L’appello alla coscienza nelle questioni bioetiche: una critica EUGENIO LECALDANO La società italiana, la bioetica e gli appelli alla «coscienza morale» Uno dei dibattiti che negli ultimi vent’anni ha maggiormente attraversato la discussione pubblica è stato quello sulle questioni della bioetica. La società italiana si è confrontata spesso con problemi morali che avevano a che fare con le nuove situazioni in cui ci si curava, si faceva nascere la propria prole, si finiva la propria esistenza morendo. Si è dovuto prendere posizione nei confronti di pratiche prima non esistenti e che erano il frutto degli sviluppi della ricerca scientifica e delle applicazioni che di volta in volta se ne erano fatte con la medicina. Casi esemplari sono tutte le discussioni: sui trapianti e sull’uso dei test e in genere dei ritrovati della ricerca genetica e farmacologica per quanto riguarda la cura e la prevenzione; sulle diverse pratiche di procreazione assistita ed in particolare le forme della fecondazione in vitro con il ricorso o meno alla diagnosi preimpianto; sulle cure ricavate da ricerche genetiche sviluppate attraverso una sperimentazione sulle cellule somatiche o embrionali; sui modi in cui avvicinarsi alla fine della vita tenuto conto del grande aiuto per la sopravvivenza dato da tutta una serie di strumenti vicarianti (per le attività cardiache, di respirazione, di alimentazione e idratazione) e della presenza sempre più ampia di persone in stato vegetativo permanente (Borsellino, 2009; Magni, 2011; Mori, 2011; Romano, 2012). Su tutte le questioni della bioetica il confronto è stato, nella nostra società, drammatico e ha visto la contrapposizione di diverse concezioni etiche. Su tali questioni abbiamo avuto numerosi interventi a livello di istituzioni pubbliche e, in particolare, da parte del Parlamento e delle Corti di giustizia di vari ordini fino alla Corte Costituzionale. Ci limitiamo a ricordare l’approvazione, dopo una discussione per diverse legislature, di una legge di grande ampiezza come la legge 40/2004 sulla procreazione assistita che è stata anche sottoposta a referendum nel 2005. Il referendum abrogativo del 2005 non è risultato valido non avendo raggiunto il quorum richiesto, ma la Corte Costituzionale ha dichiarato, negli anni successivi, illegittime alcune delle norme sottoposte a referendum. Nelle ultime legislature il Parlamento ha anche discusso una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, molto controversa e che non ha ancora concluso il suo iter. Drammatiche tensioni hanno attraversato la nostra società in molte occasioni e in particolare in occasione della morte di Piergiorgio Welby nel 2006 e di Eluana Englaro nel 2009. In questo scritto si rivisitano queste vicende usando come filtro di ricostruzione l’esame critico degli usi che in esse ha avuto la nozione di coscienza, non in generale ma nella sua accezione più determinata di «coscienza morale». Si fornirà dunque in primo luogo una sintetica rassegna di quelli che si ritengono gli usi principali che la nozione di «coscienza morale» ha avuto nei dibattiti bioetici. Si procederà poi ad una valutazione critica di tali usi approfondendo con l’aiuto della riflessione filosofica il concetto di «coscienza morale». Nel fare ciò, da una parte, si contesterà l’idea che il ricorso alla «coscienza morale» abbia chiamato in causa con le questioni della bioetica una nuova categorizzazione di questo concetto. E dall’altra si renderanno espliciti gli equivoci e le inadeguatezze di molti degli appelli alla «coscienza morale» alla luce dell’investigazione che sulla portata e accettabilità di questi appelli, è stata fatta dalla riflessione etica del passato. 1 Questi si possono ritenere alcuni degli usi più ricorrenti della nozione di «coscienza morale» in collegamento con il dibattito sulle questioni bioetiche. Un uso molto diffuso nel contesto politico è stato quello presente nelle dichiarazioni di molti Parlamentari, di quasi tutti i partiti, per cui essi hanno rivendicato, ripetutamente, la libertà di votare secondo coscienza sulle questioni bioetiche e dunque di potere rifiutare eventuali indicazioni dei loro gruppi parlamentari o dei partiti in cui erano stati eletti (Binetti, 2009). In realtà nella maggior parte dei casi, a proposito sia della legge 40 come della discussione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, le segreterie dei diversi partiti hanno evitato di prendere posizioni vincolanti sulle questioni bioetiche e si è poi proceduto a votazioni a scrutinio segreto per salvaguardare la libertà di coscienza dei votanti. Spesso le gerarchie della Chiesa cattolica – e in particolare il cardinale Camillo Ruini – hanno, da una parte