Fabrizio Di Marzio La nullità del contratto 1. Nullità: concetto, categorie, specie, casi. - 2. Nullità per mancanza o impossibilità di un elemento essenziale. - 3. Nullità per illiceità. Illiceità ed elementi del contratto. - 4. Contratto contrario all’ordine pubblico o al buon costume. - 5. Contratto contra‐ rio a norme imperative. Nullità virtuale. - 6. Contratto in frode alla legge. - 7. Nullità parziale. - 8. Efficacia del contratto nullo. Conversione. - 9. Giudizio di nullità. ■ 1. Nella disciplina dei contratti la nullità è la figura generale dell’invalidità. Nel silenzio della legge la contrarietà a norme impera‐ tive, ordine pubblico o buon costume e l’insufficienza strutturale dell’atto sono, tendenzialmente, causa di nullità (art. 1418). Specifi‐ che disposizioni comminano, in alcuni casi, annullabilità e rescindi‐ bilità. La dottrina tradizionale, in un’ottica rigorosamente volontaristica, concepiva la nullità sotto un profilo strutturale, quale imperfezione della fattispecie: e dunque come conseguenza necessitata della mancanza o della grave anomalia di un elemento costitutivo ed essenziale del contratto. Poiché lo schema legale è posto a limite della manifestazione di volontà per garantirne l’effettività, la non conformità di quella manifestazione allo schema era considerata vizio della volontà (comportavano nullità anche l’incapacità e l’errore ostativo). L’accordo prodotto dalla volontà viziata era considerato nullo e perciò improduttivo di qualsiasi effetto. Nella prospettiva attuale, in cui il contratto è tutelato nei limiti della sua compatibilità con gli interessi che l’ordinamento considera meritevoli (art. 1322), la nullità si giustifica – piuttosto che per la carenza strutturale dell’atto quale sintomo di volontà negoziale assente o viziata – come conseguenza della non tutela‐ bilità del contratto rispetto a interessi protetti in misura prevalente, la lesione dei quali è data dall’incompletezza strutturale dell’atto o dalla sua contrarietà al diritto imperativo [barcellona 1973, 279; galgano 1976, 457; tommasini 1978, 875]. In considerazione della disciplina codicistica – da un lato debitri‐ ce delle visioni classiche della nullità come difetto strutturale e dall’altro attenta anche al controllo di compatibilità tra programma contrattuale e ordinamento positivo – si apprezzano, pertanto, due categorie di nullità: a) nullità per mancanza o impossibilità di un requisito essenziale, cioè nullità derivanti dal mancato assolvimento di un onere posto dalla legge, contemplate, sulla scia della tradizione, a tutela immediata dell’interesse particolare dei contraenti all’utilità della contrattazione e a tutela mediata dell’interesse generale alla regolarità del traffico; b) nullità per illiceità, cioè nullità derivanti dalla violazione di obblighi imposti dalla legge, contemplate, in forza delle esigenze emergenti nel moderno Stato sociale, a tutela diretta dell’interesse generale alla regolarità del traffico e a tutela indiretta degli interessi particolari dei contraenti. La prevalenza accordata all’interesse particolare (nullità da mancato assolvimento di un onere) o generale (nullità da illiceità) determina differenze di disciplina: il contratto nullo nel primo senso ha una rilevanza più pregnante, e spiega maggiori effetti del contratto nullo nel secondo senso (ad es., artt. 1417, 1972 e 2126). L’atto nullo è dunque produttivo di alcuni specifici effetti (ancora artt. 1424 e 2652, n. 6). Ciò accade perché evidentemente l’atto nullo non è, secondo il diritto positivo, irrilevante. Così, nei limiti della sua ridotta rilevanza, spiega un’episodica efficacia. Per queste ragioni, se sul piano della teoria generale può essere difficile distinguere la «nullità» – quale qualificazione puramente negativa – dall’«inesistenza» [de giovanni 1964], sul piano del diritto positivo l’atto nullo, in quanto giuridicamente rilevante (come dimostra la sua pur ridotta efficacia), deve dirsi esistente [sacco 1965, 456; di majo 2002, 50]. Bisogna dunque evitare di confonderlo con l’atto inesistente, e perciò assolutamente irrilevante e dunque per definizio‐ ne (quale «non atto») improduttivo di effetti. La dottrina civilistica risalente, che invece identificava nullità e inesi‐ stenza e discorreva di «assoluta nullità» o «inesistenza», giungeva a questa conclusione proprio sul presupposto della coincidenza concettuale tra «irrilevanza giuridica» (irrilevanza dell’atto per il diritto) e «inesistenza giuridica», e dietro l’idea dell’inefficacia assoluta e irrimediabile dell’atto nullo, quale unica possibile conseguenza dell’assoluta irrilevanza (ciò che per il diritto è irrilevante deve essere anche assolutamente improduttivo di effetti) [windscheid 1873, § 82, 197; pacchioni 1939, 188; fedele 1943]. Nel genere «nullità» si distinguono usualmente diverse specifi‐ cazioni. a) A seconda dell’ambito di incidenza, si annoverano la «nullità totale» e la «nullità parziale»: i) la nullità totale coinvolge l’intero contratto; ii) la nullità parziale solo una parte (nullità parziale oggettiva, art. 1419) oppure, nei contratti plurilaterali, singole partecipazioni (nullità parziale soggettiva, art. 1420). b) Sotto un profilo temporale si distinguono nullità originaria, nullità successiva e nullità derivata (per i quali concetti si riman‐ da alle corrispondenti forme di invalidità, v. ???). c) Sotto il profilo della legittimazione attiva si distinguono nullità assoluta e nullità relativa: mentre la prima può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, invece la nullità relativa (ipotesi eccezionale) può essere azionata soltanto da taluni legittimati (art. 1421). d) Nell’ambito delle due categorie generali, i casi di nullità pos‐ sono raggrupparsi secondo questa classificazione: i) il contratto è nullo nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 14183). Sia nel codice sia nella legislazione complemen‐ tare, sono rinvenibili numerosissime previsioni espresse di nullità. Nel codice rilevano: la nullità della vendita di cosa futura non venuta a esistenza (art. 14722), la nullità dell’assicurazione per inesistenza del rischio (art. 1895), la nullità della transazione relativa a un contratto illecito (art. 19721); la nullità del patto commissorio (art. 2744); nella legislazione speciale, le nuove ipotesi introdotte dalla normazione di origine comunitaria a tutela del consumatore (può trattarsi sia di nullità per incompletezza che di nullità per illiceità; ii) il contratto è nullo quando manca dei requisiti essenziali (art. 14182), quando l’oggetto è indeterminabile (art. 14182), quan‐ do oggetto e condizione sospensiva sono impossibili (artt. 14182 e 13542); iii) il contratto è nullo quando causa, oggetto, motivi, condizione sono illeciti (artt. 14182, 1344, 13541 e 1355), sono cioè contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1343); iv) in via residuale, il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative (si tratta di nullità per illiceità) salvo che la legge disponga diversamente (art. 14181): comminando una diversa specie di invalidità, oppure la risoluzione o, infine, nessuna conse‐ guenza sulla validità. La norma ha portata sussidiaria e di chiusura. ■ 2. Il primo caso di nullità per mancanza di un elemento essenzia‐ le del contratto è data dalla mancanza dell’accordo delle parti (artt. 14182 e 1325, n. 1). L’accordo è costituito dalla comune intenzione dei contraenti espressa nel contratto (art. 1362), ossia dalla congruenza tra le dichiarazioni contrattuali. Rileva, pertanto, la volontà del contraente non in quanto tale ma in quanto: a) desunta dai suoi atti concreti; b) e nella misura in cui appare congruente con la volontà mani‐ festata dall’altro contraente. Il contratto nullo per mancanza di accordo – ossia della sua essenza – viene da taluno assimilato al contratto inesistente [carresi 1987, 618]; ma generalmente si afferma che l’accordo mancante e l’accordo inesistente si differenziano in ciò: mentre il primo, per le modalità comportamentali tenute dai contraenti, è figura di un qualche consenso, in realtà non raggiunto, invece il secondo, per le modalità comportamentali tenute dai contraenti, non appare nemmeno tale [zatti-colussi 1995, 441; gentili 2006, 1461] (Cass. 3378/1993). A esemplificare la distinzione valga un esempio. Premesso che un’ipotesi classica di contratto inesistente è nel mancato incontro di proposta e accettazione (Cass. 3854/1985), del tutto diverso è però il caso in cui nel testo di una compravendita immobiliare è incluso fra gli altri un bene che il venditore non aveva inteso vendere e che l’acquiren‐ te non aveva inteso comperare: se il testo del contratto è smentito dall’esito dell’istruzione probatoria, che ha consentito di appurare l’errore in cui tutti erano caduti, e dunque la volontà effettiva dei contraenti, la vendita deve essere dichiarata – piuttosto che come tale inesistente – nulla limitatamen‐ te a quel bene (Cass. 2197/1993). Casi paradigmatici di mancanza dell’accordo sono: la dichiara‐ zione non seria (come quando effettuata nel corso di una lezione di diritto o in una scena filmica); la dichiarazione frutto di violenza fisica; la dichiarazione formata ma non comunicata o comunicata per uno scopo oggettivamente diverso dall’accettazione. Altri casi di mancanza di accordo ricorrono nelle nullità per mancanza del consenso di tutti i contitolari dell’interesse dedotto in contratto, come accade quando solo taluno dei comproprietari dispone con‐ trattualmente del bene comune. Un caso di nullità per dichiarazione di volontà non seria è dato dalla disciplina della condizione sospensiva meramente potestativa. L’art. 1355 dispone che è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o del debitore. La nullità è tradizionalmen‐ te spiegata come reazione ordinamentale alla mancanza di una seria volontà di obbligarsi o alla mancanza, a tutti gli effetti, della volontà di obbligarsi. Dedurre in condizione l’evento incerto e futuro della volontà di obbligarsi contrattualmente, e dunque dedurre in condizione la volontà futura al contratto, equivale a negare la sussistenza nel presente di una volontà contrattuale [messineo 1968, 178] (Cass. 1432/1983; Cass. 4504/1997). Producono nullità del contratto per mancanza di accordo la proposta o l’accettazione estorte con la violenza fisica. A differenza della coazione psicologica al contratto (violenza morale), che determina l’annullabilità (art. 1434), nel caso in esame non si ha alcuna volontà, neppure viziata. Si sostiene da taluno che nell’ipotesi di violenza fisica, per l’assenza assoluta della volontà, non ricorre la nullità per mancanza dell’accordo ma l’inesi‐ stenza del contratto [bianca 2000, 658]. Tuttavia, il simulacro di contratto che risulta dalla violenza può favorire affidamenti di soggetti a essa estra‐ nei (terzi inconsapevoli o la stessa controparte, all’oscuro della violenza subita dall’altro contraente a opera del terzo). L’apparenza fenomenica del contratto favorisce l’accoglimento della tesi della nullità. Circa le nullità per anomalie nella comunicazione della dichiarazione, esse non comprendono i casi di errore ostativo – errore nella comunica‐ zione di una volontà da dichiararsi – disciplinati nell’ambito delle cause di annullabilità (art. 1433) ma le evenienze di comunicazione di una volontà che non si voleva dichiarare. Non si ha errore nella dichiarazione come tale voluta, ma una dichiarazione come tale mai voluta: come per la comunicazione avente contenuto di proposta o accettazione effettuata però per finalità diverse dalla proposta o dall’accettazione (ad es., dichiarazione trasmessa non dall’autore, che pure l’aveva formulata, ma, contro la volontà di questo, da un terzo (Cass. 1778/1969)). Un caso difficile è dato dal dissenso occulto, ricorrente quando le parti attribuiscono significati diversi a un testo comune (ad es., compravendita di un appartamento descritto nel contratto come insistente al primo piano: una parte comprende pianterreno, l’altra il piano superiore). Certa dottrina sostenne che in simili evenienze il contratto non è nemmeno nullo ma, in quanto non concluso, addirittura inesistente [stolfi 1954, 280]; la dottrina contemporanea ricondu‐ ce la fattispecie alla disciplina dell’errore ostativo [pietrobon 1963, 291]. Si ha nullità per mancanza dell’accordo anche quando soltanto taluni e non tutti i titolari di un interesse dedotto in un contratto ne dispongono prestando il proprio consenso. La pratica conosce due ordini di casi: a) la disposizione da parte di taluni comproprietari del bene comune e b) le modifiche del contratto di società incidenti sulle posizioni personali dei soci adottate non all’unanimità ma a maggioranza, secondo la procedura di formazione della volontà assembleare. La giurisprudenza afferma la nullità del contratto per mancanza di un consenso necessario (Cass., s.u., 7481/1993; Cass. 171/1977). In dottrina si propongono anche soluzioni diverse: come l’inefficacia relativa del contratto, impugnabile dal soggetto che non ha prestato il consenso, o la nullità per impossibilità dell’oggetto [rubino 1971, 382; gentili 2006, 1463]. Il contratto è nullo se privo di causa (artt. 14182 e 1325, n. 2). Poiché la causa esprime il profilo funzionale dell’atto (la costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico, art. 1321), essa è mancante quando non è possibile scorgere nel contratto una funzione oggettiva che possa giustificare il movimento di ricchezza programmato: ossia la sintesi degli effetti, il sacrificio insito nella prestazione compensato dal guadagno insito nella controprestazione. Il che può verificarsi o per l’intrinseca contrad‐ dittorietà o irragionevolezza della regola contrattuale (come il patto di riscatto che preveda la restituzione di un prezzo superiore a quello pagato, nullo nei limiti dell’eccedenza, art. 15002) oppure per l’irragionevolezza estrinseca della regola contrattuale, emergente dall’esame del fatto che ne costituisce il riferimento materiale (come nelle fattispecie classiche degli accordi in cui si costituiscono o si trasferiscono a un contraente prerogative già nella sua titolarità). Si è affermata la nullità per mancanza di causa del contratto di accerta‐ mento che abbia a oggetto una situazione inesistente o già certa (Cass. 7274/1983); del contratto di divisione per mancanza del presupposto fondamentale costituito dal titolo che ha dato luogo alla comunione (Cass. 22427/1972); dell’operazione negoziale finalizzata unicamente a realizzare un risparmio d’imposta (Cass. 20398/2005); della transazione conclusa da un soggetto estraneo alla lite (Cass. 7319/1993); del contratto preliminare non al definitivo, ma ad altro preliminare (Trib. Napoli 21 febbraio 1985); del contratto aleatorio in realtà privo di alea, come la rendita vitalizia con vitaliziando prossimo alla morte (Cass. 117/1999); del contratto fondato su una presupposizione quando si accerti l’insussistenza, già al momento della stipulazione, della situazione presupposta (c.d. «falsa presupposizio‐ ne»): come per la compravendita di un terreno non edificabile sul presup‐ posto dell’edificabilità (Cass. 8200/1990) o la locazione di un immobile per collocarvi una struttura pubblicitaria pur in presenza di un regolamento comunale che vieta l’utilizzo (Cass. 8689/1995). Una peculiare fattispecie di nullità per mancanza di causa è individuata dalla giurisprudenza nella conclusione di un contratto in assenza, da parte di uno dei contraenti, di qualsiasi seria intenzione di adempiere (preordina‐ to inadempimento). Così accade quando, in un preliminare di compraven‐ dita, il promissario acquirente – nell’esecuzione di una truffa – consegni alla controparte, a titolo di acconto sul prezzo convenuto, un assegno postdatato e privo di copertura, tratto su un conto corrente da tempo estinto (Cass. 5917/1999). Una questione interessante concerne il contratto di fideiussione. Si è ritenuta nulla per mancanza di causa la fideiussione prestata dal socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali. Un simile contrat‐ to non determina, infatti, lo scopo oggettivo tipico – il rafforzamento delle garanzie del creditore – visto che il patrimonio obbligato in garanzia dei debiti sociali era già per altro verso, e per quei debiti, sussidiariamente obbligato (App. Genova 12 maggio 1982). Come l’accordo, anche la causa deve risultare dal contratto. Pur non dovendo essere espressa nel rispetto di oneri formali, e pur potendo essere individuata mediante i canoni di interpretazione del contratto, essa deve chiaramente emergere a prescindere dal ricorso a qualsiasi termine di riferimento esterno al contratto. Deve considerarsi nulla per mancanza di causa il contratto irragione‐ volmente attributivo di un’utilità: ossia la convenzione con la quale si attribuisce a un soggetto una prerogativa senza che si evinca dalla conven‐ zione stessa (se formale), o senza che l’interessato riesca a provare (se la convenzione non è gravata da oneri formali) la causa che fonda l’attribuzio‐ ne (Cass. 3421/1968). Un noto caso giurisprudenziale: una società conces‐ sionaria di autolinee, a seguito di una legge regionale sulla pubblicizzazio‐ ne di alcune di esse tramite trasferimento del patrimonio sociale ad apposi‐ to consorzio, ha stipula con quest’ultimo un preliminare di compravendita nel quale si pattuisce che, prima della conclusione del definitivo, la conces‐ sionaria cederà ad altra società le concessioni delle autolinee non ricom‐ prese nel programma di legge. Successivamente, la società concessionaria effettua le cessioni ad altra società, senza che nell’atto di trasferimento risulti la ragione del medesimo né un qualsivoglia corrispettivo. Quando la motorizzazione civile invita le parti a stipulare un nuovo contratto di cessio‐ ne asserendo la nullità del primo per mancanza della necessaria autorizza‐ zione ministeriale, la cedente (nel frattempo passata sotto il controllo del consorzio, a cui era stato trasferito l’intero pacchetto azionario) si rifiuta, sostenendo la nullità del contratto stipulato per difetto assoluto di causa. I giudici aditi dalla cessionaria condividono la prospettazione della cedente, ritenendo la nullità del contratto per difetto di causa. Dal testo del contratto, infatti, non risulta il titolo di tale trasferimento né il corrispettivo, ma soltanto la semplice e unilaterale attribuzione patrimoniale dalla cedente alla cessionaria, che non può in alcun caso assurgere a causa giuridica del contratto, non delucidandone lo scopo (Cass. 12401/1992). La questione della mancanza di causa si pone non soltanto nei casi in cui dall’esame del contratto la funzione appaia mancare, ma anche quando quest’ultima – pur apparente – non possa dirsi effettivamente sussistente secondo un criterio di ragionevolezza. Pacifica, in tal senso, è la nullità per carenza di causa della vendita in cui sia convenuto un prezzo che sotto il profilo della ragionevolez‐ za economica non è tale, essendo puramente simbolico (come quando è rappresentato dall’unità monetaria non ulteriormente scomponibile). Benché la causa formalmente sussista, e risulti dal contratto, non è considerata effettivamente tale poiché all’apparen‐ za non corrisponde nessuna concreta sostanza. Dibattuta è invece la soluzione per la vendita in cui sia convenuto un prezzo effettivo ma assolutamente sproporzionato al valore del bene, e dunque non propriamente simbolico ma irrisorio: la quale fattispecie sembra porre, più che un problema causale, un problema di equilibrio delle prestazioni. Il contratto è nullo se privo di oggetto (artt. 1325, n. 3, e 14182): se, cioè, l’oggetto è propriamente assente (ad es., contratto a prestazioni corrispettive in cui non si indica il corrispettivo). Il con‐ tratto è nullo se l’oggetto è privo dei requisiti posti dalla legge (artt. 1346 e 14182): essendo illecito, impossibile (ad es., vendita del parto di un animale sterile), o indeterminato e indeterminabile (ad es., contratto in cui si menziona ma non si determina né direttamen‐ te né indirettamente il bene: come nella locazione di una «casa», non altrimenti specificata). In senso ampio, l’oggetto del contratto si identifica con il conte‐ nuto. In questo senso, l’oggetto corrisponde al programma negozia‐ le, ed è dato dall’insieme di clausole che costituisce il regolamento contrattuale. In senso più circoscritto, con