
mercenari germanici, in maggioranza protestanti-luterani al comando di Georg Von
Frundsberg, facendo nascere per la prima volta un conflitto armato tra Carlo V e la Chiesa
di Roma. Nel maggio 1527 le squadracce germaniche entrarono in Roma e la misero a ferro
e fuoco per molte settimane provocando distruzione, morte e devastazione: i
lanzichenecchi si scatenarono contro tutto e tutti, infuriati perché non ricevevano lo
stipendio da mesi e senza comando, poiché il loro capo Frundsberg era ritornato in
Germania per motivi di salute. Questo avvenimento, noto come il “sacco di Roma” suscitò
sconcerto in tutto il mondo e da esso persino Carlo V prese le distanze. Il primo attacco fu
respinto dai difensori di Renzo de’ Ceri che disponeva di quattromila uomini, in
maggioranza servi e popolani, al secondo attacco il principe Borbone che comandava
questa teppaglia mercenaria partecipò personalmente all’attacco delle mura di Roma, ma
fu colpito in fronte mentre stava salendo la scala che aveva tolto ad un suo soldato e cadde
morente, ma ordinò di coprire il suo capo con un lenzuolo. I lanzichenecchi entrati nelle
mura dilagarono in città massacrando tutti quelli che incontravano sul loro cammino, i
Vandali, gli Ostrogoti e i Saraceni furono meno feroci. Questi mercenari spagnoli, tedeschi
e italiani rinnegati cercavano l’oro e l’argento, quindi ogni casa fu saccheggiata e data alle
fiamme, le donne e le vergini furono violentate e uccise. Un cronista del tempo descrisse i
Lanzichenecchi come uomini crepuscolari e brutali, rivestiti di abiti di seta ricamati; con
catenelle d’oro al collo, pietre preziose e anelli intrecciati nella barba, col viso annerito dal
fumo, camminavano ubriachi per la città, conciati in modo goffo. Poiché molti erano
luterani, presero l’occasione per coprire di scherno e d’onta la Chiesa, infatti con rossi
cappelli cardinalizi in testa, rivestiti di abiti sacri, passeggiavano su asini per le vie
abbandonandosi ad ogni pazzesco dileggio. Un capitano bavarese travestito da abiti
papali si faceva baciare i piedi e le mani dai soldati mascherati da cardinali, aspergendoli
con una scopa che intingeva in un secchio di vino. La soldataglia al suono dei tamburi e di
pifferi passò alla città Leonina, ove con grida indiavolate fu invocato papa Martin Lutero e
qualcuno di questi mercenari urlava dicendo che voleva mangiare un pezzo di papa. Le
chiese furono saccheggiate e le varie tombe dei pontefici depredate, San Pietro divenne un
bivacco, molte opere d’arte andarono distrutte come molti quadri di Raffaello, le suore
vennero uccise o violentate, i preti passati con la lama, venduti, obbligati a servire i
lanzichenecchi indossando abiti da donna. Il papa e la sua corte, rifugiatisi a Castel
Sant’Angelo, osservavano la distruzione della città eterna. Il sacco di Roma del 1527 fu
davvero il diluvio che lavò la città dei pontefici dalle turpitudini dell’umanesimo
paganeggiante, e segnò la rinascita cattolica. Quando cadde Castel Sant’Angelo gli
imperiali catturarono il pontefice e lo tennero prigioniero per sette mesi. Clemente VII
dovette pagare un riscatto di ben 70.000 ducati d’oro, e una volta libero si rifugiò prima ad
Orvieto e poi a Viterbo. Rientrò a Roma soltanto nel mese di ottobre del 1528, ma trovò la
città completamente devastata e distrutta. Il pontefice, dopo la prova di forza, fu di fatto
costretto a stipulare un’alleanza con l’imperatore, anziché con il re di Francia. Due cose lo
convinsero, la promessa di non convocare subito il Concilio sulla questione luterana, e
quella di un aiuto militare per liberare Firenze dalla repubblica che si era insediata
contemporaneamente ai fatti concernenti il sacco di Roma (la cosiddetta terza cacciata dei
Medici). Furono questi avvenimenti storici che indussero Clemente VII a concludere a
Barcellona un trattato con l’imperatore Carlo V, il papa si vide riconosciuto il possesso
della Romagna, nonché i ducati di Modena e Reggio, in cambio l’imperatore ricevette
l’investitura del Regno di Napoli. Il 22 febbraio 1530, a Bologna, Carlo V fu incoronato re
d’Italia con la corona ferrea dei re longobardi e due giorni dopo fu incoronato anche
imperatore. Questa fittizia pacificazione aveva imposto a Carlo V di tenere un
comportamento armonioso e conciliante sia con la Chiesa di Roma che con la Chiesa
riformata, ma nonostante la pace i rapporti fra papa Clemente VII e Carlo V furono
sempre caratterizzati da reciproca diffidenza e scarsa fiducia. L’avvicinamento di
Clemente VII a Francesco I continuò, infatti la sua pronipote Caterina de’ Medici andò in
sposa ad Enrico d’Orleans, secondogenito di Francesco I, ma questo fu un gravissimo
errore di calcolo politico, perché l’allontanamento da Carlo V fece avanzare il
protestantesimo in molti stati europei. Un altro problema che colpì il pontificato di papa
Clemente VII fu lo scisma d’Inghilterra. Il re inglese Enrico VIII, per appagare i suoi
appetiti sessuali, ripudiò la moglie Caterina d’Aragona, sposata per motivi politici, perché
la cortigiana Anna Bolena non gli si sarebbe concessa se egli non l’avesse sposata. A Roma,
Clemente VII, nel concistoro pubblico del 23 marzo 1534, dichiarò valido il matrimonio
con Caterina, e impose al re di riprendersi la legittima sposa, pena la scomunica per
pubblico adulterio se non l’avesse fatto. Enrico VIII reagì abolendo l’autorità della Santa
Sede in Inghilterra e nell’Irlanda, e si proclamò capo supremo della Chiesa Anglicana. Il
parlamento inglese approvò la deliberazione, riconoscendo nel re non solo il capo dello
stato, ma anche il capo della religione nazionale quale vicario di Cristo nelle terre inglesi.
Clemente VII morì il 25 settembre 1534 a 56 anni. Sotto il suo pontificato migliaia di
protestanti “anabattisti” furono fatti decapitare, ardere vivi, annegare e torturare a morte.
Si racconta che nel letto di morte Clemente VII disse che se il pontificato si fosse conferito
per eredità lo avrebbe dato al cardinale Farnese, e infatti fu proprio il cardinale Alessandro
Farnese ad essere eletto suo successore. La felicità dei romani fu enorme, dopo 103 anni
vedevano finalmente un loro cittadino salire sul soglio di San Pietro. Egli fu eletto papa a
67 anni ed assunse il nome di Paolo III (1534-1549). Venne incoronato il 3 novembre, ma
prese possesso del soglio pontificio soltanto l’11 aprile 1535 con una solenne cerimonia che
si svolse nella basilica lateranense. L’illustre famiglia Farnese aveva avuto una forte ascesa
sociale con papa Alessandro VI, anche grazie alla passione del cardinale Rodrigo Borgia
per la sorella di Alessandro, Giulia, soprannominata “la Bella”. Quando Rodrigo divenne
papa nominò cardinale Alessandro Farnese il quale migliorò la propria posizione grazie
alla sua abilità politica ed alla sua grande cultura. Prima di prendere la porpora
cardinalizia Alessandro aveva sposato un’aristocratica che gli aveva dato dei figli, però lui
ne legittimò solo due: Pierluigi e Paolo, nel 1505; la storia ricorda anche la figlia Costanza.
Nel 1513 il cardinale Farnese troncò ogni aspetto galante e godereccio della vita e così
anche le sue relazioni amorose, e si dedicò interamente alla Chiesa. Si ricorda anche per
aver cambiato il nome da “Santa Inquisizione” con la denominazione “Sacra
congregazione della romana e universale inquisizione o Sant’Uffizio”. Papa Farnese fu un
grande nepotista: Alessandro e Ranunzio, i figli del suo figlio prediletto Pierluigi, furono
fatti cardinali; di quelli della figlia Costanza, sposata a Bosio Sforza, conte di Santa Fiora,
creò cardinale Guido Ascanio. Il cardinale nipote Alessandro (1514-1589) fu nominato
diacono di Sant’Angelo il 18 dicembre 1534. Egli fu ambasciatore presso la corte di
Francesco I re di Francia e dell’imperatore il quale si augurava che tutto il collegio
cardinalizio si componesse di simili uomini, in seguito Alessandro ebbe diversi episcopati
in Italia e Francia e in ciascuna sede le sue virtù e la sua generosità rimasero indelebili. Il
suo palazzo era un ritrovo di sapienza e di fermento culturale: dalla sua abitazione
uscirono molti vescovi, cardinali e pontefici. Lui continuava a studiare ed a leggere senza
tralasciare i doveri del suo ministero e ripeteva spesso che non sopportava non solo un
soldato vigliacco, ma neanche un ecclesiastico ignorante. Il cardinale nipote Alessandro
spese immense fortune in opere edilizie di grande rilevanza, condusse a termine il palazzo
della sua casata (che ancora oggi porta il nome di Palazzo Farnese), fece costruire molte
chiese, fra le quali la più famosa è la Chiesa del Gesù. Non meno capace del cardinale
Alessandro fu il fratello Ranuzio (1530-1565) che morì prematuramente a Parma. Egli fu
un cardinale nipote virtuoso, intelligente ed abile, e condusse egregiamente gli
arcivescovadi di Napoli, di Ravenna e di Bologna; di carattere mite e caritatevole, meritò i
più grandi elogi da papa Pio IV e da San Carlo Borromeo. Guido Ascanio Sforza, detto
comunemente cardinale di Santa Fiora (1518-1564), fu elevato cardinale all’età di sedici
anni assieme al cugino Alessandro Farnese, divenne in seguito vescovo di Parma e
amministratore di diverse chiese, nonché arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore:
qui fece erigere, su disegno del Buonarroti, la Cappella dell’Assunta, che fu denominata
Sforza. A beneficio della fabbrica della stessa basilica, rinunciò, con il consenso del papa,
alla prebenda di Santa Prudenziana, che gli produceva un reddito annuale di trecento
ducati d’oro. Il cardinale Ascanio Sforza fu nominato da papa Paolo III Camerlengo di
Santa Romana Chiesa, anche se la sua fortuna si oscurò quando divenne papa Paolo IV,
essendosi egli nel conclave posto contro il Carafa, il quale aveva posizioni politiche in
antitesi alla famiglia Sforza. Una spiccata intelligenza dimostrò Tiberio Crespi (1497-1566),
figlio di Vincenzo, fratellastro di Costanza Farnese, che fu creato cardinale nel 1544 da
Paolo III. Il pontefice diede molte onorificenze e benefici a tanti dei suoi parenti, ma il
grande nepotismo si espresse con il figlio prediletto Pierluigi, infatti papa Paolo III cercò di
dargli un proprio ducato, dal momento che non era riuscito a fargli avere da Carlo V il
ducato di Milano dopo la morte di Francesco II Sforza. Il fine di Paolo III era di elevare la
propria famiglia al grado delle famiglie sovrane (come aveva cercato di fare il papa
Alessandro VI per suo figlio Valentino, per il quale aveva quasi creato un regno). Paolo III
incominciò a formare un piccolo ducato con capitale Castro nello stato pontificio e nel 1537
lo infeudò al figlio prediletto Pierluigi ed ai suoi discendenti. Il papa vi aggiunse anche il
governo perpetuo di Nepi e la contea di Ronciglione e Caprarola. Nel 1545 Paolo III staccò
dai domini ecclesiastici le città di Parma, Piacenza e Guastalla, ne formò un ducato, e ne
concesse l’investitura, con l’onere di un canone annuo verso la camera apostolica, a
Pierluigi. Questi si dimostrò un governante incapace e scellerato, odiato dal popolo e dai
nobili, tanto che contro di lui fu ordita una congiura e fu ucciso a pugnalate. Questo
omicidio ebbe il consenso dell’imperatore Carlo V, dato che il duca Pierluigi Farnese
parteggiava per la Francia. Mentre Francesco Gonzaga si stava muovendo da Milano per
impadronirsi del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, il figlio Ottavio Farnese riuscì a
proclamarsi duca di Parma, quindi successore del padre assassinato, mentre la città di
Piacenza rimase di Ferrante I Gonzaga. Il nipote Ottavio Farnese fu dato in sposo a
Margherita d’Austria, figlia di Carlo V, già maritata con Alessandro de’ Medici (morto
anche lui per una congiura organizzata da suo cugino Lorenzino de’ Medici), grazie
all’opera mediatrice di Paolo III che convinse l’imperatore Carlo V a concedere la mano di
sua figlia. Ella non riteneva Ottavio al suo livello, dato che era principessa di sangue reale,
addirittura si rifiutò di vivere con lui, nonostante le trattative intercorse fra Carlo V e
papa Paolo III addoloratissimo di queste incomprensioni. Margherita d’Austria ebbe due
gemelli dall’odiato Ottavio Farnese, ma non si piegò mai totalmente al volere del marito.
Ella fu certamente una donna di non comuni doti, come dimostrò governando le Fiandre
con spiccata intelligenza e animo virile. Durante il pontificato del Farnese non cessarono
mai a Roma i divertimenti carnevaleschi, e lo stesso pontefice vi partecipava, in particolar
modo nei primi anni. Possiamo dire che il pontificato di Paolo III rappresentò il passaggio
da periodo del Rinascimento a quello della Restaurazione cattolica.
Il Conclave che doveva eleggere il successore di Paolo III si aprì il 29 novembre 1549. Vi
parteciparono 47 cardinali che erano suddivisi, come prevedibile, in due schieramenti: uno
favorevole al re di Francia e l’altro favorevole all’imperatore. Sul trono di Francia sedeva
in quel momento Enrico II, figlio di Francesco I, che era morto nel 1547. Le trattative
furono molto laboriose, protraendosi lungamente e dopo oltre due mesi, l’8 febbraio 1550,
fu eletto il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, romano di 63 anni che assunse il
nome di Giulio III (1550-1555). Papa Giulio III aveva un carattere debole e non seppe
resistere alle pressioni dei parenti che lo importunavano in continuazione per ottenere
favori e protezioni. Dapprima resistette, ma poi divenne accondiscendente, per quanto
non sia arrivato al grande nepotismo di Paolo III; i suoi protetti non ottennero grandi
posizioni politiche, né poterono esercitare in quel campo una grande influenza. Un intenso
affetto lo legava al fratello maggiore, Baldovino, che ebbe alloggio negli appartamenti
pontifici. Nel 1550 egli fu nominato governatore di Spoleto, e da Cosimo de’ Medici
ottenne in feudo la contea di Monte San Savino, di recente formazione. Dei figli maschi di
Baldovino rimase in vita solamente Giovanni Battista, che ebbe dallo zio il governo di
Fermo e Nepi, e fu nominato Gonfaloniere della Chiesa. Il nipote era tutto per il mestiere
delle armi e incontrò la morte il 14 aprile 1552 all’assedio di Mirandola. Giovanni Battista
era senza prole e quindi la casata si estinse nel ramo maschile. Giulio III suggerì al fratello
di adottare come figlio Fabiano, il quale era un figlio naturale dello stesso Baldovino, così
tutte le tenerezze papali si riversarono sopra di questo giovine. Per ingraziarsi il pontefice,
Cosimo de’ Medici diede in sposa la propria figlia Lucrezia a Fabiano; il pontefice
acconsentì, ma non permise che questo matrimonio assumesse una connotazione politica.