difeso questo tipo di votazione secondo coscienza sulle questioni moralmente sensibili e dall'altra hanno, contemporaneamente, fatto appello all’obbligatorietà di un voto secondo coscienza che doveva portare all’approvazione della legge 40 o all’approvazione della legge in discussione al Parlamento sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Varie volte questo richiamo alla obbligatorietà di fare valere fino in fondo il richiamo della coscienza morale è stato fatto da cardinali e moralisti cattolici per rivolgersi non solo ai legislatori, o agli elettori in generale, ma a vari ordini professionali come ad esempio medici e farmacisti. Così è stato sostenuto che in nome della coscienza morale si dovessero rifiutare non solo, come è stato fatto per l’aborto, alcune pratiche relative alla procreazione assistita o eventualmente all'accompagnamento del morente verso la fine della sua vita, ma anche rifiutarsi di eventualmente vendere nelle farmacie la pillola del giorno dopo o la pillola per l’interruzione della gravidanza RU486. In effetti, queste richieste sono state in parte accolte perché l’articolo 16 della legge 40 – riprendendo probabilmente la disciplina prevista nell’articolo 9 della legge 194 del 1978 per l’obiezione di coscienza a proposto delle pratiche di interruzione di gravidanza – prevede che il «personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistite disciplinate dalla presente legge quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione». Alcuni ordini professionali e in particolare medici e farmacisti hanno rivendicato, sulla base di questa fedeltà prevalente alla coscienza morale, il diritto di non applicare quelle leggi statuali che richiedessero loro condotte in contrasto con la coscienza (Flamigni e Melega, 2010a; 2010b). Inoltre il riconoscimento all’obiezione di coscienza è stato avanzato anche in occasione della discussione in Parlamento della legge sulle dichiarazioni anticipate, rivendicando la facoltà del medico a non uniformarsi alle richieste del paziente sulla fine della sua stessa vita, laddove vadano contro la coscienza morale del sanitario – una coscienza ritenuta non solo morale ma anche professionale. Un uso diffuso del richiamo alla coscienza è poi quello fatto dai medici italiani anche nei loro codici deontologici, e che viene consacrata dal motto, a cui essi spesso rinviano pubblicamente, di prendere le loro decisioni «secondo scienza e coscienza». Questo motto viene spesso usato per rivendicare una peculiare gamma di doveri che la coscienza del medico richiamerebbe come base della sua professione. Doveri che egli ricaverebbe dall’avere sottoscritto il «giuramento di Ippocrate». Il dovere principale non sarebbe solo quello di dare corso ad una pratica che tenga conto di tutte le informazioni e gli strumenti che la scienza medica mette a disposizione, ma principalmente quello di impegnarsi in tutti i modi per assicurare la sopravvivenza del malato. Così il professionista sanitario con il suo appello alla coscienza rivendica non solo dei doveri ma piuttosto dei diritti e delle libertà fondamentali che specialmente negli ultimi decenni per le questioni di pertinenza della bioetica hanno voluto spesso dire interpretare in senso riduttivo il requisito di legare gli interventi medici al consenso informato del paziente (Cosmacini, 2007). In molte occasioni, sia nella formulazione del codice di deontologia medica come nella stesura di leggi, quali ad esempio quella attualmente in discussione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, i medici hanno rivendicato di essere autorizzati a non riconoscere una piena eguaglianza tra loro e i pazienti. Il personale sanitario ritiene cioè che vi siano molte occasioni in 2 cui, o per motivi di urgenza o per garantire comunque la sopravvivenza del paziente, il dovere di seguire la propria coscienza professionale debba avere la meglio sul diritto del malato che le sue volontà siano rispettate sino in fondo. Contro la coscienza professionale del medico sarebbero quindi sia le richieste di sospensione di trattamenti essenziali e vitali, come e maggiormente le richieste di essere aiutati a morire con forme di suicidio assistito ed eutanasia. Un tale uso della coscienza professionale e medica è stato rivendicato con forza negli ultimi anni in riferimento al caso Welby e al caso Englaro. Una parte dei medici italiani ha considerato non ricevibile la richiesta di Welby di vedere staccato il respiratore, e ancor meno ricevibile la richiesta di Beppino Englaro di sospendere alimentazione e idratazione della figlia Eluana, in coma vegetativo permanente da oltre diciassette anni e secondo quanto concesso dalla Corte di Cassazione. Le