l’oggetto si indicano la prestazione contrattuale o il bene della vita dedotto nella prestazio‐ ne. Nella giurisprudenza si accoglie, di volta in volta, la nozione di «oggetto» utile alla risoluzione dei problemi posti dalla specifica controversia (si è affermato che l’oggetto va inteso sia come bene sia come contenuto del contratto; ma si è anche sostenuto che l’oggetto inteso in senso diretto è il diritto dedotto in contratto, inteso in senso indiretto, il bene su cui cade tale diritto). L’interrogativo sulla presenza dell’oggetto nel contratto ha ovviamente senso esclusivamente accogliendo la concezione dell’oggetto quale bene o prestazione; infatti, per la difficoltà di censire casi di contratti senza alcun contenuto, il generale riferimento a questo svuoterebbe la norma della pratica funzione. A ogni modo, le pronunce che comminano la nullità del contratto per mancanza dell’oggetto resta‐ no rare. Se manca l’oggetto, prima ancora è carente la causa, risultando inafferrabile la ragione oggettiva del trasferimento di ricchezza realizzato nel contratto (come si è visto, la mancata indicazione del prezzo nella compravendita è costantemente risolta nella nullità del contratto per mancanza non di oggetto ma di causa). L’oggetto mancante è l’oggetto che in concreto non c’è ma che in astratto avrebbe potuto esserci. Diverso il caso dell’oggetto impossibile. Tale l’oggetto che in concreto è assente e che non potrebbe essere presente neanche in astratto, come nell’esempio classico della compravendita del parto di animale sterile. In giuri‐ sprudenza si ritiene che ricorra l’impossibilità dell’oggetto, e dunque la nullità del contratto, ogni qualvolta la prestazione non possa avere esecuzione per la presenza di impedimenti di carattere materiale o giuridico originari (e non sopravvenuti: si avrebbe risoluzione per sopravvenuta impossibilità della prestazione, art. 1463) tali da rendere (non semplicemente difficoltosa ma) inattuabi‐ le in maniera assoluta la finalità a cui la prestazione medesima è diretta. Su questi presupposti, è stata esclusa la nullità per impossibilità materiale dell’oggetto nel caso di contratto costitutivo di servitù di passag‐ gio quando il passaggio, ancorché difficoltoso, sia pur sempre possibile (Cass. 10341/2002) e nel caso di malriusciti lavori di riparazione su auto‐ vettura gravemente danneggiata ma pur sempre oggettivamente riparabile (Cass. 6927/2001); è stata poi esclusa la nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto nel caso di mancanza dei requisiti legali di abitabilità per l’appartamento compravenduto o locato pur materialmente abitabile (Cass. 12860/1992); ma dichiarata la nullità della permuta avente a oggetto da un lato un terreno, e dall’altro parte di un immobile da edificarvi, stante l’as‐ senza di concessione edilizia (Cass. 12709/1992). Mentre l’impossibilità materiale può agevolmente accostarsi alla mancanza dell’oggetto, invece l’impossibilità giuridica – in quanto dipendente da una mancata corrispondenza del regolamento contrattuale non con la realtà materiale ma con lo statuto normativo del bene dedotto nell’accordo – coinvolge fattispecie che si fanno agevolmente classificare nell’ambito dell’illiceità per contrasto del contratto con norme imperative (come nell’esempio classico della vendita di cosa incommerciabile). Qualità essenziali dell’oggetto del contratto sono la determina‐ tezza o, in alternativa, la determinabilità: ossia la sufficiente identificazione dell’oggetto nel contratto o attraverso l’indicazione delle sue concrete caratteristiche di quantità e di qualità (determina‐ tezza) o attraverso l’indicazione dei criteri attraverso i quali quelle caratteristiche possano essere stabilite (determinabilità). L’oggetto di un contratto può dirsi sufficientemente identificato o identificabile quando di esso siano indicati gli elementi essenziali i quali, logica‐ mente coordinati, non lascino dubbi sulla individuazione dello stesso come l’oggetto stabilito dai contraenti. Poiché manca una norma di legge che regoli, in via generale, in che modo l’oggetto debba essere identificato o reso identificabile, ogni mezzo deve ritenersi idoneo: dalla lettura del contratto stesso all’utilizzo di documenti, fatti e cose esterni al contratto, purché richiamati in esso e purché siano rispettati i requisiti di forma eventualmente richiesti. Il settore contrattuale in cui si fa più spesso questione sulla indetermi‐ natezza e indeterminabilità dell’oggetto del contratto è quello della vendita immobiliare. Le sentenze in argomento applicano il generale principio secondo cui l’art. 1346 deve essere interpretato non in senso rigoroso ma in senso ampio. Il contratto ha un oggetto determinabile ogni qualvolta esso sia individuabile attraverso l’interpretazione del contratto oppure attraverso consulenza tecnica o con qualsivoglia altro mezzo idoneo allo scopo. Circa quest’ultimo punto, si è ammesso l’utilizzo della planimetria allegata al contratto benché non sottoscritta dalle parti (Cass. 7047/1983); si è esclusa l’indeterminabilità dell’oggetto per mancanza nel contratto dell’indicazione di almeno tre confini – dato indispensabile esclusivamente ai fini della trascrizione (artt. 2659, n. 4, e 2826), allorché l’indicazione di soli due confini consenta l’individuazione del bene (Cass. 3813/1981). L’autosufficienza del testo contrattuale esclude che il requisito della determinabilità possa dirsi soddisfatto dal comportamento successivo delle parti. La pratica di rimettere la determinazione dell’oggetto a un futuro accordo tra le stesse parti espone al rischio di nullità tutte le volte che nel contratto stesso non siano stabiliti i parametri della futura determinazione che consentano, anche per mezzo di operazioni tecniche, l’individuazione dell’ogget‐ to. Il rinvio al mero accordo successivo, escludendo la sussistenza di un accordo attuale, equivale alla mancata conclusione del con‐ tratto. Il contratto è nullo quando non è redatto nella forma prevista a pena di nullità (artt. 1325, n. 4, 1350 ss. e 14182). La norma, anzi‐ ché presupporre la separata apprezzabilità del contratto, da un lato, e della forma da esso assunta, dall’altro, postula invece che quando la legge dispone una particolare forma contrattuale (che il contratto sia stipulato in una particolare forma e consista di una particolare forma), al mancato rispetto dell’onere segue la nullità. In senso lato, la forma designa la figura esteriore del contratto. La dottrina tradizionale concepiva la forma prima come mezzo di manifestazio‐ ne della volontà creatrice del negozio; poi come esternazione di un interno contenuto. Per questa visione – sulla forma come manifestazione di una realtà già esistente ma non ancora comunicata – il contratto risultava composto da due elementi distinti: a) l’«interno volere» e b) la sua «feno‐ menica manifestazione» (il negozio come volontà espressa: dichiarazione di volontà). La forma si presentava come elemento naturale e necessario del negozio [de ruggiero-maroi 1950, 104; cariota ferrara s.d., 417]. Suc‐ cessivamente, per l’influenza della teoria precettiva – che guardava al negozio non come volontà creatrice di effetti giuridici esteriorizzata attra‐ verso la forma, ma come autoregolamento di privati interessi, e dunque dato della realtà sociale – l’artificiosa distinzione tra «forma esteriore» ed «essenza interna» dell’atto è stata definitivamente abbandonata. Escluden‐ do la rilevanza dell’interna volontà e concependo il negozio come autorego‐ lamento (atto) inscindibilmente composto di forma e contenuto e impensa‐ bile in assenza di uno dei due costituenti, si identifica la forma con l’atto stesso, considerato nel suo apparire. La forma quale manifestazione materiale del contratto non si distingue dal contratto stesso: interrogarsi sull’esistenza della forma è lo stesso dell’interrogarsi sull’esistenza del contratto [betti 1994, 125; messineo 1968, 143; carresi 1987, 362]. In una più ristretta concezione, la forma denota una modalità legal‐ mente imposta di formazione del contratto; anziché risolversi nel contratto stesso (nel suo fenomenico accadere), la forma vale come elemento della fattispecie legale «contratto», autonomamente apprezzabile ed espressa‐ mente posto dall’art. 1325 [cian 1969, 4]. I contratti possono essere conseguentemente divisi in due categorie: a) contratti a forma libera, cioè contratti per i quali la legge non richiede l’adempimento di particolari oneri formali; b) contratti a forma imposta, cioè contratti per i quali la legge ne richiede l’esecuzione. Il mancato assolvimento dell’onere com‐ porta la nullità dell’atto. In ossequio al tradizionale principio di libertà delle forme, chiara espressione del valore dell’autonomia negoziale, per opinione diffusa il rapporto fra contratti non formali e contratti formali è tra regola ed eccezio‐ ne: come pure induce a ritenere l’art. 1325, n. 4, la forma legale sarebbe un requisito solo eventuale, e non necessitato, del contratto. Se in alcuni casi la legge richiede una specifica veste formale a pena di nullità, nella generalità dei casi si deve intendere che non richiede: vale la regola della forma libera. Sul finire del secolo scorso, in ragione anche del fenomeno del c.d. neoformalismo (ossia del forte incremento di previsioni sulla forma legale a pena di nullità) la dottrina delle forme libere è stata varia‐ mente criticata, a vantaggio della diversa visione del rapporto di mera alternatività tra regole sulla forma libera e regole sulla forma vincolata [perlingieri 1986; irti 1997, 145]; visione progressivamente affermatasi in letteratura [breccia 2006, 506]. In giurisprudenza le pronunce più interessanti concernono la questione della forma degli atti e contratti collegati a negozi formali. L’opinione tradizionale è che tali atti, ove non risulti una diversa volontà di legge (come per la procura, art. 1392 e il contratto preliminare, art. 1351), siano a forma libera; accogliendo la tesi innovativa, si può reputare invece che tali atti, in ragione del nesso con contratti formali, siano pure essi a forma vincolata. La giurisprudenza, nelle affermazioni di principio, appare salda‐ mente ancorata all’idea della libertà delle forme. Tuttavia, nella soluzione dei casi pratici, evidenzia spesso la sua considerazione anche per la tesi formalistica. Di rilievo le costanti decisioni in materia di mandato senza rappresentanza alla compravendita di immobili dove, per esigenze di certezza, la giurisprudenza affianca la disciplina dell’incarico al mandatario senza rappresentanza alla disciplina della procura (che ne dispone il rilascio nella stessa forma dovuta per il contratto finale, art. 1392) e richie‐ de la forma scritta a pena di nullità (Cass. 6063/1998). Stessa soluzione per la cessione di contratto immobiliare: giacché con la cessione si attua una modificazione soggettiva del regolamento formale, ammissibile nei limiti in cui è realizzata adempiendo agli stessi oneri formali (Cass. 3725/1991). Si richiede inoltre la forma scritta per il patto di opzione relativo a contratto formale e per la successiva dichiarazione di accettazio‐ ne (Cass. 3339/1987), e così pure per il negozio fiduciario su beni immobili (Cass. 5565/2001). La soluzione è adottata anche per i contratti risolutivi di contratti formali, nella giusta convinzione che un contratto formale possa essere rimosso soltanto da altro contratto formale (Cass. 2772/1992). L’indirizzo è esteso al caso del contratto risolutivo di prelimina‐ re di definitivo formale. Benché soltanto il secondo preliminare debba essere redatto nella forma prevista per il contratto definitivo (art. 1351), l’identica incidenza dei due contratti su diritti immobiliari favorisce l’interpre‐ tazione estensiva dell’onere formale, a copertura anche dei contratti risolutivi (Cass., s.u., 8878/1990). ■ 3. Il contratto è nullo se illecito (art. 14182). La definizione dell’illiceità è data nell’art. 1343, sulla causa illecita: contrarietà alle norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; ma tale definizione è ritenuta valida per tutti gli altri casi elencati. Norme imperative, ordine pubblico e buon costume costituiscono i tre parametri dell’illiceità. Secondo l’insegnamento recepito, l’illiceità fissa il limite assolu‐ to alla negoziabilità. L’illiceità discrimina l’attività negoziale con riguardo ai risultati che essa si prefigge; pervade come qualificazio‐ ne assorbente tutti quei contratti volti a un risultato che possa argomentarsi come contrario a principi-valori riconosciuti e promossi dall’ordinamento. In quanto limite all’esercizio della libertà contrat‐ tuale sostanziato da principi-valori condivisi, l’illiceità si definisce nei contenuti sulla base del diritto storicamente rilevante in una determi‐ nata organizzazione sociale. L’opinione comune ritiene che l’essenza dell’illiceità sia nell’ano‐ malia funzionale del negozio, nel suo deviare dalla funzione per la quale è ammesso nell’ordinamento, nel suo porsi al servizio di un risultato vietato perché confliggente con le finalità riconosciute, astrattamente consacrate dal legislatore nel tipo contrattuale e concretamente attuate dalle parti nel forgiare un modello atipico o anche inedito o nell’usare il modello tipico per uno scopo pratico ritenuto legittimo. Nel contratto illecito la funzione è strumentalizzata dalle parti, che si rivolgono per mezzo di esso a obiettivi vietati all’autonomia privata. Le enunciazioni del codice racchiudono l’illiceità nell’ambito della causa, dell’oggetto, dei motivi della condizione e del modo; la riferiscono a determinati elementi costitutivi del contratto, piuttosto che al contratto in se stesso considerato. Il contratto è pertanto nullo se sono illeciti: la causa (artt. 1343 e 14182: ad es., meretricio), l’oggetto (artt. 1346 e 14182: ad es., compravendita di droga), i motivi (artt. 1345 e 14182: ad es., locazione di apparta‐ mento a chi si sa essere latitante), la condizione (art. 1354) e il modo (art. 794). Nel codice del 1865 si menzionava soltanto l’illiceità della causa. La dottrina era conseguentemente solita ricondurre altre ipotesi di illiceità entro i confini (oltremodo dilatati) dell’illiceità della causa, omettendo anche di parlare, specificamente, di «illiceità della causa» e discorrendo, onni‐ comprensivamente, di «illiceità del negozio» (o «illiceità del suo contenuto») [ferrara 1902, 4]. Nel progetto italo francese del codice delle 1 obbligazioni del 1927, pur essendo l’illiceità riferita alla causa (artt. 10, 27 e 29), il carattere di liceità è esteso anche all’oggetto (art. 23). Anche per l’influenza esercitata da questa esperienza, nella codificazione del 1942 la figura dell’illiceità perde la sua compattezza: accanto all’illiceità della causa – nell’architettura del codice ancora espressione paradigmatica dell’illiceità stessa – campeggiano quella dei motivi e quella dell’oggetto. Secondo l’insegnamento corrente il contratto ha causa illecita quando realizza un assetto di interessi contrastante con o elusivo di norme imperative (di ordine pubblico), ordine pubblico o buon costume (artt. 1343 e 1344). Nei contratti di scambio l’illiceità risiede, appunto, nello scambio di prestazioni. Le prestazioni posso‐ no essere entrambe illecite (ad es., contratto di ricettazione), en‐ trambe lecite (ad es., contratto di corruzione impropria: retribuzione per il compimento di un atto conforme ai doveri d’ufficio) o l’una lecita e l’altra illecita (ad es., contratto di usura). Nei contratti con comunione di scopo l’illiceità si colloca nello scopo comune perse‐ guito dalle parti e oggettivato nel contratto (ad es., contratto di associazione per delinquere). Vi è motivo illecito quando le parti si determinano al contratto per un motivo illecito e comune a entrambe (art. 1345). Si porta usualmente l’esempio della locazione di un’abi‐ tazione per permettere al lenone di avviare un postribolo, e del noleggio di una nave al contrabbandiere perché eserciti i suoi traffici. La condizione illecita (art. 1354) si ha quando l’evento dedotto in condizione afferma un interesse illecito, di una o di tutte le parti. Gli esempi ricorrenti concernono la condizione potestativa, e si inquadrano nel condizionamento abusivo operato da un con‐ traente ai danni dell’altro. Così il contratto condizionato alla commis‐ sione di un delitto, alla stipulazione di un matrimonio, all’abbandono o alla professione di un’ideologia politica o di una confessione religiosa. Ma l’illiceità può attenere anche al fatto dedotto, tale da assicurare interessi immeritevoli (come il contratto subordinato all’esito positivo di un condizionamento della pubblica amministra‐ zione). Si ha illiceità dell’oggetto (artt. 1346 e 14182) quando a essere illecita è non la funzione del contratto, ma il bene o il servizio (oggetto finale), o la prestazione (di quel bene o di quel servizio: oggetto strumentale) dedotta in contratto. La distinzione tra illiceità della causa e illiceità dei motivi ha dato luogo a forti perplessità. Sul presupposto che il motivo rilevante è quello oggettivato nel contratto – ossia il motivo che integra la causa – si stenta a cogliere un’effettiva differenza tra le due ipotesi [carresi 1949, 44; betti 1994, 384]. L’evoluzione di pensiero che corre tra la concezione della causa accolta dai compilatori del codice (l’astratta funzione sociale ed economica del contratto) alle visioni oggi affermatesi, della causa come funzione economico-individuale del contratto, come suo scopo concreto, ha contribuito a offuscare gli incerti confini della distinzione. Il processo di storicizzazione e individualizzazione della ragione dello scambio, sempre per come obiettivata nel singolo contratto, dà ampio rilievo alle specifiche motivazioni che hanno animato le parti e favorisce una tendenziale compe‐ netrazione tra causa e motivi [nuzzo 1990, 2; roppo 2001, 413]. Pertanto si afferma anche che quella tra illiceità della causa e dei motivi è un’antitesi di scuola [breccia 1999, 9]. Un discorso molto simile interessa la condizione, quale motivo oggetti‐ vato in una clausola del contratto. La illiceità che la colpisce, pur assumen‐ dosi come distinguibile, si riconosce anche come rispondente all’identica ragione che fonda l’illiceità di causa e oggetto [carusi 2006, 302]. L’introduzione nella codificazione vigente dell’illiceità dell’oggetto ha indotto la dottrina a interrogarsi sugli ambiti, eventualmente diversi, dell’illi‐ ceità della causa e dell’illiceità dell’oggetto: sia perché l’illiceità dell’og‐ getto determina sempre l’illiceità della causa; sia perché è davvero difficile individuare un’ipotesi di causa illecita in cui non sia sostenibile anche l’illiceità dell’oggetto. La maggiore insidia per la razionalità del sistema insita nell’espressa previsione dell’illiceità dell’oggetto si coglie compiuta‐ mente considerando il problematico rapporto che corre tra oggetto e contenuto del contratto. Se si opacizzano o addirittura scompaiono i confini tra le due nozioni, sfuma di conseguenza anche ogni pretesa di tenere almeno logicamente distinte l’«illiceità della causa» (e l’«illiceità dei motivi») e l’«illiceità dell’oggetto». Per queste ragioni diffusa è la convinzio‐ ne che tra illiceità della causa e illiceità dell’oggetto possono esservi commistioni, influenze e sovrapposizioni [cariota ferrara s.d., 592; scogna‐ miglio 2008, 378]. In conclusione, benché la dottrina si sia a lungo cimentata in raffinate analisi volte a circoscrivere le aree di incidenza dell’illiceità causale rispetto all’illiceità degli altri elementi coinvolti, non può dirsi che sia infine riuscita nell’intento. L’insucesso era inevitabile: infatti, tutto ciò che è illecito nel contratto è pur sempre riferibile anche alla causa. Nell’elemento causale struttura e funzione si sovrappongono inseparabilmente. Mentre sul piano strutturale la causa è elemento del contratto, invece sul piano funzionale ne esprime la realtà unitaria e dunque, come si è scritto, anche la sua «funzio‐ ne illecita» [palermo 1970, 169]. ■ 4. Ordine pubblico e buon costume, quali clausole generali dell’illiceità, costituiscono i parametri sostanziali di quel giudizio e si contrappongono alle norme imperative, che invece ne costituiscono il parametro formale. Questa comune natura dà ragione della presenza in altri ordinamenti di una soltanto di tali clausole (gute Sitten in