Ariberto Acerbi, Francisco Fernández Labastida, Gennaro Luise (a cura di) La filosofia come paideia Contributi sul ruolo educativo degli studi filosofici Armando editore AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 3 11/11/16 14.44 Sommario Presentazione Parte prima: La paideia nella storia della filosofia. Alcuni modelli esemplari Capitolo primo Platone: filosofia come educazione del desiderio di Franco Trabattoni 7 11 13 Capitolo secondo La dimensione comunitaria della formazione filosofica 27 secondo Aristotele di David Torrijos-Castrillejo Capitolo terzo Il senso della filosofia nella prospettiva di Clemente Alessandrino di Juan José Sanguineti Capitolo quarto Quale filosofia per quale paideia? La risposta di Tommaso d’Aquino di Antonio Petagine Capitolo quinto Università in conflitto e funzione pubblica dell’insegnamento in Kant di Gennaro Luise Capitolo sesto I principi della paideia secondo Rosmini di Paolo Pagani 35 51 69 81 Capitolo settimo John Henry Newman: il valore educativo dell’“autentica 105 filosofia” e il suo rapporto con la fede di Giuseppe Bonvegna Capitolo ottavo C.S. Peirce: la vita della scienza e il desiderio di apprendere di Jaime Nubiola AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 5 115 11/11/16 14.44 Sommario Capitolo nono Dare vita al pensiero, dare pensiero alla vita. L’educazione filosofica tra Hannah Arendt e María Zambrano di Maria Teresa Russo 131 Capitolo decimo La formazione (Bildung) nel pensiero di H.-G. Gadamer: 141 tra esperienza e tradizione di Francisco Fernández Labastida Parte seconda: La paidea in esercizio. Idee, problemi, metodi Capitolo primo L’analisi filosofica sulle metafore dell’educazione, tra logica e retorica di María G. Amilburu 161 163 Capitolo secondo Filosofia, educazione e modernità. Una riflessione 173 critica sul passato per orientare nel presente di Giuseppe Mari Capitolo terzo La filosofia di fronte alla questione delle competenze di Alessandra Modugno Capitolo quarto Ontologia della filosofia e docenza di Giacomo Samek Lodovici Capitolo quinto Insegnare ad argomentare e a dibattere di Adelino Cattani Capitolo sesto Pratica professionale, valutazione e management. Il ruolo della riflessività nell’azione cooperativa di Paolo Monti Capitolo settimo 185 195 205 225 Economia e vita professionale. Il contributo della riflessione etico-filosofica di Benedetta Giovanola 235 Nota sugli autori 245 Indice dei nomi 251 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 6 11/11/16 14.44 Presentazione di Ariberto Acerbi, Francisco Fernández Labastida, Gennaro Luise La filosofia è considerata spesso uno sterile esercizio di elucubrazioni fini a se stesse. Ma a chi frequenti le librerie per curiosare tra le pubblicazioni recenti può capitare di rimanere colpito dal numero di proposte rubricabili sotto il genere “introduzione alla filosofia”. Il dato è confermabile attraverso una rapida scorsa alle riviste specialistiche: vi abbondano contributi su di una questione elementare: che cos’è la filosofia? C’è dunque un’attesa diffusa verso questa scienza, verso questo discorso antico iniziato dai greci. È, in fondo, un’attesa di saggezza che, come sembra, le altre forme della cultura non sanno soddisfare; il che non è sorprendente. Molti di quanti si dedicano alla filosofia e vi sono professionalmente impegnati, nella scuola e nell’università, talora si sentono spinti a riflettere sulla propria disciplina per capire in qual modo possano rispondere a quell’attesa, che – come si spera – è anche la loro. Com’è poi tipico del mestiere, essi si chiedono se davvero possono rispondervi e fino a che punto. Per incoraggiarli in questo esame, potremmo formulare queste domande tra le altre che sarebbe facile raccogliere. 1) C’è un ideale che caratterizza la filosofia nel suo insieme? È un idea­le ancora valido e attuabile? 2) Lo studio della filosofia può davvero contribuire a guadagnare una visione della realtà piú chiara e comprensiva rispetto a quella offerta dal senso comune e dalle scienze sperimentali? 3) La filosofia occidentale ha le risorse per vagliare criticamente la varietà delle culture, degli stili di vita e delle religioni, quale oggi ci si presenta? 4) In qual modo conviene leggere i classici della filosofia, per trarne una verità o un orientamento sul presente? 5) La fede religiosa è una fonte rilevante della riflessione filosofica? Se sì, in qual modo v’interviene? 7 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 7 11/11/16 14.44 Presentazione Questi quesiti non devono rimanere il tema di un mero esercizio speculativo: a seconda delle risposte che vengono date ad essi possono seguirne degli effetti apprezzabili nella vita sociale e prima ancora nella vita di ogni singola persona che vi si sia cimentata. E già il mettersi a riflettere su queste questioni comporta un impegno dei docenti verso i destinatari immediati del loro insegnamento: gli studenti. Infatti, con quei quesiti ultimamente ci si chiede: qual è il ruolo educativo della filosofia? Non è forse essa (pur sempre con altre discipline) portatrice dei valori più cari dell’umanità, che è d’importanza vitale apprezzare e sapere trasmettere alle nuove generazioni? Al riguardo, però, si leva un’obiezione: la filosofia non è forse una scienza teorica, dotata anch’essa come le altre di un notevole tecnicismo? Non se ne fraintende la pratica effettiva o la più autentica realtà volendole affidare una diretta responsabilità educativa? Non si piega così forzosamente il discorso filosofico al genere edificante o divulgativo? Come potrebbe esservi preservato ancora l’intimo pungolo “scettico”, cioè il suo tipico metodo inquisitivo e dialettico? Il problema da risolvere è, dunque, il difficile