L`appello alla coscienza nelle questioni bioetiche: una critica La

L’appello alla coscienza nelle questioni bioetiche: una critica
EUGENIO LECALDANO
La società italiana, la bioetica e gli appelli alla «coscienza morale»
Uno dei dibattiti che negli ultimi vent’anni ha maggiormente attraversato la discussione
pubblica è stato quello sulle questioni della bioetica. La società italiana si è confrontata spesso con
problemi morali che avevano a che fare con le nuove situazioni in cui ci si curava, si faceva nascere
la propria prole, si finiva la propria esistenza morendo. Si è dovuto prendere posizione nei confronti
di pratiche prima non esistenti e che erano il frutto degli sviluppi della ricerca scientifica e delle
applicazioni che di volta in volta se ne erano fatte con la medicina. Casi esemplari sono tutte le
discussioni: sui trapianti e sull’uso dei test e in genere dei ritrovati della ricerca genetica e
farmacologica per quanto riguarda la cura e la prevenzione; sulle diverse pratiche di procreazione
assistita ed in particolare le forme della fecondazione in vitro con il ricorso o meno alla diagnosi
preimpianto; sulle cure ricavate da ricerche genetiche sviluppate attraverso una sperimentazione
sulle cellule somatiche o embrionali; sui modi in cui avvicinarsi alla fine della vita tenuto conto del
grande aiuto per la sopravvivenza dato da tutta una serie di strumenti vicarianti (per le attività
cardiache, di respirazione, di alimentazione e idratazione) e della presenza sempre più ampia di
persone in stato vegetativo permanente (Borsellino, 2009; Magni, 2011; Mori, 2011; Romano,
2012).
Su tutte le questioni della bioetica il confronto è stato, nella nostra società, drammatico e ha
visto la contrapposizione di diverse concezioni etiche. Su tali questioni abbiamo avuto numerosi
interventi a livello di istituzioni pubbliche e, in particolare, da parte del Parlamento e delle Corti di
giustizia di vari ordini fino alla Corte Costituzionale. Ci limitiamo a ricordare l’approvazione, dopo
una discussione per diverse legislature, di una legge di grande ampiezza come la legge 40/2004
sulla procreazione assistita che è stata anche sottoposta a referendum nel 2005. Il referendum
abrogativo del 2005 non è risultato valido non avendo raggiunto il quorum richiesto, ma la Corte
Costituzionale ha dichiarato, negli anni successivi, illegittime alcune delle norme sottoposte a
referendum. Nelle ultime legislature il Parlamento ha anche discusso una legge sulle dichiarazioni
anticipate di trattamento, molto controversa e che non ha ancora concluso il suo iter. Drammatiche
tensioni hanno attraversato la nostra società in molte occasioni e in particolare in occasione della
morte di Piergiorgio Welby nel 2006 e di Eluana Englaro nel 2009.
In questo scritto si rivisitano queste vicende usando come filtro di ricostruzione l’esame
critico degli usi che in esse ha avuto la nozione di coscienza, non in generale ma nella sua accezione
più determinata di «coscienza morale». Si fornirà dunque in primo luogo una sintetica rassegna di
quelli che si ritengono gli usi principali che la nozione di «coscienza morale» ha avuto nei dibattiti
bioetici. Si procederà poi ad una valutazione critica di tali usi approfondendo con l’aiuto della
riflessione filosofica il concetto di «coscienza morale». Nel fare ciò, da una parte, si contesterà
l’idea che il ricorso alla «coscienza morale» abbia chiamato in causa con le questioni della bioetica
una nuova categorizzazione di questo concetto. E dall’altra si renderanno espliciti gli equivoci e le
inadeguatezze di molti degli appelli alla «coscienza morale» alla luce dell’investigazione che sulla
portata e accettabilità di questi appelli, è stata fatta dalla riflessione etica del passato.
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Questi si possono ritenere alcuni degli usi più ricorrenti della nozione di «coscienza morale»
in collegamento con il dibattito sulle questioni bioetiche.
Un uso molto diffuso nel contesto politico è stato quello presente nelle dichiarazioni di molti
Parlamentari, di quasi tutti i partiti, per cui essi hanno rivendicato, ripetutamente, la libertà di votare
secondo coscienza sulle questioni bioetiche e dunque di potere rifiutare eventuali indicazioni dei
loro gruppi parlamentari o dei partiti in cui erano stati eletti (Binetti, 2009). In realtà nella maggior
parte dei casi, a proposito sia della legge 40 come della discussione sulle dichiarazioni anticipate di
trattamento, le segreterie dei diversi partiti hanno evitato di prendere posizioni vincolanti sulle
questioni bioetiche e si è poi proceduto a votazioni a scrutinio segreto per salvaguardare la libertà di
coscienza dei votanti. Spesso le gerarchie della Chiesa cattolica – e in particolare il cardinale
Camillo Ruini – hanno, da una parte difeso questo tipo di votazione secondo coscienza sulle
questioni moralmente sensibili e dall'altra hanno, contemporaneamente, fatto appello
all’obbligatorietà di un voto secondo coscienza che doveva portare all’approvazione della legge 40
o all’approvazione della legge in discussione al Parlamento sulle dichiarazioni anticipate di
trattamento.