Germania, comprensivi del nostro ordine pubblico; public policy, nella cui area semantica rientra anche l’immoralità, nei sistemi anglosassoni). Il sintagma ordine pubblico è inserito per la prima volta nel codice napoleonico del 1812, quale somma dei valori fondamentali affermati dalla Rivoluzione francese e fatti propri dalla codificazione: uguaglianza, libertà, proprietà. L’opinione corrente ritiene che esso esprima i valori fondamentali dell’ordinamento in un determinato momento storico, ponendosi come limite all’autonomia privata che, nel suo libero esplicarsi, deve comunque rispettare quei valori. La politicità e la socialità determinative dell’essenza del concetto lo caratterizzano nell’elasticità e variabilità storico-spaziale. Circa l’individuazione dei valori di ordine pubblico, un punto essen‐ ziale di riferimento è tradizionalmente individuato nello ius cogens; tanto che le indagini classiche sull’ordine pubblico ne appiattivano il concetto sullo stesso diritto imperativo [ferrara 1902, 61]. Questa concezione, mossa dalla preoccupazione di preservare la libertà contrattuale dall’arbitrio giudiziale, sconfessava natura e funzione dell’ordine pubblico quale clausola di sensibilizzazione delle regole positive all’evoluzione dei valori sociali; inoltre annullava la sua rilevanza di parametro autonomo dell’illicei‐ tà: da affiancarsi alle norme imperative, e non da dedursi semplicemente dalle stesse. Natura e funzione di clausola generale dell’ordine pubblico sono tuttavia costantemente sostenute nella dottrina successiva. Sia pure attraverso passaggi contrassegnati da un’evidente gradualità (per il medio della deduzione dell’ordine pubblico dal diritto cogente non solo espresso, ma anche implicito) e nel confronto tra visioni positivistiche e visioni antiformalistiche, si afferma progressivamente l’idea dell’ordine pubblico quale insieme di valori intransigibili immanenti nell’ordinamento e conse‐ guenti all’evoluzione sociale [betti 1994, 383]. Trattandosi di valori di sistema, i valori di ordine pubblico sono desumibili in via interpretativa, senza che occorra l’espressa commi‐ natoria di nullità e nemmeno l’indicazione legislativa del comando o del divieto. Circa le fonti dell’ordine pubblico, rilevano sopra tutto i princi‐ pi-valori sanciti dalla Costituzione (direttamente o anche indiret‐ tamente, ossia attraverso il richiamo a fonti esterne all’ordinamento, come le convenzioni internazionali): diritti inviolabili dell’uomo, doveri inderogabili di solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, tutela della salute, della libertà e della dignità umana sopra tutti. Oltre ai principi costituzionali rilevano i principi ordina‐ tori del diritto comunitario e del diritto interno: non solo impera‐ tivo ma anche dispositivo. Pure importanti le fonti extralegali (etiche ed economiche), le deontologie professionali e, riassuntiva‐ mente, i principi storicamente elaborati dalla cultura giuridica. Ricorre tradizionalmente l’idea dell’ordine pubblico che lo assimila a quella di interesse pubblico [ferrara 1902, 4]. Questa concezione risente di una semplificazione concettuale indotta dalla struttura del diritto tradizio‐ nale, organizzato secondo criteri sufficientemente netti di delimitazione territoriale tra pubblico e privato e sfornito di una fonte superiore quale la Costituzione (che riconosce e impone il rispetto dei diritti – dunque indivi‐ duali – fondamentali). Dopo l’entrata in vigore della Costituzione e l’avvento del diritto deformalizzato dello Stato sociale si ingenera l’opinione che accanto alle norme imperative di interesse pubblico si pongano altre dirette a tutelare imperativamente interessi individuali ma fondamentali [Ferri 1970, 210]. L’ordine pubblico non risente, per questa ragione, di una frattura interna, che separi la tutela degli interessi generali da quella degli interessi individuali. Possono infatti dirsi di ordine pubblico, per comune opinione, solo gli interessi (pubblici o privati) radicati nei valori fondamentali dell’ordinamento. Contrastano con l’ordine pubblico i contratti che limitano la libertà (di espressione, di associazione, di religione, di lavoro), come la vendita del voto elettorale e del posto di lavoro; i contratti disposi‐ tivi del diritto all’integrità fisica e alla salute (compravendita di un organo doppio, limitazioni di responsabilità per danni alla salute) e, in generale, aventi a oggetto diritti non disponibili (identità personale, riservatezza, diritto morale d’autore). Contrastano altresì con l’ordine pubblico i contratti in cui è pregiudicato l’ordinato svolgersi dei rapporti economici (come gli accordi limitativi della concorrenza in perpetuo). In tema di rapporto di lavoro sono illeciti nella causa per violazione dell’ordine pubblico: il contratto in cui il corrispettivo stabilito per la presta‐ zione di lavoro consiste non in una retribuzione ma nell’assunzione dell’ob‐ bligazione di adottare e di istituire erede il lavoratore (Cass. 835/1964); il contratto con il quale un lavoratore si impegna dietro corrispettivo a lascia‐ re libero il suo posto di lavoro a vantaggio di altro lavoratore (Cass. 2859/1974); il bando di concorso per assunzione contenente discriminazio‐ ni ai danni di talune categorie di lavoratori (Cass., s.u., 7081/1986). Circa le disposizioni a tutela degli incapaci, l’impegno di ottenere il provvedimento autorizzativo per la vendita di beni dell’incapace assunto verso terzi dal rappresentante legale del medesimo è nullo per contrarietà a norme di ordine pubblico, contrastando con l’esigenza che l’attività di amministrazio‐ ne del patrimonio dell’incapace sia giustificata esclusivamente dalla considerazione degli interessi dell’incapace stesso (Cass. 557/1968). Contrari all’ordine pubblico sono pure i contratti comprensivi di clausole compromissorie per le quali le controversie tra le parti o (se negozi associativi) fra membro e organizzazione collettiva, sono devolute a collegi arbitrali composti da soggetti non del tutto (o perlomeno non sufficiente‐ mente) estranei alla sfera di interessi di taluna delle parti in conflitto (Cass., s.u., 1178/1963; Cass. 2680/1984). Accanto a formule di più immediato sapore collettivo, come quelle dell’ordine pubblico costituzionale, o politico, o dell’ordi‐ ne pubblico tecnologico, si apprezzano l’ordine pubblico perso‐ nale e familiare (esteso sino ai territori di frontiera delle manipola‐ zioni genetiche) e l’ordine pubblico matrimoniale (con tutta l’ampia casistica sugli accordi in vista del matrimonio, in vista del divorzio, in alternativa al matrimonio), quali configurazioni in cui la clausola generale si vede assegnati obiettivi controversi e non pacificati, nella loro essenza, dai risultati del pubblico dibattito. Deve tuttavia precisarsi che tali formule si rivelano non diversi modi di ‘essere’ dell’ordine pubblico (dal punto di vista ontologico) ma più modestamente diversi modi di operare, con riguardo agli specifici ambiti di incidenza (secondo un punto di vista funzionale). L’ordine pubblico conserva e custodisce i valori ritenuti non negozia‐ bili (dal legislatore, e anche dall’elaborazione culturale del diritto) nei più diversi ambiti; di conseguenza, le varie modalità operative che si possono annoverare nell’esperienza si presentano ontologi‐ camente identiche: sfaccettature distinte ma tutte costitutive del complesso prisma dell’ordine pubblico. In questa prospettiva, la più importante specificazione è data dalla figura, settoriale, dell’ordine pubblico economico. Mentre la caratteristica dell’ordine pubblico è di porsi come limite negativo alla libera determinazione dei contraenti, l’ordine pubblico economico si caratterizza invece per la sua portata positiva, propulsiva, distin‐ guendosi in ordine pubblico economico di direzione, espresso dagli interventi legislativi di indirizzo e sviluppo del progresso eco‐ nomico (in materia di politica del credito, controllo dei prezzi, tutela dell’effettività della concorrenza, e così via) e ordine pubblico economico di protezione, espresso dalle leggi a tutela dei con‐ traenti deboli. Mentre l’ordine pubblico non economico sottrae determinati territori allo scambio economico, a tutela di valori non patrimonializzabili, invece l’ordine pubblico economico tutela l’eser‐ cizio della libertà contrattuale e, regolamentandola, reprime gli abusi consumati dalla parte forte in pregiudizio della parte debole, con ciò tutelando il contratto nella sua essenza. Da qui l’opportunità di isolare, nell’ampio genere «ordine pubblico», una categoria subordi‐ nata rinvenibile nei principi essenziali che costituiscono l’«ordine giuridico del mercato». Il buon costume esprime i canoni dell’onestà o, come anche si dice, della moralità accolti dalla società civile: nella sfera sessuale e familiare, costituente il settore di tradizionale rilevanza, ma anche in tutti gli altri ambiti in cui si svolge la vita associata. Il buon costume non afferma positivamente tali valori, ma pone i precetti di rispetto minimo di questi canoni: segna il confine negativo oltre il quale il contratto più che non promuovere i valori dell’ordinamento, più che restare indifferente a essi, li viola apertamente, offendendo la morale e il senso di onestà diffusi nell’organizzazione sociale. Come l’ordine pubblico, anche il buon costume svolge dunque una funzio‐ ne conservativa dei valori prevalenti nell’ordinamento ponendosi quale limite negativo all’agire contrattuale. Altra caratteristica del buon costume, che lo accomuna all’ordine pubblico, risiede nella relatività storica e spaziale dei principi che lo sostanziano. Una caratteristica comune finale è data dalla desumibilità, anche dei precetti del buon costume, in via interpretativa, a prescindere da un’espressa previsione di legge. È da sempre pacifico che viola il buon costume il contratto con cui il pubblico ufficiale effettua, dietro corrispettivo, un atto conforme o contrario ai doveri del suo ufficio; il mutuo concesso al giocatore d’azzardo; la prestazione sessuale a pagamento; il contratto con cui si dispone della propria integrità fisica o morale (art. 5). Contrasta con il buon costume il contratto a titolo oneroso avente a oggetto il conferimento di un incarico professionale stipulato fra i compe‐ tenti organi di un’istituzione pubblica e un membro del consiglio di ammini‐ strazione dell’ente, con intenzionale lesione degli interessi di quest’ultimo (Cass. 5408/1982); l’accordo fraudolento intercorso tra l’acquirente di beni immobili di proprietà di minori e il loro genitore e inteso a defraudare i minori del prezzo a essi dovuto per la vendita degli immobili, così da poter dividere tra loro la differenza illecitamente sottratta (Cass. 234/1960); il contratto di rilegatura di libri a contenuto pornografico (Cass. 10779/1994); il contratto con cui taluno, in vista delle elezioni, si impegni, verso corrispettivo, a far convergere il suo voto e quello dei suoi sostenitori sulla controparte, e a procurare la rinunzia al mandato parlamentare, a favore di quest’ultima, da parte di altri candidati eventualmente eletti in suo luogo (Cass. 1574/1971). Le valutazioni di contrarietà al buon costume e all’ordine pubbli‐ co possono coincidere: ciò quando il canone di onestà esprime, anche, un valore essenziale dell’ordinamento. Sicché appare difficile collocare alcune ipotesi di illiceità nell’ambito delle violazioni del buon costume piuttosto che nell’ambito dell’offesa ai principi dell’ordine pubblico. Queste coincidenze tra le valutazioni di contrarietà al buon costume e all’ordine pubblico, che hanno indotto diversa dottrina a ritenere ordine pubblico e buon costume espressioni sostanzialmente equivalenti [breccia 1999, 209]. Nondimeno, a giudizio dei più, fra ordine pubblico e buon costume permane una differenza ontologica, veicolando il buon costume valori esclusivamente etici, di cui realizza la giuridificazione [ferri 1970, 209]. La differenza ontologica tra ordine pubblico e buon costume è tendenzialmente ravvisata, pertanto, nella fonte legale del primo e nella fonte morale del secondo. La distinzione si conserva nella misura in cui sia possibile riscontrare un’effettiva morale sociale, cosa che appare proble‐ matica nelle società evolute, amalgamate da valori non monistici ma pluralistici. Si dovrebbe pertanto concordare sulla opportunità del riferimen‐ to ai valori costituzionali per dare chiara sostanza ai precetti, altrimenti inutilizzabili per eccessiva opinabilità, del buon costume. Tanto che, secondo l’opinione più diffusa, il buon costume e l’ordine pubblico (già per vicinanza ontologica, ma soprattutto per stringente necessità operativa) si sostanziano entrambi nei valori fondamentali espressi nell’ordinamento. Per tali ragioni appare ragionevole ritenere che il buon costume non si distingua (almeno non completamente) ma sia in rilevante misura ricompre‐ so nello spazio più ampio occupato dall’ordine pubblico, di cui rappresenta una particolare modalità o connotazione: l’ordine pubblico etico, che trova cioè immediato fondamento nei principi etici assunti nell’ordinamento a sua peculiare caratterizzazione, apprezzabile nella sua separatezza per la specificità di disciplina disposta dall’art. 2035 sulla irripetibilità della prestazione immorale. ■ 5. Le norme imperative possono essere individuate, con l’opi‐ nione comune, nelle norme cogenti poste dalla legge ordinaria, o da fonti a essa sovrordinate, subordinate o equiparate. Nel diritto dei contratti rilevano le norme imperative poste dalla legge, da atti aventi forza di legge, da norme comunitarie e da fonti regolamentari autorizzate dalla legge (ma non anche quelle introdotte da fonti di produzione subordinate alla legge e non autorizzate dalla legge). Funzione delle norme imperative è di strutturare gli spazi entro cui si svolge l’esercizio dell’autonomia privata: tradizionalmente, attraver‐ so comandi negativi (norme proibitive); attualmente anche attra‐ verso comandi positivi (norme precettive). Alla violazione delle norme imperative è dedicata la norma generale dell’art. 14181, secondo cui il contratto contrario a norma imperativa è nullo a meno che, si precisa con clausola di salvezza, la legge non disponga diversamente. La legge può prevedere per la violazione di una norma imperati‐ va la semplice irregolarità del contratto o conseguenze diverse dall’invalidità (recesso, risoluzione, inefficacia in senso stretto o altro); può prevedere, in alternativa, l’invalidità del contratto (nullità, annullabilità, rescissione); oppure può tacere. L’assenza di sanzione espressa non comporta l’assenza di sanzione. Poiché la nullità per contrarietà a norme imperative è espressione di un principio generale, opera a prescindere dalla previsione della sanzione nel contesto della specifica norma (imperativa) violata. Si esplica così la funzione dell’art. 14181: di chiudere il sistema introducendo, accanto alla nullità testualmente prevista, una forma di nullità inespressa, derivante da una violazione non esplicitamente sanzio‐ nata dalla legge civile. È questa la figura della nullità virtuale. Se la mera disattenzione di una norma imperativa non espres‐ samente sanzionata può comportare la nullità, potendo essa comportare anche la semplice irregolarità, o altre conseguenze ancora, o nessuna conseguenza, sorge l’esigenza di individuare un criterio con cui discriminare i due ordini di casi (nullità, non nullità). Secondo un criterio consolidato per stabilire se la violazione di una norma imperativa non esplicitamente sanzionata comporta l’illiceità del contratto bisogna indagare il fondamento della norma. Se essa risponde a ragioni di ordine pubblico e assicura la tutela dei valori fondamentali dell’ordinamento, il contratto è illecito, altrimenti no. Questo criterio funzionale è stabilmente seguito in giurispru‐ denza. Oltre ai casi già citati in materia di contrasto con l’ordine pubblico di precetti non espressamente sanzionati con la nullità, un significativo ordine di ipotesi riguarda l’esercizio incontrollato di prestazioni professionali per le quali si richiedono determinati requisiti di professionalità e correttez‐ za, presuntivamente posseduti soltanto da coloro che hanno ottenuto 1 l’iscrizione in appositi albi previsti dalla legge (art. 2231 ), e ai quali soltan‐ to l’esercizio di tali professioni è pertanto riservato. Ne consegue la nullità per violazione della norma imperativa di ordine pubblico dell’iscrizione all’albo del contratto concluso per abusivo esercizio della professione di: dentista (Cass. 10769/1995); ragioniere (Cass. 305/1996); ingegnere (Cass. 1157/1996); intermediario finanziario (Cass. 3272/2001); avvocato (Cass. 3740/2007). Ma lo stesso è opinabilmente ritenuto anche per professioni che non sembrerebbero necessitare di controlli a fini di ordine pubblico, come nei casi di: agente di commercio (Cass. 9063/1994); giornalista (Cass. 2476/1996); mediatore (Cass. 19066/2006). Al fine di implementare la razionalità e la prevedibilità delle decisioni, la dottrina ha cercato di controllare l’analisi funzionale con l’ausilio di correttivi. Sempre in prospettiva funzionale, in presenza di norma imperativa sanzionata ma non con l’invalidità si ritiene che la nullità possa essere comminata soltanto se l’esigenza perseguita dal legislatore mediante la previsione della specifica sanzione non può essere compiutamente conseguita per mezzo della relativa irrogazione (criterio del minimo mezzo). In prospettiva strutturale, un importante indice sintomatico della natura di norma imperativa di ordine pubblico è dato, per opinione comune, dall’assolutezza dell’obbligo imposto: giacché l’interesse che non tollera compres‐ sioni è l’interesse di ordine pubblico. In alternativa al criterio funzionale si pongono criteri strutturali. Poiché l’art. 14181 fissa la regola della nullità e l’eccezione di un diverso trattamento, si potrebbe ipotizzare che la nullità debba essere pronunciata ogni qual volta non vi sia una norma che statuisca la salvezza degli effetti del contratto contrario a norma imperativa oppure dichiari una sanzione diversa dalla nullità. La clausola di riserva dell’art. 14181 perderebbe tuttavia la sua autono‐ ma funzione, ponendosi come inutile ripetizione del principio per cui la regola speciale (di salvezza) deroga alla regola generale (di invalidità). Poiché la libera esplicazione dell’autonomia privata integra un principio fondamentale dell’ordinamento, suscettibile soltanto di divieti posti in via eccezionale a segnarne il limite funzio‐ nale, parte della dottrina difende la tesi che un problema di nullità virtuale si porrebbe soltanto per l’inottemperanza di norme impera‐ tive proibitive e non anche per la disattenzione di norme imperati‐ ve precettive o ordinative (o di struttura, o di configurazione). Ogni norma precettiva è tuttavia convertibile in un divieto; pertanto non si può apprezzare alcuna differenza sostanziale tra norme precettive e norme proibitive: anche la norma precettiva, che pone un comando in positivo, limita l’autonomia privata e si presta a essere trattata con la nullità. Il criterio strutturale che attualmente gode di maggior credito si fonda sulla distinzione che si ritiene di tracciare tra repressione della regola contrattuale, da un lato, e repressione del comporta‐ mento tenuto da taluni dei contraenti nella stipulazione del contratto, dall’altro. L’osservazione fondamentale è che l’art. 14181 disciplina, testualmente, il caso del contrasto tra contratto e norma imperativa e sanziona con la nullità (salvo diversa disposizione di legge) il regolamento di autonomia che perciò è disapprovato in se stesso; non si interessa, questa norma, del comportamento tenuto dalle parti nella conclusione del contratto. La sanzione del compor‐ tamento non può determinare, di per se stessa, la disapprovazione del contratto che da quel comportamento si origina. Occorre, per questa conseguenza, che il contratto sia autonomamente (cioè a prescindere dal comportamento tenuto dalla parte) contrario alla norma imperativa. Il che si verifica, secondo l’opinione dominante, quando a essere contrario alla norma imperativa sia non soltanto il comportamento di una parte, bensì il comportamento di tutte le parti che hanno dato luogo al contratto. Al di fuori di questa eve‐ nienza, in cui il contratto sia determinato da condotte tutte disappro‐ vate, e