1 - Università degli studi di Bergamo

Il concetto di natura tra scienza e filosofia. Quali ricadute pedagogiche?
Bergamo, 10 giugno 2008
Seminario con il prof. Evandro Agazzi
Il dieci giugno 2008, nell’aula Sant’Agostino dell’Università di Bergamo si
è svolto il seminario dal titolo: “Il concetto di natura tra scienza e
filosofia. Quali ricadute pedagogiche?” con la presenza del prof. Agazzi che
ha tenuto una lezione sull’argomento alla quale è seguito il dibattito. Il
prof. Bertagna, direttore del Dottorato di Ricerca, ha introdotto il tema,
presentando il vocabolo “natura” come uno fra i più equivoci del pensiero
filosofico e della cultura, in generale. Già il senso comune attribuisce ad
esso diversi significati. In filosofia si passa dal concetto di physis come
essenza profonda di una cosa, come elemento qualificante per cui un ente è
se stesso e non altro – secondo Aristotele – all’uso del termine “natura” o
come sinonimo di ‘ambiente bucolico o ecologico’ che sta fuori di noi o
come sinonimo di naturalizzazione, ovvero processo che tende a ridurre il
sapere solo a quanto sia empiricamente controllabile dalla scienza. Il
versante pedagogico ripropone lo stesso quadro indefinito.
Nel suo intervento il prof. Agazzi esordisce riprendendo l'ambiguità del
termine, ambiguità che si pone già a livello di senso comune. E’ possibile,
però, rintracciare due nuclei fondamentali di significati. Secondo il
primo, con il termine “natura” si indica il mondo esterno. Senza entrare in
questioni più complesse che porterebbero a chiedersi, per esempio, rispetto
a che cosa la natura è esterna, si può intendere l’espressione grosso modo
come comprensiva di tutto ciò che è osservabile e materiale. In sostanza,
riprendendo un’antica distinzione che risale all’epoca greca classica, la
“natura” comprende l’insieme delle realtà che non sono prodotte dall’uomo.
Il concetto si precisa pensando che l’aggettivo “naturale” si contrappone a
artificiale. Quindi il mondo esterno, cioè la natura come insieme complesso
di realtà diverse che sono fuori di noi, c’è già e precede l’uomo stesso.
Per quanto riguarda il secondo nucleo di significati, il termine compare in
espressioni del tipo: “ qual è la natura della tal cosa?” o “ l’uomo è per
sua natura…”. In questi casi è evidente una diversa accezione e cioè la
“natura” è ciò per cui una cosa è se stessa e non altra. Per usare il
linguaggio filosofico è “l’essenza” di una cosa. Una declinazione
particolare di tale concetto ha a che fare con lo statuto ontologico di un
certo ente per cui ci si riferisce al tipo di esistenza che hanno, per
esempio, gli imperativi morali, piuttosto che i numeri naturali o altri
oggetti sui quali si pone la stessa domanda.
Questi due ordini di significati non sono presenti solo nel discorso
ordinario, ma hanno alle spalle, per così dire, l’elaborazione filosofica
di secoli. La storia del concetto di natura incomincia, infatti, con i
presocratici per i quali la physis, la natura, coincide con la totalità di
ciò che esiste. Per grandi linee si passa a Lucrezio con il De rerum natura
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nel quale la “natura” è letta in chiave materialistica, come una grande
articolazione della materia, che comprende non solo tutto ciò che è esterno
all’uomo, ma anche l’uomo stesso e i fenomeni particolari in essa presenti.
Passando all’epoca cristiana si incontra un nuovo riferimento: al
soprannaturale, riferimento carico di implicazioni circa il rapporto fra
naturale e soprannaturale. Tale questione passerà in eredità al mondo
moderno. Con il sorgere della scienza, infatti, il discorso sulla natura
diviene più complesso. Galileo afferma,in diversi passi delle sue opere, di
voler conoscere solo le “sostanze naturali”, lasciando a intendere che ce ne
possono essere altre di cui però la scienza non si occupa, né si occupa di
“tentar l’essenza”. Il nuovo sapere, pertanto, delimita il proprio campo di
indagine agli aspetti misurabili e quantitativi, le cosiddette qualità
primarie, o - per riprendere la terminologia scolastica utilizzata da
Galileo – le affezioni dei corpi. Il pensiero di Galileo in proposito va
ulteriormente approfondito poiché costituisce uno snodo fondamentale nella
storia del concetto e – in senso generale - dei rapporti fra filosofia e
scienza. Quest’ultima, fin dal suo sorgere, si appoggia a una metafisica non
dichiarata, a un’ontologia implicita che ne condiziona lo sviluppo. Si
tratta di una visione atomistica e meccanicistica della natura che trae
origine dalle dottrine di Democrito e di Leucippo.