Varie volte questo richiamo alla obbligatorietà di fare valere fino in fondo il richiamo della
coscienza morale è stato fatto da cardinali e moralisti cattolici per rivolgersi non solo ai legislatori,
o agli elettori in generale, ma a vari ordini professionali come ad esempio medici e farmacisti. Così
è stato sostenuto che in nome della coscienza morale si dovessero rifiutare non solo, come è stato
fatto per l’aborto, alcune pratiche relative alla procreazione assistita o eventualmente
all'accompagnamento del morente verso la fine della sua vita, ma anche rifiutarsi di eventualmente
vendere nelle farmacie la pillola del giorno dopo o la pillola per l’interruzione della gravidanza
RU486. In effetti, queste richieste sono state in parte accolte perché l’articolo 16 della legge 40 –
riprendendo probabilmente la disciplina prevista nell’articolo 9 della legge 194 del 1978 per
l’obiezione di coscienza a proposto delle pratiche di interruzione di gravidanza – prevede che il
«personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle
procedure per l’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistite disciplinate dalla
presente legge quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione». Alcuni ordini
professionali e in particolare medici e farmacisti hanno rivendicato, sulla base di questa fedeltà
prevalente alla coscienza morale, il diritto di non applicare quelle leggi statuali che richiedessero
loro condotte in contrasto con la coscienza (Flamigni e Melega, 2010a; 2010b). Inoltre il
riconoscimento all’obiezione di coscienza è stato avanzato anche in occasione della discussione in
Parlamento della legge sulle dichiarazioni anticipate, rivendicando la facoltà del medico a non
uniformarsi alle richieste del paziente sulla fine della sua stessa vita, laddove vadano contro la
coscienza morale del sanitario – una coscienza ritenuta non solo morale ma anche professionale.
Un uso diffuso del richiamo alla coscienza è poi quello fatto dai medici italiani anche nei loro
codici deontologici, e che viene consacrata dal motto, a cui essi spesso rinviano pubblicamente, di
prendere le loro decisioni «secondo scienza e coscienza». Questo motto viene spesso usato per
rivendicare una peculiare gamma di doveri che la coscienza del medico richiamerebbe come base
della sua professione. Doveri che egli ricaverebbe dall’avere sottoscritto il «giuramento di
Ippocrate». Il dovere principale non sarebbe solo quello di dare corso ad una pratica che tenga conto
di tutte le informazioni e gli strumenti che la scienza medica mette a disposizione, ma
principalmente quello di impegnarsi in tutti i modi per assicurare la sopravvivenza del malato. Così
il professionista sanitario con il suo appello alla coscienza rivendica non solo dei doveri ma
piuttosto dei diritti e delle libertà fondamentali che specialmente negli ultimi decenni per le
questioni di pertinenza della bioetica hanno voluto spesso dire interpretare in senso riduttivo il
requisito di legare gli interventi medici al consenso informato del paziente (Cosmacini, 2007).
In molte occasioni, sia nella formulazione del codice di deontologia medica come nella
stesura di leggi, quali ad esempio quella attualmente in discussione sulle dichiarazioni anticipate di
trattamento, i medici hanno rivendicato di essere autorizzati a non riconoscere una piena
eguaglianza tra loro e i pazienti. Il personale sanitario ritiene cioè che vi siano molte occasioni in
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cui, o per motivi di urgenza o per garantire comunque la sopravvivenza del paziente, il dovere di
seguire la propria coscienza professionale debba avere la meglio sul diritto del malato che le sue
volontà siano rispettate sino in fondo. Contro la coscienza professionale del medico sarebbero
quindi sia le richieste di sospensione di trattamenti essenziali e vitali, come e maggiormente le
richieste di essere aiutati a morire con forme di suicidio assistito ed eutanasia. Un tale uso della
coscienza professionale e medica è stato rivendicato con forza negli ultimi anni in riferimento al
caso Welby e al caso Englaro. Una parte dei medici italiani ha considerato non ricevibile la richiesta
di Welby di vedere staccato il respiratore, e ancor meno ricevibile la richiesta di Beppino Englaro di
sospendere alimentazione e idratazione della figlia Eluana, in coma vegetativo permanente da oltre
diciassette anni e secondo quanto concesso dalla Corte di Cassazione. Le questioni della
armonizzazione tra dovere dei medici e diritti dei malati hanno aperto tutta una serie di controversie
in cui spesso sono state le corti di giustizia a fare valere la libertà di coscienza del malato a
proposito delle sue cure nei confronti di alcune tendenze ad interpretare riduttivamente questo
diritto da parte del personale sanitario (Santosuosso, 1996; 1998).