quindi si ponga come disapprovato in se stesso, la non conformità a norma imperativa del comportamento determinerà sanzioni diverse dalla nullità: quelle, per l’appunto, che hanno a oggetto non un regolamento di interessi, ma una condotta (negozia‐ le), come accade per l’annullabilità e la rescissione. Impegnativo banco di prova delle varie opinioni è quello delle norme imperative penalmente sanzionate che non prevedono anche la nullità del contratto posto in essere. In generale vi è accordo, in dottrina come in giurisprudenza, che illiceità penale e illiceità civile non sono necessaria‐ mente coincidenti. Un comportamento penalmente sanzionato non neces‐ sariamente determina la nullità del contratto che produce. Infatti, perché operi la sanzione della nullità, occorre che il contratto sia riprovato dalla legge civile. Si possono verificare tre eventualità di massima. a) La legge penale, oltre che punire il reo (una alcune o tutte le parti dell’accordo) può «disapprovare» (per così dire) direttamente il contratto, vietando la vendita, l’acquisto o il commercio di determinati beni (ad es., artt. 250, 352, 470, 474, 648, 686, 705 e 710 c.p.). In simili fattispecie ciò che la legge penale direttamente sanziona è il regolamento a cui le parti sono pervenute. Nessuno dubita che, civilisticamente, il contratto sia illecito. Esso, infatti, è contrario a una norma imperativa (penale): ricade nell’area di interesse 1 dell’art. 1418 . Queste fattispecie sono denominate reati-contratto [leoncini 1990, 1053]. In effetti, il reato-contratto è già valutabile come 1 illecito in base a norme diverse dall’art. 1418 , e specificamente in base 2 all’art. 1418 : perché illecito nella causa, nell’oggetto o nel motivo determi‐ nante e comune alle parti. Così il delitto di ricettazione è illecito sia in 1 quanto reato-contratto (art. 648 c.p.; art. 1418 ) sia perché illecito nell’og‐ 2 getto (artt. 648 c.p.; artt. 1343 e 1418 ); il patto di corruzione è illecito 2 (anche) nel motivo (artt. 318 ss. c.p.; artt. 1345 e 1418 ). In altri termini, nessun problema si pone se il contratto penalmente vietato ha causa, oggetto o motivo determinante illeciti, poiché in questi casi è la legge civile che dispone la nullità [vassalli 1985, 467]. b) Nessun problema si pone se la legge penale punisce il comportamento di entrambi i con‐ traenti (ad es., turbata libertà degli incanti, art. 353 c.p.). In simili fattispe‐ cie il contratto è certamente illecito per contrarietà all’ordine pubblico. Infatti, ciò che la legge direttamente sanziona è il regolamento a cui le parti sono pervenute. c) A volte la legge penale si limita a punire il compor‐ tamento di una parte nella fase delle trattative, senza disapprovare espres‐ samente il contratto: penalmente rilevante è non l’assetto di interessi raggiunto, ma la condotta tenuta da una delle parti ai danni dell’altra per raggiungerlo. Si discorre di reati in contratto [leon-cini 1990, 999]. Si tratta di figure realizzate con la cooperazione artificiosa della vittima, che è indotta con mezzi illeciti (frode, violenza, approfittamento dello stato di bisogno o di inferiorità psichica) a una disposizione patrimoniale (ad es., artt. 629, 640, 641, 643 e 644 c.p.). Poiché la norma imperativa non si interessa della convenzione ma si limita a disapprovare solo alcune tra le condotte che la realizzano, sorge una grave incertezza sul trattamento civilistico del contratto. Un’autorevole dottrina, sviluppando la distinzione riportata fra «sanzio‐ ne del contratto» e «sanzione del comportamento» (delittuoso) di uno dei contraenti, ha sostenuto che in questo ultimo caso, poiché la norma penale non vieta il comportamento di entrambe le parti che si accordano, non vieta di conseguenza il contratto «come tale», ma come «comportamento materiale». In sostanza, il reato è circoscrivibile nel comportamento di 1 una delle parti e non travolge il contratto [oppo 1963, 178]. L’art. 1418 , infatti, si riferisce solo al contratto e mai al comportamento di una o di tutte le parti, che costituisce invece l’oggetto della legge penale. Siccome legge civile e legge penale disciplinano ambiti diversi (la prima il contratto, la seconda la condotta del reo), si comprende come la violazione della legge penale non determini la nullità del contratto frutto del comportamento unilateralmente inottemperante, e come invece il contratto come tale vietato secondo la legge penale (perché frutto di comportamenti tutti vietati) sia nullo secondo la legge civile [ferri 1970, 165; de nova 1985, 447]. A questa soluzione si obietta che, attesa la non coincidenza tra illiceità penale e illiceità civile, è arbitrario desumere la liceità del contratto argo‐ mentando dalla punibilità di una parte soltanto: nessun ostacolo impedireb‐ be che all’illiceità del contratto l’ordinamento affiancasse, sul piano penali‐ stico, una sanzione a carico di un contraente soltanto. Inoltre, lo stesso legislatore commina, a volte, la nullità del contratto proibito a uno soltanto dei contraenti, come nel caso del contratto stipulato dal professionista abusivo (art. 2231) [moschella 1981, 306; villa 1993, 116]. La giurisprudenza si è richiamata a volte alla visione invalsa nella dottrina prevalente, la quale visione altrettante volte ha tuttavia respinto, applicando il tradizionale e consolidato criterio funzionale sulla natura – se di ordine pubblico o meno – della norma penale violata (rispettivamente, Cass. 1749/1969; Cass. 4234/2003; Cass. 7998/1990). Discusso è il fondamento della nullità virtuale. Oltre alla visione tradizionale, secondo cui si avrebbe una delle classiche fattispecie di illiceità (non per violazione di ordine pubblico o buon costume, ma per violazione di norme imperative), per un diverso avviso, oggi alquanto diffuso, si tratterebbe di una fattispecie diversa dall’illiceità: di nullità semplice, denominata nullità da illegalità. La figura si caratterizzerebbe per i termini del contrasto con la norma imperativa, giacché quel contrasto involge non la causa (o altri elementi rilevanti ai fini dell’illiceità), ma il contratto genericamente considerato. Mentre al contrasto tra contratto e norma imperativa si applicherebbe la regola della nullità salvo diversa disposizione, invece per il contrasto della causa con norma imperativa varrebbe la più severa regola della nullità del contratto, senza possibile salvez‐ za; mentre al secondo si applicherebbe l’intero apparato rimediale previsto per l’illiceità, invece al primo si applicherebbero le conse‐ guenze meno drastiche riferite dalla legge non all’illiceità della causa o dell’oggetto (art. 2126) ma all’illiceità del contratto generica‐ mente intesa. L’applicazione del criterio sostanziale per discriminare i casi di nullità virtuale – ossia la natura (se di ordine pubblico o meno) della norma imperativa violata – cagionando un’interferenza tra contratto illecito e contratto contrario a norma imperativa rende tuttavia problematica la conclusione dell’effettiva diversità tra illiceità e illegalità. ■ 6. La violazione delle norme imperative può determinarsi non soltanto per contrasto diretto ma anche per contrasto indiretto, ossia attraverso l’elusione della norma: formalmente rispettata ma disat‐ tesa nella sostanza. Qualora la funzione illecita si realizzi secondo tale modalità, si ha illiceità della causa per frode alla legge. La formula di cui si serve il codice nell’art. 1344, secondo cui la causa in frode deve «reputarsi» illecita, suscita l’idea che l’idea che la causa del contratto sarebbe in se stessa lecita, ma diviene illecita in quanto strumentalizzata per fini vietati alle parti: in quanto abusata. La funzione reale espressa dal contratto può dunque sfuggire alla semplice considerazione della «causa» intesa come «funzione economico-sociale»; questa la ragione che fonda il ricorso alla frode: creare un’apparenza di liceità attraverso l’utilizzo di un model‐ lo contrattuale riconosciuto dalla legge. Le incertezze suscitate dalla pur intuitiva figura della frode alla legge sono dovute alle concezioni adottate dagli interpreti in ordine alla causa quale funzione del contratto, abusata nel caso concreto [d’amico 1993, 165]. Se infatti si insiste nella visione tradizionale della funzione economico-sociale, può diventare difficile ricomprendere nell’area della causa il fenomeno violativo che viene (pertanto) inquadrato nel concetto di «frode»: la funzione oggettiva del contratto potrebbe essere formalmente rispettata permanendo tuttavia il risultato negativo di sostanziale disatten‐ zione della finalità della legge. Questa difficoltà spiega anche il dibattito tra approcci interpretativi (classificati come teorie oggettive) volti a valorizza‐ re l’attività contrattuale elusiva in se stessa considerata e realizzatrice dello scopo vietato dalla legge (secondo cui l’essenza della fenomeno sarebbe nella modalità della violazione: non diretta ma indiretta) [bianca 2000, 625; gentili 2006, 1505] e approcci (classificati come teorie soggettive) fondati sull’importanza assegnata al motivo elusivo, comune alle parti e determi‐ nativo del particolare procedimento contrattuale adottato, volto al raggiungi‐ mento di un risultato, seppure non perfettamente coincidente, sostanzial‐ mente analogo a quello espressamente vietato [carraro 1943, 83; santoropassarelli 1986, 191]. Delle insufficienze accusate dall’indagine causale nella repressione della frode alla legge fu consapevole in certa misura il legislatore, che giunse alla scrittura dell’art. 1344 dopo molteplici ripensamenti. Nell’iniziale formulazione dell’art. 216 del progetto preliminare la norma prevedeva l’illiceità del contratto che, pur avendo causa lecita, costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di norme imperative; benché la disposizione menzio‐ nasse anche la causa (al fine di chiarire che la sua liceità non è sufficiente a escludere la frode) riferiva la strumentalizzazione all’intero contratto. La disposizione, rielaborata nell’art. 241 del progetto definitivo, contemplò l’illiceità del contratto in frode alla legge senza più nessun riferimento alla causa (disponendo che «oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, il contratto è nullo […] quando costituisce il mezzo per eludere disposizioni imperative e proibitive della legge o di norme collettive»). Proprio con esclusivo riguardo alla causa, invece, è stata redatta la norma nella sua formulazione definitiva. L’indagine sulla frode mira ad accertare la strumentalizzazione del contratto in sé lecito al fine vietato. Oggetto dell’analisi è il rapporto tra lo scopo del divieto e il fine concreto raggiunto con il contratto: dunque, la sostanza economica dell’affare maturato con il contratto. Importante, in tal senso, è il rinvenimento di indici sintomatici della frode sedimentatisi, per ciascuna delle figure ricorrenti, a seguito dell’elaborazione giurisprudenziale; ciò che, tuttavia, conta essenzialmente è l’interpretazione del, nonché la sussistenza o l’insussistenza di un interesse meritevole delle parti all’adozione di quelle particolari modalità negoziali. L’apprezzamento della sostanza economica dell’affare alla luce della meritevolezza dell’interesse a servirsi dello specifico schema contrattuale [morello 1992, 504] spinge l’indagine oltre l’elemento causale, l’esame del quale potrebbe non essere sufficiente a evidenziare la meritevolezza dell’impiego della modalità contrattuale prescelta; si afferma pertanto che la causa del contratto fraudolento può apparire in se stessa pienamente lecita [breccia 1999, 266]. Diviene così rilevante anche l’indagine sui motivi: essendo il contratto costituito dal comune intento fraudolento. Si prende atto, nella dottrina recente, che il contrasto, così spesso rimarcato tra teorie oggettive e teorie soggettive non deve essere enfatizzato; nemmeno sfugge che la giurisprudenza, nell’indagare la frode, valorizza sia il risultato pratico a cui conduce il contratto e che in esso è oggettivamente perseguito, sia l’intento elusivo che ha animato i contraenti [gitti 1993, 466]. L’indagine sul profilo causale accentua la problematicità del suo risulta‐ to quando la frode è consumata attraverso una serie di atti e contratti tra di loro collegati. In tal caso, infatti, la considerazione delle ragioni del singolo contratto risulta insufficiente a svelare il senso dell’intera operazio‐ ne realizzata nel procedimento negoziale in frode alla legge. Né, a tal fine, apporta alcuna concreta utilità il mero ricorso alla nozione legislativa di ‘causa’ come elemento del contratto, con la conseguenza che la distinzione tra «atto contro la legge» e «atto in frode alla legge» è destinata a rimanere incerta. Nella prassi applicativa, a prescindere dalle opzioni interpreta‐ tive di volta in volta affermate, prevale un atteggiamento pragmatico. I giudici leggono la norma che pone il divieto a volte in via estensiva altre volte, e benché non si dichiari apertamente, in via analogica, facendo sempre attenzione alla sostanza concreta dell’affare e ritenendo l’elusione del divieto quando il contratto apparentemente legale consente risultati vietati o anche solo simili a quelli vietati. Perciò, in molti casi l’applicazione dell’art. 1344 non appare necessaria e viene evitata a vantaggio delle norme sulla illiceità diretta. Il settore di tradizionale applicazione della figura è costituito dal divieto del patto commissorio, stabilito negli artt. 1963 e 2744, statuenti rispetti‐ vamente: la nullità del patto accessorio al contratto di anticresi con cui si conviene che nel caso di mancato pagamento del debito il creditore acquista la proprietà del bene; la nullità del patto fra creditore e debitore secondo cui, in mancanza del pagamento nel termine fissato, la proprietà di un bene del debitore dato in pegno o ipotecato passa al creditore. Il patto commissorio è costruito come illecito di modalità di lesione: le norme sanzionano un patto accessorio al contratto di anticresi, oppure all’atto costitutivo di pegno o di ipoteca. Il codice abrogato, agli artt. 1884 e 1894, sanzionava solo il patto commissorio afferente al pegno e all’anticresi. Le vivaci polemiche che seguirono determinarono, nel codice in vigore, l’estensione del divieto al patto accessorio all’ipoteca. Non si dubita, tuttavia, che il divieto abbia natura non formale ma materiale, inibendo un preciso risultato (Cass., s.u., 1611/1989). Esso è pertanto esteso al patto commissorio autonomo, non afferente ad anticresi o garanzie reali, ma stipulato come autonoma alienazione in garanzia (ossia condizionata nell’effetto reale al mancato adempimento di un coevo contratto di mutuo, oggetto della garanzia commissoria) [bianca 1965, 714; carnevali 1982, 502] (Cass. 1787/1993) e al patto commissorio obbligatorio (con cui il debitore si impegna a trasferire un suo bene al creditore in caso di inadem‐ pimento dell’obbligazione assunta) (Cass. 8325/1990). La giurisprudenza ha precisato che il divieto di patto commissorio opera in caso di coesistenza di una vendita con un mutuo non in ogni caso ma solo quando risulti che i due contratti sono stati stipulati in reciproca interdipendenza, in modo che si appalesi l’intento comune alle parti di costituire a mezzo della vendita una garanzia reale per il mutuante-acqui‐ rente in caso di inadempimento del venditore-mutuatario (Cass. 672/1998; Cass. 13580/2004). Ciò che dunque conta è la funzione concreta ed effettiva del contratto, e non la causa formale (o funzione economicosociale). un’importante applicazione ha riguardato il contratto di sale and lease-back, in cui un soggetto (venditore e utilizzatore) aliena un bene ad altro soggetto (acquirente e finanziatore) che glielo concede in leasing. L’originaria appartenenza del bene concesso in leasing a una delle parti del contratto determina un’obiettiva funzione di garanzia: così da suscitare lo schema dell’ alienazione a scopo di garanzia dell’adempimento. Secondo la giurisprudenza il contratto non è sen’altro illecito. Esso deve essere ritenuto lecito e meritevole se, dall’esame della concreta operazione economica, possa desumersi la realizzazione di una struttura contrattuale finalizzata a un meritevole esercizio di impresa (smobilizzo di risorse per acquisire liquidità); illecito in quanto strumentalizzato a fini riprovati, quale quello di comporre una convenzione commissoria. È pertanto importante verificare la ricorrenza, nel caso concreto, di alcuni indici sintomatici della frode alla legge, come: la qualità soggettiva delle parti, diversa da quella di società di leasing e di imprenditore; la difficoltà economica del venditoreutilizzatore; l’eccessività dei canoni; l’incongrua durata del contratto (Cass. 10805/1996). ■ 7. Oltre che negli elementi essenziali, il contratto può essere incompleto o illecito in uno o più elementi accidentali, secondari, accessori (nullità parziale oggettiva). Inoltre, se si tratta di contrat‐ to plurilaterale, può essere incompleto o illecito in alcune partecipa‐ zioni (nullità parziale soggettiva). Poiché tale incompletezza o illiceità non investe alcun elemento fondamentale, il contratto non può dirsi necessariamente pregiudicato nella sua totalità. Infatti, può essere conservato nella sua struttura e nei suoi effetti essenziali (oltre che nella sua struttura e nei suoi effetti inessenziali laddove non incisi dal vizio). Il problema della nullità parziale è dunque nella conservazione di contratti privati di alcune previsioni o di alcune partecipazioni e dunque nell’utilizzabilità di contratti ridotti nell’effet‐ tualità, e pertanto non più corrispondenti all’articolazione di interessi inizialmente calatavi. La soluzione di questo problema è nel coniu‐ gare l’esigenza della conservazione del contratto con il rispetto dell’autonomia privata: avendo cura di evitare che attraverso il mantenimento di contratti ridotti si consentano a taluno dei con‐ traenti vantaggi ingiustificati secondo l’originario assetto di interessi. Dispone al riguardo l’art. 14191 che la nullità di una parte del con‐ tratto e la nullità di singole clausole non comportano necessaria‐ mente la nullità dell’intero contratto; perché ciò accada si richiede, inoltre, la prova che senza quella parte colpita da nullità i contraenti non sarebbero giunti a un accordo. In giurisprudenza vale la massi‐ ma costante per cui, in forza del generale principio di conservazione, la nullità di una clausola odi una parte del contratto non lo pregiudica, normalmente, nella sua interezza; la nullità parziale si estende e travolge l’intero negozio soltanto in casi ecce‐ zionali. Per clausola si intende non una proposizione del testo contrat‐ tuale ma un precetto che disciplina un’obbligazione contrattuale, principale o accessoria, nel suo insieme. La clausola precetto può essere di due tipi, «principale» o «accessoria»: a) la clausola principale è quella che veicola un requisito essenziale del contratto; b) la clausola accessoria è quella che tratta un elemento inessenziale del contratto. Poiché la nullità che involge un requisito essenziale del contratto determina, ai sensi dell’art. 1418, la nullità totale del contratto, si deve convenire che l’art. 1419 disciplina la nullità della clausola accessoria, e dunque la nullità che intacca un elemento non deter‐ minante del contratto. Poiché il riferimento alla clausola denota la parte elementare del contratto, dell’elemento costitutivo semplice e non ulteriormente scomponibile, si apprezza l’ulteriore riferimento legislativo al concet‐ to, maggiormente comprensivo, di parte, quale momento del con‐ tratto integrabile anche da un insieme organico di singoli precetti: per il quale valgono sempre le regole della nullità parziale, rispetto alle quali la distinzione tra «clausola» e «parte» non sembra possi‐ bile. L’art. 14191 dispone che la nullità di una clausola comporta la nullità del contratto se risulta che le parti, in assenza di essa, non avrebbero raggiunto l’accordo. Secondo l’opinione attualmente prevalente, benché il codice indirizzi l’indagine sulla volontà delle parti, essa deve appuntarsi sul contratto (la volontà delle parti, infatti, può rilevare solo in quanto è oggettivata in esso). Attraverso questo esame, deve ricostruirsi l’oggettiva articolazione di inte‐ ressi contrapposti che esso contratto realizza e individuare lo scopo pratico che i contraenti avevano avuto di mira. Il raffronto tra lo