equilibrio tra la struttura teoretica e la funzione formativa della filosofia. A chi raccolga le esigenze espresse nelle posizioni appena descritte e si chieda quale strada scegliere potrebbe venire in mente la risposta che Aristotele offre in uno scritto esortativo, che pure è un sunto della sua filosofia, il Protreptico: la filosofia non si comprende e non si giustifica altrimenti che praticandola fino in fondo, poiché essa assume e dà forma a quello sforzo innato dell’uomo di fare chiarezza su se stesso. Dall’esigenza umana di autocomprensione procede la radicalità d’indagine che, appunto, è caratteristica del logos filosofico. Perciò, la soluzione del problema sopra formulato non può venire solo dall’apprendimento di una dottrina o dall’applicazione di un metodo, ma col cercare di ripercorrere personalmente i passi di quegli autori che, per la loro magnanimità e intelligenza, sono riconosciuti come classici. Sono i classici le fonti in cui cercare l’equilibrio tra le opposte esigenze della filosofia, nonché gli esempi del metodo e dello stile. Il che, però, ripropone il problema di come i classici debbano essere letti, per intendere il loro messaggio e per trovarvi una risposta ai nostri interrogativi. Le questioni che abbiamo sin qui indicate sono state il filo conduttore di un convegno che si è tenuto il 23 e 24 febbraio 2015 presso la Pontificia Università della Santa Croce. I relatori convenuti e il pubblico ne hanno tentato una soluzione, o hanno contribuito a proporne una formulazione più 8 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 8 11/11/16 14.44 Presentazione avvertita, tramite la ricognizione dell’opera di alcuni autori e attraverso lo studio di alcune problematiche attuali sull’educazione. Il presente volume raccoglie le relazioni presentate al convegno, con l’integrazione di alcune tra le comunicazioni1. Gli scritti sono distribuiti in due sezioni. Nella prima (“La paideia nella storia della filosofia”) è tracciato un itinerario nella storia della filosofia attraverso delle figure esemplari accumunate da una compenetrazione tra la riflessione teorica e l’istanza educativa. Nella seconda (“La paideia in esercizio”), sono trattati alcuni temi emergenti dalla pratica pedagogica e didattica: le istanze educative della filosofia, dapprima storicamente ricostruite, sono sottoposte al vaglio della loro applicabilità. Naturalmente, in tutti i saggi si troverà una risposta positiva al quesito iniziale sul ruolo educativo degli studi filosofici, sicché il volume è compendiabile in questa affermazione. Nondimeno, nel leggerlo si vedrà come la tesi è stata argomentata in vario modo, mettendo in rilievo diversi argomenti, metodologie, oppure diverse difficoltà. Infine, il lettore potrà riconoscere un tratto comune nell’esigenza emersa durante i lavori del convegno, quasi un compito direttamente imposto dal tema esaminato: il problema educativo richiede un concetto di ragione in cui la dimensione teorica e la dimensione pratica, l’evidenza del vero e la chiamata del bene, sono intimamente collegate. 1 Le altre comunicazioni presentate al convegno sono state pubblicate sulla rivista online: «Forum. Supplement to Acta Philosophica» 1 (2015). Cfr. http://forum-phil.pusc.it/volume/1-2015. 9 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 9 11/11/16 14.44 Parte prima LA PAIDEIA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA. ALCUNI MODELLI ESEMPLARI AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 11 11/11/16 14.44 Capitolo primo Platone: filosofia come educazione del desiderio di Franco Trabattoni* 1 Il nesso etica/politica in Platone e Aristotele Nel secondo libro della Politica Aristotele sottopone a una critica assai acuta e pervasiva alcuni aspetti salienti dello stato ideale descritto da Platone nella Repubblica. In particolare egli si oppone, come è ben noto, alla cosiddetta “comunanza delle donne” e all’abolizione della proprietà privata. Una delle obiezioni sollevate contro questa seconda tesi ci offrirà lo spunto per iniziare il nostro discorso. In generale Aristotele osserva che i mali presenti nelle città del suo tempo non sono causati dalla mancata comunanza dei beni, ma dalla cattiveria umana; ed è questo un luogo comune in vari punti del II libro, in cui si sottolinea appunto che introdurre una regolazione dei patrimoni ha scarsa incidenza sulle vere cause dei disordini politici, che sono piuttosto da rintracciare nel carattere delle persone e nella loro cattiva educazione1. Questi rilievi, secondo Aristotele, assumono un forte valore critico soprattutto nei riguardi di Platone. È proprio Platone, infatti, a sottolineare con forza che per rendere la città virtuosa occorre introdurre l’educazione. Dunque è strano, a parere di Aristotele, che egli pensasse poi di poterla raddrizzare abolendo la proprietà e la famiglia, invece che migliorando i costumi, tramite la filosofia e le leggi (1263b 37-40). Questo significa che Aristotele, nella vecchia controversia su quale sia il modo per orientare la società verso il meglio, ossia se modificare le istituzioni o correggere la * Università degli Studi di Milano. Dipartimento di filosofia, Via Festa del Perdono 7, 20122, Milano. E-mail: [email protected]. 1 1263b 22-29. 