Una rivendicazione della coscienza morale come autonomia delle persone è stata fatta
frequentemente – più però nelle posizioni delle minoranze e nelle discussioni teoriche che nei
confronti pubblici che hanno maggiormente coinvolto la nostra società – da tutti coloro che hanno
rivendicato nel nostro paese leggi che lasciassero la facoltà alle persone di risolvere secondo la loro
propria personale visione morale le scelte relative alla formazione della loro famiglia e alla nascita
della loro prole, alla loro cura e alla loro morte. Questa rivendicazione della libertà della coscienza
morale come fondata nella responsabilità etica individuale di certo ha guidato la condotta di molte
persone a proposito delle questioni bioetiche e ha segnato non solo il consolidarsi della richiesta al
Parlamento e all’opinione pubblica di fare un passo indietro e lasciare che le persone organizzassero
autonomamente secondo la loro coscienza i piani di vita, ma anche di un pluralismo e una diversità
etica strutturale nella nostra società.
Oltre l’appello alla «coscienza» come fondazione di una morale assolutistica
Per approfondire il nostro esame, le questioni che proveremo a trattare sono di almeno due
tipi. Da una parte, la questione, per così dire storica ed esplicativa, che cerca di individuare se tra
questi usi della nozione di coscienza morale ci siano usi che segnano una significativa
trasformazione del concetto di coscienza. Dall’altra, una valutazione riflessiva che non solo
distingue tra i diversi significati che la nozione di coscienza ha in questi contesti ma prova anche a
considerarne l’accettabilità.
Possiamo ammettere che le questioni della bioetica hanno in parte trasformato la nostra
concezione della responsabilità costringendoci ad affrontare questioni etiche sulla nascita, la cura e
la morte che non erano oggetto della riflessione morale dei nostri progenitori. Questo vuole però
dire solo che si è trasformata e ampliata l’agenda dei problemi che sono stati prima facie ritenuti di
pertinenza della coscienza morale e non dice nulla sull’eventuale trasformazione del modo di
concettualizzare la natura di questa coscienza. In realtà non sembra che nei contesti dei problemi
bioetici ci si trovi dinanzi a categorizzazioni nuove della coscienza morale. Non stiamo dicendo che
nel corso del XX secolo la nozione o il concetto di coscienza non abbiano subito delle
trasformazioni, o meglio degli approfondimenti e revisioni che ne hanno ampiamente cambiato
l’uso e il significato. Sicuramente questo è accaduto e sta sicuramente accadendo per la «coscienza»
in generale. Ci limitiamo a ricordare alcune dimensioni di questa trasformazione (Di Francesco,
2000).
Radicalmente innovative sono state le analisi di Sigmund Freud che hanno portato ad
abbandonare l’identificazione di psichico e cosciente e hanno dato corso a una larga serie di
spiegazioni dei processi della coscienza che mettono in crisi la convinzione di una sua priorità o
completa autonomia (Freud, 1989; Laplanche e Pontalis, 1968, 106-112). Non meno innovative
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sono state le analisi sulla coscienza di pensatori che hanno elaborato le prospettive della scienza
cognitiva lungo le linee ad esempio di quell’eliminativismo di Daniel Dennett (1992;1993) che
riconduce a una struttura computazionale profonda i processi mentali della coscienza. O ancora più
recentemente i tentativi di avere a che fare con i processi della coscienza attraverso l’impostazione
della neuroscienza (Di Francesco, 2011). Tutto questo ha in verità coinvolto le riflessioni sulla
coscienza nelle questioni bioetiche in modo molto marginale.
La nozione di coscienza morale ci sembra sia stata influenzata piuttosto dalle riflessioni che
su di essa si sono sviluppate nella riflessione filosofica a partire dal XVI secolo. Di queste
riflessioni proveremo dunque a rendere conto per ricostruire due diverse fasi nella riflessione
moderna e contemporanea sulla coscienza morale. La prima rivolta a valutare la fondatezza della
pretesa di una coscienza morale radicata in una dimensione metafisica e ontologica di disporre di
una speciale autorevolezza per guidare in termini assolutistici la condotta umana. La seconda
impegnata a riformulare l’appello alla coscienza morale inserendolo in una dimensione più secolare
e naturale e traducendolo quindi in un appello alla responsabilità personale e che fa dipendere
l’autorevolezza delle scelte in termini di coscienza morale da questa dimensione di autonomo
coinvolgimento (Schneewind, 1998).