Tuttavia, pur con questi presupposti, Galileo e i suoi continuatori
lasciano aperta la possibilità che siano svolte, su di essa, indagini di
altro genere. Già due secoli prima di Galileo, Leonardo esprimeva più o meno
la stessa convinzione quando affermava di lasciare ai frati, padri dei
popoli, che conoscono le cose per divinazione, lo studio di ciò che non
rientra nell’ambito della conoscenza sensibile.
Erede di Galileo, Cartesio separa la res extensa, che è solo estensione e
moto locale, dalla res cogitans cioè il pensiero dal quale ultimamente
dipendono tutte le dimostrazioni e le certezze che si possono avere anche
sulla res extensa poiché dal “cogito” si possono dedurre l’esistenza di Dio
e la stessa realtà del mondo fisico.
In sintesi, fino all’Ottocento la scienza definisce un proprio approccio di
conoscenza alla realtà, ma lascia sussistere altri possibili discorsi che
hanno una loro plausibilità. Certo, il presupposto metafisico implicito non
giustificato è l’affermazione secondo la quale ciò che si può sapere della
realtà, cioè gli aspetti quantitativi e misurabili, sono tutta la realtà di
una cosa. Infatti, un conto è dire che la complessità dell’oggetto ( la
realtà) può essere studiata con più metodi, a partire da quello
scientifico; altro è, invece, sostenere, che c’è un unico metodo poiché la
realtà conoscibile è tutta riconducibile agli aspetti materiali di essa. Il
passo teoreticamente decisivo, in questo senso, è quello compiuto da Kant
che non solo esalta la scienza, ma considera la conoscenza scientifica l’unica
conoscenza razionale e certa, l’unica conoscenza che funzioni davvero.
Pertanto occorre studiare le condizioni che rendono possibile la conoscenza
sensibile e assumere quest’ultima come paradigma per ogni qualsivoglia
conoscenza che appunto abbia la pretesa di scientificità. La filosofia
kantiana lascia,dunque, fuori dal sapere dell’uomo tutta la sfera dello
spirito, la metafisica e le realtà soprannaturali perché eventuali
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affermazioni in questo ambito non passerebbero attraverso le intuizioni
sensibili dei cinque sensi e del senso interno. Insomma, si arriva a
sostenere che la ragione funziona correttamente se e solo se si occupa di
aspetti fenomenici, intendendo con tale termine il risultato della
combinazione delle sensazioni con le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto;
per tutti gli altri ambiti relativi ai problemi più importanti della vita,
quali, ad esempio, la libertà e la scelta del bene, la ragione non può dire
nulla con pretesa di verità. E’ tanto forte questa amputazione della
ragione che Kant è costretto a usare due termini per indicare la ragione
quando funziona bene, nella scienza - Verstand - e la ragione quando
esorbita dai suoi limiti incamminandosi verso la metafisica, Vernunft. Il
grande filosofo di Konisberg si rende conto, però, che la posizione dell’uomo
nell’universo è particolare: per un verso egli partecipa della natura
“fenomenica”, per altro agiscono nell’essere umano motivazioni che regolano
la sua esistenza in modo più decisivo della sua stessa appartenenza al mondo
fisico. Ecco, dunque, lo sforzo di Kant di recuperare come postulati della
ragion pratica, aspetti fondamentali, come la libertà, che sono esclusi
dalla ragione scientifica. Senza la libertà, infatti, non potrebbero
sostenersi l’imperativo categorico e neppure azioni che siano autenticamente
umane. E che quindi corrispondano alla natura profonda dell’uomo.
