FILIPPO V DI MACEDONIA
Alcune notizie sul personaggio sono riportate alle pagg. 280 e 282 del libro di testo.
Il re macedone vedeva la potenza romana dilagare sulle coste orientali del mare
Adriatico. Roma aveva soggiogato gli Illiri della regina Teuta con il pretesto che le
tribù illiriche si dedicavano alla pirateria sulle coste dalmate e albanesi colpendo
pesantemente gli interessi dei mercanti italici. Ormai la costa orientale dell'Adriatico
era sotto controllo o protettorato romano. Molte città e isole greche della costa
(come Apollonia o Corcira) erano pesantemente aiutate da Roma e l'Urbe
appoggiava le rivendicazioni territoriali e politiche della Lega Etolica in lotta contro
la Macedonia e il resto della Grecia. A sua volta pressato a oriente dai re seleucidi di
Siria e da Attalo I di Pergamo, Filippo cercava un potente alleato per frenare Roma
nella sua espansione verso i Balcani e ridurre il pericolo sul suo fronte occidentale.
Sembrava proprio che Annibale fosse quell'alleato.[1]
lo storico romano del I secolo, in Ab Urbe condita libri narra come Filippo, viste le
vittorie di Annibale, inviasse una delegazione in Italia per stringere l'alleanza. Era
l'estate del 215 a.C. Gli ambasciatori greci, evitando Brindisi e Taranto, i porti più
logici per chi proveniva dall'Ellade, sbarcarono vicino a Capo Colonna in Calabria,
presso il famoso tempio di Giunone Lacinia.[3] Da lì cercarono di recarsi
a Capua dove Annibale aveva posto il suo quartier generale. Scoperta dai presidi
romani la delegazione fu inviata presso il pretore, Marco Valerio Levino, che aveva
posto i suoi accampamenti presso Luceria.[4] Senofane l'ateniese capo della
spedizione, dichiarò platealmente di essere stato inviato dal re Filippo per stringere
un accordo di amicitia societatemque (amicizia e alleanza) con il popolo romano. Il
pretore accolse quindi come ospiti i nemici, e li inviò con una scorta verso Roma,
spiegando l'itinerario e indicando dove fossero accampati Romani e Cartaginesi.[5]
Ovviamente la legazione macedone giunse al campo di Annibale senza alcun
problema e l'alleanza poté essere stipulata.[6]
Si riporta il testo tramandato da Polibio, tolte solo le preghiere ai vari dèi.
«Giuramento che stringono il generale Annibale, Magone, Mircano,
Barmocaro, tutti i senatori cartaginesi che sono insieme a lui e tutti i
Cartaginesi che militano assieme a lui, con Senofane di Atene, figlio di
Cleomaco, ambasciatore che ha inviato presso di noi il re Filippo, figlio di
Demetrio, a nome suo, dei Macedoni e degli alleati. »
(Polibio, Storie, VII, 9.1)
[seguono due paragrafi (2 e 3) di invocazioni a vari dèi greci e cartaginesi]
« (4) Il generale Annibale ha detto, e con lui tutti i senatori cartaginesi che
sono con lui e tutti i Cartaginesi che militano con lui, che, come sembri bene
a voi e a noi, stringiamo questo giuramento di nobile amicizia e benevolenza,
da amici, parenti e fratelli: (5) che siano preservati dal re Filippo, dai
Macedoni e dagli altri Greci quanti sono loro alleati, i signori cartaginesi, il
generale Annibale, quelli che sono con lui e quelli che sono soggetti ai
Cartaginesi, i soldati e gli alleati, (6) tutte le città e tutti i popoli con cui noi
abbiamo amicizia tra quelli dell'Italia, della Gallia e della Liguria, e tutti
coloro con i quali avessimo amicizia e alleanza in questa terra. »
(Polibio, Storie, VII, 9.4-6)
FILIPPO V di Macedonia. - Figlio di Demetrio II detto l'Etolico e di Criseide,
probabilmente una nobile macedone, nacque circa il 237 a. C. Quando nel 229, morto
il padre in battaglia, avrebbe dovuto succedergli, non era che un bambino, e perciò
assunse la tutela il cugino del padre, Antigono Dosone, figlio di Demetrio detto il
Bello. Le condizioni della Macedonia, circondata da nemici, erano gravissime.