La riflessione sulla «coscienza morale», in una prima fase dell’etica moderna che si conclude
con gli albori dell’Illuminismo, è stata principalmente rivolta ad esaminare la fondatezza della
posizione espressa nel corso della tradizione precedente e formulata in termini sistematici da
Tommaso d’Aquino. In questa dottrina la «coscienza morale» si presentava come depositaria,
ultima e originaria, di un sapere, che doveva valere per l’intera umanità, delle leggi e degli obblighi
morali universali inscritti nell’ordine naturale stabilito dall’Autore della Natura. La coscienza
morale derivava la sua autorevolezza nel trasmettere un valore superiore ed esterno all’umanità tutta
proprio dalla sua capacità di testimoniare una conoscenza metafisica che andava al di là della mente
fino a cogliere la struttura ultima delle cose. In questa concezione «coscienza morale», ontologia e
metafisica andavano di pari passo e fornivano ai dettami della coscienza una assolutezza ritenuta
inconfutabile. L’accettabilità di un appello ad una «coscienza morale» così intesa è stata contestata
in molti modi a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Da una parte Michel de Montaigne, con le
analisi svolte nei suoi Saggi (Montaigne, 1970), metteva in luce tutti i dubbi sulla disponibilità di
questo orizzonte metafisico e ontologico in cui collocare una coscienza in grado di guidare la
condotta umana. Questi dubbi erano accompagnati anche dalla constatazione che eventuali elementi
di generalità e costanza nelle azioni umane andavano piuttosto collegati a più determinati contesti di
epoche storiche e società segnate da trasformazioni e radicali cambiamenti. Dall’altra Joseph Butler,
pur riconoscendo un ruolo importante alla coscienza, trasformava radicalmente nei suoi Quindici
sermoni (1969) la sua funzione e le basi della sua autorevolezza. Secondo Butler, infatti, la condotta
umana era principalmente guidata da impulsi e passioni, in contrasto tra loro, quali l’amore di sé e
la benevolenza. Su questa base la coscienza morale ricavava la sua autorità dalla capacità che essa
mostrava di armonizzare queste spinte contrastanti facendo prevalere direzioni che la persona che
da esse si faceva guidare trovava utili e gratificanti. Come vedremo altri pensatori, da David Hume
a Immanuel Kant, contribuiranno a una riformulazione della natura e del ruolo della coscienza. Per
questo nel XVIII secolo risulta del tutto isolato il caso di Jean Jacques Rousseau che come è noto
nell’Emilio (1972, 554) con la «Professione di fede del vicario savoiardo» celebra una sorta di
peana alla centralità della coscienza: «Troppo spesso la ragione ci inganna, ed abbiamo purtroppo
acquistato il diritto di ricusarla: ma la coscienza non ci inganna mai; essa è la vera guida dell’uomo;
essa è per l’anima ciò che l’istinto è per il corpo; chi la segue obbedisce alla natura, e non teme
affatto di smarrirsi». Ma nel caso di Rousseau la coscienza passa attraverso la scoperta soggettiva di
una libertà e sensibilità che spinge al di là di quello che la cultura umana vuole imporre; sembra
quindi ben lontana dalla facoltà rivendicata da Tommaso come aperta ad una dimensione esterna,
metafisica e teologica.
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Nuove basi per l’appello alla «coscienza morale»
Un’opera sistematica di riformulazione del ruolo e della natura della coscienza morale è stata
intrapresa nel corso del XVIII secolo. La coscienza morale non si presenta più come una realtà
ultima e originaria, ma piuttosto come l’esito, a livello personale, di un processo autonomo di
crescita e riflessione mediante il quale il soggetto individuale è giunto a formare – superando le
prospettive dell’interesse egoistico e strettamente personale – il punto di vista generale e imparziale
che è proprio della vita etica. In questo contesto la coscienza morale a cui si fa appello avanza una
pretesa di autorevolezza che noi però dobbiamo ulteriormente suffragare delineando – in una
argomentazione pubblica – la basi epistemologiche che abbiamo percorso. Nella storia dell’etica
degli ultimi secoli sembra possibile individuare principalmente due diverse tradizioni che hanno
dato corpo ad una coscienza morale così intesa. L’una che ritiene che la coscienza sia niente altro
che un dettame della ragione e l’altra che invece pensa che essa sia un dettame della sensibilità
morale. Delineiamo brevemente queste alternative prima di mostrare come esse per altro
convergano nell’identificare alcuni requisiti della condotta umana che possono essere in grado di
dare un qualche significato all’appello alla coscienza morale.