scopo pratico originariamente divisato con lo scopo pratico effettiva‐ mente raggiungibile induce all’estensione della nullità quando essi divergono e alla non estensione quando essi non divergono. Sino a tempi recenti il dibattito sul giudizio di nullità parziale si è divari‐ cato in tre diverse teoriche. a) Indagando la volontà reale delle parti al momento della conclusione del contratto può verificarsi se dalle dichiara‐ zioni rilasciate dalle parti o inserite nel testo del contratto o dal comporta‐ mento tenuto dalle parti medesime prima, durante o dopo la stipulazione 2 (secondo il canone ermeneutico dell’art. 1362 ) possa evincersi la volizio‐ ne di una o di entrambe nel caso della declaratoria di nullità di questa o quella parte del contenuto contrattuale [fragali 1959, 320; gandolfi 1991, 1058] (Cass. 986/1967; Cass. 1023/1976). b) In alternativa, si può conside‐ rare la volontà ipotetica: accertando cosa avrebbero fatto i contraenti se avessero conosciuto la nullità della parte o clausola del contratto che stavano concludendo [criscuoli 1959, 236; cataudella, 1974, 206] (Cass. 986/1967; Cass. 5100/1980). c) Infine, questo giudizio può essere conse‐ guito prescindendo del tutto dalla volontà delle parti in quanto tale, per privilegiare l’indagine sull’assetto degli interessi cristallizzato nel contratto [roppo 1971, 707; casella 1974, 35; di majo 2002, 105-106] (Cass. 2340/1995; Cass. 8970/2000). La recessività delle visioni volontaristiche, determinata dalla generale evoluzione della dogmatica contrattuale secon‐ do la prospettiva precettiva, e la conseguente valorizzazione del concreto assetto di interessi non vanno sopravvalutate nelle conseguenze: accanto‐ nando l’improbabile richiamo alla volontà effettiva delle parti, la distanza tra l’esame di un’astratta volontà ipotetica (pur sempre desumibile dal contrat‐ to) e l’apprezzamento del concreto assetto di interessi secondo una lettura del regolamento improntata a buonafede si riduce sensibilmente [sacco 1193, 503]. Per l’art. 14192 la nullità di singole clausole non comporta la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative. Le clausole contrattuali che determi‐ nano difformemente effetti già disciplinati da norme imperative, e dunque sottratti all’autonomia negoziale, sono illecite; il contratto non è però nullo: l’illecita volontà delle parti è automaticamente sostituita dalla prevalente volontà della legge; il vizio della clausola è sanato dall’inserzione automatica della regola imperativa secondo il meccanismo stabilito – per la generalità dei casi – nell’art. 1339. La sostituzione automatica opera anche quando la clausola viziata sia essenziale in quanto per effetto della sostituzione il contratto, di nuovo completo, è recuperato alla sua funzione. Perché la sostituzione possa operare si richiede che esista, in concreto, una norma imperativa specifica e omogenea, idonea a sostituire automaticamente la clausola nulla. È discusso se sia sufficiente la presenza di: a) una norma imperativa precettiva, che cioè disciplini positivamente una situazione, o invece di b) una norma imperativa precettiva e proibitiva, che cioè oltre a disciplinare positivamente la situazione commini espressamente la nullità per la clausola difforme, o infine di c) una norma imperativa proibitiva precettiva e che specifichi la sostituzione necessaria della clausola nulla con il comando di legge. Nonostante gli avvisi secondo cui necessiterebbe una norma imperativa che disponga anche sulla sostituzione necessaria [criscuoli 1959, 226] (Cass. 3783/1981), per l’opinione prevalente la sostituzione coattiva non presuppone una previsione espressa nella specifica norma da inserire o in un’altra; i caratteri di imperatività e di sostitutività possono infatti essere desunti dal fondamento della norma sostitutiva [barcellona 1969, 170; nuzzo 1975, 137; de nova 1976, 486] (Cass. 7822/1997; Cass. 8794/2000). Se deve escludersi che la norma imperativa debba essere formulata in senso proibitivo, precettivo e sostitutivo, si deve parimenti escludere che essa debba essere formulata in senso proibitivo oltre che precettivo (giacché ogni comando negativo può essere convertito in positivo); così come deve escludersi che le nullità che danno luogo a sostituzione debba‐ 2 no essere necessariamente testuali: non disponendo l’art. 1419 che la previsione di nullità debba essere espressamente comminata essa può essere anche virtuale [saracini 1971, 50; Cass., s.u., 6602/1984]. Soddisfatte le condizioni per la sostituzione automatica di clau‐ sole, a nulla rileva la contraria volontà delle parti confezionata nella clausola sul patto di nullità totale in caso di nullità anche di una singola clausola. La nullità parziale in senso soggettivo invalida una partecipa‐ zione nel contratto plurilaterale con comunione di scopo e non si estende alll’intero regolamento a meno che quella partecipazione debba essere considerata, secondo le circostanze, essenziale. L’art. 1420, nel dettare la regola, non fa riferimento alla volontà delle parti. Secondo un criterio oggettivo, l’effetto diffusivo della nullità è collegato esclusivamente al carattere di essenzialità della parteci‐ pazione desunta dalle circostanze del caso concreto. Se lo scopo avuto di mira dalle parti e dedotto in contratto continua a essere realizzabile nonostante il venire meno della singola partecipazione, il contratto si conserva. ■ 8. La rilevanza giuridica del contratto nullo (e l’alterità rispetto al contratto inesistente) si apprezza nella produzione di alcuni parti‐ colari effetti. Essi formano un ventaglio più o meno ampio a secon‐ da del tipo di nullità. Se il contratto è semplicemente nullo gli effetti, per quanto ridotti, si manifesteranno in misura maggiore di quanto accade per il contratto nullo perché illecito. L’efficacia del contratto nullo si manifesta in una varia fenome‐ nologia, irriducibile a unità. A volte il contratto nullo produce effetti a seguito di altri atti, a esso successivi, che ne consentono il recupero; altre volte il contratto nullo produce effetti perché è stato eseguito; altre volte ancora il contratto nullo produce effetti a causa dell’inottemperanza di un onere. Soltanto il primo ordine di casi è trattato in una norma generale. Dispone l’art. 1423 che, fatte salve diverse previsioni di legge, il contratto nullo non può essere convalidato. Quale atto di auto‐ nomia privata, ammissibile nei limiti in cui verte su situazioni dispo‐ nibili, la convalida non può interessare un contratto nullo; ma resi‐ duano eccezioni: per l’opinione comune, integrano la clausola di riserva la conferma della donazione nulla e la modifica del contratto di società nullo. La nullità della donazione non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa del donante se costoro, conoscendola, dopo la morte di quello hanno confermato o dato volontaria esecuzione al contratto (art. 799). Il recupero dell’atto dipende dalla realizzazione di altro atto – di convalida – da parte del confermante, che per conseguenza non potrà più impugnare l’originario contratto. La vicenda è spiegata anche nei termini della forma‐ zione progressiva del contratto nullo perché incompleto [fedele 1943, 102; santoro-passarelli 1986, 249]. La nullità del contratto di società di capitali non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle 5 imprese (art. 2332 ). Al contrario di quanto accade nella conferma del negozio nullo, nella sanatoria del contratto associativo l’atto non promana da soggetti estranei alla sua confezione (e in ipotesi pregiudicati) ma da coloro che hanno concluso il contratto viziato; inoltre, il contratto viene modificato attraverso l’eliminazione della regola nulla, cosicché il nuovo contratto si presenta non come un contratto invalido ma sanato, bensì un contratto valido, realizzatosi attraverso un procedimento di formazione progressiva [gentili 2006, 1576]. Nel secondo ordine di casi rientra il contratto di lavoro. Per il disposto 1 dell’art. 2126 la nullità (o l’annullamento) del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione; opera tuttavia il limite generale della nullità dovuta a illiceità (della causa o dell’oggetto), che determina esclusivamente la salvezza del diritto alla retribuzione se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore 2 (art. 2126 ). L’opinione prevalente spiega il fenomeno in termini di sanato‐ ria. Si ritiene che con l’art. 2126 sia stata introdotta una limitazione alla generale irretroattività della pronuncia di nullità a tutela del prestatore [torrente 1962, 275]; in prospettiva anticontrattualistica, si sostiene invece che l’effetto discenda non dal contratto, ma dal fattuale rapporto instaurato‐ si tra le parti [dell’olio 1970, 104], considerato anche nei termini di una fattispecie diversa e più ampia avente fonte legale [monticelli 1995, 142]. Nel terzo ordine rileva la trascrizione immobiliare: per l’art. 2652, n. 6, la domanda giudiziale diretta a far dichiarare la nullità del contratto trascritto nei pubblici registri deve essere a sua volta trascritta entro 5 anni dalla trascrizione di quello; diversamente, la sentenza di nullità non pregiu‐ dica i diritti acquistati dai terzi in buonafede con contratti a loro volta trascritti anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità. Le esigen‐ ze pratiche che hanno indotto il legislatore a prevedere una novità così importante si individuano, nella tutela della sicurezza del traffico giuridico [mengoni 1975, 301] (Cass. 1095/1967). Si ritiene che la norma introduca una fattispecie di sanatoria [falzea 1958, 692; sacco 1193, 493] (Cass., s.u., 5341/1978); per altra opinione, il contratto nullo integrerebbe una fattispecie più ampia, di natura acquisitiva, a favore del terzo subacquirente di buonafede [natoli 1971, 170]. Il più importante degli effetti spiegabili dal contratto nullo è realizzato dall’istituto della conversione. A norma dell’art. 1424 il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso allorché ne contenga i requisiti di sostanza e di forma e sia accertata l’ipote‐ tica volontà delle parti favorevole alla conversione. Presupposto fondamentale per l’operatività della conversione è la sussistenza di un contratto nullo (ma la disciplina vale anche per gli atti unilaterali) che contenga i requisiti sostanziali e formali di un altro contratto (in cui può essere convertito). In tal modo, la legge stabilisce una relazione strutturale tra contratto nullo e altro contratto, che viene usualmente indicata come rapporto di conti‐ nenza: il secondo contratto deve essere contenuto nel primo, più ampio ma nullo. Il rapporto di continenza è funzionale a evitare che attraverso la conversione le parti restino vincolate a effetti non pattuiti e non voluti (come accadrebbe se il contratto sostitutivo potesse svolgere effetti più ampi di quello nullo). L’interpretazione corrente del rapporto di continenza è molto rigorosa: il contratto nullo deve avere una portata più ampia del contratto sostitutivo di cui deve soddisfare i requisiti formali e contenutistici (Cass., s.u., 2464/1958) [santoro-passarelli 1986, 254]. Sulla base di questi princìpi, si è ammessa la convertibilità di una vendita a effetti reali, nulla, in una vendita a effetti obbligatori (Cass. 1036/1953); di una cambiale o di un assegno privi di requisiti essenziali in promesse unilaterali di pagamento (Cass. 3266/1971; Cass. 381/1977). Invece, la conversione è stata esclusa la convertibilità di un contratto di edizione in un contratto di vendita (Trib. Firenze 21 giugno 1971); del contratto di cessione volontaria di area oggetto di occupazione espropriativa già perfezionatasi in negozio di accertamento dell’entità della somma spettante al proprietario del suolo (Cass. 1040/2006); del contratto di affitto a coltivatore diretto in contratto di affitto a conduttore non coltivatore diretto (Cass. 920/1983). Perché operi la conversione la legge richiede, inoltre, la confor‐ me volontà delle parti all’effetto. Se sotto il vigore del vecchio codice alcuni studiosi avevano valorizzato il riferimento diretto alla volontà effettiva delle parti, con la nuova codificazione anche in forza della lettera dell’art. 1424 – espressamente riferita alla ricerca della volontà ipotetica delle parti – tale indirizzo è tramontato, e l’alternativa si è concentrata tra volontà ipotetica delle parti e scopo oggettivo avuto di mira (ma non conseguito) dalle medesime nel contratto viziato. Tuttavia – come già esposto in tema di nullità parziale – l’effettiva diversità delle vedute non deve essere soprav‐ valutata, inferendosi per lo più la volontà ipotetica dalla compatibilità tra gli scopi oggettivi del contratto nullo e del contratto in sostituzione. In questo senso si pone la moderna giurisprudenza quando, da un lato, richiama la necessità della presenza dell’elemento soggettivo e, dall’altro, lo individua esclusivamente nell’intento pratico perseguito dalle parti e oggettivamente emergente dal negozio nullo (Cass. 2912/2002). Così pure la dottrina quando, difendendo la teoria della volontà ipotetica, chiarisce che la ricostruzione di tale volontà deve essere condotta con riferimento allo scopo originariamente perseguito dalle parti [de nova 1988, 3]: il che implica che la volontà negoziale va apprezzata non per come le parti la proclamano ma per come si manifesta nel contratto poi rivelatosi nullo, quale scopo pratico perseguito in quel contratto; cosicché il giudizio di conversione si risolve nella valutazione degli scopi propri nel contratto nullo e del contratto sostitutivo, ossia nel raffronto tra due regole negoziali [di majo 2002, 112; gentili 2006, 1568]. Si può allora concludere che: l’art. 1424 assoggetta la conversione al presupposto che le parti, se avessero saputo della nullità, avrebbero voluto il contratto sostitutivo; questa norma, però, aggiunge che tale volontà – che deve essere definita «ipotetica» – deve essere ritenuta avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti; aderendo alle moderne concezioni, lo scopo perseguito dalle parti è quello che risulta all’esito dell’esame del singolo contratto letto nel contesto spaziotemporale in cui è stato confezionato; se tale scopo può essere realizzato, in massima parte, per mezzo di uno schema contrattuale nuovo e diverso da quello nullo, questo presupposto della conversione deve ritenersi realizzato. Al di là di tutte le differenze tra gli istituti della nullità parziale e della conversione del contratto nullo – il primo presuppone la nullità di una parte, il secondo la nullità dell’intero contratto; il primo comporta una riduzione quantitativa del contratto origina‐ rio, che resta parzialmente in vita, il secondo determina una trasformazione del contratto nullo in altro e diverso; nel primo l’idea della volontà ipotetica inferita dallo scopo contrattuale è implicita, nel secondo è espressa – nessuna apprezzabile differenza separa il giudizio di conversione dal giudizio di nullità parziale. Circa i limiti di operatività della conversione, vi è generale concordia sulla non convertibilità del contratto illecito, colpito da nullità non per lo strumento scelto dalle parti, bensì proprio per l’intento pratico da queste avuto di mira, come tale non perseguibile né con quel mezzo né con altri. Inoltre, si tende a ritenere non convertibili: il contratto incompleto (che, in quanto tale, potrebbe anche non consistere in un contratto vero e proprio, ma in un atto prenegoziale); il contratto inesistente, come tale privo di qualsiasi effetto; un contratto in un atto unilaterale, giacché la conversione, pur operando sul piano delle trasformazioni giuridiche, non può spingersi sino al punto di comportare l’atomizzazione del contratto nullo in atti unilaterali (o la riduzione di un contratto nullo in un atto unilaterale), ciascuno produttivo di effetti nuovi e diversi. Diversa dalla conversione del contratto per come disciplinata dall’art. 1424 è la conversione legale, imposta cioè dalla legge: nella quale figura si usa raggruppare una serie molto variegata di ipotesi, alcune soltanto rientranti nella materia contrattuale, in cui sembra operare un meccanismo analogo a quello finora indagato, ma profondamente diverso per un unico aspetto: in tali ipotesi non deve essere verificata la volontà delle parti poiché, prescindendo del tutto da essa, la legge impone la conversione (come nel caso del contratto di mezzadria convertito nel contratto di affitto di fondo rustico ai sensi degli artt. 25 ss. l. 203/1982). Una specie della conversione legale è data dalla conversione formale, per cui determinati atti privi di requisiti formali essenziali, e come tali nulli, sono legalmente convertiti in altri atti, diversi dai primi non nel contenuto ma nella veste formale (così, per l’art. 2701 l’atto pubblico redatto in violazione della procedura o da pubblico ufficiale incapace o incompetente, se sottoscritto dalle parti assume il valore di scrittura privata). ■ 9. La nullità del contratto, tranne i casi in cui la legge dispone diversamente, può essere azionata da chiunque vi abbia interesse (art. 1421). Alla questione sulla natura dell’azione di nullità la dottrina di un tempo ne anteponeva un’altra: se sia ammissibile un’azione sulla nullità, attesa l’idea allora corrente sulla irrilevanza giuridica del contratto nullo (assimilato all’epoca al contratto inesistente) [pacchioni 1939, 192]. Non sfuggiva tuttavia l’interesse all’azione nei casi di incertezza sulla validità o nullità del contratto. Con la teorizzazione delle azioni di mero accertamento, che valgono cioè a rimuovere un’oggettiva incertezza, la certezza delle situazioni giuridiche diviene oggetto di un preciso diritto verso lo Stato [chiovenda 1933, 3]. Per l’opinione consolidata, l’azione di nullità è un’azione di accertamento negativo; la sentenza ha natura dichiarativa. Il carattere assoluto, o generale, dell’azione di nullità, impone un chiarimento circa la legittimazione dei terzi. Il concetto di «legitti‐ mazione ad agire» esprime la coincidenza fra la persona dell’attore e quella del titolare del diritto azionato: tranne casi eccezionali, ognuno può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (e non anche di quelli degli altri, art. 81 c.p.c.). Il concetto di «interesse ad agire» esprime il bisogno che quel diritto ha di essere tutelato nel processo. Nel caso dell’azione di nullità, per espressa previsione di legge, in astratto tutti indistintamente sono legittimati all’azione; tuttavia, chi agisce deve essere mosso da un interesse concreto e attuale a che sia dichiarata la nullità: artt. 1421 e 100 c.p.c. L’inte‐ resse di cui discorre l’art. 1421 non deve essere assimilato all’inte‐ resse menzionato nell’art. 100 c.p.c.: se il primo viene individuato dalla dottrina ormai prevalente nella situazione in cui versa chi, per la sua vicinanza o inclusione nel rapporto derivante dal contratto impugnato riveste una posizione qualificata rispetto alla generalità dei consociati (interesse sostanziale), il secondo viene detto «inte‐ resse processuale» e indica la concreta necessità di rivolgersi al giudice per ottenere una tutela del proprio diritto altrimenti inattingi‐ bile. La clausola di riserva nell’art. 1421 dà luogo al fenomeno della nullità relativa (ossia a legittimazione riservata), in cui trova ricono‐ scimento la conformità agli interessi generali di una legittimazione selezionata all’azione di nullità. La figura assume importanza nel moderno diritto dei contratti asimmetrici, dove la nullità delle norme a tutela della parte debole del rapporto può essere richiesta soltanto da quest’ultima, nel cui interesse è stabilita. Per l’art. 1422 l’azione di nullità è imprescrittibile ma sono fatti salvi gli effetti della maturata usucapione e della prescrizione delle azioni di restituzione: così dispone l’art. 1422. L’imprescrittibili‐ tà discende non solo dalla natura generale degli interessi tutelati ma anche dalla natura stessa dell’azione, che non è costitutiva ma di semplice accertamento. La salvezza degli effetti dell’usucapione e la prescrizione delle azioni restitutorie si fondano su ragioni di certezza e sul rilievo che si è avuto adempimento del contratto nullo, con il successivo consolidamento della situazione di fatto a seguito del decorso del tempo. Tranne eccezioni, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità. La norma, posta sempre