13 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 13 11/11/16 14.44 Capitolo primo coscienza degli individui, prende decisamente partito per questa seconda alternativa. Ma la cosa per noi interessante è che nel passo in oggetto Aristotele rileva che il privilegiamento dell’educazione era un punto di forza della posizione platonica. In effetti sulla centralità dell’educazione, nell’ambito della filosofia pratica, Aristotele è senz’altro d’accordo con il suo maestro. E questo accordo comporta, d’altra parte, l’individuazione di un nesso assai stretto – molto più stretto di quanto ormai non sembri alla mentalità moderna – tra etica e politica. È noto, ad esempio, che secondo Aristotele l’etica e la politica non sono due scienze separate, ma la prima è parte della seconda (nella stessa misura in cui l’individuo è parte della comunità); e inoltre è stata in anni recenti autorevolmente proposta la tesi secondo cui le etiche di Aristotele sarebbero una sorta di manuale offerto ai legislatori per aiutarli a programmare l’educazione alla virtù, con finalità largamente politiche, dei cittadini2. Quello che intendo dire è che per Aristotele (e per Platone, da cui in questo caso lo Stagirita non si discosta) l’importanza accordata all’educazione dipende direttamente dal fatto che l’etica e la politica non sono separate. Se si pensano le due discipline come separate, è possibile immaginare che lo stato possa limitarsi al compito di migliorare la qualità delle istituzioni, promuovendo in questo modo un miglioramento della società del tutto indipendente dalla maniera in cui gli individui sviluppano le loro qualità e realizzano le loro aspirazioni personali (che a questo punto non ha nemmeno senso, si intende dal punto di vista politico, distinguere tra virtuose e viziose). Se ne ricava che uno stato di questo tipo non nutre alcun particolare interesse, sempre di carattere politico, nei confronti dell’educazione. Se viceversa, come Platone e Aristotele, si ritiene impossibile separare l’etica della politica, allora la determinazione di quali sono le virtù e i vizi individuali, insieme alla creazione di strutture educative atte a promuovere le prime e a scoraggiare i secondi, diventa un compito politico fondamentale. E infatti non è un caso che la gran parte della sezione politica della Repubblica di Platone sia dedicata alla definizione delle virtù, alla loro valenza a un tempo privata e pubblica, e alla delineazione delle strutture educative adatte a generarle (e, contestualmente, a scoraggiare il vizio). Per Platone e Aristotele, insomma, l’educazione ha un carattere così pervasivo – tale da aver suscitato, soprattutto per quanto riguarda il primo, un’accesa avversione da parte della mentalità “liberale” – perché la politica 2 Cfr. R. Bodeüs, Politique et philosophie chez Aristote, Namur, Société des Études Classiques, 1991. 14 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 14 11/11/16 14.44 Platone: filosofia come educazione del desiderio stessa è una forma di educazione. Ma se davvero si ritiene, come abbiamo visto in Aristotele, che i mali di ordine politico dipendano dalla cattiveria degli uomini, questo esito è difficilmente evitabile. Prima di scartare questa posizione come antiquata, o come non più adatta (e non da ieri) alle esigenze dell’uomo moderno, è opportuno riflettere su quanto segue. Se si dice soltanto che l’etica e la politica, unite nei pensatori della Grecia classica, si separano (magari giustamente o almeno inevitabilmente) nei moderni, c’è il rischio di dire una cosa profondamente inesatta. Infatti l’etica degli antichi è essenzialmente diversa dall’etica dei moderni (e tale è dunque anche la politica che le è collegata). Quando noi pensiamo alla dissociazione tra morale e politica abbiamo in mente soprattutto la difficile conciliazione tra gli aspetti più innovativi e radicali della morale cristiana e le esigenze realistiche della politica. In questo caso c’è la tentazione di pensare che l’educazione morale e la prassi politica, pur non essendo necessariamente in contrasto, seguano percorsi diversi e sostanzialmente indipendenti. Se viceversa l’etica coincide con lo sviluppo adeguato delle virtù, intese in senso classico come permanente disposizione interiore a eseguire comportamenti di un certo tipo, allora non solo non c’è nessuna ragione per pensare che queste virtù abbiano un’applicazione solo individuale; c’è piuttosto da ritenere, come appunto pensavano Platone e Aristotele, che uno stato ben ordinato sia proprio quello in cui i cittadini possiedono queste virtù nella misura più ampia possibile, e dunque lo stato provvisto di un efficiente apparato educativo per promuoverle e svilupparle. Quello che voglio dire, in sintesi, è che la nozione di “stato etico” cambia notevolmente di significato a seconda che l’etica di cui si parla sia intesa in senso antico o in senso moderno (e dunque anche le scandalizzate reazioni che di solito questa formula solleva andrebbero di volta in volta contestualizzate). 2 Platone: politica, educazione, filosofia Fino a questo momento, e seguendo in buona parte indicazioni di Aristotele, abbiamo parlato di educazione soprattutto in rapporto alla politica. Perché? Perché a mio avviso la politica è l’obiettivo essenziale della filosofia secondo Platone, e dunque questa è la ragione più appariscente (anche se forse non quella più profonda) dell’importanza che egli ascrive all’educazione. Non è per niente un caso, a ben guardare, che le due opere 15 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 15 11/11/16 14.44 Capitolo primo essenzialmente politiche di Platone, ossia la Repubblica e le Leggi, siano in buona parte (soprattutto la seconda) due trattati sull’educazione. Ma in che senso la filosofia per Platone è essenzialmente politica? Anzitutto in un senso, vorrei dire, davvero elementare. Prendiamo ad esempio l’inizio della Settima Lettera (che io, insieme ormai alla maggioranza degli studiosi, considero autentica). Nelle prime pagine di questo documento (323b – 326c) Platone racconta come è pervenuto alla filosofia. Come tutti i giovani di buona famiglia nella Atene di allora Platone pensava che l’attività più degna