Tra i figli delle due sorelle, Giulio III creò due cardinali, i quali non fecero disonore né allo
zio né alla porpora, non così invece Fabiano che assunse il nome di Innocenzo del Monte
quando fu adottato da Baldovino. Appena Giulio III divenne papa ricoprì il giovine
Fabiano di maggiori dignità e delle più laute prebende, questo giovane però portò
scandalo per il suo comportamento licenzioso e nonostante tutti sconsigliassero il papa,
egli elevò Innocenzo alla porpora cardinalizia a soli diciassette anni. I nemici di Giulio III
lo accusarono di essere una persona avida e accecata dal nepotismo più estremo. Il
giovane cardinale Innocenzo del Monte con i suoi facili costumi e la sua vita scandalosa
creò non poco imbarazzo al suo zio pontefice , era soprannominato in senso dispregiativo
scimmia. Il cardinale Pallavicino raccontò di una rissa del cardinale Montino (così fu anche
chiamato Innocenzo del Monte), a causa di una famosa cortigiana durante un banchetto in
casa di Andrea Lanfranchi, segretario del Duca di Paliano, il primo gennaio 1559. Dopo
alcuni mesi dal litigio, Innocenzo del Monte uccise due persone, padre e figlio, per cui il
pontefice Pio IV lo fece rinchiudere nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Appena uscì di
prigione non solo continuò, ma addirittura accentuò la sua vita malavitosa, allora il
pontefice Pio IV gli tolse tutte le rendite e lo mandò in esilio a Tivoli, con un assegno
annuo di mille scudi, molto misero per il suo stile di vita. Neanche questo bastò a fermarlo
e, continuando il suo stile di vita dissoluto, fu fatto rinchiudere a Montecassino dal papa, e
appena finì l’esilio obbligato tornò a Roma, dove si rese odioso e disprezzato da tutti. Morì
nel 1577, a 46 anni, in modo molto disonorevole e fu sepolto nella chiesa di San Pietro in
Montorio.
Alla morte di papa Giulio III fu eletto Marcello II, nato Marcello Cervini degli Spannocchi.
Il suo pontificato durò solamente venti giorni (dal 9 aprile 1555 al 1 maggio 1555); la sua
vita fu umile e devota solamente a Dio, egli stabilì che la corte papale dovesse vivere senza
lusso e rincorrere la povertà, per questo fece togliere dalla tavola tutto il vasellame d’oro e
d’argento. Partecipò con convinta umiltà alle funzioni della settimana santa, infatti si recò
a piedi alle funzioni di questo evento religioso, così pure fece per raggiungere San Pietro.
Aveva una parentela numerosa ma non volle assolutamente macchiarsi di nepotismo. Fece
scrivere ai suoi parenti di Montepulciano di non venire a Roma per pretendere favori,
benefici, titoli o prebende, dato che lui in primis era servo del Signore e i beni della Chiesa,
i suoi congiunti non dovevano neanche annusarli. Ad esempio, un figlio di una sua
sorella, residente in Orvieto, venne a Roma pieno di speranze per poter migliorare la sua
posizione sociale, ma lo zio papa non gli concesse udienza e lo invitò a ritornare alla sua
città. Da papa Adriano VI in poi nessun papa si era mostrato così deciso a contrastare la
piaga bestiale e infernale del nepotismo, perciò rendo omaggio a papa Marcello II che
combatté questo maledetto cancro. Papa Marcello II non acconsentì a suo fratello di
trasferirsi a Roma e neanche ai due nipoti quindicenni, pur essendo di ottimi costumi e
amanti dello studio. Amante della pace, della mitezza e interprete del vero pensiero
cristiano, pensò di abolire la guardia svizzera, ma la morte lo raggiunse dopo pochi giorni
dal suo magistero. Si dice che sia morto di morte naturale, ma l’autopsia non venne mai
fatta, pare che avesse una piaga segreta in una gamba.
Il 23 maggio 1555 fu eletto pontefice Gian Pietro Carafa, settantanovenne campano di
nobile famiglia, Decano del Sacro Collegio, con il nome di Paolo IV (1555-1559). La sua
elezione fu molto osteggiata da Carlo V in quanto il Carafa odiava l’imperatore, in
particolare disprezzava gli spagnoli che aveva conosciuto quando ricopriva l’incarico di
cappellano maggiore presso la corte di Ferdinando il Cattolico. Considerava gli spagnoli
eretici e scismatici, nonostante loro esprimessero un cattolicesimo fortissimo, solo perché
aveva la convinzione che nel popolo iberico vi fosse una mescolanza di sangue giudeo e
moresco. Dubitava di Carlo V e della sua fedeltà alla Santa Romana Chiesa, probabilmente
ricordava lo scempio malvagio perpetrato nei confronti della città di Roma da parte dei
lanzichenecchi al soldo del cattolicissimo imperatore. Gian Pietro Carafa all’età di
sessant’anni era stato nominato cardinale da Paolo III, che gli aveva affidato
l’arcivescovado di Napoli, ma non poté assolvere a questo incarico per la tenace
opposizione di Carlo V a cui Napoli apparteneva essendo possedimento spagnolo.
Avendo agito sempre con intransigenza all’interno del Santo Uffizio, l’organo preposto a
prevenire e reprimere ogni eventuale manifestazione eretica, molti erano entusiasti di lui e
pensavano che si fosse occupato di riformare la Chiesa al fine di poter riunificare tutto
l’Occidente cristiano, ma il suo interesse si rivolse alla politica, infatti egli era
propugnatore del concetto del papa-re, verso il quale anche l’autorità imperiale doveva
inchinarsi, inoltre si proponeva di scacciare gli spagnoli dal suolo d’Italia, per poterla
unire. Fu un buon nepotista, si affidò alla guida di suo nipote Carlo Carafa, un
avventuriero spregiudicato che fu nominato dallo zio non solo cardinale, ma anche
segretario di stato. Carlo Carafa organizzò false trame contro il papa attribuendone la
responsabilità ai Colonna e al cardinale di Santa Fiora Ascanio Sforza, tutti filoimperiali. Il
papa, indotto in errore dal nipote, fece incarcerare il cardinale Sforza in Castel Sant’Angelo
e confiscò i possedimenti dei Colonna assegnandoli al nipote Giovanni Carafa (fratello di
Carlo), nominato, nel frattempo, Duca di Paliano. Papa Paolo IV fu una delusione,
sembrava che tutto dovesse essere improntato alla povertà, parsimonia e sobrietà, invece i
primi giorni del suo pontificato furono caratterizzati da feste e sontuosi banchetti, ma la
cosa peggiore fu che egli si lasciò circuire da astuti e indegni parenti, ai quali assegnò i
primi posti, non tanto per esasperato amore di sangue, quanto nella speranza di utilizzarli
come fidati strumenti della sua politica antispagnola. Nominò cardinali tre suoi nipoti:
Carlo che fu il genio satanico, Diomede ed Alfonso che ebbero scarsa influenza sullo zio.
Nominò ancora generalissimo delle armi della Chiesa Giovanni Carafa, e il pronipote
Antonio fu eletto marchese di Mirabello e capitano delle guardie pontificie. Questi nipoti
furono tutti degli intriganti politici, che approfittarono dei loro incarichi e della fiducia che
in loro riponeva lo zio. Negli ultimi anni del suo pontificato, Paolo IV abbandonò gli affari
politici e si dedicò alla riforma della Chiesa. Il suo zelo non si fermò davanti a niente,
scacciò dalla Chiesa i nipoti indegni, dando così l’esempio per combattere la triste piaga
del nepotismo. Il nipote Carlo in gioventù ebbe una vita libertina, quando era militare, e
quando lo zio gli diede la porpora, pensò che probabilmente il suo cardinale nipote avesse
avuto fino ad allora un comportamento altamente morale ed etico ma si sbagliava, infatti
al pontefice giunsero presto notizie sui comportamenti depravati del suo parente,
comportamenti che andavano dall’omosessualità alla sodomia. Possiamo immaginare la
vergogna, l’umiliazione e l’amarezza dell’austero pontefice quando seppe e verificò che il
comportamento dei nipoti e parenti era molto immorale. Li privò delle cariche e degli
stipendi e li scacciò, solo al nipote Carlo lasciò la porpora. Formalizzò queste decisioni il
27 gennaio 1559 convocando il Collegio dei cardinali e molti personaggi dello stato in
Concistoro. Affermando che si sentiva tradito per non aver mai saputo la verità sui suoi
congiunti, condannò senza compromessi la perversa vita dei nipoti e, chiamando Dio in
suo soccorso, li espulse dalla corte pontificia. Così mandò via dalla città i monaci indegni e
fornicatori. Questa ingratitudine dimostrata dai parenti ferì molto papa Paolo IV, perché
lui pensava che nominando i propri nipoti agli incarichi più importanti della Chiesa il suo
pontificato sarebbe stato retto, onesto e pulito, ma così non fu. Questo enorme dispiacere
in pochi mesi lo portò alla morte (19 agosto 1559). Si racconta che durante l’agonia del
pontefice i suoi parenti, in particolare i nipoti, depredarono il suo appartamento e lo
indussero a firmare un testamento che lui non voleva, conducendogli la mano. Le
disposizioni testamentarie del papa si rivelarono viziate da autenticità. Un nipote, il
cardinale di Napoli, fu accusato di aver rubato gemme e denari in quantità nella camera
dei papa morente, per questo atto criminoso fu imprigionato a Castel Sant’Angelo e ne
uscì pagando una forte multa (100.000 scudi).
Dopo vari scontri fra cardinali filoimperiali (Carpi, Pozzi, Medici, Araceli), porporati del
partito filofrancese (Guisa, Ippolito di Ferrara), e quelli del cosiddetto partito intermedio
(Carafa e Farnese), alla fine si raggiunse un compromesso e venne eletto papa il cardinale
Giovannangelo de’ Medici, che assunse il nome di Pio IV (1559-1565). Di umile famiglia,
era figlio di Bernardino Medici e di Cecilia Serbelloni; suo fratello Giangiacomo Medici,
grazie alla sua brillante carriera, divenne marchese di Marignano. Pio IV si macchiò del
massacro dei Valdesi “calabresi”, che prima di essere uccisi furono torturati (sgozzati,
squartati, bruciati e mutilati). Il 31 gennaio 1560 elevò alla sacra porpora tre suoi parenti:
Antonio Serbelloni, vescovo di Foligno, Giovanni de’ Medici (figlio di Cosimo) e il giovane
nipote Carlo Borromeo. Pio IV fu nepotista, ma i suoi parenti non gli fecero disonore.
Carlo Borromeo fu il buon genio a cui Pio IV dovette i suoi migliori successi. Carlo non
aveva ancora compiuto ventidue anni quando fu fatto cardinale. Era nato in Arona da
Giberto Borromeo e da Margherita de’ Medici, sorella di Pio IV. Educato a Milano, entrò in
tenera età nello stato ecclesiastico, studiò giurisprudenza a Pavia e conseguì il grado di
dottore nel 1559. Lo zio lo chiamò a Roma dopo averlo insignito della porpora e lo nominò
arcivescovo di Milano (8 febbraio 1560) per ricompensarlo del suo grande lavoro dotto; Pio
IV raccolse benefici, dignità e favori sul Borromeo. Quando il cardinale Morone si rifiutò
di assumere la direzione degli affari ecclesiastici e politici dello stato pontificio, il papa
diede quella mansione a Carlo e lo mise a capo della segreteria segreta, con l’autorità di
cardinale nipote. Anche il fratello maggiore Federico fu molto favorito dallo zio, aveva
venticinque anni e gli si doveva dare un collocamento principesco affinché fondasse la
potenza territoriale della casata Borromeo. Federico sposò Virginia della Rovere, figlia del
duca d’Urbino, la quale gli portò in dote Camerino. Il 5 maggio l’atto di sposalizio fu
firmato nelle stanze del fratello cardinale. La sposa venne a Roma nell’ottobre, per il
matrimonio fu fatto un ricevimento degno di una regina. Alle nozze parteciparono, tra gli
altri, il duca di Urbino (padre della ragazza) e Cosimo de’ Medici, al quale il papa promise
il titolo di re di Toscana se l’imperatore Ferdinando e Filippo II di Spagna non si fossero
opposti. La sposa fu accolta alle porte della città da quattro cardinali, da prelati, dalla
nobiltà e dall’intero corpo diplomatico, le cavalcarono ai lati due cardinali: Della Rovere e
Borromeo, onore riservato di solito alle regine e alle imperatrici. Di queste preferenze
papali erano gelosi e invidiosi i Serbelloni e i signori di Altemps (Hohenaus), che erano
piombati a Roma appena il loro parente era salito sul soglio pontificio. Le insidie e le
discordie dei nipoti fra di loro addolorarono papa Pio IV, il quale non sapeva più cosa fare
per accontentarli e tenerli in pace. La condotta nepotista del Medici fu in parte perdonabile
in vista dell’immenso vantaggio che egli procurò alla Santa Chiesa inserendo una persona
estremamente di valore come Carlo Borromeo. La nomina di questi a segretario di stato
non fu molto gradita ai diplomatici, i quali si rendevano conto che non potevano
influenzare il vecchio pontefice attraverso il giovane nipote, che era una persona colta,
preparata, adatta al governo, al comando e fornito di una dirittura morale ineccepibile. Pio
IV, constatando il buon operato che il cardinale nipote dava dimostrazione di saper fare,
gli assegnò sempre nuovi incarichi e uffici: lo nominò protettore del Portogallo,
dell’Austria inferiore e dei sette Cantoni cattolici della Svizzera, protettore degli ordini
religiosi francescano, carmelitano, degli umiliati, dei canonici regolari della Santa Croce e
di altri ancora. Il cardinale Borromeo non perse il senno per i tanti oneri e la grande
autorità che stava acquistando, ma si gettò nelle sue occupazioni con tanto zelo che non
aveva neppure il tempo di riposare e di toccare cibo, infatti i familiari a lui vicino
temevano per la sua salute. Tutto il giorno era accanto a suo zio papa Pio IV, coadiuvato
da Tolomeo Gallio, apriva la corrispondenza e ne riferiva al pontefice, tutte le risposte alle
lettere ricevute venivano controllate dal cardinale prima di essere spedite. Anche le
relazioni diplomatiche venivano gestite dal cardinale nipote Borromeo, che dimostrava un
attivismo paradossale, palesando una notevole forza sia nella mente che nel corpo. Dopo
giornate di intenso lavoro il cardinale Borromeo interveniva alle discussioni serali
dell’accademia da lui costruita e inaugurata con il nome di Accademia Vaticana,
nell’intento di accentuare lo studio delle lettere, dato che suo zio papa Pio IV voleva che le
lettere si sviluppassero al pari delle arti. Spiccavano tra gli accademici del Borromeo: Silvio
Antoniano, Francesco Alciati, Carlo Visconti, Guido Ferrari, Tolomeo Gallio, Francesco
Gonzaga, Agostino Voliero, i quali tutti furono premiati con il cappello cardinalizio.