questioni della armonizzazione tra dovere dei medici e diritti dei malati hanno aperto tutta una serie di controversie in cui spesso sono state le corti di giustizia a fare valere la libertà di coscienza del malato a proposito delle sue cure nei confronti di alcune tendenze ad interpretare riduttivamente questo diritto da parte del personale sanitario (Santosuosso, 1996; 1998). Una rivendicazione della coscienza morale come autonomia delle persone è stata fatta frequentemente – più però nelle posizioni delle minoranze e nelle discussioni teoriche che nei confronti pubblici che hanno maggiormente coinvolto la nostra società – da tutti coloro che hanno rivendicato nel nostro paese leggi che lasciassero la facoltà alle persone di risolvere secondo la loro propria personale visione morale le scelte relative alla formazione della loro famiglia e alla nascita della loro prole, alla loro cura e alla loro morte. Questa rivendicazione della libertà della coscienza morale come fondata nella responsabilità etica individuale di certo ha guidato la condotta di molte persone a proposito delle questioni bioetiche e ha segnato non solo il consolidarsi della richiesta al Parlamento e all’opinione pubblica di fare un passo indietro e lasciare che le persone organizzassero autonomamente secondo la loro coscienza i piani di vita, ma anche di un pluralismo e una diversità etica strutturale nella nostra società. Oltre l’appello alla «coscienza» come fondazione di una morale assolutistica Per approfondire il nostro esame, le questioni che proveremo a trattare sono di almeno due tipi. Da una parte, la questione, per così dire storica ed esplicativa, che cerca di individuare se tra questi usi della nozione di coscienza morale ci siano usi che segnano una significativa trasformazione del concetto di coscienza. Dall’altra, una valutazione riflessiva che non solo distingue tra i diversi significati che la nozione di coscienza ha in questi contesti ma prova anche a considerarne l’accettabilità. Possiamo ammettere che le questioni della bioetica hanno in parte trasformato la nostra concezione della responsabilità costringendoci ad affrontare questioni etiche sulla nascita, la cura e la morte che non erano oggetto della riflessione morale dei nostri progenitori. Questo vuole però dire solo che si è trasformata e ampliata l’agenda dei problemi che sono stati prima facie ritenuti di pertinenza della coscienza morale e non dice nulla sull’eventuale trasformazione del modo di concettualizzare la natura di questa coscienza. In realtà non sembra che nei contesti dei problemi bioetici ci si trovi dinanzi a categorizzazioni nuove della coscienza morale. Non stiamo dicendo che nel corso del XX secolo la nozione o il concetto di coscienza non abbiano subito delle trasformazioni, o meglio degli approfondimenti e revisioni che ne hanno ampiamente cambiato l’uso e il significato. Sicuramente questo è accaduto e sta sicuramente accadendo per la «coscienza» in generale. Ci limitiamo a ricordare alcune dimensioni di questa trasformazione (Di Francesco, 2000). Radicalmente innovative sono state le analisi di Sigmund Freud che hanno portato ad abbandonare l’identificazione di psichico e cosciente e hanno dato corso a una larga serie di spiegazioni dei processi della coscienza che mettono in crisi la convinzione di una sua priorità o completa autonomia (Freud, 1989; Laplanche e Pontalis, 1968, 106-112). Non meno innovative 3 sono state le analisi sulla coscienza di pensatori che hanno elaborato le prospettive della scienza cognitiva lungo le linee ad esempio di quell’eliminativismo di Daniel Dennett (1992;1993) che riconduce a una struttura computazionale profonda i processi mentali della coscienza. O ancora più recentemente i tentativi di avere a che fare con i processi della coscienza attraverso l’impostazione della neuroscienza (Di Francesco, 2011). Tutto questo ha in verità coinvolto le riflessioni sulla coscienza nelle questioni bioetiche in modo molto marginale. La nozione di coscienza morale ci sembra sia stata influenzata piuttosto dalle riflessioni che su di essa si sono sviluppate nella riflessione filosofica a partire dal XVI secolo. Di queste riflessioni proveremo dunque a rendere conto per ricostruire due diverse fasi nella riflessione moderna e contemporanea sulla coscienza morale. La prima rivolta a valutare la fondatezza della pretesa di una coscienza morale radicata in una dimensione metafisica e ontologica di disporre di una speciale autorevolezza per guidare in termini assolutistici la condotta umana. La seconda impegnata a riformulare l’appello alla coscienza morale inserendolo in una dimensione più secolare e naturale e traducendolo quindi in un appello