dall’ art. 1421, da un lato fissa un principio fondamentale dal punto di vista sostanziale (il destino del contratto nullo, lesivo dell’interesse generale, è in grande misura sottratto alla disponibilità delle parti); dall’altro, attribuisce un potere eccezionale all’organo giudicante. La considerazione di questo potere giudiziale nel sistema di diritto processuale ne disegna i confini: a) anzitutto, il più importante è dato dalla cosa giudicata: se sulla validità del contratto è sceso il giudicato, in un successivo giudizio la questione di nullità è definitivamente preclusa anche al giudice; b) inoltre, il principio della disponibilità della prova (art. 115 c.p.c.) impone che i presupposti della nullità del contratto risultino dagli atti acquisiti nel processo o dal notorio, con esclusione dell’uti‐ lizzo della scienza privata del giudice. Per la giurisprudenza prevalente occorre, in ogni caso, che la validità o l’invalidità del contratto integri l’elemento costitutivo della domanda, poiché anche l’azione di accertamento della nullità è sottoposta ai principi della domanda (art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), si esclude che il giudice possa dichiarare la nullità di un contratto di cui non si chieda dall’attore o dal convenuto l’applicazione. Di conseguenza, il giudice non può rilevare d’ufficio la nullità di un contratto contro cui si agisca per l’annullamento, la risoluzione, la rescissione o la simulazione (Cass. 5003/1993; Cass. 1097/2005; Cass. 21632/2006). Inoltre, per le citate limitazioni, il giudice non può conoscere di una causa di nullità diversa da quella reclamata dall’attore (Cass. 2398/1988; Cass. 18210/2004). La dottrina generalmente dissente, dietro l’argomento che l’art. 1421 non stabilisce limiti al potere di rilevare d’ufficio la nullità [oriani 1991, 277]. Si disputa se nel rilevare d’ufficio la nullità il giudice debba altresì dichiararla nel dispositivo della sentenza oppure – e come generalmente si ritiene – debba limitarsi alla cognizione incidenta‐ le della questione: con effetti limitati al giudizio in corso. Il successo di quest’ultima opinione è indotto dal principio, fissato nell’art. 112 c.p.c., della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato: il quale inibisce qualsiasi pronuncia in assenza di domanda. SEZIONE III. L’annullabilità 1. Le cause di annullabilità. L’incapacità di agire. - 2. I vizi del consenso in generale. - 3. L’errore e i presupposti della sua rilevanza. - 4. Ulteriori aspetti della disciplina dell’errore. - 5. Il dolo. - 6. Il dolo incidente. - 7. La violenza. - 8. Disciplina dell’an‐ nullabilità. In particolare: la convalida del contratto annullabile. ■ 1. L’annullabilità del contratto trae origine da fattispecie previste espressamente dalla legge, che finiscono per delineare un «sistema» sostanzialmente tipico e tassativo. In tale contesto si collocano: le situazioni in cui manca la capacità di agire, i vizi della volontà e una serie di fattispecie previste in contesti particolari dal legislatore, fra le quali, per limitarci al codice civile, vengono in considerazione a titolo esemplificativo il conflitto di interessi nella rappresentanza, la contrattazione del rappresentante con se stesso, l’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un coniuge senza il consenso dell’altro, laddove abbia a oggetto un bene immobile o mobile registrato della comunione. Il tema dell’incapacità delle parti viene in evidenza nella Sezio‐ ne I, Capo XII dedicato all’annullabilità del contratto. In particolare: a) il comma 1 dell’art. 1425 stabilisce che il contratto è «annulla‐ bile» se una delle parti era legalmente incapace di contrattare; b) il comma 2 considera «annullabile», quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 428, il contratto stipulato da persona incapace di intendere o di volere. Le cause di «incapacità di contrattare», normalmente intesa come «incapacità di agire», vengono in considerazione con riferimento ai soggetti che non hanno ancora acquistato la legale capacità di agire, i minorenni, ovvero che l’abbiano successivamente perduta in tutto o in parte, vale a dire gli interdetti, gli inabilitati, nonché coloro che siano stati ammessi al beneficio dell’amministrazione di sostegno. L’incapacità di intendere o di volere evoca la diversa nozione di «incapacità naturale», riferibile – in base a quanto prevede l’art. 428 – al soggetto legalmente capace, ovvero al maggiorenne affetto da infermità mentale, ma non interdetto né inabilitato, o ancora alla persona che si trovi, per causa transitoria, al momento della conclusione del contratto, in uno stato temporaneo di alterazione delle proprie facoltà mentali. La previsione dell’annullabilità dei contratti conclusi da chi versi in una condizione di incapacità assoluta, è caratterizzata per il minore da una deroga, introdotta dall’art. 1426, secondo cui «il contratto non è annullabile, se il minore ha con raggiri occultato la sua minore età; ma la semplice dichiarazione da lui fatta di essere maggiorenne non è di ostacolo all’impugnazione del contratto». La disposizione mira evidentemente a proteggere i terzi in buonafede che siano stati ingannati dal minore mediante atti intenzionalmente destina‐ ti a celare l’esistenza della minore età. In questo caso il legislatore esclude il rimedio dell’annullabilità in favore del minore, il quale celando maliziosa‐ mente la sua (minore) età mostra di avere una maturità mentale superiore rispetto a quella dell’età effettiva. Appare evidente che, nel delineare questa tipologia di annulla‐ mento, le citate disposizioni codicistiche richiamano, presupponen‐ done l’esistenza, la disciplina delle singole fattispecie di invalidità contemplate nel Libro I, in particolare le norme ivi contenute (per il cui esame, v. supra, cap. ???), che stabiliscono le modalità di esecuzione degli atti idonei a produrre i loro effetti nella sfera giuridica dell’incapace. ■ 2. L’analisi della disciplina avente a oggetto i vizi della volontà è caratterizzata dalla presenza di problematiche divenute ormai classiche nel diritto dei contratti. Tale riflessione pone in evidenza numerosi e significativi punti di contatto con la storia di alcune importanti categorie civilistiche. Basti pensare, con specifico riferimento alla normativa in materia di errore, alla teoria del nego‐ zio giuridico, le cui vicende hanno profondamente condizionato le ipotesi ricostruttive nonché le soluzioni normative aventi a oggetto questo vizio del consenso. Come è noto, infatti, la portata innovativa di tale disciplina rispetto allo scenario normativo delineato dal codice abrogato, può essere colta alla luce del progressivo ridimen‐ sionamento del dogma della volontà e dell’accresciuta esigenza di tutela dell’affidamento. L’intera disciplina dei vizi della volontà, pur riferendosi a fattispe‐ cie distinte a cui sono collegate autonome azioni di impugnativa negoziale, trae origine dall’esigenza di tutela della libertà negoziale, più precisamente della libertà di autodeterminarsi in modo consape‐ vole nel porre in essere atti aventi un contenuto negoziale Questo tipo di obiettivo, tuttavia, viene riconosciuto e in vario modo perse‐ guito anche nell’ambito di altre fattispecie, rispetto alle quali si pone non di rado un problema di coordinamento. Il corretto dispiegarsi dell’autonomia privata nella fase di formazione del contratto trova significativi punti di riferimento, anzitutto, nella disciplina del codice civile. In tal senso possono essere sinteticamente richiamati: il citato art. 428, disposizione avente a oggetto gli atti e i contratti compiuti da persona incapace di intendere o di volere, ma suscettibile, sulla base di una rilettura compiuta da autorevole dottrina, di abbracciare ogni ipotesi di suggestione, di sorpresa e di inesperienza [sacco 2004, 473]; l’obbligo di comportarsi secondo buonafede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337), la cui portata è stata oggetto di una progressiva espansione a opera della giurisprudenza e, prima ancora, della dottrina, la quale ha prospettato l’esistenza di punti di collegamento con il tema dei vizi della volontà; l’istituto della rescissione, destinato a trovare applicazione qualora il contratto sia stato concluso in condizioni di pericolo ovvero in stato di bisogno (artt. 1447 s.). In questa materia assume un ruolo sempre più significativo la legisla‐ zione speciale. Ove si volga lo sguardo al di fuori del codice, vengono in considerazione numerose disposizioni poste a tutela degli interessi dei consumatori, fra le quali a titolo meramente esplicativo è opportuno richia‐ mare le norme dettate in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, conclusi a distanza, ovvero aventi a oggetto servizi o prodotti finanziari collocati fuori sede nei confronti di investitori non professionali. In questi contesti normativi gli elementi che caratterizzano la conclusione del contratto, tanto sul piano oggettivo, quanto su quello soggettivo, giustifica‐ no, fra le altre, alcune previsioni destinate a garantire il c.d. «diritto di ripensamento» in favore del contraente privo dei requisiti di professionalità. Tale disciplina, inoltre, è arricchita dalla presenza di una mole crescente di regole di comportamento, volte a garantire più elevati standard di correttez‐ za sia nella fase di stipulazione, sia in quella di esecuzione del contratto. Con riferimento al diverso settore dei contratti di impresa è possibile evocare la normativa destinata a fronteggiare le situazioni di abuso di dipendenza economica nei rapporti di subfornitura nelle attività produttive. In questa materia, fra l’altro, il legislatore prevede che il patto attraverso il quale si realizza l’abuso venga sanzionato con la nullità. La disciplina speciale, dunque, è proiettata verso la creazione di un impianto di regole destinate a superare il carattere sempre più «angusto e rigido» del recinto in cui si collocano i tradizionali vizi della volontà [d’amico 2002, 42], con una serie di rimedi imperniati «sul fatto capace di generare il pericolo prossimo del vizio del volere» [sacco 2004, 418]. In particolare appare innegabile che la normativa speciale trova il suo presupposto nelle situazio‐ ni di strutturale asimmetria informativa in cui vengono a trovarsi i contraenti, diversamente da quanto accade nella disciplina codicistica del contratto che, pur non trascurando il problema, si riferisce essenzialmente a ipotesi in cui la carenza di informazioni da parte di un contraente si colloca pur sempre in un ambiente «informato» [iannarelli 2003, 45]. I vizi della volontà presentano ulteriori punti di contatto con altre fatti‐ specie, ora del diritto dei contratti, ora del diritto delle obbligazioni. A tale riguardo occorre sottolineare come l’esperienza giuridica in tema di vizi del consenso trovi uno dei suoi tradizionali profili problematici nell’individuazio‐ ne del rapporto che intercorre fra la disciplina in materia di errore e le disposizioni aventi a oggetto le garanzie nella vendita e, più in generale, i rimedi contro l’inadempimento. ■ 3. L’errore costituisce un vizio della volontà in quanto incide sul processo formativo del consenso, determinando una falsa o distorta rappresentazione della realtà, a causa della quale il contraente si induce a stipulare. L’effetto invalidante dell’errore è subordinato non solo alla circostanza che la volontà negoziale sia stata manifestata in presenza di questa falsa rappresentazione, ma anche all’esi‐ stenza degli elementi che concorrono a renderla rilevante sul piano giuridico. I requisiti che devono caratterizzare l’errore trovano una regolamenta‐ zione alquanto dettagliata nella normativa codicistica. Tale circostanza costituisce il risultato di un primo significativo mutamento di prospettiva rispetto alla situazione anteriore alla normativa vigente. Nel codice civile del 1865 la materia dell’errore risultava disciplinata da un numero limitato di regole; va detto, anzi, che la sostanziale inadeguatezza dell’impianto normativo costituisce una delle ragioni più rilevanti della vasta riflessione a cui diede origine l’analisi dei casi in cui l’errore potesse ritenersi rilevante. L’elaborazione teorica ebbe luogo all’interno di uno scenario nel quale il negozio veniva analizzato sulla base del principio volontaristico. In tale contesto vennero dunque elaborate le note distinzioni fra «errore proprio» ed «errore improprio», fra «errore vizio» ed «errore ostativo». La prima classificazione rispondeva all’esigenza di differenziare sul piano strutturale e su quello funzionale l’errore che non toglieva la volontà ma la rendeva imperfetta (errore in senso proprio), dall’errore che escludeva in radice la volontà (errore in senso improprio), determinando la mancanza di un elemento essenziale dell’atto [pietrobon 1990, 56]. Il ruolo centrale assolto dalla volontà emergeva anche nella seconda classificazione, caratterizzata dalla distinzione fra l’«errore vizio», suscettibile di determinare l’annullamento del negozio, e l’«errore ostativo», che, avendo condotto a una divergenza tra «dichiarazione» e «volontà», veniva ritenuto idoneo a determinare la nullità del negozio. Le soluzioni formulate dalla dottrina sulla base delle norme contenute nel codice del 1865 non hanno trovato particolare fortuna nella successiva codificazione. In tal senso è sufficiente rilevare che alcune delle figure qualificate in precedenza in termini di errore ostativo sono state inserite dal legislatore del 1942 nell’ambito degli errori essenziali, a cui è collegato il rimedio dell’annullamento. Peraltro, tale forma di invalidità è stata estesa all’ipotesi tipica di errore ostativo, vale a dire quella prevista dall’art. 1433, in cui l’errore cade sulla dichiarazione. Nel codice vigente l’annullabilità costituisce il rimedio di tutela generale per il contraente che abbia stipulato un contratto in conse‐ guenza di un errore; rimedio alternativo è quello del mantenimento del contratto rettificato, che consente di tutelare l’errante senza invalidare il contratto. L’annullabilità del contratto per questo vizio del consenso è possibile in presenza dei due requisiti stabiliti dall’art. 1428, vale a dire l’essenzialità dell’errore e la sua riconosci‐ bilità da parte dell’altro contraente. In sostanza l’errore deve essere riconducibile a una delle ipotesi selezionate e tipizzate dal legislato‐ re e, per altro verso, deve essersi manifestato con modalità tali da poter essere rilevato da una persona di normale diligenza. Questo secondo filtro è stato previsto dal legislatore in luogo del diverso limite della scusabilità dell’errore, elaborato sulla base del sistema dalla dottrina formatasi sul codice abrogato. I requisiti che concorrono a rendere rilevante l’errore assolvono la funzione di contemperare i diversi interessi che il legislatore ha inteso tutelare attraverso tale normativa. Anzitutto, viene protetto l’interesse dell’errante a liberarsi da un vincolo contrattuale indesi‐ derato, perché sorto in forza di una manifestazione di volontà prestata in modo tutt’altro che consapevole e volontario. Vi è poi l’interesse dell’altro contraente a vedere tutelato l’affidamento riposto sul contenuto della dichiarazione dell’errante e, quindi, sulla validità del contratto. Tale posizione riflette evidentemente il più generale interesse alla sicurezza e alla certezza del traffico giuridico [roppo 2001, 781]. La disciplina avente a oggetto tali requisiti trova applicazione non solo ai contratti ma anche agli atti unilaterali fra vivi aventi carattere negoziale, assoggettati ai sensi dell’art. 1324, alle norme sui contratti (in tema di errore nelle opzioni che il contri‐ buente è chiamato a effettuare nella dichiarazione fiscale ai fini iva, Cass. 9310/1997; in tema di dichiarazione unilaterale recettizia nei confronti di una società di intermediazione mobiliare, App. Milano 19 luglio 2002). Peraltro, alla sfera di operatività della disciplina dei vizi della volontà vengono ricondotti anche i contratti unilaterali (in tema di fideiussione gratuitamente prestata, nei quali vi sia un controinte‐ ressato alla dichiarazione, Cass. 9777/1993); i contratti collegati, vale a dire concepiti e voluti come funzionalmente e teleologica‐ mente connessi fra loro, sicché le vicende relative alla validità di uno di essi si ripercuotono necessariamente sulla validità degli altri (Cass. 5503/1981); e i lodi arbitrali irrituali (Cass. 5359/2004). Affinché costituisca causa di annullamento del contratto, dunque, l’errore deve essere, anzitutto, essenziale. Tale requisito viene specificato dallo stesso legislatore all’interno dell’elenco riportato nell’art. 1429. In base a tale disposizione l’errore, per potersi ritenere essenziale, deve cadere sui seguenti elementi: la natura o l’oggetto del contratto, l’identità o una qualità dell’oggetto della prestazione, l’identità o le qualità della persona dell’altro contraente, una norma giuridica che rilevi sulla materia del contratto. Questa previsione, da più parti criticata per la sua infelice formulazione, è stata oggetto di diverse proposte interpretative volte a delinearne l’esatta portata. In tale prospettiva merita di essere richiamato il dibattito fra quella parte della dottrina che tende a costruire una classe omogenea di errori essenziali e coloro che sostengono la necessità di procedere alla definizio‐ ne di distinti raggruppamenti. L’esigenza di precisare «un concetto di errore astrattamente idoneo a invalidare il contratto, capace di comprendere e di spiegare unitariamente le varie ipotesi previste dall’art. 1429» [pietrobon 1990, 342], si è manifestata in una serie di ipotesi ricostruttive che hanno valutato criticamente l’enumerazione adottata dal legislatore, sino ad ammettere l’esistenza di una formulazione di carattere generale, in base alla quale deve ritenersi rilevante l’errore sia di diritto che di fatto riguardan‐ te gli elementi costitutivi della manifestazione di volontà del contraente [allara 1955, 182]. A questa interpretazione si contrappone un diverso orientamento caratterizzato da una dichiarata fedeltà al tenore letterale della disciplina codicistica [sacco 2004, 508]. In tale prospettiva appare paradigmatica l’ipotesi ricostruttiva volta a delineare l’esistenza di due classi, nel cui ambito variano le condizioni di rilevanza dell’errore. L’errore sulla natura del contratto e quello sull’identità dell’oggetto possono essere ritenuti essen‐ ziali ex se, in quanto non richiederebbero ulteriori accertamenti; negli altri casi previsti dalla disposizione in esame l’errore può essere considerato essenziale solo se, in concreto, abbia determinato il consenso di chi lo ha commesso [roppo 2001, 783]. In questa sede, infine, è opportuno menzio‐ nare la questione relativa al carattere tassativo o esemplificativo delle diverse fattispecie di errore essenziale previste dal legislatore. Sul punto, a fronte di un orientamento che sembra ispirarsi al secondo tipo di imposta‐ zione [galgano 1998, 279], si afferma che la tassatività costituisca la conseguenza necessaria della tipicità dei vizi [sacco 2004, 505], ovvero, possa essere prospettata per la concreta difficoltà di individuare altre ipotesi astratte di errore essenziale diverse da quelle indicate dal legislato‐ re [pietrobon 1990, 358]. L’esame della disciplina avente a oggetto il requisito dell’essen‐ zialità trova un importante nodo problematico nella valutazione dell’errore sui motivi. Questo tipo di errore viene ritenuto general‐ mente inidoneo a giustificare l’annullamento del contratto. Si tratta di un’impostazione accolta dalla giurisprudenza, la quale esclude che in questi casi sussista un vizio della volontà in quanto i motivi non spiegano un’incidenza diretta sul processo formativo del volere nego‐ ziale (Cass. 11153/2004). L’irrilevanza dell’errore sui motivi ai fini dell’an‐ nullabilità trova un generale consenso anche da parte della dottrina, che, tuttavia, mostra di giungere a tale conclusione sulla base di diversi iter argomentativi. Secondo l’impostazione tradizionale la necessità di conside‐ rare irrilevante l’errore sui motivi meramente individuali che hanno indotto una parte a stipulare il contratto trae origine dall’esigenza di tutelare l’affidamento dell’altro contraente. Il destinatario della dichiarazione, infatti, non ha la possibilità di valutare l’incidenza