Questi dotti erano portatori di un classicismo cristiano in antitesi al primo umanesimo
paganizzante esaltato da alcuni papi come Alessandro VI, Leone X e Clemente VII. Nei
loro scritti c’era maggiore attenzione verso il contenuto rispetto alla forma, la bellezza
estetica era sì rispettata, ma non esaltata. Questa accademia assunse una funzione
teologica, infatti scienza e fede erano in perfetta simbiosi. Il principe Federico Borromeo,
fratello di Carlo, frequentando l’Accademia Vaticana e praticando delle esercitazioni
oratorie riuscì in parte a superare il difetto della balbuzie. Delle gravi sciagure si
abbatterono sui nipoti del papa: il principe Federico Borromeo morì a soli ventisette anni,
dopo soli tre giorni di malattia un altro nipote cardinale passò a miglior vita, il pontefice
Pio IV pensò che il Signore dal cielo non approvasse il suo sviscerato nepotismo e che gli
mandasse un messaggio come per porre un freno a questa triste piaga. Il nepotismo in casa
Carafa creò una immane tragedia: alcuni mesi prima che morisse il papa Paolo IV, donna
Violante Diaz Garbom, duchessa di Paliano e contessa di Montorio, sposata con il duca
Giovanni Carafa, venne scoperta mentre tradiva il marito. Quest’ultimo, appena apprese
dalla dama di sua moglie dell’adulterio perpetrato dalla sua consorte con un gentiluomo
del suo servizio, Marcello Capace, lo fece imprigionare e torturare, convocando il fratello
di sua moglie il conte d’Alife. Accecato dall’odio il duca Giovanni Carafa uccise l’amante
di sua moglie con una coltellata e dopo un mese sua moglie fu strangolata da suo fratello il
conte d’Alife, il quale pensava in questo modo di salvare l’onore della sua casata. Grazie
allo zio papa Paolo IV Carafa, i nipoti la fecero franca. Quando venne eletto, il de’ Medici
aveva istituito subito una commissione di nove cardinali che doveva accertare le
colpevolezze degli accusati, il Pallantieri, loro grande accusatore, fece condannare a morte
tutti i Carafa. Il cardinale Carlo Carafa fu impiccato, suo fratello duca subì analoga sorte, si
salvò solo il cardinale Alfonso che sborsò centomila scudi per avere salva la vita. In
seguito papa Pio V volle verificare le singole colpe dei Carafa e risultò che, nonostante il
nepotismo, il cardinale era innocente, così come il cardinale Alfonso Carafa, quindi furono
assolti dal reato di fellonia e i beni confiscati furono restituiti ai legittimi eredi, invece il
malvagio Pallantieri fu condannato. Questo dimostrò anche che i Carafa furono
perseguitati perché approfittarono della triste piaga del nepotismo quando c’era il loro
parente, papa Paolo IV. Questi tragici fatti furono di avvertimento ai cardinali, come a dire
che se un giorno fossero saliti al soglio pontificio, avrebbero dovuto stare molto attenti a
come avrebbero esercitato il nepotismo. Il nipote del papa Pio IV, Annibale Altemps,
futuro marito di Ortensia Borromeo (nipote di San Carlo Borromeo) venne nominato conte
dell’impero dall’imperatore Ferdinando I e da Filippo II gli venne assegnato, grazie a suo
zio papa Pio IV, il feudo di Gallarate. Il pontefice concesse a sua nipote una dote di
cinquantamila scudi, anche se inizialmente voleva dargliene centomila, ma la morte del
pontefice fece ridurre della metà la dote, grazie all’intervento del suo successore Pio V. Il
matrimonio fu celebrato con gran lusso, una festa da far impazzire anche i più brillanti e
goderecci nobili dell’epoca: famoso rimase il torneo svoltasi nel teatro Belvedere, al quale
assistettero cinquemila spettatori, circondati da statue classiche, mentre i migliori cavalieri
si esibivano con grande abilità, coraggio e maestria. Il grande successo di Pio IV fu quello
di avere concluso il concilio di Trento, grazie anche all’aiuto da parte del cardinale Ercole
Gonzaga.
Alla morte di Pio IV, il 7 gennaio 1566, fu inaspettatamente eletto papa Antonio Ghisleri,
grazie ad un accordo tra i cardinali Borromeo, e venne consacrato il giorno del suo
compleanno, dieci giorni dopo con il nome di Pio V. La sua elezione fece tremare la curia
romana, niente festeggiamenti e sontuosi banchetti per solennizzare l’evento, infatti Pio V
era di carattere rigido e intransigente e le somme raccolte per la sua incoronazione furono
destinate interamente ai poveri. Egli cercò con ogni mezzo di migliorare i costumi della
gente emettendo bolle, punendo l’accattonaggio, vietando il dissoluto carnevale, cacciando
da Roma le prostitute, condannando i fornicatori, i bestemmiatori e i profanatori dei giorni
festivi. Difese strenuamente il vincolo matrimoniale, infliggendo pene severe agli adulteri.
Ridusse il costo della corte papale, impose l’obbligo di residenza dei vescovi ed asserì
l’importanza del cerimoniale. Si dedicò alla pubblicazione del catechismo romano, del
breviario romano riformato e del messale romano. Rafforzò gli strumenti della
Controriforma per combattere l’eresia ed il protestantesimo e diede nuovo impulso al
Tribunale dell’Inquisizione, il papa di persona partecipava alle sedute dell’Inquisizione
Romana. Non abbandonò mai il suo semplice saio domenicano e riposava regolarmente
sopra un pagliericcio. Si alzava di buon mattino e dedicava le prime ore alla celebrazione
della Messa e alle pratiche di pietà. Subito dopo la colazione attendeva agli affari d’ufficio
e alle udienze, senza guardare se la stagione era rigida o torrida. Nel vitto era
estremamente parco e sobrio, a mezzodì pan bollito con due uova e mezzo bicchiere di
vino; a pranzo minestra di legumi, insalata, alcuni crostacei e frutta cotta, due volte alla
settimana mangiava carne. Egli interpretò in maniera quasi letterale i dettami del Concilio
di Trento che erano improntati all’umiltà, alla sobrietà e alla devozione al Signore,
combatté tutti i cardinali che si ostinavano a mostrarsi mondani. Il suo primo atto dopo
l’incoronazione fu di bandire dal palazzo Vaticano il buffone di corte di Pio IV, istituì una
commissione cardinalizia formata dai cardinali Borromeo, Savelli, Alciati e Sirleto, che
doveva vigilare sui costumi e sull’istruzione del clero, abolì il diritto di asilo di cui
godevano i palazzi cardinalizi e dispose che la giustizia potesse mettere le mani sui
colpevoli persino nel palazzo apostolico. I diversi tribunali e dicasteri pontifici furono
alleggeriti dal personale parassitario. Pio V fu un rigido oppositore del nepotismo: ai
numerosi parenti accorsi a Roma con la speranza di qualche privilegio, egli disse che un
parente del papa poteva considerarsi sufficientemente ricco se non conosceva l’indigenza.
Dietro insistenza dei cardinali nominò cardinale il nipote Michele Monelli, perché
fungesse da intermediario nelle relazioni con i principi, egli era nipote di una sua sorella e,
come lui, era domenicano e lo coadiuvava nel disbrigo degli affari. Un giorno gli fece
visita il pontefice nei suoi alloggi e gli ordinò di rimuovere i cortinaggi di seta e di non
usare abiti di seta e vasellame d’argento. Il padre del cardinale nipote, venuto a Roma a
visitare il figlio e forse con segreta speranza di rimanervi, ebbe l’ordine del pontefice di
ritornarsene quanto prima al suo paese. Il papa si prese cura dei giovani nipoti, ma solo
affinché potessero avere una buona educazione presso i Gesuiti. Ad un figlio di suo
fratello permise di venire a Roma a far servizio militare avendo già altrove dimostrato il
suo valore. Nel maggio 1567 fu nominato comandante della guardia del corpo (milizia
pontificia), ma appena lo zio papa si accorse che coltivava amori illeciti e scandalosi lo
cacciò dallo stato pontificio. Venne minacciato di pena di morte se fosse rientrato e
nessuna intercessione valse a far revocare quel bando. In politica estera Pio V adottò una
strenua difesa dei diritti giurisdizionali della Chiesa entrando in conflitto con Filippo II di
Spagna. Durante le guerre di religione in Francia sostenne i cattolici contro gli ugonotti.
Appoggiò la cattolica Maria Stuarda contro Elisabetta I, di fede anglicana, che scomunicò
nel 1570. Terrorizzato dall’avanzata turca, promosse una lega dei principi cristiani contro i
Turchi e con Genova, Venezia e Spagna, istituì la Lega Santa. Le forze navali della Lega si
scontrarono con la flotta ottomana a Lepanto, il 7 ottobre 1571, riportando una strepitosa
vittoria, che però non si concretizzò, come il papa avrebbe sperato, nella liberazione del
Santo Sepolcro. Tuttavia si narra che ebbe una visione, in occasione della battaglia di
Lepanto ed esclamò: “Sono le dodici, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto” e da
quel giorno le campane suonano ogni giorno a mezzogiorno. L’anno successivo, il 7
ottobre 1572, venne celebrato il primo anniversario della vittoria di Lepanto con
l’istituzione della festa di Santa Maria della Vittoria, successivamente trasformata nella
festa del Santo Rosario. Emanò la bolla “Hebraeorum gens sola quondam a Deo dilecta” contro
gli ebrei, con cui se ne ordinava l’espulsione dallo stato pontificio, ad eccezione di Ancona
e Roma. Gli ebrei di Bologna trovarono rifugio nel territorio estense e si portarono via
anche i morti, dato che la bolla dichiarava che bisognava eliminare ogni traccia della loro
presenza nel territorio della Chiesa, quindi anche i cimiteri. Alcune comunità ebraiche
scomparvero, come quelle di Ravenna, Fano, Camerino, Orvieto, Spoleto, Viterbo e
Terracina. Papa Pio V si spense all’età di 68 anni il primo maggio 1572.
Il 14 maggio successivo fu eletto, come suo successore, il cardinale Ugo Boncompagni, che
assunse il nome di Gregorio XIII. Il Boncompagni fu un papa indeciso e debole, durante il
suo pontificato la nobiltà si servì spesso di banditi per attuare le proprie angherie, quindi
le leggi non venivano rispettate e l’autorità papale veniva derisa. Addirittura il capitano di
giustizia Gian Battista Pace, che metteva tutto il suo zelo per prendere briganti e
delinquenti che spesso trovavano rifugio nelle case dei vari nobili come gli Orsini ed i
Piccolomini, fu condannato a morte dal pontefice solo perché voleva arrestare un
delinquente incallito che si era rifugiato in un palazzo gentilizio. Gregorio XIII cercò di
moderare le feste e il carnevale romano, ma non vi riuscì. Il figlio Giacomo si sposò con la
sorella del conte di Santa Fiora, nipote del cardinale Sforza, con un solenne e pomposo
matrimonio. Gregorio XIII, che lo aveva concepito prima che lui abbracciasse la carriera
ecclesiastica, quando divenne pontefice gli diede la carica di Generale di Santa Chiesa,
carica riconfermata successivamente anche da Sisto V. Papa Gregorio XIII adorava il
proprio figlio ed egli non disonorò mai il padre, anzi mise molto zelo nell’adempiere agli
uffici del suo incarico. Filippo Boncompagni, figlio del fratello, fu creato cardinale nipote,
ma questo incarico nepotista, con Gregorio XIII, perse molto prestigio, perché venne
appannato dal nuovo incarico creato nella Curia Romana del segretario di stato, che aveva
più potere dei cardinali parenti. Questo fu l’inizio della crisi del nepotismo, che però
continuò lo stesso a prosperare. Papa Gregorio XIII divenne famoso per aver riformato il
calendario civile, che era ancora improntato su quello creato da Giulio Cesare, creando il
famoso calendario gregoriano. Ricordiamo che il suo pontificato fu macchiato dalla strage
degli Ugonotti avvenuta a Parigi la notte tra il 23 e il 24 agosto 1572, dove migliaia di
protestanti, su istigazione del duca di Guisa e di sua madre la regina Caterina de’ Medici,
furono massacrati e uccisi; qualcuno vociferò che l’ispiratore indiretto fosse stato papa
Gregorio XIII.
Papa Sisto V, di umili origini ma di carattere forte e deciso, fu eletto papa il 24 aprile 1585.