alla responsabilità personale e che fa dipendere l’autorevolezza delle scelte in termini di coscienza morale da questa dimensione di autonomo coinvolgimento (Schneewind, 1998). La riflessione sulla «coscienza morale», in una prima fase dell’etica moderna che si conclude con gli albori dell’Illuminismo, è stata principalmente rivolta ad esaminare la fondatezza della posizione espressa nel corso della tradizione precedente e formulata in termini sistematici da Tommaso d’Aquino. In questa dottrina la «coscienza morale» si presentava come depositaria, ultima e originaria, di un sapere, che doveva valere per l’intera umanità, delle leggi e degli obblighi morali universali inscritti nell’ordine naturale stabilito dall’Autore della Natura. La coscienza morale derivava la sua autorevolezza nel trasmettere un valore superiore ed esterno all’umanità tutta proprio dalla sua capacità di testimoniare una conoscenza metafisica che andava al di là della mente fino a cogliere la struttura ultima delle cose. In questa concezione «coscienza morale», ontologia e metafisica andavano di pari passo e fornivano ai dettami della coscienza una assolutezza ritenuta inconfutabile. L’accettabilità di un appello ad una «coscienza morale» così intesa è stata contestata in molti modi a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Da una parte Michel de Montaigne, con le analisi svolte nei suoi Saggi (Montaigne, 1970), metteva in luce tutti i dubbi sulla disponibilità di questo orizzonte metafisico e ontologico in cui collocare una coscienza in grado di guidare la condotta umana. Questi dubbi erano accompagnati anche dalla constatazione che eventuali elementi di generalità e costanza nelle azioni umane andavano piuttosto collegati a più determinati contesti di epoche storiche e società segnate da trasformazioni e radicali cambiamenti. Dall’altra Joseph Butler, pur riconoscendo un ruolo importante alla coscienza, trasformava radicalmente nei suoi Quindici sermoni (1969) la sua funzione e le basi della sua autorevolezza. Secondo Butler, infatti, la condotta umana era principalmente guidata da impulsi e passioni, in contrasto tra loro, quali l’amore di sé e la benevolenza. Su questa base la coscienza morale ricavava la sua autorità dalla capacità che essa mostrava di armonizzare queste spinte contrastanti facendo prevalere direzioni che la persona che da esse si faceva guidare trovava utili e gratificanti. Come vedremo altri pensatori, da David Hume a Immanuel Kant, contribuiranno a una riformulazione della natura e del ruolo della coscienza. Per questo nel XVIII secolo risulta del tutto isolato il caso di Jean Jacques Rousseau che come è noto nell’Emilio (1972, 554) con la «Professione di fede del vicario savoiardo» celebra una sorta di peana alla centralità della coscienza: «Troppo spesso la ragione ci inganna, ed abbiamo purtroppo acquistato il diritto di ricusarla: ma la coscienza non ci inganna mai; essa è la vera guida dell’uomo; essa è per l’anima ciò che l’istinto è per il corpo; chi la segue obbedisce alla natura, e non teme affatto di smarrirsi». Ma nel caso di Rousseau la coscienza passa attraverso la scoperta soggettiva di una libertà e sensibilità che spinge al di là di quello che la cultura umana vuole imporre; sembra quindi ben lontana dalla facoltà rivendicata da Tommaso come aperta ad una dimensione esterna, metafisica e teologica. 4 Nuove basi per l’appello alla «coscienza morale» Un’opera sistematica di riformulazione del ruolo e della natura della coscienza morale è stata intrapresa nel corso del XVIII secolo. La coscienza morale non si presenta più come una realtà ultima e originaria, ma piuttosto come l’esito, a livello personale, di un processo autonomo di crescita e riflessione mediante il quale il soggetto individuale è giunto a formare – superando le prospettive dell’interesse egoistico e strettamente personale – il punto di vista generale e imparziale che è proprio della vita etica. In questo contesto la coscienza morale a cui si fa appello avanza una pretesa di autorevolezza che noi però dobbiamo ulteriormente suffragare delineando – in una argomentazione pubblica – la basi epistemologiche che abbiamo percorso. Nella storia dell’etica degli ultimi secoli sembra possibile individuare principalmente due diverse tradizioni che hanno dato corpo ad una coscienza morale così intesa. L’una che ritiene che la coscienza sia niente altro che un dettame della ragione e l’altra che invece pensa che essa sia un dettame della sensibilità morale. Delineiamo brevemente queste alternative prima di mostrare come esse per altro convergano nell’identificare alcuni requisiti della condotta umana che possono essere in grado di dare un qualche