La seconda metà dell’Ottocento, con il Positivismo, vede l’affermazione di
una linea di tendenza di stampo materialistico per la quale tutti gli
aspetti della realtà, umani e non, si riducono a materia con una totale
sovrapposizione del concetto di natura al concetto di realtà tout court. Con
la classificazione delle scienze Comte riduce ciò che è complesso ai suoi
termini elementari, oggetto di studio della biologia, della chimica e
ultimamente della fisica. Pertanto, il metodo scientifico è il solo
legittimato a produrre conoscenza vera.
Sul finire dell’Ottocento le scienze umane provano a ritagliare un loro
spazio di azione che viene loro riconosciuto 1dalla scienza stessa, ma con
il sottile tacito consenso, da parte di tutti, che la scientificità e la
razionalità in senso stretto siano appannaggio delle scienze naturali e non
delle scienze umane.
Per la verità, le scienze umane possono vantare una storia ben più antica di
quella del sapere scientifico. Già l’Umanesimo, con una disciplina come la
filologia, aveva conosciuto gli studi e il grande impegno intellettuale
delle migliori menti del periodo rivolti alla conoscenza del mondo umano
come si esprime nel linguaggio, nella scrittura, nell’arte e nella storia.
Nel Settecento, il contributo di Vico era stato decisivo per il recupero
dell’antica lezione aristotelica per cui la conoscenza è “scire per causas”,
sottolineando che la natura delle cose è “il nascimento di esse”. Ma l’uomo
può, forse, cogliere l’origine o le cause delle cose naturali? Vico aveva
concluso, capovolgendo l’esito della scienza, che è possibile all’uomo
conoscere veramente solo ciò che egli stesso fa. L’uomo può conoscere solo
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Si consideri, per esempio, il contributo di Hermann von Helmholtz, grande fisiologo e iniziatore della psicologia
scientifica che, da scienziato, riconosce il grande valore e la specificità delle scienze umane.
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il suo mondo: quello della civiltà e della storia.
Dunque, quando le scienze umane, tra la fine dell’Otto e inizio Novecento,
ripropongono il loro statuto epistemologico differenziandosi dalla scienza
raccolgono una storia di traguardi importanti, tuttavia subiscono – come si
è già detto – la forza attrattiva del modello scientifico positivista da cui
mutuano concettualizzazione e terminologia. In questo non ci sarebbe nulla
di male purché il discorso non finisca qui e prosegua invece nella direzione
di una sempre più chiara distinzione di oggetto e soprattutto di metodo.
L’analisi del concetto di natura, fra filosofia e scienza, attraverso un
articolato excursus storico- teoretico ha come risvolto interessante l’applicazione
in campo pedagogico.
Al proposito, il prof. Agazzi suggerisce due possibili ricadute pedagogiche
per valutare correttamente l’apporto delle scienze alla comprensione del
fenomeno educativo.
In primo luogo è importante saper tenere conto di quanto le scienze dicono
a proposito della realtà che ci circonda e dell’uomo, in particolare. Poiché
si debbono preparare le nuove generazioni a vivere in un mondo la cui
rappresentazione è, in gran parte determinata, dai contributi delle diverse
scienze, bisogna che questi contenuti passino nell’insegnamento in modo
graduale e attento. Del resto, anche la conoscenza circa le persone con cui
abbiamo a che fare nel rapporto educativo è mediata dalle scienze. Ciascuno
di noi, pur non essendo in grado di ripetere il discorso scientifico nella
sua specificità, ha comunque una qualche comprensione di esso, per questo
non è buona cosa rivolgersi ad altri soggetti avendo in testa un’immagine
diversa dalla loro, tenendo conto, tuttavia, che le immagini della scienza
sono tutte parziali e limitate.
In secondo luogo, le scienze danno un contributo al nostro modo di
insegnare. Si pensi, per esempio, a quante possono aiutarci le neuroscienze
nello spiegare il funzionamento del cervello. Eppure quanto esse ci dicono
non può esaurire tutta la conoscenza dell’uomo che è connotato da altre
specificità morali e spirituali. In tal senso, occorrerebbe uscire dalla
logica dell’aut-aut , per cui o si accetta la scienza oppure non si è all’altezza
dei tempi, e accettare invece la logica dell’et-et che consegna alla
saggezza pratica e alla competenza di ogni educatore il delicato compito di
realizzare, nelle diverse situazioni, l’equilibrio migliore fra le due
istanze.