dei motivi ai fini della conclusio‐ ne del contratto [betti 1950, 444]. In un’altra ipotesi ricostruttiva l’irrilevanza dei motivi viene spiegata scandagliando il rapporto fra essenzialità dell’errore e limiti dell’autonomia privata. In tale prospettiva si afferma che le esigenze personali da cui il contraente ha tratto impulso per la stipulazione dell’atto, sono tutelate dall’ordinamento, «soltanto nei limiti in cui vengono assunte dalle parti a contenuto del programma negoziale». Ne consegue che l’errore sui motivi deve ritenersi irrilevante in quanto, riguardando circostanze esterne e, quindi, il modo di essere della realtà estranea alla situazione configurata dalle parti, «non altera l’idoneità del negozio a fungere da strumento per la obiettivazione e regolamentazione degli interessi» [barcellona 1966, 265]. L’irrilevanza dell’errore sui motivi sembra assumere contorni ancora più netti nella ricostruzione di una recente dottrina, secondo cui tale soluzione non viene in discussione neanche se l’errore sul motivo sia determinante del consenso e neppure se noto alla controparte [roppo 2001, 785]. In quest’ultimo caso, tuttavia, appare legittimo ritenere che la buonafede precontrattuale ponga in capo al destinatario della dichiarazione l’obbligo di avvisare l’errante. La violazione di tale obbligo, in base a una diversa ipotesi ricostruttiva, è suscettibile di essere configurata in termini di reticen‐ za dolosa e, quindi, di invalidare il contratto in forza dell’art. 1439 [gallo 1999, 443]. a) L’errore sulla natura del contratto. Questa fattispecie viene tradizionalmente ricondotta alla categoria dell’error in negotio, nella quale trova collocazione l’errore avente a oggetto il tipo o il sottotipo contrattuale concluso. Le brevi osservazioni che questa prima figura consente di formulare attengono essenzialmente all’individuazione del suo campo di applicazione. In tal senso va detto che l’errore sulla natura del contratto riguarda una materia tutt’altro che estranea ad altre fattispecie di errore. In particolare la dottrina ha opportunamente richiamato l’attenzione sugli incerti confini di questa fattispecie rispetto all’errore di diritto, nonché all’errore sull’oggetto. b) L’errore sull’oggetto del contratto. Questa figura deve essere tenuta distinta dall’«errore sulla natura del contratto» ovvero dall’«errore sull’oggetto della prestazione» previsto nel numero successivo della medesima disposizione. La questione relativa all’individuazione dei rispettivi campi di applicazione viene affrontata muovendo dalla ricostruzione degli elementi che caratterizzano le diverse fattispecie. Nell’ipotesi di cui al n. 1 dell’art. 1429 l’»oggetto del contratto» deve essere inteso come prestazione, sicché in questo caso l’errore cade sull’insieme delle prestazioni previste dal contratto, su quelle più qualificanti o sul modo in cui interagiscono fra loro. Nell’ipotesi di cui al successivo n. 2, l’«oggetto» deve essere inteso come «bene su cui incidono gli effetti (obbligatori o reali che siano) prodotti dal contratto». c) L’errore sull’identità o sulle qualità dell’oggetto della prestazione. Entrambe le tipologie di errore previste dall’art. 1429, n. 2, sono riferite all’«oggetto» inteso come «bene su cui incidono gli effetti del contratto». Questo comune riferimento non consente tuttavia di escludere l’esigenza, per certi aspetti la necessità, di tenere distinto l’«errore sull’identità dell’oggetto» dall’«errore relativo alle sue qualità». Tanto emerge soprattutto ove si aderisca all’orien‐ tamento che, fedele al tenore letterale della norma, sottolinea le differenti condizioni di operatività delle due tipologie di errore. L’errore sull’identità dell’oggetto della prestazione rileva ex se, mentre quello che cade sulle sue qualità, affinché possa ritenersi essenziale, deve essere considerato determinante «secondo il comune apprezzamento» o «in relazione alle circostanze». Stabilendo che l’errore sulle qualità, per ritenersi essenziale, deve essere determinante secondo il comune apprezzamento, evidentemente si colloca la valutazione su un piano oggettivo. Al di fuori di tali ipotesi l’errore sulle qualità può ritenersi essenziale quando sia stato determinante «in relazione alle circostanze», vale a dire sia stato soggettivamente determinante nel contesto specifico del particolare contratto, sicché appare possibile una valutazione in concreto dell’importanza che le parti hanno inteso attribuire alle qualità su cui è caduto l’errore. L’analisi della portata e del meccanismo di operatività dell’errore sulle qualità dell’oggetto costituisce uno dei capitoli più complessi e articolati della materia dei vizi del consenso. A tale riguardo è sufficiente richiamare alcune delle principali problematiche collegate a questa disposizione, vale a dire: l’individuazione delle caratteristi‐ che che concorrono a delineare le qualità rilevanti ai fini dell’essen‐ zialità dell’errore; il rapporto fra l’errore sulle qualità e l’inadempi‐ mento dell’obbligazione contrattuale per consegna di cosa priva delle qualità promesse o essenziali, ovvero di aliud pro alio; la problematica relativa all’errore sul valore ovvero sul prezzo della prestazione. L’errore sulle qualità dell’oggetto, diversamente da altre figure previste nell’art. 1429, è caratterizzato dall’esistenza di un’ampia casistica. a) Una delle principali applicazioni giurisprudenziali riguarda le ipotesi di errore sulla natura di un terreno, in particolare i casi in cui una parte attribuisca al suolo oggetto della compravendita una natura diversa da quella risultante da strumenti urbanistici in via di approvazione. In questa materia si erano progressivamente delineati due diversi orientamenti del giudice di legittimità; il contrasto è stato risolto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, accogliendo l’indirizzo secondo cui la vendita o la promessa di vendita di un terreno fabbricabile nella falsa convinzione che si tratti di suolo agrario o di spazio pubblico, integra errore essenziale su una qualità della cosa (Cass., s.u., 5900/1997). b) Un altro settore nel quale tradizionalmente trova applicazione l’errore sulla qualità dell’oggetto è quello dei contratti di compravendita di opere d’arte. In particolare le ipotesi più ricorrenti sono quelle in cui l’opera risulti non autentica successivamente alla conclusione del contratto ovvero la sua paternità non corrisponda più a quella attribuita al momento del perfezionamento dell’accordo. La possibilità di ricondurre l’errore in esame alla figura di cui all’art. 1429, n. 2, c.c., costituisce ormai un dato acquisito, sicché si ammette che l’errore di uno o di entrambi i contraenti sull’autenti‐ cità dell’opera e sull’identità del relativo autore è suscettibile di determinare l’annullamento del contratto «non potendosi dubitare del fatto che, dal punto di vista funzionale e da quello economico, la paternità dell’opera d’arte ne costituisce una caratteristica individuante fondamentale» (Cass. 985/1998). c) L’errore sul valore dell’oggetto della prestazione costituisce uno dei temi di maggiore interesse nell’ambito della più vasta problematica collega‐ ta a questo vizio del consenso. L’errore sul valore viene generalmente ritenuto irrilevante sulla base di una pluralità di argomentazioni, fra le quali, oltre alla mancanza di previsioni specifiche nell’ambito dell’art. 1429, vengono in considerazione: la possibilità di equiparare questa figura alla valutazione errata sulla convenienza economica del contratto [scognami‐ glio 1961, 45] (Cass. 2518/1995); più in generale la sua corrispondenza a uno sbaglio di valutazione, di stima [pietrobon 1990, 431]; la riconducibilità alla categoria dei «motivi» che possono indurre le parti a stipulare il con‐ tratto [minervini 1987, 932]. Tanto in dottrina (fra gli ultimi, roppo [2001, 790]), quanto in giurispru‐ denza (Cass. 985/1998; Cass. 3892/1985), non si manca di sottolineare, tuttavia, che questa tipologia di errore deve ritenersi essenziale e quindi rilevante ai fini dell’azione di annullamento, quando costituisce l’effetto di una falsa rappresentazione delle qualità essenziali della cosa dedotta nel contratto. D’altro canto, secondo una ricostruzione dottrinale, occorre riconoscere apertamente che anche l’errore sul valore apre la porta ai rimedi previsti dall’ordinamento, laddove l’errore sia connesso « a una situazione di lesione, di squilibrio tra le prestazioni pattuite» [gallo 1999, 444]. La problematica relativa a questo tipo di errore si interseca, inoltre, con quella avente a oggetto l’errore sul prezzo. Nel diritto applicato si coglie un ricorso indifferenziato alle due figure, non si distingue cioè fra «errore sul valore» ed «errore sul prezzo», inteso come «erronea rappresentazione della stima compiuta» (Cass. 2635/1996). Più articolato appare, invece, l’atteggiamento della dottrina, la quale, da un lato, si colloca nella medesi‐ ma prospettiva della giurisprudenza utilizzando in modo equivalente le due espressioni [trabucchi ???, 668]; dall’altro, propone un trattamento diffe‐ renziato delle due figure [pietrobon 1990, 430; minervini 1987, 936; galga‐ no 1998, 283]. La necessità di una diversificazione si deve soprattutto al fatto che l’errore sul prezzo riguarda, diversamente da quello sul valore, l’oggetto del contratto, più precisamente, l’oggetto della prestazione a cui è tenuta una delle parti [roppo 2001, 791]. d) Cessione di quote societarie e di azioni. L’applicabilità alla cessione di quote delle norme in tema di annullabilità appare difficilmente praticabile, in quanto in questo tipo di operazioni il contratto ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che la partecipazione rappresenta. Ne consegue che il difetto di qualità può attenere unicamente alla qualità dei diritti ed obblighi che in concreto la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire. (Cass. 5773/1996; Trib. Milano 17 ottobre 2002). Analogo orientamento si coglie in materia di cessione di titoli azionari, nel cui ambito si ritiene che le qualità determinanti del consenso vanno limitate a quelle riguardanti la funzione tipica delle azioni, vale a dire l’insieme delle facoltà e dei diritti che questi prodotti conferiscono al loro titolare, senza alcun riguardo al valore di mercato di essi (Cass. 9067/1995). d) L’errore sull’identità o sulle qualità di controparte. L’art. 1429, n. 3, scarsamente applicato dalla giurisprudenza, non è destinato a determinati contratti tipici ovvero a una determinata classe di contratti, in particolare ai contratti intuitu personae; piutto‐ sto contiene una disciplina dedicata a tutti i contratti e assolve la funzione di tutelare la parte in quanto vittima di un errore sulle caratteristiche personali dell’altro contraente. e) L’errore di diritto. L’art. 1429 si chiude stabilendo che l’erro‐ re è essenziale quando, trattandosi di errore di diritto, è stato la ragione unica o principale del contratto. Questa disposizione, avente a oggetto secondo l’impostazione tradizionale l’ignoranza o la falsa conoscenza di una norma giuridica, ha dato origine a un ampio dibattito che si è andato progressivamente articolando intorno a una serie di profili. Il principale nodo problematico attiene all’individuazione dell’ambito di applicazione dell’errore di diritto (esclusa dal legislatore per la transazione, art. 1969, e la revoca della confessione, art. 2732), più precisamente alla definizione dell’area di rilevanza suscettibile di essere attribuita a questo errore rispetto alle altre figure previste nei numeri precedenti dell’art. 1429. La previsione in esame ha dato origine a un’ulteriore problematica con particolare riferimento al rapporto fra l’errore di diritto e il principio ignoran‐ tia legis non excusat. In dottrina si rileva che le due regole sono compatibili in quanto si collocano su piani diversi; in particolare, si deve ritenere che la norma contenuta nell’art. 1429 presupponga il principio e ne tragga le conseguenze [roppo 2001, 794]. Anche nel diritto giurisprudenziale si afferma che la presunzione di conoscenza di norme giuridiche non può essere invocata per escludere la configurabilità e la rilevanza di un errore determinato dall’ignoranza o dall’inesatta conoscenza di una norma (Cass. 3892/1985). L’errore di diritto può operare a prescindere dal carattere dispositivo o imperativo della norma su cui è intervenuto l’errore (Cass. 2688/1982). D’altro canto si è esclusa la rilevanza dell’errore di diritto laddove la norma imperativa di cui si è ignorata l’esistenza al momento della conclusione del contratto abbia determinato l’integrazione del negozio a norma dell’art. 1339 e quindi la modifica del regolamento contrattuale, per la mancanza del carattere negoziale delle clausole rispetto alle quali si è verificata una sostituzione legale (Cass. 11032/1994). Affinché costituisca causa di annullamento del contratto, come si è detto, l’errore deve essere non solo essenziale ma anche riconoscibile. Le caratteristiche di questo secondo requisito vengo‐ no delineate dallo stesso legislatore nell’art. 1431, in base al quale l’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo. La giurisprudenza individua il fondamento di tale previsione nell’esigen‐ za di tutelare la buonafede dell’altro contraente (Cass. 980/1991). La dottrina prevalente ritiene che il fondamento del criterio della riconoscibilità debba essere individuato nel principio di tutela dell’affidamento [carresi 1987, 457; roppo 2001, 801]. Secondo altra dottrina l’indicazione pura e semplice della tutela dell’affidamento non sarebbe sufficiente a delineare il fondamento della nuova regola, che dovrebbe essere individuato piuttosto nel principio dell’equo contemperamento degli interessi [pietrobon 1990, 109]. La ricostruzione della ratio sottostante la regola della riconoscibilità può essere condotta anche alla luce del principio dell’efficienza. In tal senso si è sostenuto che se lo scopo perseguito dall’ordinamento è quello di evitare la possibilità di errori al minor costo possibile, appare giusto far gravare il rischio dell’errore facilmente riconoscibile sul destinatario della dichiarazione, vale a dire sulla parte che avrebbe potuto evitarlo sopportan‐ do il minor costo possibile [gallo 1999, 450; roppo 2001, 801]. La riconoscibilità dell’errore deve essere misurata in astratto, nel senso cioè che occorre valutare la possibilità di tale riconoscimento in una persona di media avvedutezza (Cass. 2518/1990). Questa modalità di approccio, tuttavia, non determina «che non si tenga conto delle circostan‐ ze di fatto che in quel caso rendevano possibile al destinatario il riconosci‐ mento dell’errore» [sacco 2004, 528] (in giurisprudenza, Cass. 9777/1993). Tanto emergerebbe dal ricorso ai criteri previsti dall’art. 1431, vale a dire il contenuto del contratto, le circostanze che lo hanno caratterizzato e la qualità dei contraenti In particolare le suddette circostanze assumono l’aspetto di «fatti espressivi» del significato attribuito dall’errante al negozio, l’indice esterno, obiettivamente apprezzabile, che assume la veste di elemento giuridicamente rilevante [barcellona 1966, 276]. Rimangono esclusi dal giudizio i fattori relativi alla sfera puramente soggettiva del destinatario della dichiarazione [roppo 2001, 803]. La problematica relativa alle modalità di valutazione della rico‐ noscibilità dell’errore trova un tradizionale banco di prova nella questione relativa alla portata dell’errore riconosciuto, anche se astrattamente irriconoscibile. Secondo la dottrina prevalente, nonché secondo un indirizzo giurispru‐ denziale consolidato, in tale circostanza si producono gli effetti dell’errore riconoscibile, venendo meno l’esigenza di tutelare il destinatario della dichiarazione [sacco 2004, 530; carresi 1987, 457; roppo 2001, 803; galgano 1998, 300]. Altra dottrina esclude l’annullabilità del contratto qualora l’agente non abbia adempiuto all’onere di diligenza nella dichiara‐ zione e il destinatario consegue la conoscenza dell’errore usando una diligenza superiore a quella normale [mirabelli 1980, 547]. La rilevanza dell’errore non riconoscibile ma riconosciuto è stata sottoposta a valutazio‐ ni critiche nell’ambito di un’altra ricostruzione teorica, secondo cui nella fattispecie dell’errore, al pari di altri luoghi dell’ordinamento, l’elemento giuridicamente rilevante deve essere individuato in ogni caso nell’«indice esterno» obiettivamente apprezzabile e non già nella conoscenza della controparte. In base a tale impostazione l’irrilevanza dell’errore in esame non trae origine dalla buonafede, ma dalla mancanza di questo requisito obiettivo [barcellona 1966, 277]. Un’ulteriore problematica connessa al requisito della riconoscibi‐ lità è rappresentata dalla rilevanza suscettibile di essere attribuita all’errore comune. In sostanza, al pari di quanto si è appena rilevato in tema di errore riconosciuto, si è andata progressivamente delineando la questione relativa all’annullabilità del contratto carat‐ terizzato da un errore obiettivamente non riconoscibile nel quale, tuttavia, siano incorsi entrambi i contraenti. In giurisprudenza si ritiene ammissibile il rimedio dell’annullabili‐ tà in presenza di un errore bilaterale comune a entrambe le parti, anche se privo del requisito esplicitato dall’art. 1431 (Cass. 5829/1979). Questa soluzione, la cui ragione giustificativa è indivi‐ duata nella circostanza che in presenza di un errore comune ver‐ rebbe meno l’esigenza di tutela dell’affidamento, è stata valutata criticamente da parte della dottrina. a) Anzitutto, si tende a rilevare che la costante applicazione di questo principio finisce per nascondere l’esistenza di differenze di non poco conto fra le molteplici fattispecie considerate. Tale qualifi‐ cazione certamente non può essere utilizzata nelle ipotesi in cui l’errore riguarda un punto sul quale in realtà esiste una volontà comune delle parti. In questi casi, al pari di quelli in cui vi siano stati errori materiali in sede di redazione dell’atto, piuttosto che ricorrere all’annullamento, appare preferibile applicare le norme degli artt. 1362 ss., al fine di far emergere mediante l’interpretazione l’effettivo intento perseguito dai contraenti [gallo 1999, 452; roppo 2001, 804; con particolare riferimento all’errore (improprio) sulla dichiarazione memoriale, sacco 2004, 536]. b) Inoltre, si esclude che possa essere ricondotto alla figura in esame l’errore bilaterale reciproco, definito anche come «doppio errore asimmetrico» [roppo 2001, 804]. Si tratta delle ipotesi in cui entrambi i contraenti siano incorsi in un errore ma su aspetti diversi del contratto; in questi casi, evidentemente, ciascuna delle parti potrà chiedere l’annullamento del contratto laddove sussistano i requisiti dell’essenzialità e della riconoscibilità. Muovendo dalle medesime considerazioni formulate in tema di errore riconosciuto, si sostiene che l’errore non riconoscibile, anche se comune, non determini necessariamente l’annullabilità del contratto [mirabelli 1980, 548] (in termini critici, anche, barcellona [1966, 276]). In una diversa prospettiva, caratterizzata dall’esigenza di garantire la tutela dell’affidamento incolpevole e l’equo contemperamento dell’interes‐ se delle parti, principi di valore operativo che costituiscono vere e proprie direttive dell’ordinamento, l’errore comune è ritenuto idoneo a determinare l’annullamento del contratto laddove oltre a essere essenziale, sia anche riconoscibile, sebbene in base alle circostan‐ ze del caso concreto, attraverso una diligente valutazione dell’altro contraente [bessone 1966, 1583; criscuoli 1985, 620]. ■ 4. A questo punto è possibile procedere all’esame di ulteriori aspetti della disciplina dell’errore, a partire dall’art. 1430, in base al quale l’errore di calcolo non determina l’annullamento del contratto, ma solo la sua rettifica, tranne che, determinando un errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso. Questa disposizione ha trovato ampia applicazione da parte della giurispru‐ denza, i cui interventi hanno finito per far emergere due distinte figure, vale a dire l’«errore di calcolo in senso stretto» e l’«errore di quantità»: a) con riferimento all’errore di calcolo in senso stretto viene in considerazione un orientamento ormai consolidato secondo cui l’errore di calcolo si ha quando, definiti in modo