Rispetto al debole predecessore attuò una politica forte e decisa contro il brigantaggio e in
pochi anni liberò Roma e lo Stato Pontificio da innumerevoli bande di criminali che
avevano in pratica un esercito numericamente superiore a quello pontificio. Sisto V fu
duro e inflessibile, e alcuni nobili che si opposero alle sue decisioni furono strangolati o
uccisi in altri modi. La giustizia tornò a funzionare in modo esemplare, gli stati circostanti
che diedero rifugio ai briganti, come il Gran Ducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie,
dovettero restituire i scellerati individui o eseguire nel posto la sentenza. Molti romani
sostennero che durante le esecuzioni Sisto V partecipava alla visione delle torture e delle
sofferenze dei propri condannati, mangiando davanti a loro, perché tanto sangue saziava
la sua smodata voglia di giustizia. Stabilì che il carnevale si potesse svolgere a Roma, ma
con ordine e disciplina, e che gli atti criminosi non erano assolutamente tollerati. La
popolazione si sentiva protetta da queste rigide disposizioni e partecipò con felicità a
questo carnevale, così riformato. Durante il suo pontificato la parsimonia divenne una
sublime virtù e Sisto V organizzò il debito pubblico della Santa Sede, i prestiti di stato
vennero chiamati “monti” e si dividevano in due categorie, quelli che duravano un
brevissimo tempo e quelli che perduravano un periodo più lungo, i cosiddetti debiti di
Stato consolidati (così si chiamerebbero oggi). Nel 1589 iniziò la revisione della Vulgata,
traduzione latina della Bibbia che era stata opera di San Gerolamo del IV secolo ed aveva
un posto determinante nel Medioevo, ma purtroppo nel corso dei secoli erano stati
prodotti molti errori e la stampa aveva accentuato il numero degli sbagli, quindi egli
pensava che, come i protestanti avevano prodotto una bibbia nella loro lingua, era giusto
che anche i cattolici producessero un’altra più affidabile. Nella sua vasta opera di riordino
si batté contro l’accumulazione di benefici e delle cariche ecclesiastiche, e contro le
ingerenze delle famiglie aristocratiche. Anche questo papa, nonostante la sua rigidità, non
fece a meno di favorire i numerosi parenti, tra cui il cardinale nipote di Montalito,
Alessandro Peretti, ed i suoi discendenti. Questi ultimi ottennero ricchi feudi nelle Marche
ed anche nel Polesine: Bagnolo, Castelguglielmo, Conda, Cesenelli, Villaflora, Salvaterra,
Crocetta, Spizine, Cavalon e Compagnon. Durante il suo pontificato Sisto V si interessò
anche di un argomento attualissimo: l’aborto. Se i suoi predecessori avevano mitigato le
pene per le donne che interrompevano la gravidanza entro i quaranta giorni dal
concepimento, egli decise con la bolla “Effre natum” del 1588 che l’aborto era da
considerarsi, sempre ed in ogni caso, omicidio e poteva essere colpito da eventuale
scomunica. In seguito, i suoi successori adottarono misure meno rigide, solo Pio IX,
prendendo a modello papa Sisto V, inasprì le posizioni. Nel 1589 autorizzò la
partecipazione degli eunuchi nei cori, ma si espresse duramente contro coloro che
perpetravano questa pratica, ormai divenuta dilagante ed incontenibile. Con la bolla
“Cristiana Pietas” del 1586 Sisto V liberò molti ebrei da diverse restrizioni economiche e
sociali che erano state imposte da Paolo IV e Pio V. Gli ebrei, con questo provvedimento
papale hanno goduto di diritti per un tempo laconico, perché nel 1593 il papa Clemente
VIII ripristinò molte leggi precedenti che sono rimaste in vigore fino al XIX secolo.
Anche papa Gregorio XIV fu un nepotista, nominò infatti segretario di stato suo nipote
Paolo Emilio Sfrondati, il quale si rivelò incompetente e plagiò il papa al suo volere,
dissipando le finanze pontificie in imprese deleterie, come quella costosissima affidata dal
papa ad un altro nipote, Ercole Sfrondati, che con quattromila mercenari svizzeri doveva
detronizzare Enrico IV di Navarra re di Francia. Si capisce che ormai la politica estera era
in mano ai nipoti. Alla morte del papa il Sacro Collegio dei cardinali era formato da 65
membri, ma il cardinale Juan Hurtado de Mendoza, morì durante la sede vacante e dieci
cardinali non parteciparono al conclave, pertanto il nuovo papa fu eletto da
cinquantaquattro cardinali.
Il 30 gennaio 1592, dopo venti giorni di conclave, grazie ai voti dei cardinali oppositori
della Spagna, fu eletto pontefice il cardinale Ippolito Aldobrandini, che prese il nome di
Clemente VIII. Il 2 febbraio 1592 questi venne consacrato vescovo di Roma dal decano del
Sacro Collegio ed il 9 febbraio fu incoronato dal cardinale Francesco Sforza di Santa Fiora.
Fin dall’inizio del suo pontificato Clemente VIII s’impegnò con tutta la sua forza per
tentare di fare una riforma del cattolicesimo in tutti i paesi. L’abilità politica di questo
papa fu quella di aver gestito la successione al trono di Francia senza provocare la
suscettibilità della Spagna. Il re Enrico IV di Navarra si convertì al cattolicesimo e
Clemente VIII lo riconobbe come legittimo sovrano di Francia. Enrico IV di Navarra prese
questa decisione il 25 luglio nella chiesa di S. Dionigi, alla presenza del cardinale di
Borbone, dell’arcivescovo di Bourges e di parecchi vescovi, solennemente, dinanzi
all’altare, fece la sua affermazione che mise per iscritto in questi termini: “Io protesto e
giuro al cospetto dell’Onnipotente di vivere e di morire nella religione cattolica e romana,
di proteggerla e difenderla contro tutti, a costo del mio sangue e della mia vita,
rinunciando a qualsivoglia eresia ad essa contraria”. Uscendo quindi di chiesa, dopo aver
ricevuto i santi sacramenti ed ascoltata la messa, fu dal popolo entusiasticamente
acclamato col grido di “Viva il re!”. Papa Clemente VIII ci mise un po’ di tempo a
riconoscere il nuovo re di Francia, Enrico IV, addirittura del problema fu investita
l’Inquisizione romana. Nel frattempo, il re di Francia veniva incoronato e consacrato nella
cattedrale di Chartres. Il 30 aprile 1598 fu emanato l’editto di Nantes, che riconosceva il
cattolicesimo come unica religione ufficiale del regno francese, anche se le altre confessioni
venivano tollerate; con questo provvedimento si sbarrava la strada ad un possibile scisma
che poteva essere innescato dagli Ugonotti e dai Gallicani. Problemi sorsero anche con la
Spagna di Filippo II d’Asburgo, malato di cesaro-papismo, perché il sovrano spagnolo
affermava la supremazia del re nei confronti della Chiesa, infatti l’Inquisizione spagnola
divenne un vero strumento del sovrano e molte immunità degli ecclesiastici furono
abolite. Un’ ombra sul papato di Clemente VIII fu il caso di Giordano Bruno, un ex
religioso di umili origini ma molto dotto e preparato, che abbandonò l’abito talare per
andare a insegnare, in varie università europee (Parigi – La Sorbona, Oxford – Inghilterra,
Wittenberg – Germania). Bruno pubblicò diverse opere filosofiche in cui si scagliava
contro la Chiesa, contro il papato, e contro ogni forma di cristianesimo. Egli non credeva
nella divinità di Cristo, che equiparava a Pitagora e Platone, diciamo che Giordano Bruno
fu un pagano panteista, che giustificava la prostituzione e la poligamia, seguace della
dottrina copernicana. Questo pensatore fu dichiarato eretico e venne catturato a Venezia,
in seguito venne estradato dallo stato pontificio e subì un processo che durò sei anni alla
fine del quale, non avendo abiurato totalmente le sue idee pagane, laiche e
meccanicistiche, fu condannato al rogo e venne arso vivo in Campo dei Fiori, la mattina
del 17 febbraio 1600. Anche Clemente VIII si macchiò di nepotismo, arricchì la sua famiglia
con cariche lucrose e privilegi, infatti nipoti e pronipoti ottennero grandi benefici. Creò
due nipoti cardinali, Cinzio e Pietro Aldobrandini, però dopo poco tempo tutti i
discendenti maschi morirono e quindi il casato si estinse.
Alla sua morte, nel 1621, venne eletto papa il cardinale Alessandro Ludovisi che assunse il
nome di Gregorio XV (1621-1623). Il nuovo papa subito si distinse per il suo nepotismo
palese, nominò cardinale nipote o meglio cardinale padrone il nipote Ludovico Ludovisi,
che si dimostrò un abile governante e assieme a suo zio Gregorio XV ebbe come fine il
bene della Chiesa, anche se bisogna ammettere che nella loro posizione arricchirono molto
la loro famiglia, al fine di inserirla nelle grandi famiglie patrizie romane. Il cardinale
nipote fu ricoperto di dignità, di uffici lucrosi e di grandi benefici ecclesiastici, a
cominciare dall’arcivescovado di Bologna. Ludovico ricevette l’ufficio di Camerlengo con
la rendita di diecimila scudi, la legazione di Avignone e molte abbazie ben dotate. La
prodigalità dello zio verso il prediletto nipote era inesauribile, pareva che avesse previsto
la brevità del suo pontificato e che temesse di non arrivare in tempo per arricchirlo
abbastanza. Il nipote, conscio dell’appoggio dello zio papa, fece notevoli acquisti di terreni
e di palazzi a Roma e nelle zone circostanti. Il cardinale Ludovisi inoltre comprò il palazzo
dei Colonna e il ducato di Zagarolo, con i castelli dei Colonna, Gallicano e Passerano,
un’estensione di venti miglia a sud di Roma. Gli abitanti di quelle terre furono felici di
cambiare padrone, perché il nuovo signore era mite e benefico. Per la villeggiatura estiva il
cardinale nipote Ludovisi acquistò dal duca di Altemps la Villa di Frascati, già di
pertinenza del cardinale Gallio, e che ingrandita e abbellita, poteva competere con la
famosa villa Aldobrandini; inoltre fece erigere un’altra villa entro le mura dove si
stendevano gli orti Sallustiani. Il Domenichino, architetto papale, costruì inoltre una
palazzina all’ingresso del parco, nel quale fu ancora edificato il casino del Belvedere, le cui
volte e pareti furono affrescate e decorate da Guido Reni, dal Guercino, nonché dal
Domenichino stesso. C’era anche una superba galleria di statue, giacché il cardinale era un
collezionista appassionato e intelligente. Nella villa del cardinale nipote Ludovisi si venne
formando la più ricca e preziosa collezione di statue antiche e dei più celebrati scultori
moderni, oltre la galleria dei quadri. Quando il cardinale nipote più potente della storia
dei papi morì, nel suo museo personale si contarono 216 statue, 94 teste e busti, 21
colonne, 11 lapidi, 13 rilievi, 4 sarcofaghi, 2 vasche e 19 vasi, ma tutte queste opere
andarono disperse perché la villa nel XIX secolo andò completamente distrutta. Il
cardinale nipote Ludovisi non fu solo uno sperperatore del denaro della Santa Sede, ma
diede molti soldi per la carità, circa trentaduemila scudi all’anno. A sue spese
funzionavano centocinquanta posti letto presso l’ospedale del Laterano, e per suo conto
mattina e sera si distribuivano pane e legumi ai poveri. Per quanto generoso fosse il papa
Gregorio XV con il nipote e con gli altri parenti, egli non permise che i parenti
interferissero negli affari di stato. Ad altri nipoti che gli chiesero il cappello cardinalizio,
egli lo rifiutò, ma ciò non toglie che molte persone della loro corte e gli altri nobili si
trovassero a criticare l’eccessivo favore accordato dal papa ai propri parenti.
Il 6 agosto 1623 venne eletto papa il cardinale Maffeo Barberini, che assunse il nome di
Urbano VIII (1623-1644). Egli apparteneva a una famiglia distinta che si era arricchita con
il commercio, aveva studiato presso i Gesuiti a Roma, conosceva la lingua greca e quella
latina e addirittura con questa lingua componeva poesie meglio che con la lingua italiana.
Egli nutriva simpatie per la Francia, invece disprezzava e odiava il predominio che
esercitavano gli spagnoli in Italia. Questo papa fu molto generoso e benevolo nei confronti
dei suoi parenti, perché con lui il piccolo nepotismo toccò il massimo apogeo, infatti il 2
ottobre del 1623 creò cardinale il nipote Francesco Barberini, che aveva solo ventisei anni.
Un anno dopo il papa concesse la porpora a suo fratello Antonio che era religioso
cappuccino. Nominò generale di Santa Chiesa e in seguito governatore di Roma un
secondo nipote, Taddeo Barberini. Nel 1628 creò cardinale un terzo nipote, Antonio
Barberini, appena ventenne, e in seguito lo nominò anche Camerlengo e Prefetto della
Segnatura. Creò cardinali ancora due nipoti, di suoi cugini; nel 1624 nominò cardinali
Lorenzo Magalotti, e nel 1641 Francesco Machiavelli, entrambi fiorentini ed amici suoi.
Urbano diede ai suoi parenti un cumulo di benefici al fine di elevare il suo casato alla più
alta opulenza. Della prodigalità verso i parenti forse ebbe qualche rimorso lo stesso
pontefice, poiché volle interpellare i più celebri giuristi del tempo per sapere fino a che
limite poteva il pontefice regalare benefici ai suoi parenti. I dotti gli risposero che tenuto
conto che il pontefice era anche principe temporale, gli era consentito donare ai parenti
circa centomila scudi annui. Tra questi canonisti vi era il dotto gesuita Giovanni Lugo, che
fu creato cardinale nel 1643, e che prima di morire si sentì in obbligo di rettificare la prima
risposta, dicendo che il limite massimo era di cinquantamila scudi annui. Quando Urbano
VIII morì la sua famiglia era straordinariamente ricca di denari e di possessi. Si calcolò che
i soli tre cardinali Barberini poterono accumulare in pochi anni più di cento milioni dalla
Camera Apostolica, così da indebitarla, mentre godevano già di rendite annue
complessivamente per quattrocentomila scudi. Il papa Urbano VIII fu molto generoso con
il popolo romano e così questo pontificato fu caratterizzato da un periodo di dissesto delle
finanze dello stato. Battute di caccia, giochi, rappresentazioni sceniche, feste eleganti e
costosissime si svolgevano ad ogni occasione e non pochi cardinali furono trascinati dalla
passione del gioco, vedendo il clima di pieno piacere, godimento e l’ambiente frivolo di
cui era intrisa la corte pontificia. Il papa Urbano VIII non permetteva ingerenze di parenti
nel disbrigo degli affari ecclesiastici e statali e nulla scappava al suo occhio, giacché era un
grande lavoratore, infatti tutta la mattina era rivolta esclusivamente agli affari oppure
sovente vi si poteva dedicare prima che tramontasse il sole. Il pomeriggio era riservato al
riposo e alle occupazioni varie: si vedeva con i parenti, si dilettava con recitazioni poetiche
e di musica, cavalcava per i giardini del Vaticano e del Quirinale. In autunno trascorreva il
tempo sui colli romani: all’inizio fu ospite nella villa di Mondragone del cardinale
Borghese, in seguito a Castel Gandoldo, dove la Camera Apostolica acquistò la villa, già
appartenente a monsignor Visconti. L’architetto Carlo Maderno ebbe l’incarico di
trasformare la villa in una residenza papale. Il cardinale nipote Francesco fu un grande
raccoglitore di libri, di antichità, di monete, di iscrizioni e di rarità d’ogni genere. Egli
fondò la biblioteca Barberiniana, che a Roma raggiunse il primo posto dopo quella
Vaticana, e che nel 1902, per l’impegno del papa Leone XIII, fu incorporata con la stessa
Vaticana. Il cardinale nipote affidò la direzione e lo sviluppo della biblioteca al
celeberrimo teologo, antiquario e critico di Amburgo, Lukas Holste. Il mecenatismo del
cardinale nipote Francesco diede i suoi frutti, perché molti intellettuali, dotti e letterati
convennero a Roma, e trovarono una gentile ospitalità a palazzo Barberini. La città eterna
divenne uno dei centri di maggiore fermento culturale di tutta l’Europa. Papa Urbano VIII,
facendosi condizionare dall’epoca in cui viveva dove la superficialità, il formalismo e il
lusso sfrenato dominavano, volle elevare i componenti del collegio cardinalizio. In realtà
già da molto tempo i cardinali tenevano una corte splendida e ostentavano fasto e lusso al
pari dei principi e dei sovrani, nonostante essi rimanessero inferiori a titoli nobiliari. Il
papa decise di attribuire al ristretto gruppo di cardinali che formava il Sacro Collegio dei
titoli corrispondenti all’alta posizione che occupavano nella Chiesa e nella società, e nel
giugno 1630 dispose che ai porporati competessero i titoli di eminenza e di eminentissimo.