e più nobile da perseguire fosse la politica. Quando con il colpo di stato del 403 salirono al potere i cosiddetti Trenta Tiranni sembrò essere venuto il momento buono per mettere in pratica questo desiderio. Tra costoro infatti c’erano alcuni parenti e conoscenti di Platone e della sua famiglia (ad esempio Carmide e Crizia), che lo invitavano espressamente ad unirsi a loro. Platone esita quel tanto che basta per accorgersi che il governo dei Trenta era pessimo (ciò che lo colpì in modo particolare fu il loro tentativo di coinvolgere Socrate nei loro delitti). Quanto dopo pochi mesi tornarono al potere i democratici, tanta e tale era la spinta di Platone verso la politica da fargli prendere in considerazione – lui che era indubbiamente per estrazione e per indole personale di sentimenti piuttosto aristocratici – l’ipotesi di collaborare con il nuovo regime. Ma anche questo governo lo deluse profondamente. E di nuovo il fatto importante citato da Platone per motivare questa sua delusione riguarda Socrate, che i democratici del tutto insensatamente (dal momento che, come osserva lo stesso Platone nella lettera, questo regime si mostrò per altri versi piuttosto moderato) processarono e condannarono a morte. Quello che Platone ricava da queste esperienze coincide più o meno con le tesi di Aristotele di cui abbiamo parlato all’inizio: non sono le strutture politiche o le forme di governo che determinano la bontà o la cattiveria dei regimi politici; le vere cause sono invece la bontà e la cattiveria degli uomini. Infatti Platone, nel giustificare il fatto che da quel momento in poi ha rinunciato all’azione politica attiva (almeno ad Atene), dice che non si può fare politica senza amici; e che allora in Atene gli amici fidati erano troppo pochi (325d). Come si vede, ancora e di nuovo, l’accento viene messo sulle persone, non sulle istituzioni. Ed è chiaro che se le persone sono in politica quello che conta, e se le persone si possono migliorare solo con l’educazione, ne consegue che l’azione politica si deve trasformare in educazione (e il politico in educatore). Tuttavia nella Lettera (così come nella Repubblica, del resto) Platone non dice che il rimedio capace di guarire la politica è l’educazione. Dice 16 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 16 11/11/16 14.44 Platone: filosofia come educazione del desiderio che è la filosofia. Perché? La risposta a questa domanda si trova nella Repubblica stessa, e in particolare nel V libro. Il filosofo, dice Platone, è colui che aspira al sapere (sophia), nella sua forma più generale possibile; non nel senso, ovviamente, che il filosofo pretenda di essere onnisciente, ma nel senso che egli desidera la sapienza tutta intera, nel suo complesso. Specificando meglio qual è l’oggetto del suo desiderio di sapere, Socrate definisce il filosofo come colui che ama contemplare la verità (475e), dove però la parola “verità” non è intesa in senso logico come verità della proposizione, ma come indicatore ontologico di quello che è per Platone il vero essere. Nelle righe successive, poi, questo essere “vero” viene reso esplicito come il dominio dell’idea. In altri termini, il desiderio di sapere del filosofo si riferisce a oggetti stabili e sempre identici a sé stessi, in quanto non mescolati con la realtà sensibile, quali il giusto o l’ingiusto in sé (476a). Il successivo sviluppo della Repubblica mostrerà inoltre che la giustizia, così come le altre virtù, dipende da un principio ancora superiore che è l’idea del bene (504d e ss.). In sintesi, dunque, il filosofo è l’educatore naturale degli individui e delle città, in quanto conosce il bene (o meglio, lo è nell’esatta misura in cui lo conosce), perché la conoscenza del bene è l’unico mezzo che può procurare la vita buona alle persone e alle comunità. Questo, io credo, è il ragionamento che conduce Platone, secondo quanto ci racconta nella VII Lettera, ad associare in modo così stretto politica e filosofia. Ma è un ragionamento che egli ha sviluppato soprattutto attraverso un’accurata analisi del concetto di educazione e dei suoi effetti. Indipendentemente dall’esito negativo, che tutto sommato potrebbe anche essere considerato accidentale, della guerra del Pelopponneso, è evidente agli occhi di Platone che la civiltà Ateniese, magnificata dal famoso discorso di Pericle per i caduti nel primo anno di guerra che si legge in Tucidide3, ha fatto fallimento. Questo fallimento è visibile per certi versi nello stesso Tucidide, dove al documento appena citato si affianca un buon numero di passi in cui la civiltà democratica ateniese mostra un atteggiamento teorico e pratico per nulla differente da quello adottato dai governi tirannici, e preconizzato nelle tesi volutamente immoralistiche e ciniche di personaggi come Trasimaco, Callicle, Antifonte, Crizia, ecc4. Ma il fatto che Platone interpreta come di gran lunga più preoccupante è che la società ateniese e gli uomini politici che l’hanno governata non sono riusciti a produrre nella città quello che deve essere l’obiettivo di qualunque azione politica, ossia la concordia. Al contrario, 3 4 II, 34-36. Cfr. per es. I, 76-77; II, 63-64; V, 85-114. 