Tuttavia Antigono riuscì presto ad assicurare l'incolumità dello stato, e assunse
titolo di re sposando la vedova di Demetrio, Criseide, e adottando come figlio e
successore F. Morto Antigono nel 221-20, F. diciassettenne fu proclamato re.
Roma che aveva ridotto a unità tutta l'Italia a sud di Pisa e di Rimini, conquistata
gran parte della Sicilia, ridotta a provincia la Sardegna, stabilito il suo predominio
nell'Italia settentrionale fino alle Alpi, era allora impegnata in una lotta mortale
contro Cartagine, e appunto nel 217 Annibale riportava la sua grande vittoria del
Trasimeno, dopo avere sconfitto l'anno avanti i Romani alla Trebbia. Quanto fosse
pericolosa la potenza romana anche per la Macedonia, tutti avevano avuto agio di
misurare dalle due spedizioni illiriche del 229 e 219, mercé le quali i Romani con uno
sforzo minimo erano riusciti ad assicurarsi il possesso di Corcira e quello di
Apollonia e Durazzo che costituivano un'eccellente testa di ponte oltre il Canale
d'Otranto, e il predominio nell'Illiria meridionale. Intervenire perciò nella grande
guerra, che si combatteva tra Roma e Cartagine, poté parere a Filippo indispensabile
nell'interesse della Macedonia. E sarebbe stato di fatto indispensabile, ma anche più
indispensabile era che si attuassero prima le condizioni senza le quali tale intervento
non poteva riuscire efficace, cioè l'unificazione della Grecia, senza la quale i Romani
sarebbero stati sicuri di trovarvi importanti alleati contro F., e la costruzione d'una
poderosa armata navale che gli permettesse di proteggere le sponde greche ed
eventualmente d'intervenire senza troppo rischio in Italia. Ma solo l'esperienza
mostrò a F. quanto tale armata fosse necessaria. Nel 216 con una flottiglia di piccole
navi da guerra (lembi) mosse verso la costa illirica credendo di poter profittare dello
sforzo che i Romani dovevano fare contro Annibale per ricuperare il predominio
della regione illirica. Ma bastò che i Romani si movessero da Reggio con dieci
quinqueremi perché F., che non si teneva in grado di affrontare coi suoi lembi le
grandi navi da battaglia, si ritirasse precipitosamente. Non molto dopo (agosto 216)
i Romani toccarono la terribile sconfitta di Canne, e la ribellione contro di essi
dilagò nell'Italia Meridionale. F. parve decidersi a entrare risolutamente nella lotta e
iniziò trattative per un accordo con Annibale. Queste trattative si protrassero a
lungo e finirono con un accordo nel quale i due contraenti delineavano abbastanza
nettamente le rispettive sfere d'influenza, ma non prendevano nessun preciso
impegno intorno alle modalità dei soccorsi scambievoli. La ragione era che Filippo
senza un'armata navale e circondato nella Grecia stessa da avversari non si sentiva
di poter prendere accordi precisi circa un intervento in Italia. Annibale alla sua volta
sapeva di non avere autorità sufficiente in Cartagine per impegnare i Cartaginesi ad
assicurare a F. quegli aiuti navali che avrebbero potuto egualmente giovargli, se la
guerra fosse stata portata in Grecia, e facilitargli in caso contrario il passaggio in
Italia. E tutto ciò si comprende. Ma è assai dubbio se nella guerra aperta in queste
condizioni da F. i vantaggi ragionevolmente sperabili potevano compensare i rischi.
A tali rischi per allora il re non pensava.