Da una parte vi è dunque la concezione che collega i dettami della coscienza morale con
quanto viene elaborato in una forma di intuizione non empirica dalla ragione umana. Appellarsi alla
coscienza qui vuole dire rinviare a contenuti che abbiamo raggiunto con l’aiuto della nostra
riflessione razionale: questi contenuti si presentano come doveri e obblighi che noi riteniamo di
potere giustificare il più universalmente possibile sia per la nostra come per l’altrui condotta. Come
già Kant indicava nella sua Fondazione della metafisica dei costumi (Kant, 1997) la coscienza
morale come base della nostra vita pratica non va confusa con una «conoscenza morale comune»
che gli esseri umani troverebbero originariamente nella loro mente e a cui sarebbero tentati di dare
una portata prioritaria in quanto espressione di leggi assolute ed eteronome. A evitare dunque
qualsiasi equivoco Kant aggancia la moralità più che alla «coscienza» alla «ragion pura pratica». La
sua elaborazione risulta particolarmente significativa come esemplificazione della trasformazione
degli usi di «coscienza morale» che stiamo tematizzando. L’autonomia e l’assunzione di
responsabilità non possono non accompagnare gli appelli alla «coscienza morale» e ciò che dà
autorevolezza a questi appelli è proprio il «fatto di ragione» di essere radicati nell’autonomia e nella
responsabilità. Kant lega l’individuazione degli imperativi categorici a cui la coscienza morale non
si può sottrarre all’operazione di una peculiare ragione pratica in grado di raggiungere esiti
trascendentali attraverso un percorso di libertà e autonomia. Per Kant quindi chi rivendica
l’autorevolezza della coscienza morale dietro quelle norme e principi che ritiene debbano valere per
tutti e in primo luogo per sé stesso – anche per il loro statuto di imparzialità – non può sottrarsi ad
avviare un controllo pubblico formale che mostri l’accettabilità delle sue pretese.
Diversa è l’elaborazione epistemologica che viene offerta dalla linea di riflessione che è stata
inaugurata con chiarezza da David Hume. Questa concezione prende l’avvio da un passo del
Trattato sulla natura umana in cui Hume, usando per l’unica volta la nozione di coscienza,
istituisce una significativa assimilazione concettuale: «coscienza ossia il senso morale» (Hume,
1987, 485). In effetti secondo questa impostazione, che sarà propria anche di Adam Smith e di tutti
coloro che accettano l’analisi sentimentalistica dell’etica, quando qualcuno fa appello alla
«coscienza morale» rinvia ad una peculiare classe di sentimenti morali che gli permettono di
approvare o disapprovare la condotta propria e altrui. Questa via di ricostruzione dell’appello alla
coscienza morale in termini di rinvio ai sentimenti morali è stata particolarmente elaborata da Smith
nella sua Teoria dei sentimenti morali (Smith, 1995, 290-327). Secondo Smith quando si fa appello
alla «coscienza morale» si intende dire che quel contenuto che abbiamo cercato di fare valere nella
nostra condotta, e che riteniamo anche gli altri dovrebbero approvare, è quello che dopo un attento
esame abbiamo concluso che sarebbe stato accolto con simpatia – nel senso che con esso avrebbe
simpatizzato ritenendolo adeguato o lodevole – da parte di un immaginario spettatore imparziale.
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Secondo questa trascrizione della nozione di «coscienza morale» essa ricava la sua autorevolezza
proprio dal fatto di essere legata a sentimenti che noi effettivamente proviamo: sentimenti inoltre
che sono stati sottoposti ad un vaglio riflessivo immaginando uno spettatore imparziale bene
informato che avrebbe potuto o meno condividerli. Vanno resi espliciti due aspetti di questa
identificazione dell’appello alla coscienza morale con un appello a sentimenti di uno spettatore
imparziale bene informato. Da una parte ciò significa che la prospettiva incorporata dalla coscienza
morale non può in alcun modo essere identificata con una condotta mossa da una considerazione
esclusiva e prevalente dei propri interessi: una condotta del genere non potrà che risultare ingiusta e
parziale allo spettatore immaginario. Smith ci tiene molto anche a chiarire come l’approvazione o
disapprovazione di una coscienza morale, radicata nei sentimenti di un immaginario spettatore
imparziale, non andrà confusa con l’accettazione o il rifiuto che possiamo ricevere dal nostro
pubblico o dalla comunità in cui viviamo. La coscienza morale è spesso, secondo Smith, impegnata
a elaborare dettami che portano a condotte giuste o benevole in contrasto con le opinioni diffuse.