17 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 17 11/11/16 14.44 Capitolo primo la città è stata lungamente afflitta da sommovimenti e colpi di stato (staseis), e in generale ha manifestato una così profonda discordia fra le sue varie componenti da far dire a Platone che non si poteva più parlare di una città, ma di più città in concorrenza e in conflitto l’una con l’altra, per quanto presenti sullo stesso territorio ed interne alle stesse mura (non è difficile vedere una allusione all’Atene democratica in Resp. 422e – 423a). Ora, se responsabile di questo stato di cose è la cattiveria degli uomini, e se l’unica possibilità di rimediare a questa situazione è mettere in atto efficaci strumenti educativi governati dalla conoscenza del bene posseduta dal filosofo, ci si può chiedere ragionevolmente se il bene e il male non siano questo caso del tutto speculari, ossia se così come il bene deriva da una buona educazione il male deriva, in modo corrispondente, da un’educazione cattiva. In effetti non solo Platone la pensa esattamente in questo modo; ma concepisce in un certo senso tutta la sua filosofia come il tentativo di sostituire, sulla scia di Socrate, l’unica educazione etica e politica corretta agli altri modelli educativi, tutti sbagliati, correnti nell’Atene classica tra il V e il IV secolo. 3 Educazione e conoscenza del bene L’intento che abbiamo indicato ha un ruolo determinate in tutta la prima fase, di taglio prevalentemente polemico, dell’attività filosofica di Platone5. Il modello educativo più rilevante ai suoi tempi, e tuttavia efficace nonostante l’avvento della sofistica (che fra l’altro, come fra poco vedremo, non era a esso strutturalmente contraria), era quello che potremmo chiamare epico-omerico, basato sul culto di una virtù agonistica, molto legata alle nozioni di onore e di forza. Per convincerci del fatto che questo modello etico-pedagogico fosse ancora attivo basta riflettere sul fatto che la naturale (o comunque inevitabile) prevalenza del più forte sul più debole trovava ampio riscontro sia nell’azione politica dell’Atene democratica (si veda in Tucidide con quali argomenti gli ateniesi sostengono il diritto di usare la forza, ad esempio in I, 76) sia nella riflessione teorica dei sofisti. Ovvero è sufficiente riflettere su quanto Platone fa dire ai suoi due fratelli Adimanto e Glaucone all’inizio del libro II della Repubblica, ossia che la determinazione a prevalere sugli altri (pleonexia) è dovunque più forte che il rispetto per la giustizia, anche se a parole tutti fanno finta di pensare il contrario. 5 Cfr. F. Trabattoni, Platone, Roma, Carocci, 2009, pp. 29-49. 18 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 18 11/11/16 14.44 Platone: filosofia come educazione del desiderio Le principali “agenzie educative” (mi si consenta questa espressione moderna) che promuovevano tale modello erano per Platone costituite dai politici, dai poeti e dai sacerdoti (che del resto ai poeti e alla poesia erano strettamente legati, giacché la poesia, soprattutto quella epica e tragica, era per i Greci l’unica fonte del sapere religioso). E non è evidentemente un caso che Platone, nel testo che almeno simbolicamente (se non storicamente) rappresenta l’inizio della sua attività di scrittore filosofico, ossia l’Apologia di Socrate, in un celebre passo metta a confronto il modesto ma solido magistero di Socrate contro il falso e pretenzioso sapere di politici e poeti (20e-23c). Per chiarire meglio quello che voglio dire vediamo un paio di esempi. Nel primo sono di scena i politici. Dialogando con Callicle nel Gorgia a un certo punto Socrate gli pone la domanda seguente. Dal momento che Callicle vuole entrare in politica, e che questo significa ovviamente prendersi cura dei propri concittadini rendendoli per quanto possibile migliori, è in grado Callicle di indicare qualcuno che sia divenuto migliore grazie a lui? E più in generale, possiamo ritenere, come vorrebbe Callicle, che esempi caratteristici di ottimi uomini politici siano le grandi figure del recente passato ateniese, come Pericle, Cimone, Milziade o Temistocle (515a-d)? Contro questa tesi Socrate solleva due obiezioni, che in realtà sono collegate. Se davvero questi uomini fossero stati dei buoni politici avrebbero reso migliori i loro concittadini. Ma non c’è forse la prova lampante che la loro azione educativa è fallita, ossia che i cittadini che avrebbero dovuto educare si sono in realtà rivoltati contro di loro, vuoi intentando processi, vuoi condannandoli con l’ostracismo? E questo che cosa significa (seconda critica)? Che costoro sono stati molto bravi a procurare alla città quello che essa stessa chiedeva, ossia benessere economico e potere politico, ma nulla hanno fatto per provvedere a una reale educazione dell’anima (517ac). Non è possibile realizzare questo obiettivo, d’altra parte, senza aver riflettuto filosoficamente sul bene, ossia senza aver cercato di comprendere, in modo approfondito, che cosa è veramente bene e che cosa non lo è. Questi uomini politici, in quanto educatori privi di filosofia (ossia del desiderio di conoscere la vera natura delle cose), hanno preso per buona la concezione del bene superficiale, corrente nella mentalità comune (e in particolare nel modello etico epico-omerico di cui abbiamo detto): i beni sono i valori agonistici come ricchezze, potere ed onore, che meritano di essere perseguiti in competizione con gli altri, e il cui conseguimento rappresenta la piena realizzazione della vita umana. In tale contesto, come 19 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 19 11/11/16 14.44 Capitolo primo ben si vede (e come già sappiamo dalla Repubblica) l’immoralismo franco e sfacciato di un Trasimaco o di un Callicle si sposano in modo perfetto con le concezioni latenti, ancorché per lo più sottaciute, della morale tradizionale. Ma quello che per noi è importante è che in un caso e nell’altro per Platone il problema alla base è sempre lo stesso: il disinteresse riguardo la vera natura del bene, anche da parte di chi pretende di essere un educatore; con il risultato, per Platone evidentemente assurdo, che la responsabilità educativa è in tal modo affidata agli ignoranti piuttosto che ai sapienti. Come stupirsi, allora, se la