Frattanto un nuovo intervento nell'Illiria fatto con una flotta di lembi dal re non
ammonito a sufficienza dall'esempio del 217, terminò in modo anche più inglorioso.
Mentre il re assediava Apollonia, sopravvenne con una squadra di quinqueremi e con
poche forze da sbarco M. Valerio Levino; e il re, tolto l'assedio e bruciati i suoi lembi
perché non cadessero nelle mani del nemico, si ritirò precipitosamente attraverso i
monti nella Macedonia. Egli non aveva saputo profittare del momento utile per
prendere sul serio l'iniziativa strategica, né aveva soccorso la metropoli
dell'ellenismo occidentale, Siracusa, che dopo una gloriosa resistenza cadde nel 211
in mano dei Romani. I quali, caduta anche Capua, sventato ogni pericolo d'offensiva
per parte d'Annibale, furono in grado di prendere anche in Grecia quell'iniziativa
strategica che F. pareva avesse voluto lasciare a essi. La guerra fu iniziata da M.
Valerio Levino mediante un'alleanza con gli Etoli, alla quale partecipò, con gli amici
degli Etoli nel Peloponneso, l'Elide, Messene e Sparta, anche il re di Pergamo Attalo
I. Così F. si trovò assalito da una coalizione, che anche senza l'aiuto romano era
capace di tenergli testa. Seguirono quattro anni (210-208) di lotta accanita che i
Romani condussero con pochissime forze e valendosi soprattutto delle forze dei loro
alleati. Filippo resisté energicamente e compensò le perdite non lievi, quella p. es. di
Egina, che conquistata dai Romani sugli Achei passò agli Etoli e fu da questi ceduta
ad Attalo, e quella di Zacinto, che fu però più tardi ricuperata; nell'insieme tenne
testa abbastanza felicemente ai nemici e strappò loro terreno, particolarmente in
Tessaglia (Farsalo) e al confine illirico. I Romani, i quali nel 210 erano penetrati
nell'Egeo, finirono con lo stancarsi della lotta che aveva raggiunto più che a
sufficienza lo scopo di tenere F. lontano da un intervento nell'Occidente, e nel 208-7
ritirarono le loro forze dai mari greci.
Gli Etoli lasciati a sé finirono col concludere con F., che aveva invaso l'Etolia e
messo nuovamente a sacco Termo, una pace separata la quale lasciava a F. tutti i
vantaggi da lui conseguiti. Questa pace costrinse i Romani a un nuovo intervento
che però non aveva lo scopo di riprendere a fondo la guerra, ma solo di concludere
col re l'accordo che gl'impedisse di soccorrere in qualsiasi modo Annibale con cui
essi erano sul punto d'impegnare la partita decisiva. L'accordo fu facilmente
concluso, lasciando ai Romani Corcira, Apollonia e Durazzo e a F. i vantaggi da lui
conseguiti in Grecia e parte almeno di quelli, non molto importanti del resto,
conseguiti nell'Illiria meridionale. Trattato in apparenza favorevole a F. il quale
usciva onorevolmente da una guerra con un nemico così terribile come i Romani, in
realtà sfavorevolissimo a lui perché i Romani erano sul punto di chiudere
vittoriosamente la loro guerra con Cartagine e avrebbero potuto riprendere, quando
e come fosse loro piaciuto, quella partita con Filippo che avrebbe potuto essere per
loro durante la seconda punica assai pericolosa e che si era risoluta nel nulla. A ogni
modo, occupati pel momento i Romani nel porre termine alla guerra d'Annibale, F.
aveva le mani libere nell'Oriente ellenico. Già durante gli ultimi anni della guerra
con Roma, avvedutosi del vantaggio che i Romani traevano dalla supremazia navale,
aveva posto mano alla costruzione di una flotta di grandi navi da guerra. Di questa
egli profittò per cercare di assicurarsi la supremazia dell'Egeo, quando la morte di
Tolomeo IV Filopatore e la successione del fanciullo Tolomeo V Epifane indebolì
l'Egitto, che aveva avuto fino allora il predominio in quel mare. Antioco III di Siria e
Filippo di Macedonia si allearono per muovere guerra, senza alcun pretesto
ragionevole, contro il giovane re per strappargli tutti i suoi possessi oltre i confini
dell'Egitto. Filippo si riservava l'Egeo e la Cirenaica, Antioco la Celesiria.