Essere guidati dalla coscienza morale non va confuso con la ricerca della popolarità e del consenso.
Proprio questa dimensione di responsabilità del tutto personale può quindi essere quella che dà alla
coscienza morale quella autorevolezza che può confortare specialmente coloro che subiscono
critiche ingiuste e si trovano in una situazione di isolamento: non così isolati da non potere godere
dei sentimenti di simpatia di uno spettatore imparziale.
Naturalmente ci sono diversità tra le due linee ma sembra possibile indicare convergenze nel
modo di qualificare le condizioni minime richieste per fare dell’appello alla coscienza morale
qualcosa che non si riduca a un mero suono. Entrambe le linee filosofiche insistono che l’appello
alla coscienza morale non è in alcun modo né finale, né autosufficiente: chi lo fa, per dare un
significato a questo appello, deve riuscire a rendere pubbliche le ragioni che è andato scoprendo per
giungere a formare la convinzione che vuole che sia salvaguardata. Le operazioni con cui si è giunti
alla formazione del punto di vista espresso nella coscienza morale hanno coinvolto percorsi
personali con cui abbiamo saputo mettere da parte pregiudizi e regole abitudinarie e principalmente
i nostri interessi personali ed egoistici. La nostra coscienza ci ha permesso di identificare una
condotta che potrebbe essere accettata o da una ragione alla ricerca di contenuti universalizzabili o
da uno spettatore disinteressato che con la sua simpatia estesa non vuole siano provocate sofferenze
e umiliazioni in nessun essere umano.
Un’altra condizione importante per dare senso agli appelli alla «coscienza morale» è la loro
sincerità e coerenza: anche in questi contesti come in quelli che chiamano in causa la verità è in
gioco una più generale condizione di veracità di ciò che sosteniamo (Williams, 2005). Il richiamo
alla coscienza morale comporta che vi sia una qualche condotta coerente con questo richiamo. Nel
caso del richiamo alla coscienza morale non avrebbe alcun senso se esso non fosse legato a qualche
condotta effettivamente realizzabile e se la persona non la accompagnasse con la condotta
conseguente. Perché dirci che la coscienza morale pretende qualcosa e poi non fare personalmente
quello che viene indicato dalla coscienza morale? Perché appellarsi alla propria coscienza morale
per prescrivere quella che deve essere esclusivamente la condotta di altri e non la nostra? La
coscienza morale sembra avere una speciale autorevolezza sulla propria condotta nel senso che essa
dovrebbe soverchiare e avere la meglio su altre eventuali motivazioni (Hare, 1989, 237-256). È
inutile – o ipocrita – chiamare in causa la propria coscienza se non si è pronti a fare quello che essa
ci detta e dunque per giustificare obblighi che riguardano solo gli altri.
Un’altra convergenza tra le due impostazioni filosofiche che abbiamo identificato sta nel
trattare in modo distinto e più determinato l’autorevolezza e la portata di un appello alla coscienza
morale fatto per rivendicare obblighi o doveri per gli altri. Proprio questo tipo di appello fanno i
legislatori, moralisti o ecclesiastici quando pretendono che tutti seguano la coscienza morale che
secondo loro detta certe condotte e non altre. In questo caso, come abbiamo già detto, condizioni
minime di funzionamento sembrerebbero essere in primo luogo che la stessa persona faccia
effettivamente quanto pretende sia dettato dalla coscienza morale. Ma è inoltre chiaro che l’appello
alla propria coscienza morale per pretendere una condotta da altri non potrà legittimarci laddove
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vogliamo dare a questa pretesa la forza coercitiva della legge o del diritto. La nostra coscienza
morale può certo chiederci di disapprovare una condotta altrui che non apprezziamo ed ancora forse
pretendere che presentiamo agli altri tutte le ragioni morali a favore della nostra opzione. Ma se
vogliamo salvaguardarla in quanto coscienza morale dovremo rifuggire dal ricorrere a mezzi
persuasivi del tutto impropri quali la coercizione e la sanzione delle leggi dello Stato. Una
delimitazione a proposito della portata della coscienza morale personale sulla condotta altrui che già
radicata nelle due linee riflessive che abbiamo richiamato è stata poi esplicitamente argomentata nel
1859 da John Stuart Mill in La libertà (Mill, 1999).