significato all’appello alla coscienza morale. Da una parte vi è dunque la concezione che collega i dettami della coscienza morale con quanto viene elaborato in una forma di intuizione non empirica dalla ragione umana. Appellarsi alla coscienza qui vuole dire rinviare a contenuti che abbiamo raggiunto con l’aiuto della nostra riflessione razionale: questi contenuti si presentano come doveri e obblighi che noi riteniamo di potere giustificare il più universalmente possibile sia per la nostra come per l’altrui condotta. Come già Kant indicava nella sua Fondazione della metafisica dei costumi (Kant, 1997) la coscienza morale come base della nostra vita pratica non va confusa con una «conoscenza morale comune» che gli esseri umani troverebbero originariamente nella loro mente e a cui sarebbero tentati di dare una portata prioritaria in quanto espressione di leggi assolute ed eteronome. A evitare dunque qualsiasi equivoco Kant aggancia la moralità più che alla «coscienza» alla «ragion pura pratica». La sua elaborazione risulta particolarmente significativa come esemplificazione della trasformazione degli usi di «coscienza morale» che stiamo tematizzando. L’autonomia e l’assunzione di responsabilità non possono non accompagnare gli appelli alla «coscienza morale» e ciò che dà autorevolezza a questi appelli è proprio il «fatto di ragione» di essere radicati nell’autonomia e nella responsabilità. Kant lega l’individuazione degli imperativi categorici a cui la coscienza morale non si può sottrarre all’operazione di una peculiare ragione pratica in grado di raggiungere esiti trascendentali attraverso un percorso di libertà e autonomia. Per Kant quindi chi rivendica l’autorevolezza della coscienza morale dietro quelle norme e principi che ritiene debbano valere per tutti e in primo luogo per sé stesso – anche per il loro statuto di imparzialità – non può sottrarsi ad avviare un controllo pubblico formale che mostri l’accettabilità delle sue pretese. Diversa è l’elaborazione epistemologica che viene offerta dalla linea di riflessione che è stata inaugurata con chiarezza da David Hume. Questa concezione prende l’avvio da un passo del Trattato sulla natura umana in cui Hume, usando per l’unica volta la nozione di coscienza, istituisce una significativa assimilazione concettuale: «coscienza ossia il senso morale» (Hume, 1987, 485). In effetti secondo questa impostazione, che sarà propria anche di Adam Smith e di tutti coloro che accettano l’analisi sentimentalistica dell’etica, quando qualcuno fa appello alla «coscienza morale» rinvia ad una peculiare classe di sentimenti morali che gli permettono di approvare o disapprovare la condotta propria e altrui. Questa via di ricostruzione dell’appello alla coscienza morale in termini di rinvio ai sentimenti morali è stata particolarmente elaborata da Smith nella sua Teoria dei sentimenti morali (Smith, 1995, 290-327). Secondo Smith quando si fa appello alla «coscienza morale» si intende dire che quel contenuto che abbiamo cercato di fare valere nella nostra condotta, e che riteniamo anche gli altri dovrebbero approvare, è quello che dopo un attento esame abbiamo concluso che sarebbe stato accolto con simpatia – nel senso che con esso avrebbe simpatizzato ritenendolo adeguato o lodevole – da parte di un immaginario spettatore imparziale. 5 Secondo questa trascrizione della nozione di «coscienza morale» essa ricava la sua autorevolezza proprio dal fatto di essere legata a sentimenti che noi effettivamente proviamo: sentimenti inoltre che sono stati sottoposti ad un vaglio riflessivo immaginando uno spettatore imparziale bene informato che avrebbe potuto o meno condividerli. Vanno resi espliciti due aspetti di questa identificazione dell’appello alla coscienza morale con un appello a sentimenti di uno spettatore imparziale bene informato. Da una parte ciò significa che la prospettiva incorporata dalla coscienza morale non può in alcun modo essere identificata con una condotta mossa da una considerazione esclusiva e prevalente dei propri interessi: una condotta del genere non potrà che risultare ingiusta e parziale allo spettatore immaginario. Smith ci tiene molto anche a chiarire come l’approvazione o disapprovazione di una coscienza morale, radicata nei sentimenti di un immaginario spettatore imparziale, non andrà confusa con l’accettazione o il rifiuto che possiamo ricevere dal nostro pubblico o dalla comunità in cui viviamo. La coscienza morale è spesso, secondo Smith, impegnata a elaborare dettami che portano a condotte giuste o benevole in contrasto con le opinioni diffuse. Essere guidati dalla coscienza morale non va confuso con la ricerca della popolarità e del consenso. Proprio questa