Nel 201 poi attaccò a fondo i possessi tolemaici dell'Egeo, impadronendosi prima di
tutto di quello che ne era come il centro, Samo. Contro di lui si allearono i Rodî col
suo vecchio nemico Attalo di Pergamo intimorito dai suoi progressi in Asia.
Ma intanto i Romani avevano vinto Annibale nella decisiva battaglia di Naraggara e
concluso, nella primavera del 201, la pace con Cartagine, e non erano disposti a
tollerare che il loro antico avversario accrescesse troppo la sua potenza in Oriente.
Sebbene sulle prime i comizî rifiutassero la rogazione per dichiarargli la guerra,
presto i Romani ebbero un pretesto tale d'intervento che le esitazioni dei comizî
furono vinte. L'uccisione perpetrata dagli Ateniesi di due Acarnani, che avevano
sacrilegamente assistito alla celebrazione dei misteri, provocò una devastazione
dell'Attica per parte di Macedoni e Acamani. In conseguenza gli Ateniesi aizzati da
Attalo, dai Rodî e da ambasciatori romani, dichiararono a F. la guerra, e non molto
dopo la dichiararono anche i Romani che nel trattato di Fenice avevano pattuito con
F. l'incolumità del territorio di Atene.
Già infatti nell'autunno del 200 il console P. Sulpicio Galba, con due legioni, era
sbarcato ad Apollonia nelle cui vicinanze prese i quartieri d'inverno. Nel 199 Galba
penetrò con le sue legioni nell'interno della Macedonia devastandola, e senza che F.
potesse dargli battaglia campale, riportò sui Macedoni due notevoli successi, e tornò
indisturbato alla sua base.
Le cose precipitarono l'anno seguente quando, dopo il brevissimo comando del
console del 199, P. Villio Tappulo, assunse il comando delle legioni, nell'estate del
198, il console di quell'anno T. Quinzio Flaminino. F., che, ammonito dai danni
morali e materiali derivati dall'invasione romana in Macedonia, fronteggiava questa
volta i Romani, non lontano dai loro quartieri d'inverno a nord dell'Epiro ai passi
dell'Aoo, toccò quivi una prima grave sconfitta da Flaminino, che rese questo
padrone di buona parte della Grecia centrale. Una dimostrazione contro Corinto, che
egli fece sulla fine della campagna di quell'anno, indusse gli Achei, che temevano di
veder cadere in mano dei Romani questa città, che essi avevano assai a malincuore
ceduta ad Antigono Dosone, a rompere l'alleanza con la Macedonia per entrare
nell'alleanza romana. La battaglia decisiva avvenne nel 197 in Tessaglia presso
Cinoscefale (v.). F., totalmente sconfitto dai Romani, sostenuti da un buon nerbo
d'alleati greci, fra cui primeggiavano per numero e per valore gli Etoli, chiese pace, e
l'ottenne, lasciando libera tutta la Grecia, rinunziando a tutti i suoi possessi asiatici,
distruggendo la sua nuova flotta da guerra a eccezione di cinque navi. Data
l'immensa sproporzione delle forze tra la Macedonia, quasi per nulla sostenuta dagli
alleati greci, e Roma, vincitrice di Cartagine, aiutata anche in Grecia da numerosi e
bellicosi alleati, questo risultato era inevitabile; ma contribuì ad affrettarlo e a
renderlo più facile ai Romani F. stesso, con la sua insufficiente capacità di stratego
rivelatasi nell'infelice difensiva in Macedonia non meno che nella disastrosa
offensiva in Tessaglia. Gli sforzi fatti così da F. come dai suoi predecessori per
l'unificazione della Grecia sotto l'egemonia macedonica rimanevano interamente
annullati. Ma F. non perdette ogni speranza di poterli riprendere. Il malcontento
fermentava infatti in Grecia contro i Romani e specialmente fra gli Etoli che dalla
guerra cui avevano partecipato con grande energia speravano maggiori guadagni.