Una critica degli usi di coscienza morale nei contesti della bioetica
Possiamo ora tirare le fila del nostro discorso ritornando criticamente sugli usi di coscienza
che abbiamo richiamato all’inizio. Nelle discussioni pubbliche sulla bioetica nel nostro paese
sembra prevalga il ricorso alla «coscienza morale» in quanto questo appello continua ad avere un
significato prevalentemente persuasivo ed emotivo che lo rende utilizzabile per discorsi meramente
propagandistici. È infatti chiaro che in molti casi in cui ci si richiama alla coscienza nessuno è in
grado di dirci se tale richiamo è legittimo o meno, specialmente se ci troviamo di fronte ad un
appello che si auto-giustifica presentandosi come ultimo, indiscutibile e senza specificazioni. Se poi
ci si permette di aprire una problematizzazione sulla legittimità di chiamare in causa la coscienza
morale le persone si offendono e dicono che non si rispetta la loro dignità. Se questa
problematizzazione viene fatta filosoficamente si viene trattati come provocatori che disturbano il
manovratore o comunque dei perdigiorno. Sulla base di tutto questo si può diagnosticare che nel
dibattito bioetico del nostro paese prevale quell’uso assolutistico e metafisico di «coscienza morale»
che abbiamo visto largamente abbandonato dall’etica degli ultimi secoli. In questa conclusione ci
limitiamo dunque a prendere principalmente le distanze da questi usi residuali di coscienza morale
(caratterizzarli come acritici verrebbe considerata una provocazione e quindi è inutile).
Alcuni degli usi correnti di coscienza morale sulla base della nostra analisi del significato di
questa nozione possono essere considerati del tutto privi di validità e impropri. Così in primo luogo
tutti gli usi fatti da parlamentari per difendere la loro coscienza non sono altro che difesa di un loro
privilegio del tutto inaccettabile e talvolta condotta in forma ipocrita perché si accompagna ad un
voto segreto. Questi parlamentari non vogliono minimamente pagare ciò che un reale appello alla
coscienza morale chiede di pagare ovvero una qualche eventuale impopolarità. Usano la loro
formula come una giustificazione finale senza spiegare quali sono le vie mediante le quali si
sarebbe formata questa loro coscienza. Usano la loro coscienza per imporre ad altri quello che
devono fare nelle loro vite: il che tra l’altro è in conflitto con una legislazione in una società liberaldemocratica in cui va difesa la coscienza delle cittadine e dei cittadini e non di coloro che sono stati
eletti come rappresentanti proprio per difendere libertà e pluralità nella società. Infine questi
parlamentari non mostrano nemmeno di avere quella minima coerenza tra condotta personale e
contenuti che difendono in nome della coscienza, come si è talvolta mostrato mettendo a confronto
le loro vite reali con le loro prese di posizione pubbliche sulla sessualità, le relazioni familiari, il
ricorso all’interruzione della gravidanza.
Egualmente inaccettabili sono gli usi fatti della nozione di coscienza dai medici nella formula
in «scienza coscienza». In primo luogo è dubbio che si possa individuare una specifica finalità
morale o dovere morale di fare sopravvivere come proprio della professione medica. La coscienza
morale non sembra difendere in quanto tale regole deontologiche di una professione che non si
confronti di volta in volta con le richieste delle leggi pubbliche (che avranno comunque la priorità)
e delle altre persone coinvolte. Del giuramento di Ippocrate sono state date diverse formulazioni
(Gracia, 1993). Cosa significhi sopravvivere, come ciò si realizzi non risulta chiaro oggigiorno dati
gli sviluppi della medicina. I medici dovrebbero mostrare che effettivamente hanno fatto un
percorso individuale di crescita. Inoltre non sembra accettabile una coscienza che detti una condotta
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che vale per altri, nel caso i pazienti sul proprio corpo, e che non si confronti umilmente con la
volontà dell’altro. Ancora una volta questi usi di coscienza morale sono squalificati perché fatti
valere non a difesa della propria condotta ma imposti con forza – richiedendo sanzioni e leggi –
sulla condotta altrui per difendere quelli che si ritengono i propri diritti.