Urbano VIII con due bolle confermò la costituzione di papa Pio V, la quale proibiva di
alienare e di infeudare di nuovo i territori dello stato pontificio; in conformità a questa
costituzione seppe farsi valere contro le pretese imperiali e quelle del governo fiorentino
verso il ducato di Urbino, che comprendeva le città costiere di Sinigaglia, Fano e Pesaro,
importanti per il commercio marittimo. Il duca Francesco Maria della Rovere, perso
l’unico suo figlio Federico, morto a causa della sua vita dissoluta, sperava che, tramite il
matrimonio della nipote Vittoria con un membro della casata dei de’ Medici, il suo ducato
sarebbe andato a Firenze, ma così non andò. Urbano VIII indusse il vecchio duca a cedere
il suo territorio, il quale, dopo aver ricevuto centomila scudi dalla Santa Sede, si ritirò a
vita privata a Castel Durante, nella valle del Menauro. Il pontefice incaricò Berlingherio
Gessi di prendere possesso del ducato in nome dello Stato Pontificio. Un problema per
papa Urbano VIII furono le reminiscenze del grande nepotismo, in particolare riguardanti
il ducato di Castro che Paolo III aveva concesso alla famiglia Farnese. Il piccolo ducato, che
si trovava alle porte di Roma, si trovava ora in possesso di Odoardo Farnese, che era già
duca di Parma. Egli aveva aspirato persino al ducato di Milano, che sperava di ottenere
per mezzo del cardinale Richelieu e della Francia, ma il suo piano non andò in porto per la
ferma opposizione del cardinale nipote Barberini, ciò provocò nel Farnese un odio
sviscerale verso quella famiglia e verso papa Urbano VIII. Il duca Odoardo Farnese era
contrario a strappare il Regno di Napoli alla Spagna, e disprezzava i Barberini, perché li
considerava gente nuova e rifatta, privi di quell’antica nobiltà che li rendeva divini. Il duca
Farnese fortificò il ducato di Castro e raccolse molti uomini armati, ma il governatore di
Roma, il nipote del papa Taddeo Barberini, gli mandò contro diecimila mercenari, i quali
si impadronirono del ducato di Castro. Odoardo Farnese non si perse d’animo e riuscì a
creare una lega composta dal duca di Modena, il Granduca di Toscana e la Repubblica di
San Marco. Il conflitto iniziò nell’ottobre 1641 e terminò il 31 marzo 1644 a causa
dell’esaurimento delle finanze di entrambi i belligeranti, così il duca Farnese restituì i
territori occupati nel bolognese mentre il papa concesse l’assoluzione delle censure e
restituì il ducato di Castro e i beni confiscati.
Nel conclave dei mesi di agosto e settembre del 1644 i due cardinali Francesco e Antonio
Barberini lavorarono affinché le chiavi di San Pietro giungessero nelle mani di una
persona che avesse amato Urbano VIII e la sua casata, ma i contrasti tra i due Barberini su
chi dovesse reggere il papato erano talmente forti che un giorno fra di loro scoppiò una
fortissima lite e addirittura vennero alle mani. Alla fine di un lungo conclave, con il gran
caldo che era deleterio per la salute di molti cardinali anziani, dopo febbrili trattative fu
raggiunto l’accordo sul nome del cardinale Giambattista Pamphili, che assunse il nome di
Innocenzo X (1644-1655) in onore di Innocenzo VIII, gran benefattore dei Barberini. Il
nuovo pontefice aveva già settant’anni, ma era un romano, perciò l’elezione fu accolta con
grande felicità dal popolo. Le feste per l’incoronazione e per la presa di possesso furono
celebrate con grande sfarzo e per la prima volta in suo onore si fece l’illuminazione della
cupola di San Pietro. Il 23 novembre, in occasione della presa di possesso del trono
pontificio, si fecero straordinari spettacoli di fuochi di artificio in onore del papa, grazie
all’impegno degli ambasciatori di Francia e Spagna. In piazza Navona, dinanzi al palazzo
Pamphili, si eresse una gran macchina raffigurante il monte sul quale s’era posata l’arca di
Noè. Il papa si affacciò con le braccia aperte per ricevere la palomba, che scese lungo un
filo del culmine del palazzo per incendiare la macchina. Nella stessa piazza l’ambasciatore
di Francia aveva fatto erigere un’altra montagna, sopra della quale c’era un carro trionfale
tirato da due tigri e una dama con corona reale in testa, rappresentante la Francia.
L’ambasciatore di Spagna fece incendiare “un toro con sopravveste piena tutta di razzi e
soffiani, che appena esplodevano provocavano il movimento del toro finto, che tutto arso
iniziava a correre per la piazza”. Questi esordi indicano come la corte pontificia si
riappropriò di quel carattere mondano e spensierato dell’età precedente alla riforma
protestante, andando contro i dettati del Concilio Tridentino che imponevano sobrietà,
umiltà, equilibrio e soprattutto di essere puri servi di Dio. I cardinali avevano sperato che
Innocenzo X, noto per la sua rigidità di costumi e per la severità amministrativa, avrebbe
ridato un tenore di serietà alla corte e avrebbe purificato la sede apostolica dal nepotismo.
All’inizio del suo pontificato Innocenzo X sembrava illuminato da un’onestà profonda,
infatti mise sotto processo tutti i Barberini, accusandoli di aver dilapidato le finanze dello
stato pontificio, perché il loro zio papa Urbano VIII aveva elargito a loro tanto denaro e
cariche ben retribuite, palesando il nepotismo più sviscerale che la Roma del barocco
avesse mai conosciuto. Nominò segretario di stato non un suo parente bensì il cardinale
Giovanni Giacomo Panciroli. Gli avversari dei Barberini erano molti e potenti, essi li
accusavano di essere degli avidi speculatori, di aver dilapidato il denaro e i beni della
Santa Sede, in particolare il cardinale Antonio Barberini. Il popolo faceva loro i conti in
tasca di tutte le ville, le case, i terreni che possedevano e che avevano a volte preso con la
forza, e molti pretendevano che rispondessero essi stessi della cattiva gestione economica
portata avanti dal precedente papa Urbano VIII, loro parente. I Barberini, sentendosi
minacciati, si misero sotto la protezione del re di Francia, in particolare del cardinale
Mazzarino che era succeduto al cardinale Richelieu. Il Mazzarino non aveva simpatia
verso Innocenzo X, che era stato eletto contro il suo parere e cosa ancora più grave, il
pontefice aveva come segretario di stato il cardinale Giovanni Giacomo Panciroli, nemico
personale del Mazzarino. Un altro punto di attrito era l’ostinazione di papa Innocenzo X a
non voler dare il cappello cardinalizio a Michele, il fratello del Mazzarino. Il cardinale
Antonio Barberini, non sentendosi più sicuro, fuggì in Francia, mentre a Roma Francesco e
Taddeo Barberini issavano sulle loro case lo stemma di Francia a significare che si
mettevano sotto il protettorato di quella nazione. Nel gennaio del 1646 anche i due
Barberini rimasti a Roma scapparono in Francia giacché la commissione nominata per la
revisione dei conti della guerra di Castro aveva posto il sequestro sui beni depositati
presso tutte le banche dei Barberini. Il pontefice, sconcertato per la fuga dei due cardinali
Barberini, dichiarò in concistoro che con quel gesto essi si erano attribuiti implicitamente
le loro responsabilità. I Barberini vennero condannati in contumacia e persero tutte le
cariche che avevano: cardinale camerlengo, al posto di Antonio, fu nominato il cardinale
Sforza, che era il presidente della commissione d’inchiesta. Il cardinale Mazzarino,
massima autorità in Francia si schierò apertamente con i cardinali Barberini esiliati, e la
regina Anna d’Austria scrisse una lettera di forte protesta al papa. Si minacciò di
compensare i Barberini dei danni economici subiti con il sequestro in loro favore dei
proventi del contado di Avignone (e che dopo il congresso di Vienna non tornò più alla
Santa Sede, infatti il papa di quel periodo non oppose la propria firma alla conclusione
dello storico congresso). Il pontefice non aveva interesse a rompere le relazioni
diplomatiche con la Francia, perché sentiva il bisogno del suo appoggio per poter arginare
le nuove eresie dei Giansenisti che si diffondevano in quel regno (Giansenismo di
Giansenio, o Cornelio, Jansen, vescovo di Ypres, 1585-1638, autore dell’Agostinus
pubblicato postumo nel 1640, in cui richiamava e sosteneva dottrine di Sant’Agostino sulla
grazia, il libero arbitrio e la predestinazione la dottrina gianseniana, veniva professata dai
religiosi di Port Royal, tra cui Pascal, Racine e da molti, condannata dalla Chiesa, perché
portatrice di un ideale cristiano purista, rigorista). Non solo, ma Innocenzo X nominò
cardinale il fratello del Mazzarino, come da lui desiderato, ma purtroppo questo suo
familiare morì dopo neanche un anno dalla nomina, il 31 agosto 1648. Il pontefice concesse
il perdono ai Barberini, così il cardinale Francesco e Antonio poterono tornare in Italia.
Anche al loro parente Carlo Barberini fu concessa la “porpora” cardinalizia, mentre al
fratello di quest’ultimo il papa diede in moglie una sua nipote. Papa Innocenzo X
introdusse in Vaticano un nuovo nepotismo, che diede luogo a dicerie, infondate,
sull’onestà del venerando vegliardo. La casata Pamphili doveva molta riconoscenza a
donna Olimpia Maidalchini, perché aveva portato ingenti ricchezze in dote a Pamphilio
Pamphili, fratello maggiore del papa. Donna Olimpia Maidalchini nata a Viterbo, il 26
maggio 1594 e morta il 26 settembre 1657, fu una nobile italiana. Fu una delle protagoniste
della storia di Roma nel XVII; era figlia di un appaltatore viterbese, il capitano Sforza
Maidalchini e di Vittoria Gualterio, patrizia di Orvieto, patrizia romana e nobile di
Viterbo. Il padre, fermamente convinto di lasciare come unico erede il figlio maschio,
aveva destinato le tre figlie femmine al convento, come accadeva normalmente all’epoca
(si pensi alla storia della monaca di Monza, raccontata da Alessandro Manzoni). Olimpia
però non aveva nessunissima intenzione di lasciarsi rinchiudere; affidata ad un direttore
spirituale incaricato di convincerla a prendere il velo, lo accusò di tentata seduzione,
procurando uno scandalo tale che il pover’uomo fu sospeso a divinis e sembrò destinato a
tristissima sorte. Ma siccome questa vicenda le aveva permesso di obbligare il padre a
permetterle di prendere marito, che all’epoca era una spesa non indifferente perché i padri
erano tenuti a dotare le figlie, donna Olimpia non si dimenticò del suo direttore spirituale
e anni dopo, acquistato il potere e divenuta “la papessa” lo fece nominare vescovo.
Olimpia si sposò dunque giovanissima, con Paolo Rini, un ricco borghese che la lasciò
vedova, ricca e libera dopo soli tre anni. La giovane donna, forse di natura ambiziosa e
anche avida, ma certo estremamente volitiva e che aveva ben imparato sulla propria pelle
che l’unica difesa da un mondo fondato sulla prepotenza, l’avidità e l’ipocrisia era
combatterlo con le stesse armi, scelse come secondo marito un romano di famiglia nobile,
ma impoverita, più vecchio di lei di 31 anni, Pamphilio Pamphili, che sposò nel 1612.
Questi la introdusse nella società romana e soprattutto la imparentò con suo fratello
Giovanni Battista, brillante avvocato di curia e futuro papa Innocenzo X. La presenza di
Olimpia ed il suo supporto economico accompagnarono la carriera del cognato Giovanni
Battista Pamphili fino al conclave ed oltre il soglio di San Pietro, e non fu una presenza
discreta: tutta Roma parlava e sparlava di come Donna Olimpia apparisse molto più legata
al cognato che al marito, di come chiunque volesse arrivare all’ecclesiastico Pamphili
dovesse passare attraverso la cognata e di come costassero cari i suoi favori. È certo che,
come era stata la principale artefice dell’elezione a papa del cognato, quando questa fu
conclusa Olimpia divenne la dominatrice indiscussa e assoluta della corte papale e di tutta
Roma. Si disse che la sua beneficenza fosse sempre interessata: che la protezione assicurata
alle cortigiane mascherasse una vera e propria organizzazione del traffico della
prostituzione, e che i comitati caritatevoli per l’assistenza ai pellegrini del Giubileo del
1650 fossero organizzati a scopro di lucro, che il Bernini, allora in disgrazia, avesse
ottenuto la commessa per la fontana dei quattro fiumi di piazza Navona solo per aver fatto
omaggio alla Pimpaccia (come veniva chiamata dal popolo romano Donna Olimpia) di un
modello in argento alto un metro e mezzo del lavoro che voleva eseguire. Rimasta vedova
nel 1639 di Pamphilio (che naturalmente il popolo volle morto avvelenato) ricevette dal
cognato papa il titolo di principessa di San Martino (Viterbo) nel 1645. Si ritirò da Roma
dopo la morte del papa, nel 1655, e morì di peste nelle sue tenute viterbesi di San Martino
al Cimino nel 1657, lasciando in eredità due milioni di scudi. L’aspetto più interessante del
carattere di Donna Olimpia sono gli eccessi che gli furono attribuiti, dovuti soprattutto alla
sua vorace avidità ed ingordigia per il denaro come se fosse un’ossessione, qualità tipica
degli uomini di solito. Molti studiosi affermarono in modo categorico che papa Innocenzo
X fu succube della cognata, la quale ebbe feroci scontri, intrighi e dispetti con la nipote del
papa, Olimpia Aldobrandini. Possiamo affermare con categorica certezza che Donna
Olimpia fu una donna dotata di un talento non comune, ma ambiziosa ed avida di potere;
sull’animo del vecchio pontefice esercitava un ascendente che era piuttosto un dominio.