Assicuratisi gli Etoli l'appoggio di Antioco il Grande re di Siria, che aveva ristabilito
il proprio dominio sull'Asia seleucidica, le ostilità s'iniziarono nel 192. Uno dei primi
atti fu l'occupazione per parte degli Etoli di Demetriade, il porto della Tessaglia. Era
un notevole successo perché assicurava le comunicazioni marittime con Antioco, ma
era un successo pericoloso, perché al ricupero di Demetriade aspirava, per ovvie
ragioni, F., che in quella piazza fondata da un suo antenato aveva avuto uno dei suoi
maggiori arsenali. Questo alienò l'animo di F. dagli Etoli che del resto egli aveva
sempre odiato come accaniti avversari della sua egemonia. Quando poi, verso
l'autunno del 192, Antioco sbarcato in Grecia invase con gli Etoli la Tessaglia, F. si
strinse risolutamente coi Romani non già perché, come dice la tradizione, egli
riputasse ingiuriosa per lui la sepoltura onorevole data da Antioco alle reliquie
insepolte dei Macedoni caduti a Cinoscefale, ma perché l'occupazione etolica della
Tessaglia gli toglieva ogni speranza di avvantaggiarsi territorialmente da una
guerra contro Roma e l'alleanza degli Etoli con Antioco gl'impediva di servirsi di
questa guerra per preparare il ricupero dell'egemonia macedonica sulla Grecia. E
poiché le contingenze gli rendevano difficile e pericolosa la neutralità e d'altronde
solo combattendo poteva sperare di riguadagnare qualcosa di ciò che aveva perduto,
si alleò risolutamente con Roma. Così i Romani, i quali poterono senza fatica né
pericolo trasportare le loro forze attraverso i monti della Macedonia, trovarono
nella Tessaglia un'ottima base per la guerra contro gli Etoli e contro Antioco. E
questo fu d'importanza decisiva nella loro vittoria. Già sulla fine del 192 l'intervento
d'un piccolo corpo romano scortato da F. attraverso la Macedonia, permise di
arrestare i progressi di Antioco. Nell'anno seguente poi F. e i Romani strapparono
intera la Tessaglia al nemico mentre Antioco si limitava a difendere le Termopili
dove toccò una sconfitta che lo costrinse a ripiegare in Asia, e gli Etoli si
difendevano a stento contro il console Manio Acilio Glabrione. Ma quando la guerra
tra Etoli e Romani si chiuse con la resa di Ambracia nel 189, F. conservava ancora
buona parte delle sue conquiste tessaliche. La vittoria poi dei Romani su Antioco,
alla quale egli aveva notevolmente contribuito facilitando il passaggio di L. Scipione
nell'Asia attraverso la Macedonia e la Tracia, gli permise di occupare le città greche
di Eno e Maronea, sulla sponda settentrionale dell'Egeo, già appartenute ad Antioco.
A questo punto parve ai Romani che fosse necessario porre un termine
agl'incrementi di F. e affermare vigorosamente la loro supremazia in Grecia. A F.