dimensione di responsabilità del tutto personale può quindi essere quella che dà alla coscienza morale quella autorevolezza che può confortare specialmente coloro che subiscono critiche ingiuste e si trovano in una situazione di isolamento: non così isolati da non potere godere dei sentimenti di simpatia di uno spettatore imparziale. Naturalmente ci sono diversità tra le due linee ma sembra possibile indicare convergenze nel modo di qualificare le condizioni minime richieste per fare dell’appello alla coscienza morale qualcosa che non si riduca a un mero suono. Entrambe le linee filosofiche insistono che l’appello alla coscienza morale non è in alcun modo né finale, né autosufficiente: chi lo fa, per dare un significato a questo appello, deve riuscire a rendere pubbliche le ragioni che è andato scoprendo per giungere a formare la convinzione che vuole che sia salvaguardata. Le operazioni con cui si è giunti alla formazione del punto di vista espresso nella coscienza morale hanno coinvolto percorsi personali con cui abbiamo saputo mettere da parte pregiudizi e regole abitudinarie e principalmente i nostri interessi personali ed egoistici. La nostra coscienza ci ha permesso di identificare una condotta che potrebbe essere accettata o da una ragione alla ricerca di contenuti universalizzabili o da uno spettatore disinteressato che con la sua simpatia estesa non vuole siano provocate sofferenze e umiliazioni in nessun essere umano. Un’altra condizione importante per dare senso agli appelli alla «coscienza morale» è la loro sincerità e coerenza: anche in questi contesti come in quelli che chiamano in causa la verità è in gioco una più generale condizione di veracità di ciò che sosteniamo (Williams, 2005). Il richiamo alla coscienza morale comporta che vi sia una qualche condotta coerente con questo richiamo. Nel caso del richiamo alla coscienza morale non avrebbe alcun senso se esso non fosse legato a qualche condotta effettivamente realizzabile e se la persona non la accompagnasse con la condotta conseguente. Perché dirci che la coscienza morale pretende qualcosa e poi non fare personalmente quello che viene indicato dalla coscienza morale? Perché appellarsi alla propria coscienza morale per prescrivere quella che deve essere esclusivamente la condotta di altri e non la nostra? La coscienza morale sembra avere una speciale autorevolezza sulla propria condotta nel senso che essa dovrebbe soverchiare e avere la meglio su altre eventuali motivazioni (Hare, 1989, 237-256). È inutile – o ipocrita – chiamare in causa la propria coscienza se non si è pronti a fare quello che essa ci detta e dunque per giustificare obblighi che riguardano solo gli altri. Un’altra convergenza tra le due impostazioni filosofiche che abbiamo identificato sta nel trattare in modo distinto e più determinato l’autorevolezza e la portata di un appello alla coscienza morale fatto per rivendicare obblighi o doveri per gli altri. Proprio questo tipo di appello fanno i legislatori, moralisti o ecclesiastici quando pretendono che tutti seguano la coscienza morale che secondo loro detta certe condotte e non altre. In questo caso, come abbiamo già detto, condizioni minime di funzionamento sembrerebbero essere in primo luogo che la stessa persona faccia effettivamente quanto pretende sia dettato dalla coscienza morale. Ma è inoltre chiaro che l’appello alla propria coscienza morale per pretendere una condotta da altri non potrà legittimarci laddove 6 vogliamo dare a questa pretesa la forza coercitiva della legge o del diritto. La nostra coscienza morale può certo chiederci di disapprovare una condotta altrui che non apprezziamo ed ancora forse pretendere che presentiamo agli altri tutte le ragioni morali a favore della nostra opzione. Ma se vogliamo salvaguardarla in quanto coscienza morale dovremo rifuggire dal ricorrere a mezzi persuasivi del tutto impropri quali la coercizione e la sanzione delle leggi dello Stato. Una delimitazione a proposito della portata della coscienza morale personale sulla condotta altrui che già radicata nelle due linee riflessive che abbiamo richiamato è stata poi esplicitamente argomentata nel 1859 da John Stuart Mill in La libertà (Mill, 1999). Una critica degli usi di coscienza morale nei contesti della bioetica Possiamo ora tirare le fila del nostro discorso ritornando criticamente sugli usi di coscienza che abbiamo richiamato all’inizio. Nelle discussioni pubbliche sulla bioetica nel nostro paese sembra prevalga il ricorso alla «coscienza morale» in quanto questo appello continua ad avere un significato prevalentemente persuasivo ed emotivo che lo rende utilizzabile per discorsi meramente propagandistici. È infatti chiaro che in