Va chiaramente rifiutata la pretesa di chiamare obiezione di coscienza quello che viene
ammesso relativamente all’aborto dalla legge 194 e di estendere una analoga obiezione di coscienza
non solo, come è stato fatto con la legge 40, per le pratiche di procreazione assistita, ma anche per
la vendita di determinati farmaci. A rifiutare tutto questo parlare impropriamente di «obiezione di
coscienza» vale quanto argomentato chiaramente da Chiara Lalli, ovvero che queste condotte non
hanno nulla a che fare con quello che originariamente era l’obiezione di coscienza. Il concetto di
obiezione di coscienza si è formato per avere a che fare con condotte in cui le persone si
sottraevano, per motivazioni morali, a presunti obblighi universali che non riconoscevano e così
facendo erano pronti a pagare le eventuali sanzioni per questa condotta (Lalli, 2011). È quanto è
accaduto in Italia per coloro che per decenni hanno detto no all’obbligo del servizio militare. Con le
loro condotte i medici e i farmacisti non si stanno sottraendo ad un obbligo universale ma casomai
ad un obbligo professionale (si può non fare il ginecologo sapendo che il nostro paese consente
l’aborto ecc.), né intendono pagare sanzioni di alcun genere ma rivendicano un diritto. Ancora una
volta si tratta di difendere un privilegio e non piuttosto di essere pronti a pagare il costo di uno
scrupolo morale individuale che ci porta su di una via non universalmente già condivisa. Si vuole
addirittura essere protetti dalla legge in questa condotta che spesso danneggia altri. Molti obiettori
nei reparti di ginecologia fanno carriera più di coloro che non obiettano. È inoltre assurdo sostenere
come fanno alcuni moralisti cattolici (Sgreccia, 1994; 2006) che è obbligatorio sollevare in tutti
questi casi obiezione di coscienza: qui si nega proprio il valore dell’indipendenza, dell’autonomia e
della libertà personale che è la base della obiezione di coscienza.
Nelle questioni della bioetica sono dunque legittimi quegli appelli alla coscienza morale che
richiamano un processo di riflessione e deliberazione personale che viene rivendicato a proposito
principalmente della propria cura, della propria morte e della formazione e ampliamento della
propria famiglia. Nel nostro paese chi fa questo probabilmente ha già così tanto da fare – contro le
leggi e il conformismo morale – che difficilmente può avere la tentazione di provare a difendere i
contenuti della sua coscienza morale anche per quello che riguarda la condotta altrui. Tra l’altro chi
richiama lungo queste linee la coscienza morale privilegia l’esigenza che tutti formino
autonomamente la propria coscienza. Ma se vogliamo provare ad avanzare un’ipotesi sulla strategia
migliore per favorire una formazione diffusa di una coscienza morale individuale così intesa, forse
oggigiorno si può fare tesoro degli esiti di una delle linee di ricerca che negli ultimi decenni ha
rivisto il concetto di coscienza in generale. Possiamo avvalerci di una ricaduta applicativa delle
ricerche delle scienze cognitive per una formazione e educazione morale più adeguate, ricaduta che
sembra mostrarsi sempre più fertile nei programmi elaborati in queste aree nel corso del secolo
XXI. Per fare questo va preso a modello e esteso al piano etico il discorso fatto ad esempio da
Antonio Damasio contro le inadeguatezze della concezione razionalistica e intellettualistica della
coscienza (Damasio, 1995). Va messa da parte la stessa concezione di una mente strutturata in
modo tale che i contenuti intellettuali sono sovraordinati rispetto a quelli affettivi ed emotivi.
Superando i riduzionismi e le semplificazioni dei cartesiani e dei razionalisti non dobbiamo ritenere
che scopriremo i nostro doveri trovando nella nostra coscienza principi e comandamenti definitivi.
Dovremo piuttosto aprirci all’empatia e all’affettività nei confronti degli altri che ci permettano di
percepire quanto le sofferenze non volute che gli altri subiscono per azioni umane siano, non meno
delle nostre, negative: allargare e stabilizzare un apprendimento del genere permetterà di avere
quella esperienza che rende sensato un appello alla coscienza morale e nello stesso tempo lo
giustifica.
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SINTESI
In questo scritto si rivisitano le vicende delle riflessioni bioetiche su nascita, cura e morte, usando
come filtro di ricostruzione l’esame critico degli usi che in esse ha avuto la nozione di coscienza, non in
generale ma nella sua accezione più determinata di «coscienza morale». Si fornisce in primo luogo una
sintetica rassegna di quelli che si ritengono gli usi principali che la nozione di «coscienza morale” ha avuto
nei dibattiti bioetici. Si procede poi ad una valutazione critica di tali usi approfondendo con l’aiuto della
riflessione filosofica dal XVII secolo ad oggi il concetto di «coscienza morale». Su questa base, da una parte,
si contesta l’idea che il ricorso alla «coscienza morale» abbia chiamato in causa con le questioni della
bioetica una nuova categorizzazione di questo concetto. E, dall’altra, si rendono espliciti gli equivoci e le
inadeguatezze di molti degli appelli alla «coscienza morale» alla luce della critica che viene fatta alla portata
di tale coscienza ove non sia radicata nella responsabilità personale e voglia essere fatta valere per la vita di
tutti gli esseri umani.
PAROLE CHIAVE: Autorevolezza, bioetica, coscienza, coscienza morale, cura, morte, nascita, simpatia,
spettatore imparziale, responsabilità personale.
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