civiltà e la società ateniese sono andate a rotoli? Per Platone quello che è successo ad Atene è paragonabile a quello che succederebbe in un ospedale se si decidesse di affidare la cura dei malati a persone che non hanno alcun interesse per la scienza medica, e dunque ne sono del tutto ignoranti. Il secondo esempio, che ha per protagonista un sacerdote (ma che, come vedremo, coinvolge anche i poeti) è tolto dall’Eutifrone. Socrate incontra il sacerdote Eutifrone sulle scale del tribunale, e questi gli spiega che è lì per depositare un atto di accusa contro suo padre (4a). Benché alla mentalità di oggi questa azione potrebbe apparire meritoria, tale non era certo per la mentalità etico-giuridica dei greci (dove da un lato i legami di parentela pesavano molto, dall’altro i reati non venivano perseguiti d’ufficio, ma solo su denuncia). Questo significa che Eutifrone deve giustificare accuratamente il suo gesto. Se nella mentalità comune un caso classico di azione empia consisteva proprio nella mancanza di rispetto verso i genitori, Eutifrone al contrario pretende di possedere, grazie alla sua specializzazione professionale, una competenza superiore a quella comune. Non è vero, egli fa notare, che agire contro il proprio padre sia sempre empio; ci sono infatti dei casi in cui esistono buone ragioni per farlo, sanciti dallo stesso comportamento degli dèi così come descritto dai poeti: infatti si narra in Esiodo che Zeus ha incatenato suo padre Crono, il quale a sua volta aveva evirato suo padre Urano, entrambi con buone ragioni e dunque senza commettere alcuna ingiustizia (5d-6b). C’è dunque poco da stupirsi, visto che il sapere religioso di Eutifrone si riduce all’interpretazione letterale di testi poetici privi di una razionalità intrinseca, che egli poi fallisca la prova dell’interrogazione socratica: e dunque si dimostri ignorante. Quello che a noi interessa è che la sua ignoranza di sacerdote collima perfettamente (anzi, ne dipende) con l’ignoranza dei poeti, in quanto nessuno di essi ha mai riflettuto seriamente su che cosa sia la pietà religiosa, su che cosa sia il sacro, in quanto non ha mai riflettuto sul bene, che ovviamente è l’origine ultima di tutti i valori. Al contrario costoro non 20 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 20 11/11/16 14.44 Platone: filosofia come educazione del desiderio fanno altro che attenersi ai racconti incredibili e irrazionali della mitologia, e spacciare ciò che ne risulta come legge e regola per la valutazione del bene e del male nelle azioni degli uomini. Questo errore, con una ripresa alla lettera dello stesso esempio, è stigmatizzato da Platone nel libro II della Repubblica, dove sferra il suo attacco più violento contro la poesia e la cultura tradizionale. Dopo aver detto che l’educazione migliore è quella che si ottiene con la musica e con la ginnastica, Socrate si oppone con forza all’educazione tradizionale, che si basava appunto in gran parte sui poemi epici di Esiodo e di Omero. E come esempio delle assurdità che in essi si possono leggere rammenta proprio i rapporti di violenza reciproca tra Zeus, Crono e Urano di cui aveva parlato Eutifrone (377e – 378a). Si noti che la critica di Platone non è qui rivolta, almeno in prima istanza, alla poesia in quanto poesia; ma alla poesia in quanto essa ingiustamente pretende di rappresentare un sapere, e dunque di possedere un diritto normativo sui costumi e le regole etiche che governano la società (come abbiamo visto attraverso Eutifrone). Quando invece da un lato i poeti, così come i politici, non hanno alcuna conoscenza reale del bene; dall’altro solo la conoscenza, come abbiamo già detto, nell’esatta misura in cui la si possiede, dà diritto per Platone a educare e a insegnare. Quest’ultima osservazione è utile per fugare una possibile perplessità. Per Platone la ragione umana non è in grado di produrre una conoscenza piena e perfetta del bene; dunque come può questa conoscenza costituire una guida affidabile per il comportamento umano? Il punto è che l’uomo che intenda conoscere la verità non dispone di alcun mezzo più potente di questo. Come ben si deduce da un passo del Fedone, Platone non rifiuterebbe una verità rivelata; perché quando si parla di verità, ossia della cosa da cui dipende la felicità dell’uomo, quello che conta è il possesso (comunque ottenuto), mentre la ricerca in quanto tale non vale nulla. Purtroppo però questa rivelazione non c’è. O meglio, ci potrebbe anche essere (come sembra ricavarsi da Fedro 275b-c), ma non sarebbe decisiva, perché toccherebbe comunque alla ragione qualificarla come rivelazione (così Platone fa chiaramente capire nell’Eutifrone); in altri termini, l’ultima parola spetta sempre alla ragione. Dunque non resta, come spiega Simmia nel passo del Fedone ora citato, «prendere il migliore fra i ragionamenti umani, cioè il più difficile da confutare, e lasciandovisi trasportare come su di una zattera, lanciarsi nella traversata della vita» (85c-d, trad. it. mia). Si tratta, come ben si vede, di un percorso difficile e problematico; ma non si tratta affatto di una resa allo scetticismo. Secondo lo scettico tutte le proposizioni hanno a priori uguale valore, e dunque la ricerca alla fin fine si rivela inutile; per 21 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 21 11/11/16 14.44 Capitolo primo Platone, viceversa, anche quando tutti i ragionamenti che abbiamo fatto sino a questo momento ci appaiano in varia misura deludenti, non c’è ragione di abbandonare la ricerca: la possibilità di trovare un ragionamento migliore, mediante il continuo e indefesso esercizio della dialettica, è sempre aperta (Fedone, 90c-d). Lo stato di cose ora descritto ha un’importante conseguenza