essi ordinarono di sgomberare tutte le sue conquiste nell'Atamania, Perrebia e
Tessaglia e inoltre le città recentemente acquistate di Eno e Maronea. Alla risoluta
intimazione dovette piegarsi il re, al quale delle conquiste fatte non rimase così che
la Dolopia, la Magnesia con Demetriade e alcune città ftiotiche. E da questo
momento si acuì il suo odio verso Roma e il suo proposito di lotta contro i Romani,
che egli aveva interrotto durante la guerra di Antioco, si fece sempre più fermo. Alla
preparazione di questa lotta egli dedicò tutto il rimanente della sua vita. A tal uopo
egli cercò di estendere il suo dominio in Tracia e di acquistarsi l'amicizia sia di varie
tribù tracie, tra cui quella più potente degli Odrisî, sia dei Bastarni, popolazione
forse germanica che stanziava allora a nord del Danubio, sia degli Scordisci, tribù
celtica stanziata nell'Illiria. Riordinò inoltre l'esercito macedonico e preparò con la
massima cura le armi e i mezzi per la riscossa. Il pensiero della riscossa lo indusse a
incrudelire non solo contro tutti quelli fra i sudditi della cui fedeltà gli pareva di
dover dubitare, ma anche contro la sua stessa famiglia. Infatti dei due figli avuti da
consorti diverse, Perseo e Demetrio, il minore, Demetrio, che era stato inviato a
Roma, e ivi dalla nobiltà romana era stato accortamente circuito e lusingato, ne era
tornato con sentimenti favorevoli ai Romani e, pare, col desiderio di soppiantare sul
trono, mercé il loro aiuto, il fratello maggiore. F. non esitò per questo a metterlo a
morte insieme ai suoi amici, assicurando così a Perseo l'incontrastata successione,
quando egli morì nel 179.
Di alto animo, d'ingegno vivace e versatile, F. mancò di genialità come stratego, e,
carattere impetuoso e fiero, mal seppe dominare la sua ira e il suo desiderio di
vendetta delle offese ricevute. Ciò lo indusse ad atti d'inconsulta ferocia sia nelle sue
devastazioni dell'Etolia, sia più tardi negli assalti contro Atene e dopo la presa di
Abido. Questo fece ardere lo sdegno dei Greci contro di lui e facilitò il compito del
combatterlo a generali romani che erano anche politici abili e assennati come
Flaminino. D'altronde, salito al trono giovanissimo, la sua inesperienza gli fece
commettere nel primo decennio del suo regno una serie d'errori che non riuscì più
tardi a riparare. Lo danneggiò gravemente l'improntitudine con cui, parte pel
proprio desiderio di dominare, parte per i consigli non disinteressati di Arato, si
liberò dai provetti consiglieri e ministri che gli aveva lasciati il suo predecessore
Antigono. Ambizione e diffidenza fecero poi sì che, morti Arato e Demetrio di Faro,
egli si trovasse solo a dirigere politicamente e militarmente i suoi Macedoni. Su lui
pertanto ricade la responsabilità dell'aver facilitato coi suoi errori ai Romani
l'acquisto del predominio in Grecia. E tuttavia si deve riconoscere che egli fin
dagl'inizî del suo regno avvertì la gravità del pericolo romano; che si rese conto,
come mostra una sua lettera ai Larissei, degli elementi costitutivi della potenza di
Roma; che alla lotta contro i Romani tese tutte le sue energie, alienandosi dalla
causa nazionale solo per un breve momento, e non senza forti attenuanti; che infine
preparò mirabilmente la riscossa, la quale fallì soprattutto per l'inettitudine del
successore. Meno disinteressato, meno geniale, meno umano di Annibale, egli dedicò
però tutta la sua vita come il grande cartaginese alla difesa della patria contro lo
straniero, e merita quindi assai più di Filopemene d'essere chiamato l'ultimo dei
Greci.
Bibl.: G De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, p. 427 segg., IV, i, Torino
1923 passim; G. Niccolini, La confederazione achea, Pavia 1914, p. 100 segg. e passim;
G. Colin, Rome et la Grèce, Parigi 1905; J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, II, Berlino
1907, p. 3 segg.; M. Holleaux, in Cambridge Ancient History, Cambridge 1930, VIII, p.
116 segg.
Inesperienza giovanile – presa di coscienza del problema rappresentato da Roma –
manie di grandezza – vendicativo – crudele – con il suo comportamento si inimicò le
città greche -