Gli ambasciatori ed i cardinali si rivolgevano a Donna Olimpia per ottenere quanto
desideravano dal pontefice, tutti la ossequiavano e cercavano di accattivarsela con ricchi
doni, altri addirittura ornavano i loro appartamenti con il suo ritratto, quasi che fosse
quello di una regina. Questa figura femminile concorse non poco a riempire la corte di
vanitose frivolezze e di intrighi che causarono gravi dispiaceri al pontefice e ne
offuscarono la sua immagine presso i posteri.
Il Seicento traboccava dal campo intellettuale e artistico nella vita pubblica e nei costumi:
venne esaltato il concetto del bello estetico, con grave pregiudizio della morale. Anche le
cerimonie sacre risentirono della moda del tempo, nel 1650 i pellegrini accorsi a Roma per
il Giubileo videro l’ambasciatore di Filippo IV recarsi all’udienza pontificia con un seguito
di trecento carrozze e ciascuna carrozza, che era di proporzioni monumentali, era
accompagnata da lacché e da mori dalle sontuose livree e da cavalli bordati condotti a
mano. L’oratoria sacra si trasformò in tronfia esercitazione retorica; i predicatori divennero
istrioni da palcoscenico. Donna Olimpia chiamò nel suo palazzo a sermoneggiare
l’applauditissimo gesuita padre Oliva, ed invitò ad ascoltarlo dame e cavalieri ed essi
accorsero come ad un sollazzo.
Accanto al segretario di stato, cardinale Panciroli, Innocenzo X affiancò il cardinale nipote.
Il papa aveva nominato il figlio di Olimpia, Camillo, generale della Chiesa, comandante
supremo della flotta e governatore di Borgo; ma il nipote preferì diventare cardinale,
perciò depose quelle cariche e il 14 novembre 1644 fu assunto nel Sacro Collegio. Lo zio
riversò allora tutte le sue grazie sul nipote. Nella segreteria di stato sottoscriveva lettere e
dispacci al pari del cardinale segretario e vi lavorava con assiduità, ma dopo un paio
d’anni decise di lasciare la porpora per sposare la giovane vedova del principe Borghese,
Olimpia Aldobrandini. Papa Innocenzo X era contrario, ma alla fine si arrese alle
insistenze del nipote, e nel concistoro del 21 gennaio 1647 accettò le dimissioni di Camillo
e concesse le dispense necessarie perché potesse svolgere le nozze. Il matrimonio fu
celebrato modestamente il 10 febbraio 1647, fuori Roma, nella villa di Torre Nova, e gli
sposi furono costretti a stabilirsi a Frascati, giacché la madre Olimpia che voleva dominare
incontrastata, non voleva vedere la nuora a Roma. Il 7 ottobre di quello stesso anno il papa
nominò cardinale Francesco Maidalchini, suo nipote appena diciassettenne. Il nuovo
cardinale nipote si dimostrò inetto a trattare con gli ambasciatori, allora Innocenzo X, su
suggerimento del cardinale Panciroli, nominò il 19 settembre 1650, al posto di cardinale
nipote, Camillo Astalli, lontano parente di Olimpia. La papessa, quando apprese la notizia,
andò su tutte le furie, il papa offeso la mise alla porta e a poco a poco si riappacificò con
Camillo Pamphili. Il cardinale nipote Astalli ben presto soppiantò nell’influenza sul
pontefice il suo benefattore Panciroli, il quale morì quasi in disgrazia il 3 settembre 1651.
Intanto si trasferiva a Roma anche Olimpia Aldobrandini, essendo rientrata nelle grazie
del papa, incominciarono allora gli intrighi, le invidie, le guerricciole fra le due Olimpie e
il papa Innocenzo X si sentiva molto affranto da questo comportamento, anzi non sapeva
che comportamento tenere, scacciò più volte Donna Olimpia Maidalchini, ma poi, a causa
del suo carattere debole, la riammise alla corte pontificia. Quando Innocenzo X morì, i
parenti fecero incetta di tutti i beni che il pontefice possedeva e misero al sicuro anche i
loro. Il cadavere rimase esposto per tre giorni in San Pietro e nessuno dei parenti si
interessò per la sepoltura, Donna Olimpia addirittura si rifiutò di prendere iniziative per la
bara, adducendo come motivo che lei era una povera vedova. Il cadavere fu quindi portato
in un locale che serviva da magazzino, dove fu vegliato e gli fu preparata una bara dagli
operai che vi erano addetti. Il cardinale Pallavicino rimase sdegnato dal comportamento
dei parenti che da papa Innocenzo X avevano ottenuto tanti benefici, e che per loro aveva
sacrificato l’onore e soprattutto l’onestà. Alla fine il nipote Camillo Pamphili con il figlio
Giambattista provvidero ad una degna sepoltura. Si racconta pure che la Pimpaccia, non
contenta di aver gestito in prima persona potere e ricchezze dello stato pontificio, finì con
il derubare il povero Innocenzo X durante la sua in agonia, delle casse d’oro nascoste sotto
il suo letto. Alcune persone della corte papale sostennero che la Pimpaccia riscuotesse
personalmente le tasse dei bordelli e da buona signora virtuosa lei desse protezione alle
prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni.
Dopo vari scontri politici tra Francia e Spagna si arrivò ad un accordo e venne eletto papa
il cardinale Fabio Chigi, che assunse il nome di Alessandro VII (1655-1667). Sembrava che
con lui la piaga del nepotismo dovesse cessare, poiché proibì ai suoi parenti di lasciare
Siena per venire a stabilirsi a Roma, ma la cosa risultò del tutto inusitata e poteva persino
generare scandalo; si fece capire al pontefice che era una sconvenienza che i parenti del
pontefice vivessero da cittadini privati in Siena, e che questo poteva sembrare un’offesa al
Gran Ducato di Toscana. Anche gli ambasciatori esteri non erano felici, perché non
avrebbero avuto in Roma una persona con la quale trattare confidenzialmente gli affari. Il
padre Oliva, gesuita, giudicò persino peccaminosa l’avversione che il papa mostrava verso
i parenti. Possiamo affermare che nonostante da cardinale fosse stato un dichiarato
riprovatore del nepotismo papale, da papa divenne uno strenuo nepotista. Fatto sta che
nel concistoro del 24 aprile 1656 presentò la questione se si riteneva approvare o meno che
negli affari di curia avesse a servirsi dei suoi parenti. La risposta fu positiva, ed anche i
teologi consultati risposero in modo affermativo. Il cardinale Pallavicino però consigliò di
stabilire in modo chiaro i limiti entro cui dovevano contenersi i parenti, così si
istituzionalizzò formalmente il nepotismo, infatti il pontefice per giustificare questa lercia
pratica pubblicò apposite costituzioni. Così poterono venire a Roma diversi parenti: il
fratello del papa, Mario Chigi, ebbe il generalato della Chiesa e la sorveglianza su Borgo e
sull’Annona, il nipote Flavio (figlio di un altro fratello già defunto) fu avviato nel
noviziato dei Gesuiti, per prepararsi al sacerdozio e al cardinalato, e assunse la porpora il
9 aprile del 1657. L’autorità del cardinale nipote però era molto limitata, e gli affari di stato
venivano gestiti assieme al cardinale Rospigliosi. Agostino, fratello di Flavio, fu nominato
castellano di Sant’Angelo, e nel luglio 1658 avendo egli 23 anni, si impalmò con Maria
Virginia Borghese nella cappella privata del pontefice con una cerimonia riservata e alla
presenza di due soli cardinali. Iniziati i primi passi sulla via del nepotismo, il pontefice si
lasciò trascinare oltre le sue intenzioni. Fondatore della casa principesca fu Agostino
Chigi, sopra il quale incominciò la pioggia di onori, di cariche e di oro da parte dello zio e
di quanti avevano bisogno di ingraziarselo; anche il piccolo nipote Sigismondo ebbe non
pochi favori, la porpora però l’ottenne solo da papa Clemente IX. Al cardinalato il papa
Alessandro elevò invece un suo lontano parente, Antonio Bighi. Il nepotismo del pontefice
andò purtroppo aumentando negli ultimi anni di pontificato, infatti parecchi milioni
arrivarono nelle mani dei nipoti, i quali per di più conducevano una vita mondana e
dispendiosa. Se l’amministrazione statale sotto Alessandro non fu ottima, egli cercò
tuttavia di alleviare le miserie del popolo con elargizioni copiose; sfortunatamente la città
di Roma nel maggio del 1656 venne infestata dalla peste. Il papa dalla Villa di Castel
Gandolfo, dove passava ogni anno un paio di mesi estivi, si affrettò ad accorrere a Roma
per sorvegliare assieme al fratello Mario gli approvvigionamenti e l’assistenza degli
appestati. Durante il primo anno del suo pontificato Alessandro VII ebbe la soddisfazione
di accogliere a Roma la regina Cristina di Svezia, convertita al cattolicesimo. Essa era figlia
di Gustavo Adolfo, il terribile e valente re di Svezia che aveva assestato colpi mortali ai
cattolici di Germania. Dopo la tragica morte del padre, aveva ereditato il trono all’età di
sei anni. La reginetta, come aveva deciso il padre, nel suo testamento venne educata
virilmente come un’amazzone; apprese il latino, il greco, l’italiano, il francese, lo spagnolo,
studiò inoltre la storia, l’arte di governo e la poesia acquistandosi una cultura varia e assai
superiore a quella che una donna del tempo poteva avere. Suo consigliere ed educatore
politico fu Oxenstierna, già intimo collaboratore di Gustavo Adolfo. Dichiarata
maggiorenne a diciotto anni, prese le redini del governo con rara competenza e coronò
l’opera paterna con la pace di Westfalia. Aveva però un carattere strano e bizzarro, e dopo
le delusioni di un breve idillio d’amore col cugino Carlo Gustavo, non volle più sentir
parlare di matrimonio. Ripeteva sempre che voleva andarsene da questo mondo libera
come era nata. L’arte del governare la impegnava molto, i suoi generali tremavano in sua
presenza, e certo, se fosse avvenuta una guerra, lei stessa avrebbe guidato le sue truppe.
Le piaceva molto studiare quando gli impegni statali non l’assorbivano in modo eccessivo.
La corte di Stoccolma si trasformò in un luogo di convegno e incontro degli uomini più
dotti di tutta Europa. La questione religiosa non poteva sfuggire allo spirito vivace e
penetrante di Cristina: tra le persone di estrema cultura che frequentavano la corte c’era
anche Renato Descartes, fervente cattolico, il quale pare abbia non poco influito sull’animo
della regina, non appagata dai dogmi delle chiese protestanti, troppo populisti e
demagogici. Segretamente si mise in relazione con il gesuita Antonio Macedo, addetto
all’ambasciata portoghese, al quale aprì il suo animo e al quale diede il compito di andare
a Roma per ottenere l’invio a Stoccolma di due gesuiti italiani che non destassero sospetti
agli svedesi, cioè precisamente i padri Paolo Casati e Francesco de Malines, i quali, per
convertire la regina, trovarono la scusa che dovevano discutere con lei di matematica e di
scienze. Per quattro anni la regina mostrò sempre di nascosto la sua devozione alla
religione cattolica anche se il popolo svedese alla lunga si accorse della sua conversione e
così la sovrana svedese arrivò alla tremenda decisione di rinunciare al cattolicesimo o alla
corona. Il 16 giugno 1654 nel castello reale di Usala, Cristina rinunciò alla corona in favore
del cugino Carlo Gustavo, riservandosi una rendita vitalizia annua. Fuggì dalla Svezia
indossando abiti maschili e la notte di Natale del 1654 abiurò il protestantesimo a
Bruxelles, nelle mani del padre domenicano Guemes. Francia e Spagna si contesero il
merito della conversione della regina Cristina. Papa Alessandro VII fu talmente entusiasta
che inviò il custode della biblioteca vaticana, Luca Holstenio, a incontrarla; l’inviato
pontificio si vide con l’ex regina di Svezia a Innsbruck, dove la regina era ospite
dell’arciduca. Nella chiesa della reggia, con grande solennità, la regina rinnovò l’abiura e
la professione di fede tridentina fra la più profonda e viva commozione dei presenti.
Cristina decise a stabilirsi a Roma, così appena varcò i confini dello stato pontificio fu
accolta dai due arcivescovi inviati dal pontefice e in tutte le città per le quali passò si
allestirono festose accoglienze, di cui il pontefice assunse tutte le spese. Al santuario di
Loreto, Cristina depose sull’altare della Vergine lo scettro e la corona d’oro massiccio,
adorni di brillanti e di rubini; ad Assisi venerò la tomba di San Francesco. Intanto a Roma
si organizzò un ricevimento solenne e maestoso, la regina vi entrò il 19 dicembre 1655, e fu
ospitata temporaneamente nel palazzo Vaticano, fino al giorno 23 dicembre. Da molto
tempo non si vedeva a Roma una pompa simile; la regina nordica cavalcava su un
magnifico cavallo bianco, e il Collegio Cardinalizio le faceva scorta d’onore. Fu
accompagnata in San Pietro, fece orazione davanti all’altare del Sacramento e alla tomba
degli apostoli, poi passò nel palazzo del Vaticano, dove il pontefice la ricevette in solenne
concistoro ed in seguito le diede il sacramento della Cresima. La regina Cristina pose la
sua dimora nel palazzo Farnese che il duca di Parma le aveva messo a disposizione. Ebbe
frequenti udienze dal pontefice, il quale era felice di stare con lei trovandola molto erudita
e ben radicata nella passione religiosa. Molti speravano che la conversione della ex
sovrana scandinava provocasse molte conversioni fra i protestanti, infatti il conte palatino
Carlo Augusto di Sulzbach, abbandonò la sua fede protestante e divenne cattolico. Il
comportamento della regina Cristina (che aveva aggiunto il nome di Alessandra, su
permesso del papa) però fu caratterizzato da stranezze per il suo modo di vestire e per la
vita libertina che conduceva a Roma, quindi se la sua conversione aveva potuto produrre
proseliti alla religione cattolica, con questo comportamento licenzioso provocò l’effetto
opposto. Ella si giustificava dicendo che la fede è interiore e non va misurata
esteriormente, cioè sull’assiduità delle pratiche religiose. Cristina di Svezia divenne la
regina delle feste del gran mondo romano; era ricercata e acclamata, dunque la sua vanità
non conobbe limiti, l’alto clero e la nobiltà organizzò in suo onore fastosi ricevimenti.