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DIBATTITO
Il dibattito, seguito all’intervento del prof. Agazzi, ha permesso di
riprendere e ampliare alcune questioni che, in sintesi, riguardano la
specificità dell’analisi scientifica, da un lato, e l’irriducibilità della
natura umana, dall’altro, contro ogni tentazione riduzionistica o
“naturalizzazione” che è presentata da più parti come sostituzione del
discorso filosofico.
Proprio partendo dalla “natura umana”, a chi obietta che non esiste una
struttura ontologica che possa essere criterio di valore e riferimento per
la morale giustificando così il relativismo delle posizioni, si può
rispondere che il fatto stesso di comunicare e riuscire a rintracciare un
orizzonte comune di senso è già dimostrazione di un modo condiviso di essere
uomini. Gli esseri umani non hanno in comune solo una conformazione fisica o
una storia biologica, ma un insieme di tratti distintivi che possiamo
appunto definire umani. D’altro canto, questo aspetto non contraddice la
possibilità di incrementare e di far crescere un patrimonio di pensieri che,
seguendo la storia di ciascuno, si differenzia in contesti e situazioni
diverse. Che la natura umana sia data con una sua struttura non significa,
infatti, che sia completa.
La particolare natura dell’essere umano, caratterizzata dalla libertà, rende
impensabile ricondurre a modelli deterministicamente costruiti i suoi
comportamenti. Pensare all’uomo come a una macchina oppure ridurlo ai
fattori relativi al suo genoma è operazione comoda e toglie all’esistenza
il Mistero che la connota, ma non permette di comprenderne gli elementi
essenziali. L’irriducibilità della natura umana trova anche ulteriore
riscontro nel fatto che l’uomo sia l’unico animale in grado di educare,
dando vita ai complessi significati della cultura.
Del resto, neppure per la scienza vale la pretesa della prevedibilità
totale dei processi, soprattutto quando interviene l’errore che scombina gli
esiti e ne moltiplica l’aleatorietà. Si pensi, per esempio, al campo della
fisiologia dove si possono studiare scientificamente dieci mila percezioni
che, però, non avranno mai il carattere di quella percezione che è mia, in
questo momento, e unica come fenomeno psichico che mi appartiene. Oppure
ancora, il tentativo di costruire un’etica “scientifica” toglierebbe la
sostanza stessa dell’agire morale. Si può, infatti, compiere un’azione per
svariati motivi esterni alla libertà dell’uomo, ma in tal modo non si ha più
un agire umano.
In sostanza, nel rapporto fra scienza e filosofia è sempre importante
distinguere i diversi piani che sono possibili contemporaneamente senza
esaurire la ricchezza dell’oggetto e avendo presente che le cose che si
sanno non esauriscono tutto quanto c’è da sapere.
Sul versante della scienza contemporanea molte cose sono accadute che hanno
modificato la stessa metafisica implicita sottesa alla scienza stessa. Si è
superato il meccanicismo newtoniano anche se non è ancora chiaro quale
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direzione si intraprenderà per conciliare, ad esempio, la teoria dei quanti
con la teoria della relatività. Lo stesso determinismo, che è presupposto
delle leggi scientifiche, non esaurisce la scienza stessa, né spiega tutto
dei fenomeni, sempre più complessi di quanto i nostri strumenti conoscitivi
possano conoscere. In altri termini, gli elementi quantitativi non sono gli
unici da considerare nello studio di un certo fenomeno. Questo vale in
particolare per le scienze umane la cui “scientificità” è altra cosa
rispetto alla scientificità della scienza. Essa è abilitata a elaborare un
sapere certo, connotato da rigore e oggettività. Per esempio, nel campo dei
metodi di ricerca, valgono allo stesso modo i metodi quantitativi che
quelli qualitativi. Gli uni e gli altri devono “rendere ragione” delle loro
procedure e dei loro strumenti di elaborazione permettendo a chiunque di
ripetere lo stesso percorso di analisi e di lettura dei dati, senza
dimenticare che nel caso della persona umana, lo studio su di essa non potrà
mai prescindere dalla consapevolezza di una ricchezza inesauribile la cui
esperienza si dà in un rapporto di relazione e di conoscenza di altro genere
rispetto alla modalità delle scienze naturali e delle stesse scienze umane.
13 giugno 2008
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