molti casi in cui ci si richiama alla coscienza nessuno è in grado di dirci se tale richiamo è legittimo o meno, specialmente se ci troviamo di fronte ad un appello che si auto-giustifica presentandosi come ultimo, indiscutibile e senza specificazioni. Se poi ci si permette di aprire una problematizzazione sulla legittimità di chiamare in causa la coscienza morale le persone si offendono e dicono che non si rispetta la loro dignità. Se questa problematizzazione viene fatta filosoficamente si viene trattati come provocatori che disturbano il manovratore o comunque dei perdigiorno. Sulla base di tutto questo si può diagnosticare che nel dibattito bioetico del nostro paese prevale quell’uso assolutistico e metafisico di «coscienza morale» che abbiamo visto largamente abbandonato dall’etica degli ultimi secoli. In questa conclusione ci limitiamo dunque a prendere principalmente le distanze da questi usi residuali di coscienza morale (caratterizzarli come acritici verrebbe considerata una provocazione e quindi è inutile). Alcuni degli usi correnti di coscienza morale sulla base della nostra analisi del significato di questa nozione possono essere considerati del tutto privi di validità e impropri. Così in primo luogo tutti gli usi fatti da parlamentari per difendere la loro coscienza non sono altro che difesa di un loro privilegio del tutto inaccettabile e talvolta condotta in forma ipocrita perché si accompagna ad un voto segreto. Questi parlamentari non vogliono minimamente pagare ciò che un reale appello alla coscienza morale chiede di pagare ovvero una qualche eventuale impopolarità. Usano la loro formula come una giustificazione finale senza spiegare quali sono le vie mediante le quali si sarebbe formata questa loro coscienza. Usano la loro coscienza per imporre ad altri quello che devono fare nelle loro vite: il che tra l’altro è in conflitto con una legislazione in una società liberaldemocratica in cui va difesa la coscienza delle cittadine e dei cittadini e non di coloro che sono stati eletti come rappresentanti proprio per difendere libertà e pluralità nella società. Infine questi parlamentari non mostrano nemmeno di avere quella minima coerenza tra condotta personale e contenuti che difendono in nome della coscienza, come si è talvolta mostrato mettendo a confronto le loro vite reali con le loro prese di posizione pubbliche sulla sessualità, le relazioni familiari, il ricorso all’interruzione della gravidanza. Egualmente inaccettabili sono gli usi fatti della nozione di coscienza dai medici nella formula in «scienza coscienza». In primo luogo è dubbio che si possa individuare una specifica finalità morale o dovere morale di fare sopravvivere come proprio della professione medica. La coscienza morale non sembra difendere in quanto tale regole deontologiche di una professione che non si confronti di volta in volta con le richieste delle leggi pubbliche (che avranno comunque la priorità) e delle altre persone coinvolte. Del giuramento di Ippocrate sono state date diverse formulazioni (Gracia, 1993). Cosa significhi sopravvivere, come ciò si realizzi non risulta chiaro oggigiorno dati gli sviluppi della medicina. I medici dovrebbero mostrare che effettivamente hanno fatto un percorso individuale di crescita. Inoltre non sembra accettabile una coscienza che detti una condotta 7 che vale per altri, nel caso i pazienti sul proprio corpo, e che non si confronti umilmente con la volontà dell’altro. Ancora una volta questi usi di coscienza morale sono squalificati perché fatti valere non a difesa della propria condotta ma imposti con forza – richiedendo sanzioni e leggi – sulla condotta altrui per difendere quelli che si ritengono i propri diritti. Va chiaramente rifiutata la pretesa di chiamare obiezione di coscienza quello che viene ammesso relativamente all’aborto dalla legge 194 e di estendere una analoga obiezione di coscienza non solo, come è stato fatto con la legge 40, per le pratiche di procreazione assistita, ma anche per la vendita di determinati farmaci. A rifiutare tutto questo parlare impropriamente di «obiezione di coscienza» vale quanto argomentato chiaramente da Chiara Lalli, ovvero che queste condotte non hanno nulla a che fare con quello che originariamente era l’obiezione di coscienza. Il concetto di obiezione di coscienza si è formato per avere a che fare con condotte in cui le persone si sottraevano, per motivazioni morali, a presunti obblighi universali che non riconoscevano e così facendo erano pronti a pagare le eventuali sanzioni per questa condotta (Lalli, 2011). È quanto è accaduto in Italia per coloro che per decenni hanno detto no all’obbligo del servizio militare. Con le loro condotte i medici e i