Tutte le manifestazioni del carnevale romano del 1656 furono organizzate in onore suo e le
famiglie della nobiltà gareggiavano a chi allestiva i carri e le rappresentazioni più
spettacolari a costo di spendere interi patrimoni. Anche il cardinale nipote Agostino Chigi
preferì seguire l’andazzo mondano, anche se il carnevale romano provocava gravi
disordini morali. Quando Cristina s’intromise in politica, perché assieme al cardinale
Mazzarino voleva portare via alla Spagna il Napoletano, fu tradita dal suo scudiere Gian
Rinaldo Monaldeschi, che vendeva i suoi segreti agli spagnoli, ma quando lei lo scoprì
diede ordine a sangue freddo di farlo uccidere. Il pontefice, già irritato con lei per la vita
dispendiosa e frivola che conduceva a Roma, anche chiedendo spesso soldi alla Santa
Sede, per non rovinare i rapporti con la Spagna cercò di contenere l’irruenta e vivace
regina, che nel frattempo aveva raccolto soldati per l’impresa di Napoli, per fortuna il
cardinale Decio Azzolini fece da paciere fra la regina Cristina e il pontefice. Con il passare
degli anni la regina divenne meno eccentrica e stabilì la sua residenza a palazzo Riario alla
Lungara, si dedicò nuovamente e assiduamente alle lettere e alle arte, tanto che il suo
palazzo divenne un museo e una biblioteca. Papa Alessandro VII andò a visitarla il 19
marzo 1663 e rimase colpito dai grandi tesori artistici che la regina aveva raccolto,
possiamo dire che la regina nordica trovò quelle soddisfazioni che nella vita politica non
poté trovare, ed acquistò così fama e lustro indiscutibili. I frequentatori dei convegni
letterari della regina Cristina fondarono, un anno dopo la morte della loro grande
mecenate, la celebre Accademia dell’Arcadia (1691).
I sessantaquattro cardinali partecipanti al conclave che iniziò il 2 giugno 1667 erano divisi
in due grandi partiti, l’uno dei cardinali di Alessandro VII, con a capo Flavio Chigi, e
l’altro di quelli del defunto papa Urbano VIII con a capo Antonio Barberini, e in due
piccoli partiti, lo spagnolo e il francese. Arbitri della situazione erano i dieci cardinali dello
Squadrone Volante manovrato dall’Azzolini e dall’Imperatore. Fu appunto l’Azzolini che
indusse tutto il Sacro Collegio a pronunciarsi, dopo diciotto giorni di conclave, in favore di
Giulio Rospigliosi, che, eletto il 20 giugno, prese il nome di Clemente IX (1667-1669) e per
sua insegna scelse un pellicano con l’epigrafe “Alis non sibi clemens”, “Clemente per gli
altri e non per sé stesso”. Nato a Pistoia da antica e nobile famiglia il 28 gennaio 1600,
aveva studiato a Roma nel collegio dei gesuiti e si era laureato in filosofia e teologia presso
l’università di Pisa, nella quale ebbe anche una cattedra. Scienziato e poeta, entrò nella
diplomazia pontificia coprendo diversi uffici e incarichi, fu segretario di papa Alessandro
VII e nel 1657 da questi fu elevato alla porpora cardinalizia. Papa Clemente IX non si
accanì verso i parenti del defunto pontefice privandoli degli uffici che occupavano, si
limitò a licenziare alcuni alti impiegati, mettendo al loro posto persone di sua fiducia.
Molti suoi paesani pistoiesi, sperando di ricevere qualche incarico, accorsero a Roma, ma
furono profondamente delusi. Il cardinale Decio Azzolini fu nominato segretario di stato e
fu affiancato dal cardinale nipote Giacomo Rospigliosi, che ricevette la porpora
cardinalizia il 12 dicembre 1667. La direzione degli affari rimase al cardinale Azzolini e le
rendite assegnate al cardinale nipote furono modeste. Clemente IX, per quanto concerne i
parenti, si attenne ai consigli che il cardinale Pallavicino, in letto di morte, aveva dato ai
cardinali che entravano in conclave, ovvero un rigido monito da dotto gesuita di prendere
in primis provvedimenti preventivi contro il nepotismo dei papi futuri. Più precisamente
chiedeva caldamente che ai parenti non venissero dati titoli nobiliari (principi, duchi,
marchesi, conti) e che tutto il denaro che si ricavava dallo stato, dalla vendita degli uffici e
da altri diritti della Sede Apostolica fosse impiegato per la cura delle anime. I suoi
congiunti di Pistoia poterono venire a Roma, ma fu loro negato persino il titolo allora
comunissimo di “don”. Il fratello del papa, Camillo, nel settembre 1667 divenne generale
della Chiesa e suo figlio Tommaso castellano di Sant’Angelo, ebbero tuttavia soltanto le
entrate che questi uffici importavano. I familiari del papa non solo non poterono
accumulare nuove ricchezze, ma spesero i loro denari, infatti, con le proprie sostanze
economiche costruirono a Roma una casa con un bellissimo teatro, nel quale si
rappresentavano opere religiose, si dice anche che l’autore delle opere fosse il papa stesso.
Papa Clemente IX non fu contrario ai divertimenti carnevaleschi, purché si svolgessero
con onestà, abolì quindi la corsa degli ebrei, che era una reminescenza di barbaria
medievale, un ignominioso balzello a cui dovevano sottostare gli ebrei di Roma per
sollazzo della città, nei giorni di carnevale.
Il successore di Clemente IX fu il cardinale Emilio Altieri, che all’epoca della sua elezione
aveva ottant’anni. Egli supplicò il conclave con le lacrime agli occhi affinché non lo
eleggessero papa, ma il 28 aprile 1670, con soave violenza, fu condotto nella cappella
Sistina, dove i cardinali lo elessero ad unanimità ed assunse il nome di Clemente X (16701676), in onore del suo predecessore, che l’aveva creato cardinale. Clemente X era una
persona umile e buona di cuore e voleva imitare il suo predecessore, si avvalse dell’aiuto
del cardinale Paluzzi degli Albertoni, che era un suo lontano parente, per occuparsi dei
compiti che non era in grado di svolgere a causa della sua avanzata età. I membri della sua
diretta famiglia erano tutti morti, quindi alla sua dipartita il casato degli Altieri si sarebbe
estinto, così concesse al suo lontano parente e a suo nipote Gaspare di aggiungere al
cognome Paluzzi quello di Altieri e con esso il diritto di ereditare i beni. Il cardinale nipote
Paluzzi Altieri si mostrò molto abile negli affari ed ebbe il sopravvento nel governo, sopra
il segretario di stato. Quanto più il vecchio pontefice si indeboliva, sia fisicamente che
mentalmente, tanto più il cardinale nipote aumentava il suo potere e favoriva i parenti. Per
compiacere lo zio papa, il cardinale Paluzzi Altieri fece laute elemosine ai diseredati e
cercò di mitigare, se non annullare, certe imposte nei confronti dei ceti più umili.
Alla morte di papa Clemente X venne eletto il cardinale Benedetto Odescalchi, che era
soprannominato “il Carlo Borromeo del collegio cardinalizio”, e che prese il nome di
Innocenzo XI, in onore di papa Innocenzo X che l’aveva creato cardinale nel 1646.
Laureato in giurisprudenza a Genova, possedeva una grande cultura e forte senso morale.
Il suo primo obiettivo fu quello di liberare la Sede Apostolica dal cancro del nepotismo e
prima di emanare delle leggi in proposito (la cui elaborazione rinviò negli ultimi anni del
suo pontificato), intervenne personalmente dando un esempio pratico tale che da molto
tempo non si vedeva. Diede una nuova organizzazione della segreteria di stato e l’affidò al
suo amico cardinale Alderano Cibo, persona rispettata presso tutti i cardinali. Eliminò la
posizione del cardinale nipote, anzi disse a suo nipote Livio Odescalchi (che era l’unico
figlio di suo fratello Carlo) di continuare gli studi nel collegio dei gesuiti e gli proibì di
accettare doni ed onorificenze solo per il fatto di essere nipote del papa. Innocenzo XI, per
non pesare pesantemente sulle già esauste finanze vaticane, utilizzò il proprio personale
patrimonio per mantenersi durante il pontificato, gesto veramente nobile per un pontefice,
specialmente in quei tempi. Rifiutò le protezioni imperiali che l’ambasciatore voleva dare
ai membri della casata Odescalchi, dicendo che lui avendo assunto la guida spirituale e
temporale della Chiesa cattolica non aveva più famiglia e che l’unica certezza per lui era
Dio. Si prodigò alacremente per combattere gli eccessi e gli scandali che caratterizzavano
la corte e la società romana, cercando di estirpare la corruzione che era molto diffusa e
radicata. Emanò leggi molto rigide contro i profanatori del tempio, contro le mode
femminili, contro le religiose che avessero passione per le musiche profane; durante un
concistoro, invocando l’umiltà di Cristo, supplicò i propri cardinali di abbandonare il fasto
delle livree e delle carrozze, rinunciando al lusso, che mal si addiceva al decoro
ecclesiastico. Vietò la vendita delle cariche religiose, e neppure quelle civili potevano
essere cedute, sciolse il collegio dei ventiquattro segretari che era stato creato da Callisto
III. Il 15 ottobre 1678 pubblicò una costituzione con la quale si rivedeva la procedura per le
canonizzazioni, in modo da ridurre sensibilmente i costi. Ritoccò, con una serie di leggi,
dette innocentine, le tariffe dei tribunali al fine di eliminare ogni forma di venalità,
alleggerì il popolo di gravosi balzelli e prese di mira ogni forma di usura. La regina
Cristina di Svezia invano intervenne per ottenere dal severo pontefice attenuazioni di
pene, in tempo di carnevale, per i teatri e per i pubblici spettacoli. I cantori e i musi degli
spettacoli profani furono esclusi dalle sacre funzioni, inoltre fu vietato l’accesso al palazzo
pontificio a tutte le donne eccezione fatta per le sole sovrane. La nobiltà di fronte a tale
rigore rimase scandalizzata e allibita, ma papa Innocenzo XI lasciò da parte le chiacchiere e
proseguì per la sua strada di purificazione materiale della Chiesa romana. Durante il suo
pontificato il gran Visir Kara Mustafà, con un esercito di giannizzeri e di duecentomila
uomini nel luglio 1683 attaccò Vienna, alla difesa della quale l’imperatore Leopoldo aveva
lasciato il conte Ruggero di Stahrenberg, il quale era pronto a morire piuttosto che a
cedere. Papa Innocenzo XI invocò l’aiuto dei sovrani cristiani per evitare che i turchi
dilagassero nel centro Europa, allora accorsero il re polacco Sobreski e il duca Carlo di
Lorena. Sembrava che Vienna dovesse soccombere, ma il provvidenziale aiuto dei principi
cristiani la salvò, grazie anche all’inviato particolare del papa, il cappuccino Marco
d’Aviano, che riuscì ad appianare le rivalità che erano sorte fra i vari eserciti cristiani,
mettendo così in fuga il barbaro esercito turco che lasciò sul campo ventimila uomini, tutta
l’artiglieria e le ricchezze che avevano depredato.
Il 6 ottobre 1689 venne eletto il cardinale veneziano Pietro Ottoboni che assunse il nome di
Alessandro VIII (1689-1691). Con lui tornò in auge il più becero nepotismo, bastarono
ventisei mesi di regno per arricchire enormemente i suoi nipoti, possiamo affermare che
lui forse fu l’unico papa palesemente nepotista. Il papa Alessandro VIII fece venire a Roma
molti suoi parenti, i quali ottennero subito uffici e ricchezze. Creò generale di Santa Chiesa
il fratello Antonio Ottoboni, e nominò cardinale nipote il figlio di suo fratello, Pietro.
Insomma ripristinò quella ignobile carica che il suo predecessore aveva abolito. Il
cardinale nipote Pietro Ottoboni aveva un’entrata annua di settantamila scudi,
insufficienti a mantenere il suo tenore di vita, essendo un mecenate spendaccione,
gaudente ed astro del gran mondo romano, egli infatti viveva alla francese e consumava
patrimoni nei banchetti e negli spettacoli teatrali. Marco Ottoboni, figlio di un altro fratello
del pontefice, ebbe la soprintendenza delle fortezze e delle galee pontificie, anche se era
gobbo e zoppo, non solo, ma il buon zio papa gli comperò anche per centosettantamila
scudi il Ducato di Fiano, e lo fece sposare con Tarquinia Colonna, pronipote del cardinale
Altieri. Papa Alessandro VIII soleva ripetere ai suoi familiari che doveva arricchirli più
velocemente possibile, perché era anziano (aveva infatti ottant’anni passati) e la sua ora
stava per arrivare; ebbe tuttavia il tempo per provare l’amara ingratitudine da parte dei
parenti, cosa del resto che capitò forse a tutti i papi nepotisti, come se fosse un castigo
divino. Alessandro VIII si conquistò la gratitudine della sua città natale, Venezia, per i
cospicui sussidi in denaro che le concedette e per gli aiuti militari (sette galee e duemila
fanti) che inviò contro i turchi nella campagna di Albania. Acquistò la biblioteca della
defunta regina Cristina di Svezia, i cui libri andarono ad arricchire la Biblioteca Vaticana.
Sotto il suo pontificato diminuì l’imposta sul macinato e concesse ai contadini la libertà di
commerciare i grani.
Papa Innocenzo XII (1691-1700) nato Antonio Pignatelli di Spinazzola fu il 242° papa della
Chiesa cattolica. Nato a Spinazzola di Bari da Francesco, quarto marchese di Spinazzola e
da Porzia Carafa principessa di Minervino, figlia di Fabrizio Carafa duca di Andria, era
stato battezzato nella chiesa di San Giovanni Battista di Regina di Latterico (Cosenza).
