All`origine degli eucarioti e dei mitocondri

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L6: All'origine degli eucarioti e dei
mitocondri
Quali tape hanno portato alla comparsa delle
cellule eucariotiche e come si sono originati i
mitocondri?
Sempre più evidenze sperimentali supportano lidea che
alla base dell'evoluzione sia della cellula eucariotica che
dei mitocondri vi siano stati eventi di fusione derivante da
interazioni di tipo simbiotico.
L’origine degli eucarioti è rimasta per molto tempo uno dei problemi più
enigmatici e controversi della biologia e sembrava difficile riuscire a spiegare
la comparsa di tutte le numerose differenze che distinguono procarioti ed
eucarioti, tra cui la presenza del nucleo, il reticolo endoplasmatico, lo splicing
degli RNA messaggeri ed i mitocondri (semplicemente per citarne alcune).
La ricerca di una risposta a questo grande quesito non si trovava neppure
nello studio dei procarioti dato che, fatto salvo alcune aspetti (tra cui la
presenza di strutture simil-nucleari e di membrane interne), non si riusciva a
trovare forme intermedie tra procarioti ed eucarioti che potessero fare luce
sull’origine degli eucarioti. In realtà la risposta era difficile da trovare proprio
perché era sbagliato l’approccio e si cercavano forme di transizione che nella
realtà non sono mai esistite nel corso della storia della vita. Numerosi dati
mostrano, infatti, che la cellula eucariotica si è originata dalla fusione di due
procarioti: un Archea ed un endosimbionte batterico. Poiché i procarioti non
sono in grado di realizzare la fagocitosi, rimane tuttavia ancora da capire in
che modo l’endosimbionte batterico è entrato nella cellula dell’ospite e
numerosi gruppi di ricerca stanno lavorando per fornire una risposta a questo
difficile quesito.
Nel loro saggio intitolato “Predation between prokaryotes and the origin of
eukaryotes”, Davidov e Jurkevitch suggeriscono che la fusione possa essere
avvenuta per predazione, processo a seguito del quale un alfa-proteobatterio
aerobio è entrato in una Archea per replicarsi al suo interno. A seguito di
questo processo, il batterio da potenziale parassita è divenuto un simbionte
che poi si è evoluto nel mitocondrio.
L’idea dell’origine simbiotica dei mitocondri era stata suggerita per la prima
volta da Lynn Margulis oltre 40 anni, ma numerosi dubbi rimanevano irrisolti
ed in particolare per molto tempo è stato difficile definire se l’acquisizione dei
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mitocondri sia stata una delle prima tappe verso l’evoluzione degli eucarioti
(mitochondrion-early hypothesis) o se fosse avvenuta quando gli Archea (da
cui sono poi derivati gli eucarioti) avevano già evoluto un citoscheletro di
base, il nucleo e la capacità di fare entrare anche strutture grandi tramite
fagocitosi, meccanismo chiave per spiegare l’ingresso di un batterio all’interno
dell’Archea (mitochondrion-late hypothesis). Tuttavia poter realizzare la
fagocitosi significa avere un complesso apparato citoscheletrico oltre che
lisosomi e vacuoli, motivo per cui molti autori ritengono che questa capacità
(che è assente nei procarioti) si sia evoluta tardivamente rispetto all’origine
degli eucarioti.
Al contrario, interazioni di tipo predatorio sono frequenti nei procarioti e
probabilmente lo erano ancora di più prima dell’evoluzione degli eucarioti. Tra
i predatori più studiati vi sono indubbiamente i batteri del genere Bdellovibrio
che sono in grado di invadere le loro prede e di replicarsi nel periplasma della
cellula ospite. Un ulteriore esempio è dato da Midichloria mitochondrii,
studiata da anni da Luciano Sacchi e Claudio Bandi, che è in grado di agire
come predatore dei mitocondri.
L’idea dell’origine dei mitocondri per predazione era stata proposta per la
prima volta dalla Margulis, ma poi era stata scartata perché erano state
scoperte cellule eucariotiche senza mitocondri e i mitocondri derivano da
alfa-proteobatteri, mentre tutti i batteri noti sino a poco tempo fa come
predatori erano invece delta-proteobatteri. Al contrario, oggi sappiamo che
esistono anche alfa-proteobatteri con attività predatoria e che le cellule
eucariotiche prive di mitocondri contengono in realtà organelli derivati dai
mitocondri (quali i mitosomi e gli idrogenosomi), motivo per cui l’idea di Lynn
Margulis è oggi più vitale che mai.
L’ultimo aspetto che Davidov e Jurkevithc affrontano è legato alle
caratteristiche dell’Archea in cui i mitocondri si sono sviluppati: era aerobio o
anaerobio? Secondo i due autori l’ospite era anaerobio e la presenza di
crescenti quantità di ossigeno nell’atmosfera rappresentò probabilmente un
“impulso all’evoluzione dei mitocondri”.
A seguito dell’instaurarsi della simbiosi, ospite e batterio hanno iniziato a
coevolvere e questo processo di interazione potrebbe essere stato favorito da
un massivo trasferimento di geni dal batterio al genoma dell’ospite, sebbene
tutti i geni implicati nei processi di trascrizione, traduzione, replicazione e
riparo del DNA siano esclusivamente dovuti all’Archea e non al batterio.
Parallelamente si è avuta una progressiva specializzazione funzionale che ha
portato il batterio ad evolvere da simbionte ad organello, anche grazie al fatto
che
la
cellula
ospite
era
andata
acquisendo
una
netta
compartimentalizzazione, tappa essenziale per proteggere il DNA da danni
derivanti a radicali dell’ossigeno prodotti durante la respirazione
mitocondriale. Numerosi geni derivanti dal batterio simbionte sono però
rimasti presenti negli eucarioti ed in particolare sono stati conservati tutti quei
geni che permettevano di sfruttare al meglio il mitocondrio come sorgente di
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energia.