sul piano dell’educazione. Se fosse disponibile in qualche modo una verità preconfezionata, esprimibile in una ben precisa teoria o in una ben coordinata sequenza di argomenti, tutto quello che gli uomini dovrebbero fare per essere felici è rintracciare un sapiente che questa verità la possieda già, e farsela semplicemente consegnare da lui. Ma per Platone un sapiente di questo genere non esiste, e tale non è neppure il suo Socrate, dal momento che a suo parere veramente sapienti (sophoi) sono solo gli dèi: al massimo gli uomini possono essere detti philo-sophoi, ossia amanti di un sapere che non possono mai possedere in pieno, di cui saranno sempre in qualche modo mancanti (cfr. Liside 218a, Simposio 204a). È per tale ragione che un maestro non basta, nemmeno se questo maestro è il migliore disponibile sulla piazza. Si tratta ancora, ovviamente di Socrate, e non a caso Socrate non è “maestro”, se con questo termine si indica qualcuno che consegna ad un altro un sapere. Socrate, figlio della levatrice ed ostetrico egli stesso, è piuttosto un educatore dell’anima, ossia una sorta di catalizzatore chimico utile a stimolare la nascita del sapere spontaneo negli altri, come una pianta che una volta seminata nella buona terra poi cresce da sola. Il sapere non passa da una persona all’altra come l’acqua da un vaso all’altro, per capillarità, attraverso un filo di lana6. In altri termini, senza la spontanea autoformazione interna a ciascuno di noi, nessuno diventa sapiente, virtuoso o felice (ovviamente, per quanto possibile a un uomo). Anticipando certi tratti della pedagogia contemporanea, per Platone non esiste educazione che non sia autoeducazione. 4 Etica come educazione del desiderio Il quadro che abbiamo descritto si fonda su due importanti presupposti, che per lo più sono considerati assai distanti dalla mentalità moderna. Il primo presupposto è che l’etica (e dunque anche la politica), siano considerati come una sorta di sapere tecnico-pratico, che ha per oggetto la 6 Simposio, 175c-e. 22 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 22 14/11/16 12.41 Platone: filosofia come educazione del desiderio conoscenza del bene, e per effetto la realizzazione di questo bene (inteso come vita buona o felicità) nella realtà concreta, ossia tanto nell’individuo quanto nella comunità. Il secondo presupposto, che poi discende dal primo, è che l’educazione finisce per coincidere con l’insegnamento. Quanto ora detto può semplicemente essere messo a carico del cosiddetto “eudemonismo” caratteristico di tutta o quasi tutta l’etica antica (ma in particolare di quella platonico-aristotelica). Ma possiamo anche tentare di tracciare una demarcazione più precisa. Come è stato recentemente osservato dalla studiosa francese Anne Merker7, mentre la necessità che governa le etiche moderne corrisponde per lo più a un dovere nel senso che si deve qualcosa a qualcuno (siano questo qualcuno altre persone oppure organismi collettivi), la necessità che comanda l’etica antica dipende soprattutto da un bisogno e da una mancanza che riguardano la vita dell’individuo e la sua tensione a conseguire la completezza. In altri termini, se affinché si possa parlare di etica non si può fare a meno di invocare un qualche genere di necessità, nel caso dell’etica platonico-aristotelica questa necessità non ha in prima istanza alcun carattere altruistico. E se, come abbiamo osservato sopra, lo scopo dell’educazione etica consiste nello sviluppare al massimo grado la virtù degli individui e delle comunità, questa virtù può tranquillamente essere identificata come il ben essere (ovvero la felicità) dei soggetti che la possiedono. Questo stato di cose è la ragione principale per cui, con il passare dei secoli, tra le etiche antiche e quelle moderne si è scavato un abisso; perché nella concezione moderna per lo più si ritiene che una condizione essenziale di un’etica che si rispetti sia la presenza di un’obbligazione che prescrive l’altruismo disinteressato. Per rispondere a questa critica (e dunque capire in che cosa consiste l’educazione etica per Platone) è utile separare le due componenti di questa frase (altruismo disinteressato) e analizzarle una alla volta. Iniziamo dall’altruismo. Il fatto che l’etica platonica prenda le mosse dal bisogno, ossia dall’esigenza di felicità, del soggetto agente, non impedisce per nulla che gli sviluppi pratici di questa etica abbiano una natura altruistica. Platone non dice né semplicemente che l’obiettivo dell’etica è il bene inteso come virtù (questo è il modo scorretto in cui, ad esempio, Kant e seguaci hanno interpretato e interpretano tuttora l’etica platonica) né semplicemente che il bene dell’etica è la felicità indipendentemente dalla virtù. Dice invece che il bene è la virtù perché la felicità si può conseguire 7 A. M erker , Une morale pour le mortels. L’éthique de Platon et d’Aristote, Paris, Les Belles Lettres, 2011. 