Venne educato nel collegio dei gesuiti di Roma, a vent’anni divenne un funzionario della
corte di papa Urbano VIII, sotto i papi successivi servì come vicedelegato di Urbino e poi
come governatore di Perugia, divenne quindi inquisitore nell’isola di Malta nel 1646, due
anni dopo fu governatore di Viterbo, nel 1652 nunzio apostolico a Firenze, nel 1660 stessa
carica in Polonia e quindi nel 1668 nella prestigiosa città di Vienna. Nel 1671 ebbe
l’incarico di guidare la diocesi di Lecce, ma per soli due anni in quanto fu incaricato dal
segretario della Congregazione dei vescovi e dei regolari. Il primo settembre 1681 fu
nominato cardinale; l’anno dopo arcivescovo di Faenza e legato di Bologna; nel 1687
arcivescovo di Napoli. Alla morte di Alessandro VIII avvenuta il primo febbraio 1681 il
conclave si protrasse per cinque mesi, fu il più lungo conclave del XVII secolo e il popolo
romano manifestò il proprio dissenso con forti tumulti. Alla fine il nuovo papa fu eletto il
12 luglio 1691, frutto del compromesso tra i cardinali francesi e quelli del Sacro Romano
Impero. Al momento della sua elezione Innocenzo XII aveva settantasei anni portati bene e
nonostante l’età avanzata era molto energico e determinato. Il suo primo pensiero fu di
condurre a termine la riforma antinepotista che Innocenzo XI aveva iniziato e che il
successore (papa Alessandro VIII) aveva, con scandalo degli zelanti, interrotto. Il nome di
Innocenzo XII sarà per sempre ricordato con onore per la costituzione Romanun Decet
Pontificem, che fu promulgata il 13 luglio 1692. Il pontefice aveva interessato alla questione
teologi e giuristi, cardinali e principi; ordinò inchieste, richieste, suggerimenti e proposte e
alla fine affidò al cardinale Giovanni Francesco Albani il compito di compilare la bolla. Per
incarico ancora del pontefice, Celestino Sfondrati componeva l’opuscolo: Nepotismus
theologice expensus, quando nepotismus sub Innocentio XII abolitus fuit, per mettere in risalto,
con gli argomenti offerti dalla storia, i devastanti effetti provocati dallo smodato amore dei
pontefici verso i parenti. Il papa Innocenzo XII quindi diede disposizioni di ordine pratico
e concreto, prescrisse ai pontefici di astenersi dal conferire uffici, cariche e beni della
Chiesa ai propri parenti, sotto qualsiasi titolo. Sostenne che, se i parenti sono in condizioni
misere, è lecito soccorrerli in misura eguale come sarebbe permesso fare con gli estranei. I
titoli di generale delle galere, di generale della Chiesa, e di gonfaloniere, soliti a conferirsi
ai parenti laici, furono aboliti come inutili: i parenti ecclesiastici non avrebbero potuto
ottenere benefici e pensioni dalla Chiesa che eccedessero i dodicimila scudi annui. La bolla
doveva venire giurata in ogni conclave da tutti i cardinali e dal papa appena eletto.
Innocenzo XII prese una posizione decisa contro il nepotismo che troppo e troppo a lungo
era stato uno dei grandi scandali della Chiesa; la bolla Romanum decet pontificiem proibiva
ai papi, in qualsiasi momento, di concedere proprietà, incarichi o rendite a qualsiasi
parente; inoltre, solo un parente poteva essere innalzato al cardinalato. In tutto il suo
pontificato rimase fedele a questo, nessun suo familiare ebbe incarichi in Vaticano e negò
perfino la porpora del cardinalato all’Arcivescovo di Taranto, perché suo cugino. Allo
stesso tempo cercò di contrastare le pratiche simoniache della Camera Apostolica, e a
questo scopo introdusse nella sua corte uno stile di vita più semplice e più economico. Egli
stesso disse: “i poveri sono i miei nipoti”, paragonando la sua beneficenza pubblica al
nepotismo di molti dei suoi predecessori, infatti il primo a sottoscriverla fu il papa e poi i
trentacinque cardinali che si trovavano allora presenti a Roma. Tutto il mondo cattolico
accolse con entusiasmo la bolla che poneva fine a tanti disordini, e che palesava la vitalità
della Chiesa di Cristo, che sapeva purificarsi ed eliminare il demonio della corruzione, e fu
accolta con grande approvazione anche dai protestanti. Solo a Roma, la cui vita mondana
si animava grazie al nepotismo papale, questi provvedimenti furono accolti male. Si deve
riconoscere che molti casati romani dovevano la loro ricchezza alla fortuna di avere avuto
un papa della loro parentela, quindi i romani e soprattutto quelli che facevano parte
dell’aristocrazia tentarono di ridicolizzarlo chiamando il pontefice “Pulcinella”, dato che
era originario di Napoli. Il venerando pontefice concentrò tutta la sua energia a riformare
spiritualmente e materialmente la Chiesa; dopo una visita del rigido cardinale Colloredo al
clero romano impose l’obbligo di portare a Roma la veste talare e di fare gli esercizi
spirituali due volte all’anno, ai canonici inoltre imposte l’obbligo della residenza. Nel 1694
creò la Congregazione per la disciplina e la riforma degli ordini regolari con lo scopo di
riformare verso una maggiore spiritualità la Chiesa. Siccome il Palazzo Laterano ormai
non era più abitato dai papi, cercò di mettere i poveri e gli inabili al lavoro perché la città
sacra della cristianità era uno spettacolo molto brutto, quindi in questo edificio furono
ospitate le donne, mentre gli uomini trovarono riparo nell’ospizio di Ripa. Tutti i
diseredati di Roma acclamarono questo papa che fu talmente virtuoso nell’aiutare i
bisognosi da consumare il tesoro pontificio, e risparmiando anche rigorosamente sulla sua
mensa. Per migliorare l’amministrazione della giustizia fece erigere il Forum Innocentianum
(Montecitorio). Questo grande papa, forse il migliore che in quel periodo storico la Chiesa
abbia mai avuto, morì il 27 settembre 1700, e per sua volontà fu sepolto in un modesto
sarcofago.
CONCLUSIONI
Anche dopo la bolla Romanum decet pontificiem, solo tre degli otto papi del XVIII secolo non
nominarono cardinale un nipote o un fratello, a quanto sembra il collegio cardinalizio
desiderava che fosse seguito il criterio dei nipoti rispetto a quello dei favoriti, dato che lo
considerava come alternativo, anche se dobbiamo ammettere che l’influenza del cardinale
nipote scemò molto rapidamente nel XVIII secolo, in concomitanza con la crescita di quella
del cardinale segretario di Stato. La Chiesa di papa Benedetto XIII venne dipinta dallo
storico Eamon Duffy come “con tutti i mali del nepotismo”, però la figura del cardinale
nipote era scomparsa. Ricordiamo solamente Neri Corsini, cardinale nipote di papa
Clemente XII (1730-1740), che fu forse il più influente cardinale nipote del XVIII secolo,
anche a causa dell’età avanzata e ai problemi di salute dello zio (era cieco). Papa Benedetto
XIV (1740-1758), successore di Clemente XII, venne giudicato positivamente dagli storici,
perché scelse in modo categorico la collaborazione del suo segretario di Stato, il cardinale
Silvio Valenti Gonzaga. Romoaldo Braschi Onesti, nipote di papa Pio VI (1775-1799), fu il
penultimo cardinale nipote. Dopo il vivace conclave del 1800, papa Pio VII (1800-1823)
abbandonò l’istituzione e al tempo stesso la consuetudine storica del cardinale nipote e
affidò la gestione del governo nelle mani del segretario di stato, Ercole Consalvi. Durante
il XIX secolo, solo un nipote di un papa, Gabriel della Genga Sermattei, venne elevato alla
porpora cardinalizia, questo avvenne nel concistoro del primo febbraio 1836, ed egli non
fu nominato cardinale dallo zio, Leone XII, bensì da papa Gregorio XVI.
Sebbene l’istituzionalizzazione del nepotismo fosse decaduta nel XVIII secolo, il ricorso ai
familiari nell’amministrazione pontificia perdurò fino al XX secolo, pure se questa prassi
divenne gradualmente assai rara. Seguendo l’esempio di Pio VI, Leone XIII (che fece
cardinale suo fratello Giuseppe Pecci, il 12 maggio 1879) e Pio XII (1939-1958) indebolirono
la burocrazia curiale in favore di un “governo parallelo”, in cui sovente figuravano loro
parenti. La perdita del potere temporale sullo stato pontificio (de facto il 20 settembre 1870
con la presa di Roma da parte del Regno d’Italia e de jure nel febbraio del 1929 con la
firma dei Patti Lateranensi) annullò inoltre le caratteristiche strutturali che avevano
condizionato in modo palese le politiche familiari dei papi del passato. In questo libro ho
cercato di ripercorrere attraverso i secoli il perverso male del nepotismo, senza tralasciare
qualche nozione storica sulla storia dei papi e l’affermarsi della riforma protestante, con la
conseguente risposta della Chiesa attraverso la Controriforma.
APPENDICE
Per manifestare il mio profondo dolore al Santo Padre dedico queste composizioni al
defunto e grande papa Giovanni Paolo II, l’unico pontefice che ho amato dal profondo del
cuore, ringrazio mia moglie Silvana Patrizia Iliev d’Amato (nata a Utrecht, Paesi Bassi),
per gli scritti che ha dedicato a questo santo papa, condividendo con me l’accentuata
costernazione per la sua scomparsa.
Caro Padre Santo che ci hai abbandonato in questa vita terrena lasciandoci smarriti e addolorati,
privati di quel grande amore che solo tu come Gesù ci hai sempre saputo dare. Tu solo hai saputo
insegnarci l’amore più grande, le sofferenze e il perdono ed il tuo ricordo ci rimarrà per sempre
impresso. La tua semplicità ha fatto sì che noi ti potessimo sentire vicino come un padre o una
madre che ama e perdona sempre i suoi figli. Sei stato l’emblema di Cristo venuto tra noi per
donarci quell’amore di cui abbiamo tanto bisogno e che ora ci mancherà. Grazie.
Che Dio ti ricompensi nell’alto dei Cieli, per il bene che ti sei meritato e ci consoli col pensiero che
dall’alto tu possa vedere quanto l’intero mondo ti ha amato.
Addio Giovanni Paolo II
Silvana Patrizia Iliev d’Amato
O adoratissimo Papa! Che dopo una lunga vita terrena hai raggiunto il tuo Signore, prega per noi
misericordiosi mortali rimasti su questa Terra a rimpiangerti. Dinanzi al tuo cospetto ci siamo
sentiti piccoli dopo la tua morte, perché finalmente abbiamo appreso il vero significato del tuo vivere
e del tuo insegnamento. Accanto alla moralità che ci hai insegnato, ci hai insegnato tanta
spiritualità, di cui forse spesso oggi ci dimentichiamo. Ma soprattutto tu ti sei trasformato prima
che in un pontefice, un uomo, dandoci prova di una persona di grande umanità e nonostante questo
una grande devozione a Dio. Grazie per la tua umiltà. Grazie per averti sentito vicino. Grazie per
averci fatto capire il sacrificio di Gesù che a sua volta è stato anche il tuo. Ti ricorderemo sempre
con amore e profonda stima. Il tuo ricordo rimarrà indelebile.
All’amato Papa Woytila
Silvana Patrizia Iliev d’Amato
TESTI CONSULTATI
Montanelli – Gervaso, Storia d’Italia (L’età delle guerre di religione) – Fabbri Editori 1994-1996
Giulio Ubertazzi – Lutero – 1989 – Fratelli Melita Editori
Roberto d’Amato, Concezione politica italiana – stampato in Gorizia, settembre 2005
Roberto d’Amato, L’arte amatoria e il pensiero politico, secondo il divino marchese Donatine
Alphonse Francoise de Sade – stampato in Gorizia, 25 agosto 2004
Roberto d’Amato, L’ideologia politica della destra – stampato in Gorizia 23 dicembre 2004
Roberto d’Amato, Concezione politica di Machiavelli – stampato in Gorizia settembre 2005 di
Roberto d’Amato
Abertone A., Storia delle dottrine politiche, Milano, Edizioni di Comunità, 1990
Bobbio N., Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma – Bari, Laterza 1997
Sabine, Storia delle dottrine politiche, Milano, Universale E.T.A.S., via Mecenate 87/6
Duffy Eamon, La grande storia dei papi, santi, peccatori, vicari di Cristo, di, Mondatori 2001
Zanlari Andrea, Le origini del potere farnesiano: nepotismo e mecenatismo nella Roma del
cinquecento (1995)
Cronologia dei papi da San Pietro a Giovanni Paolo II: duemila anni di storia della Chiesa. Anno
1999 Editore Vallardi
Teodori Marco, I parenti del papa, editore Cedam, Padova 2001
Antonio Menniti Ippolito, Il tramonto della curia nepotista. Papi, nipoti e burocrazia curiale tra
il XVI EXVII secolo, Viella Editore
La Boa Juan Jaca Bock, La storia dei papi tra il Regno di Dio e le passioni terrene, editore,
traduttore Tamburini
Zapperi Roberto, Paolo III e i suoi nipoti nepotismo e ritratto di stato. Autore Chiomenti
Vassalli, Donata
Donna Olimpia del nepotismo nel Seicento, Milano, Mursia 1980
Bernasconi Marzio, Il cuore irrequieto dei papi: percezione e valutazione ideologica del nepotismo
sulla base dei dibattiti curiali del 17 secolo
Carocci Sandro, Il nepotismo nel Medioevo: papi, cardinali e famiglie nobili, Viella Editore 1999
J. Gelmi, I papi, Rizzoli editore 1987
Il sottoscritto d’Amato Roberto, nato a Bra (CN) il 27/07/1963, residente in Friuli Venezia
Giulia dal 1967 presta la propria opera lavorativa nelle scuole dal 7 settembre 1992. Ha
pubblicato i seguenti fascicoli:
L’ideologia politica della destra, Gorizia 2004
La rivoluzione francese e le sue cause, Gorizia 2004
Tecniche di seduzione e brevi cenni storici, Gorizia, maggio 2004
L’arte amatoria e il pensiero politico secondo il divino marchese Donatien Alphonse
Francois de Sade, Gorizia, settembre 2004
Concezione politica italiana, Gorizia settembre 2005
Concezione politica di Machiavelli, Gorizia settembre 2005
Hitler e il suo rapporto con il nazismo, Gorizia settembre 2005
Storia del libertinismo, Gorizia dicembre 2006
Concezione politica di Robespierre, Gorizia dicembre 2006
Mussolini e la Repubblica Sociale (ultimo atto), Gorizia luglio 2007
Adesso ho il sito Interne dove qualsiasi persona può scaricare gratuitamente i miei
fascicoli: damatoroberto.altervista.org.