farmacisti non si stanno sottraendo ad un obbligo universale ma casomai ad un obbligo professionale (si può non fare il ginecologo sapendo che il nostro paese consente l’aborto ecc.), né intendono pagare sanzioni di alcun genere ma rivendicano un diritto. Ancora una volta si tratta di difendere un privilegio e non piuttosto di essere pronti a pagare il costo di uno scrupolo morale individuale che ci porta su di una via non universalmente già condivisa. Si vuole addirittura essere protetti dalla legge in questa condotta che spesso danneggia altri. Molti obiettori nei reparti di ginecologia fanno carriera più di coloro che non obiettano. È inoltre assurdo sostenere come fanno alcuni moralisti cattolici (Sgreccia, 1994; 2006) che è obbligatorio sollevare in tutti questi casi obiezione di coscienza: qui si nega proprio il valore dell’indipendenza, dell’autonomia e della libertà personale che è la base della obiezione di coscienza. Nelle questioni della bioetica sono dunque legittimi quegli appelli alla coscienza morale che richiamano un processo di riflessione e deliberazione personale che viene rivendicato a proposito principalmente della propria cura, della propria morte e della formazione e ampliamento della propria famiglia. Nel nostro paese chi fa questo probabilmente ha già così tanto da fare – contro le leggi e il conformismo morale – che difficilmente può avere la tentazione di provare a difendere i contenuti della sua coscienza morale anche per quello che riguarda la condotta altrui. Tra l’altro chi richiama lungo queste linee la coscienza morale privilegia l’esigenza che tutti formino autonomamente la propria coscienza. Ma se vogliamo provare ad avanzare un’ipotesi sulla strategia migliore per favorire una formazione diffusa di una coscienza morale individuale così intesa, forse oggigiorno si può fare tesoro degli esiti di una delle linee di ricerca che negli ultimi decenni ha rivisto il concetto di coscienza in generale. Possiamo avvalerci di una ricaduta applicativa delle ricerche delle scienze cognitive per una formazione e educazione morale più adeguate, ricaduta che sembra mostrarsi sempre più fertile nei programmi elaborati in queste aree nel corso del secolo XXI. Per fare questo va preso a modello e esteso al piano etico il discorso fatto ad esempio da Antonio Damasio contro le inadeguatezze della concezione razionalistica e intellettualistica della coscienza (Damasio, 1995). Va messa da parte la stessa concezione di una mente strutturata in modo tale che i contenuti intellettuali sono sovraordinati rispetto a quelli affettivi ed emotivi. Superando i riduzionismi e le semplificazioni dei cartesiani e dei razionalisti non dobbiamo ritenere che scopriremo i nostro doveri trovando nella nostra coscienza principi e comandamenti definitivi. Dovremo piuttosto aprirci all’empatia e all’affettività nei confronti degli altri che ci permettano di percepire quanto le sofferenze non volute che gli altri subiscono per azioni umane siano, non meno delle nostre, negative: allargare e stabilizzare un apprendimento del genere permetterà di avere quella esperienza che rende sensato un appello alla coscienza morale e nello stesso tempo lo giustifica. 8 SINTESI In questo scritto si rivisitano le vicende delle riflessioni bioetiche su nascita, cura e morte, usando come filtro di ricostruzione l’esame critico degli usi che in esse ha avuto la nozione di coscienza, non in generale ma nella sua accezione più determinata di «coscienza morale». Si fornisce in primo luogo una sintetica rassegna di quelli che si ritengono gli usi principali che la nozione di «coscienza morale” ha avuto nei dibattiti bioetici. Si procede poi ad una valutazione critica di tali usi approfondendo con l’aiuto della riflessione filosofica dal XVII secolo ad oggi il concetto di «coscienza morale». Su questa base, da una parte, si contesta l’idea che il ricorso alla «coscienza morale» abbia chiamato in causa con le questioni della bioetica una nuova categorizzazione di questo concetto. E, dall’altra, si rendono espliciti gli equivoci e le inadeguatezze di molti degli appelli alla «coscienza morale» alla luce della critica che viene fatta alla portata di tale coscienza ove non sia radicata nella responsabilità personale e voglia essere fatta valere per la vita di tutti gli esseri umani. PAROLE CHIAVE: Autorevolezza, bioetica, coscienza, coscienza morale, cura, morte, nascita, simpatia, spettatore imparziale, responsabilità personale. BIBLIOGRAFIA Binetti P. (2009). La vita è eguale per tutti. La legge italiana e la dignità della persona. Milano, Mondadori. Borsellino P. (2009). Bioetica tra «morali» e diritto. 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