23 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 23 11/11/16 14.44 Capitolo primo solo attraverso di essa, e che dunque chi persegue correttamente la felicità (non nel senso che persegue una felicità temperata dalla virtù, ma nel senso che persegue una felicità che sia davvero tale), non può che trovare la virtù. E la virtù, come è chiaro, ha necessariamente una natura altruistica (si pensi ad esempio alla giustizia). Per quanto riguarda invece il disinteresse, non solo Platone non lo considera come una condizione necessaria per definire il giusto comportamento morale; egli ritiene che esso introduca nel discorso morale un elemento estraneo, e addirittura inquinante. L’idea generale che sta alla base di questo atteggiamento è che l’agente morale, se davvero è tale, non deve compiere il bene in modo disinteressato, ossia privo di motivazioni personali; ma lo deve compiere, al contrario, proprio perché ha un interesse personale (ne va della sua vita stessa) al fatto che venga realizzato il bene e non il suo contrario. Osserviamo accidentalmente che la verità di questo stato di cose è per Platone la condizione imprescindibile per la realizzazione di una buona prassi politica: poiché gli uomini sono portati dalla natura a conseguire il proprio bene, se si desse il caso che il bene pubblico e quello privato divergano, non ci sarebbe modo di far sì che il politico si distolga dal secondo in favore del primo. Ma lasciamo perdere ora questo discorso, perché qui ci interessa soprattutto mostrare un’altra cosa; ossia che l’esclusione dall’etica del disinteresse non è un principio morale idiosincraticamente platonico, ma identifica un possibile aspetto dell’etica degno di richiamare l’attenzione dei moderni. La situazione che Platone in questo modo rifiuta è la dissociazione (che semplificando molto potremmo chiamare kantiana) tra la sfera della morale (dominata dal dovere) e la sfera del desiderio (dominata, se non proprio dal piacere, almeno dalla felicità). L’idea platonica è che se così fosse ci troveremmo di fronte a molte situazioni incongrue, in cui l’applicazione della regola “kantiana” ci lascerebbe molto perplessi. C’è un pensiero di Marco Aurelio che mi ha sempre colpito. Del tutto inopinatamente, nel cuore del suo severo moralismo erompe una esclamazione terribile: «Quali immensi piaceri mai provano i delinquenti, i dissoluti, i parricidi, i tiranni!» (VI, 34, trad. it. mia). Marco Aurelio era uno stoico, ossia seguace di quell’etica antica che più da vicino anticipa la nozione di dovere in senso kantiano. Questo significa che Marco Aurelio, nella sua vita, ha dato sicuramente ascolto al suo logos contro i suoi desideri, e dunque non si è mai macchiato dei delitti di cui parla in queste righe. Ma chiediamoci: qual è la nostra valutazione in proposito? Siamo disposti a valutare positivamente, dal punto di vista morale, 24 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 24 11/11/16 14.44 Platone: filosofia come educazione del desiderio chi pur sapendo che proverebbe un immenso piacere a uccidere suo padre, tuttavia se ne astiene per senso del dovere, o per obbedienza a una qualche legge morale? O non è forse vero che noi riterremmo buona, dal punto di vista morale, piuttosto la persona che non solo non prova nessun piacere nel compiere azioni delittuose, ma giudica tutto ciò incompatibile con la propria felicità? Ebbene, questo è esattamente quello che vuol dire Platone: il valore morale di una persona non si misura né sulla sua volontà, né sulle sue intenzioni, e nemmeno sulla sua capacità di rispettare certe leggi o norme; si misura invece sulla qualità dei suoi desideri, ossia in base alla qualità delle cose che gli danno piacere e lo fanno felice. Tutto questo discorso si riverbera pesantemente sull’educazione. Lo stato di cose che abbiamo riassunto esclude che l’educazione possa trascurare la dimensione del desiderio, e concentrasi sulla fortificazione della volontà, sull’addestramento dei soggetti ad obbedire a determinate regole. Deve invece consistere soprattutto nell’educazione del desiderio. E questo non tanto per ragioni di efficacia (anche se come abbiamo visto educare il desiderio punta esattamente in questa direzione: siamo più sicuri che non esegua una determinata azione chi non prova alcun piacere nel farla, piuttosto che chi se ne astiene solo per ottemperare a una norma), quanto per ragioni squisitamente morali. Per Platone il valore morale di una persona dipende dalla condizione complessiva di tutta l’anima, dalla sua natura intrinseca, che è determinata appunto dalle sue tensioni, da quelli che essa ritiene essere i suoi bisogni e i suoi desideri: in una parola da ciò che Platone in alcuni testi famosi ha chiamato eros. Ed è dunque qui che deve puntare l’educazione, a trasformare ciascuna anima nella sua essenza, ed in qualche modo a convertirla, se per conversione si intende distoglierla da determinati desideri e orientarla verso altri. Che questa sia la natura dell’educazione per Platone è evidente in più modi, in piccolo e in grande. In piccolo possiamo citare un altro passo del Gorgia, tolto ancora dalla sezione in cui Socrate sta valutando criticamente gli uomini politici del passato. Costoro avrebbero dovuto non già assecondare i desideri (epithumiai) del popolo, ma trasformarli, persuadendoli o costringendoli (questo “costringere” andrebbe opportunamente contestualizzato, ma ciò richiederebbe un discorso troppo lungo) a fare ciò che li avrebbe resi davvero migliori (517b-c). Ed è anche interessante notare che su questo tema Platone ha ricevuto, una volta tanto, l’approvazione convinta di Aristotele. Scrive egli infatti in passo dell’Etica Nicomachea (II, 1104b 11-13) che bisogna essere guidati sin da piccoli, come dice Platone, 25 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 25 11/11/16 14.44 Capitolo primo a godere e soffrire per ciò che si deve, ed aggiunge: questa è la retta educazione (ossia, appunto, l’educazione dei desideri). In grande possiamo citare le titaniche imprese educative costituite dalla Repubblica e dalle Leggi (in quest’ultima opera, in particolare, si noti l’importante funzione persuasiva che Platone attribuisce ai proemi). E possiamo citare soprattutto il Fedro, in cui la filosofia stessa – che, come detto all’inizio, ha per così dire il compito istituzionale di promuovere la felicità pubblica e privata – si trasforma in psicacogia, ossia conduzione (e conversione) dell’anima. 26 AA.VV.-La filosofia come paideia.indd 26 11/11/16 14.44