Come suggeriva Francois Jacob in Evoluzione bricolage (pag.119) “la
natura funziona per integrazioni” e nuovi livelli di organizzazione si possono
evolvere quando due elementi che competono iniziano a collaborare portando
il sistema ad un nuovo livello, in cui “vengono usati come ingredienti certi
sistemi del livello inferiore, ma certi soltanto”. L’origine della cellula eucarioti è
probabilmente l’esempio migliore per attestare i vantaggi e le potenzialità
evolutive dell’interazione simbiotica e dimostrare ulteriormente come alcuni
processi non siano stati affatto graduali, ma caratterizzati dalla comparsa di
nuove strutture senza alcuna forma di transizione.
Un aspetto che rende l’evoluzione tramite simbiosi ancora più intrigante è
legato al fatto che, come suggerito recentemente da James Lake, i batteri da
cui derivano i mitocondri sembrerebbero essere a loro volta frutto di una
simbiosi tra procarioti. Come suggerito da Carl Zimmer nel saggio intitolato
“Microbes Within Microbes Within Microbes” pubblicato sull’ultimo numero di
Science quindi “le nostre cellule non sono soltanto microbi fusi con altri
microbi, ma microbi integrati con microbi integrati con microbi (“microbes
within microbes within microbes") seguendo una sorta di modello a matrioska
tramite cui si è evoluta la vita nel corso del tempo. In particolare è stata
publbicata sulla rivista Nature un’interessante perspective scritta da James
Lake (University of California, USA) dal titolo “Evidence for an early
prokaryotic endosymbiosis”, in cui si analizza la possibilità che l’endosimbiosi
abbia giocato un ruolo di grande importanza anche nell’evoluzione dei
procarioti e possa essere alla base della loro grande diversità.
L’idea che anche i procarioti possano ricorre all’endosimbiosi non è
particolarmente azzardata se si pensa che, ad esempio, in alcuni coccidi è
presente un batterio endosimbionte (della specie Buchnera) che a sua volta
contiene nel citoplasma un simbionte dato da un gamma-protobatterio, come
pubblicato su Nature da von Dohlen nel 2001.
In che modo l’endosimbiosi potrebbe avere contribuito all’evoluzione dei
procarioti? Secondo Lake, i batteri gram negativi potrebbero derivare da un
processo di endosimbiosi. Un primo aspetto che potrebbe supportare questa
ipotesi è legata al fatto che i batteri gran negativi hanno una membrana
esterna costituita da un doppia strato di fosfolipidi, a differenza dei gram
positivi la cui membrana è a singolo strato. Questo potrebbe fare supporre
che il secondo strato sia rimasto come “ricordo” dalla fusione tra due
procarioti. In particolare anche a livello di struttura la membrana interna
presente nei gram negativi è del tutto simile a quelle esterna (ed in realtà
unica!) dei gram positivi, a suggerire che “la membrana interna dei procarioti
gram negativi derivi dalla membrana esterna di una cellula procariotica che è
stata inclusa all’interno di una seconda cellula”.
La prova più convincente di questa ipotesi deve però risiedere nel genoma
dato che se due cellule procarioti si sono in un qualche modo “fuse”, anche i
loro genomi devono essersi uniti o comunque scambiati grandi quantità di
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materiale genetico di cui dovrebbe trovarsi traccia. Per rispondere a questo
quesito Lake ha realizzato un’analisi filogenetica dei procarioti per verificare la
presenza di nodi in cui l’albero filogenetico presenta rami che convergono
verso una stessa specie ad indicare uno scambio di materiale genetico.
Questo approccio ha tra l’altro anche il grande vantaggio di identificare quali
procarioti sono entrati in simbiosi e di identificare quindi il simbionte ed il suo
ospite.
L’analisi condotta da Lake ha riguardato la presenza/assenza di numerose
famiglie di proteine identificate in oltre 3000 specie di procarioti ed ha
evidenziato la possibilità di una antica simbiosi tra un clostridio ed un
actinomicete (actinobatterio). Questo dato, di per sé già molto interessante,
acquista ulteriore interesse perché permette anche di spiegare perché
solamente i gram negativi ed i clostridi sono capaci di realizzare la fotosintesi.
Tra i procarioti infatti solo i gram negativi e i clostridi sono in grado di fare la
fotosintesi e sinora si era ipotizzato che questo derivasse da un trasferimento
orizzontale di tutti i geni necessari per la fotosintesi. Questa spiegazione era
però poco probabile, mentre il trasferimento mediato da un processo di
endosimbiosi rende questo evento enormemente più chiaro poiché i gram
negativi avrebbe acquisito integralmente questa funzione a seguito
dell'endosimbiosi.
Serviranno indubbiamente altre prove per supportare meglio questa ipotesi
però è suggestivo pensare che sia ancora oggi possibile vedere le tracce di
una simbiosi avvenuta probabilmente quasi 3 miliardi (!) di anni or sono. Il
lavoro di Lake apre quindi nuove intriganti ed inaspettate prospettive
nell’ambito dell’evoluzione della vita e mostra ulteriormente la forza che la
teoria dell’evoluzione ha nel capire quali meccanismi hanno giocato un ruolo
importante nell’evoluzione dei viventi. Il fatto di potere oggi discutere di una
simbiosi avvenuta tra due procarioti quasi 3 miliardi di anni non può infatti
che ribadire la potenza della teoria dell’evoluzione e la sua posizione come
paradigma incontrastato per spiegare l’evoluzione dei viventi.
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