chiaro e preciso i termini da computare e il criterio matematico da seguire, si commet‐ te un errore materiale di cifra che si ripercuote sul risultato finale, rilevabile ictu oculi, in base a quegli stessi dati e criteri, a seguito della ripetizione corretta del calcolo. In presenza di questi presuppo‐ sti, il rimedio è rappresentato non già dall’annullamento del contrat‐ to, bensì dalla sua rettifica, proposta dall’errante. b) l’errore di quantità viene in considerazione quando la parte ha avuto ragionevolmente una falsa rappresentazione, una falsa conoscenza della realtà rispetto ai dati aritmetici o al criterio matematico in base ai quali si debba effettuare quel calcolo, che, posti quei dati e quel criterio, è invece esatto. In questa diversa ipotesi il contratto potrebbe essere annullato, a condizione che l’errore sia stato determinante del consenso. L’esame delle posizioni assunte sul punto dalla dottrina offre uno scenario più articolato. In base a un primo indirizzo occorre ridimensionare l’effettivo valore normativo dell’art. 1430, sicché appare opportuna una sostanziale assimilazione fra la rettifica dell’errore di calcolo e l’interpreta‐ zione correttiva della dichiarazione caratterizzata da errori materiali [carresi 1987, 455; mirabelli 1980, 541]. Secondo un diverso orientamento, la disciplina in esame consente di attribuire un ruolo autonomo all’errore di calcolo e quindi di evitarne l’appiattimento sulla disciplina dell’interpretazio‐ ne [piazza 1964, 600]. In base a questa ipotesi ricostruttiva occorre esten‐ dere la portata della previsione dell’art. 1430, collocandone l’operatività sul piano della formazione del contratto. L’analisi del rapporto fra interesse regolato e interesse reale finisce in tal modo per determinare un duplice ordine di soluzioni: a) laddove l’errore abbia determinato una totale diffor‐ mità fra tali interessi, cioè, quando l’errore di calcolo abbia avuto un’effica‐ cia determinante del consenso, il contratto sarà annullabile; b) laddove, invece, tale difformità sia solo parziale, la rettifica consentirà di operare una corretta ricostruzione dell’interesse perseguito dall’errante [ibidem, 607]. Il codice civile attribuisce al contraente nei confronti del quale è stata proposta l’azione di annullamento per errore la possibilità di inibirne gli effetti ricorrendo alla rettifica. In tal senso l’art. 1432 prevede che la parte in errore non possa domandare l’annullamento del contratto se l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere. Tale possibilità è subordinata tuttavia alla circostanza che l’attore non abbia subito un pregiudizio dall’errore che ha determinato l’esercizio dell’azione. La disposizione consente di evitare le conseguenze perverse che l’azione di annullamento potrebbe determinare ove l’errante continuasse a perseguire l’obiettivo dello scioglimento del contratto, nonostante la disponibilità manifestata dall’altro contraente a eseguire il contratto in senso conforme a quanto si intendeva effettivamen‐ te stabilire. In tal senso essa finisce per evocare alcuni principi generali del diritto dei contratti. La norma, da un lato, si collega alla clausola generale di buonafede, in quanto esclude che l’azione di annulla‐ mento possa sortire effetti in presenza di una disponibilità del convenuto a intervenire sulle parti del regolamento contrattuale rispetto alle quali si è verificato l’errore; dall’altro, consente di evocare il principio di conservazione del contratto. L’applicazione del principio generale della buonafede induce peraltro ad ammettere, pur in mancanza di un’espressa previsione normativa, la rettifica, con effetti ex tunc, di un atto negoziale unilaterale recettizio [sacco 2004, 532]. Dall’altro lato, la previsione della rettifica, al pari di altre fatti‐ specie previste dal legislatore (artt. 1367, 1450 e 1467), consente di evocare il principio di conservazione del contratto [quadri 1973, 52; pietro‐ bon 1990, 232; mirabelli 1980, 549]. Tanto emerge in considerazione del fatto che la rettifica costituisce uno strumento idoneo a offrire stabilità al regolamento di interessi perseguito dalle parti al momento della conclusio‐ ne del contratto. Sul piano strutturale la rettifica è un atto unilaterale recettizio che la parte non in errore può esercitare al fine di evitare l’annullamento del contratto; in particolare essa si configura come atto di esercizio di un diritto potestativo [pietrobon 1990, 234; franzoni 1998, 305]. Nell’ipotesi in cui le modifiche proposte vengano ritenute inidonee dall’attore a determinare la conservazione del contratto sarà il giudice a dover ricostruire sulla base di parametri oggettivi gli interessi che l’errante intendeva perseguire. Sul piano applicativo le principali problematiche sollevate da tale disposizione attengono, per un verso, all’individuazione dei limiti entro i quali la rettifica sia utilizzabile nei contratti viziati da errori; per altro verso, al rapporto esistente fra tale istituto e i principi in tema di trascrizione. Il primo aspetto finisce per evocare la controversa questione relativa al campo di applicazione della rettifica [pietrobon 1990, 233; scognamiglio 1961, 50]; quanto al secondo aspetto è appena il caso di menzionare il principio di diritto in base al quale la disciplina della rettifica del contratto non contiene alcuna eccezione alle regole che governano la trascrizione (Cass. 11265/2002, ove si stabilisce che si applica il criterio dell’anteriorità della trascrizione di cui all’art. 1445 ai fini dell’opponibilità ai terzi dell’atto di alienazione inficiato da errore poi emendato con la rettifica). L’art. 1433 individua due ulteriori tipologie di errore, vale a dire, l’errore che cade sulla dichiarazione e l’ipotesi in cui la dichiarazio‐ ne è stata trasmessa in modo inesatto dalla persona o dall’ufficio che ne era stato incaricato. Tali fattispecie evocano in modo eviden‐ te la tradizionale figura dell’errore ostativo, che, diversamente dall’errore vizio, avente a oggetto la formazione della volontà contrattuale, rende difforme la volontà contrattuale dalla sua manife‐ stazione. In questi casi, infatti, la volontà perseguita con il contratto si forma in modo corretto ma viene dichiarata o trasmessa al desti‐ natario in modo diverso da quella del suo autore. La distinzione fra le due tradizionali tipologie di errore è stata ricondotta a unità sul piano del trattamento normativo. La disposi‐ zione in esame, infatti, stabilisce che all’errore avente a oggetto la dichiarazione, così come all’errore di trasmissione, debba applicarsi il regime giuridico previsto nelle disposizioni precedenti, vale a dire quelle riguardanti le ipotesi di errore vizio. L’impostazione adottata dal legislatore trova una convincente spiegazione nella ricostruzione dei mutamenti che hanno interessato sul piano generale la conce‐ zione stessa del ruolo dell’errore. In tal senso occorre sottolineare ancora una volta che questa disciplina costituisce una significativa innovazione del codice civile del 1942, posto che, come si è visto (v. supra, n. 2), l’errore ostativo era suscettibile di determinare la nullità e non già l’annullamento del contratto. Il passaggio a una forma più attenuata di invalidità evidenzia un mutamento di prospettiva nell’individuazione degli interessi ritenuti meritevoli di tutela. Il rimedio della nullità esprimeva la scelta di proteggere la sfera giuridica della parte la cui dichiarazione fosse formulata in modo difforme dalla sua effettiva volontà, ovvero fosse trasmessa in modo inesatto, anche nelle ipotesi in cui il destinatario non potesse riconoscere in alcun modo l’esistenza dell’errore. La diversa esigenza di garantire la sicurezza dei traffici e, in particolare, l’affidamento del destinatario della dichiarazione fondato su circostanze oggettive, ha indotto il legislatore a ritenere applica‐ bile all’errore ostativo la forma meno grave di invalidità, vale a dire l’annullamento (Relazione al codice civile, n. 652). In questa materia, dunque, il contemperamento fra i diversi interessi di cui sono portatori i contraenti ha luogo attraverso l’appli‐ cazione del medesimo trattamento normativo previsto per l’errore vizio. La soluzione pone a carico della sfera giuridica dell’errante i rischi connessi alla formulazione della sua volontà negoziale, in tal modo dando attuazione anche in questa materia al principio di autoresponsabilità. In termini più generali, nell’attribuire rilevanza giuridica a quanto emerge in modo oggettivo dalla dichiarazione, la disposizione in esame presenta un meccanismo che concorre ad affrancare i vizi del consenso dal dogma della volontà. Delineata la portata di tale disposizione, a questo punto occorre formu‐ lare qualche breve osservazione sul suo campo di applicazione (sul punto, anche, memmo [1998, 311]). A tale riguardo la dottrina opportunamente afferma che la norma in esame debba coprire «sia le alterazioni colposa‐ mente introdotte dall’addetto alla trasmissione, sia anche le alterazioni dolose» [roppo 2001, 807] (in giurisprudenza Cass. 961/1988 esclude la configurabilità di un errore ostativo in presenza di riempimento contra pacta di foglio firmato in bianco, da parte di un terzo riempitore, al cui atto volitivo si deve il completamento della scrittura). L’individuazione del campo di applicazione dell’art. 1433 pone in evidenza anche una serie di ipotesi che sembrano evocare l’errore ostativo, ma che in realtà sono riconducibili ad altri istituti del diritto dei contratti. In tal senso è utile richiamare la problematica relativa ai casi di c.d. falsa demonstratio. A questo proposito viene in considerazione l’orien‐ tamento giurisprudenziale secondo cui non ricorre questa tipologia di errore qualora il contenuto del contratto, come appare stipulato, non corrisponda alla comune, reale volontà delle parti (Cass. 19558/2003). In questo caso, sia che l’erronea formulazione o trascrizione debba essere attribuita alle parti medesime, sia che debba essere ricondotta a un terzo da loro incari‐ cato, deve prevalere sulla lettera del contratto ciò che le parti hanno effettivamente voluto (Cass. 9127/1993). ■ 5. La disciplina che il legislatore dedica al dolo, inteso come «vizio della volontà», è contenuta nella Sezione II, Capo XII della normativa in tema di contratti in generale. La diversa accezione che tale figura assume in quanto criterio di imputazione dell’illecito, trova il suo punto di riferimento normativo nelle disposizioni dettate in materia di responsabilità (artt. 1225 e 2043). In base al comma 1 dell’art. 1439, il dolo determina l’annulla‐ mento del contratto quando i raggiri posti in essere da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato. La disposizione contenuta nel comma 2 sanziona con l’invalidità del contratto l’ipotesi in cui i raggiri sono stati utilizzati da un terzo e fossero noti al contraente che ne ha tratto vantaggio. Sul piano descrittivo occorre rilevare che il dolo-vizio consiste sia nel trarre in inganno la parte interessata con notizie false, con parole o con fatti, direttamente o tramite terzi (dolo commissivo), sia nel nascondere circostanze o fatti decisivi alla conoscenza altrui (dolo omissivo). In sostanza il dolo è causa di annullamento del contratto allorché gli artifici, i raggiri, le menzogne e gli altri comportamenti ritenuti giuridicamente rilevanti ai fini del vizio in esame, abbiano determinato nella controparte una rappresentazione alterata della realtà inducendola a prestare un consenso che altrimenti sarebbe mancato. Più complessa appare invece la ricostruzione di tale figura sul piano strutturale; a tale riguardo vengono in considerazione le diverse forme di condotta suscettibili di essere qualificate come «raggiri», anzitutto la c.d. macchinazione. Questa tipologia di comportamento ricorre laddove attraverso manovre e artifici sia stata creata nel deceptus una falsa rappresentazione della realtà. Tanto in dottrina quanto in giurisprudenza la macchinazione viene pacificamente ritenuta idonea a giustificare l’azione di annullamento per dolo. È opportuna, tuttavia, la precisazione secondo cui tale comportamen‐ to «è rilevante, in quanto induca nella vittima un errore determinante del consenso» e sussista «un ragionevole nesso causale fra macchinazione e decisione di contrattare» [roppo 2001, 813]. L’esame dei comportamenti rilevanti ai fini della ricostruzione della figura del dolo-vizio, trova un altro punto di riferimento nella menzogna. Il mendacio consiste in una consapevole falsificazione della verità, che si differenzia sia dalla machinatio, per la sostanzia‐ le mancanza di manovre tese a creare volutamente un travisamento della realtà, sia dalla reticenza, in considerazione del fatto che l’alterazione della verità ha luogo attraverso un comportamento commissivo. La possibilità di ricondurre la semplice menzogna ai raggiri che integra‐ no la fattispecie del dolo è valutata in modo alquanto eterogeneo. La giurisprudenza offre uno scenario nel quale accanto ad atteggiamenti di apertura si coglie la presenza di soluzioni improntate a un maggiore rigore. Frequente appare il ricorso a formule che tendono a configurare l’esistenza del dolo laddove sussistano requisiti ulteriori rispetto alla semplice menzo‐ gna. Sembra prevalere, comunque, un approccio caratterizzato dall’esigen‐ za di un’indagine di fatto volta a rilevare l’effettiva idoneità del mendacio a trarre in inganno il deceptus. In tal senso, si afferma la necessità di proce‐ dere alla valutazione del comportamento tenuto dall’autore delle menzogne avendo riguardo «alle circostanze di fatto e alle qualità e condizioni dell’al‐ tra parte» (Cass. 10718/1993). La dottrina tende ad affermare che anche questa tipologia di raggiro possa integrare gli estremi del dolo ove in concreto la menzogna sia stata determinante del consenso [gallo 1999, 460]. Nella ricerca di parametri di qualificazione delle fattispecie rilevanti, a fronte dei limiti manifestati sul punto dal diritto giurisprudenziale, appare utile il criterio secondo cui occorre muovere dall’individuazione dell’oggetto sul quale cade la menzo‐ gna [sacco 2004, 554]. In tale prospettiva possono ritenersi generalmente irrilevanti le menzogne che fanno riferimento alla sfera propria e non hanno riflessi ulteriori [roppo 2001, 814]; devono ritenersi rilevanti, invece, quelle relative a dati che in modo diretto o indiretto toccano la sfera dell’altro contraente ovvero l’andamento del mercato [sacco 2004, 555]. Il «dolo-vizio» dianzi esaminato (c.d. dolus malus) è tradizional‐ mente distinto dal c.d. dolus bonus, che non è causa di annulla‐ mento del contratto essendo agevolmente appurabile e non manife‐ stando di regola un reale animus decipiendi. Tale nozione, che finisce per evocare una distinzione di evidente sapore manualistico, viene in considerazione con riferimento alle ipotesi in cui il contraen‐ te nell’esercizio dei suoi affari abbia fatto ricorso a vanterie o ad accorgimenti maliziosi diretti a esaltare il valore della propria presta‐ zione. I caratteri propri della figura del dolus bonus non sono, tuttavia, pacifi‐ camente individuati dalla dottrina. Un’opinione tradizionale configura il dolus bonus come il complesso degli accorgimenti ingannatori «tollerati» nella pratica degli affari, volti a stimolarne la conclusione [trabucchi ???, 151]. Si è autorevolmente affermato, peraltro, che sul piano strettamente giuridico il criterio di delimitazione fra dolo illecito e furberia lecita (dolus bonus) debba essere desunto dalla correttezza a cui le parti sono tenute nel condurre le trattative, valutata, in modo contingente e variabile, alla stregua della «pratica comune del traffico» [betti 1950, 448]. L’affermata irrilevanza di questa tipologia di raggiro ha subito una progressiva erosione sul piano teorico in seguito alla crescente valorizzazione dell’obbligo di lealtà imposto alle parti nelle trattative dall’art. 1337 e, successivamente, ai mutamenti che hanno caratterizzato il nostro scenario normativo in materia di tutela del consumatore. Secondo un’autorevole ricostruzione, la circo‐ stanza che questi comportamenti siano in contrasto con l’obbligo di buona‐ fede a cui le parti sono tenute durante le trattative, emerge dalla considera‐ zione in base alla quale il dolus bonus finirebbe per legittimare ogni con‐ traente a speculare sulla debolezza intellettuale dell’altra parte [sacco 2004, 569]. In una diversa prospettiva il principio posto a fondamento del dolus bonus viene ritenuto in contrasto con la ratio della regola che non contem‐ pla la scusabilità fra i requisiti di rilevanza dell’errore. In particolare si sottolinea l’incongruenza di un sistema nel quale dovrebbe essere tutelato chi cade spontaneamente in errore, mentre sarebbe privo di protezione il contraente che cade nell’inganno altrui per propria deficienza [roppo 2001, 818]. Muovendo da un’interpretazione restrittiva dell’art. 1338, si è inoltre rilevato «che solamente la responsabilità precontrattuale per reticenza su cause di invalidità del contratto incontra il limite dell’ignoranza colpevole, essendo invece diversamente regolate le ipotesi in cui l’informazione dovuta presenta un contenuto differente» [realmonte 1994, 133]. Altra parte della dottrina tende, invece, a limitare la figura del dolus bonus ai casi di pratiche commerciali normalmente inidonee a irretire e che per tale motivo, in concreto, non abbiano tratto in inganno il contraente cui erano dirette [criscuoli 1957, 5]. L’esaltazione del prodotto deve concernere, comunque, profili suscetti‐ bili di vario apprezzamento soggettivo [criscuoli 1968, 98]. Stabilire, così, quale sia il confine che demarca il dolus bonus dal dolus malus è questione che viene a intercettare il rilievo sul piano giuridico degli obblighi informativi, la cui consistenza è stata sensibilmente accentuata dalle recenti normative a tutela del consumatore, nel senso di restringere l’area del dolus bonus. Nella giurisprudenza, si sono ritenute configurare dolus bonus le dichiarazioni precontrattuali con cui un contraente abbia presenta‐ to la realtà in modo a sé più favorevole quando, in relazione al contesto in cui sono state rese, presentassero un modesto livello di attendibilità nell’ambito della trattativa, così da escludere che l’altro contraente possa avervi attribuito un peso particolare (Cass. 3001/1996). D’altro canto, in dottrina si è affermata l’esistenza del dolo nell’ipotesi di pubblicità menzognera, consistente nell’attribuire al bene o al servizio specifiche qualità non rispondenti al vero [criscuoli 1968, 74]; in particolare la pubblicità menzognera è stata considerata causa di annullabilità del contratto ove il rivenditore fosse consapevole del raggiro [bianca ???, 667]. La pubblicità ingannevole è stata specificamente vietata a seguito dell’en‐ trata in vigore del d.lgs. 74/1992, in attuazione della direttiva 84/450/CEE, prevedendosi che «la pubblicità deve essere palese, veritiera e 2 corretta» (art. 1 ). È stata qualificata come «ingannevole» qualsiasi pubblicità «che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente» (art. 2, lett. b). Succes‐ sivamente tale disciplina è stata integrata dalla direttiva 97/55/CE in tema di pubblicità comparativa, recepita in Italia con il d.lgs. 67/2000. Si segnala, 2 inoltre, la previsione dell’art. 1 , lett. c, l. 281/1998 (c.d. «Statuto dei consumatori e degli utenti»), che configurava come diritto fondamentale dei consumatori e degli utenti quello «a un’adeguata informazione e a una corretta pubblicità». A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 145/2007 e del d.lgs. 146/2007 si è attivato un «doppio binario» di protezione, di cui uno a tutela del consumatore nei «rapporti tra consumatori e imprese» (BtoC) in relazione a pratiche commerciali scorrette e, l’altro, a tutela delle imprese nei loro reciproci «rapporti commerciali» (BtoB) in riferimento a comporta‐ menti caratterizzati da pubblicità ingannevole e comparativa illecita. Ambe‐ due i Decreti dianzi citati sono espressione delle direttive 114/2006/CE e 29/2005/CE, il cui scopo principale è quello di garantire il corretto funziona‐ mento del mercato interno, introducendo, da un lato, la figura delle pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori e, dall’altro, modificando la normativa in materia di pubblicità ingannevole tra gli operatori economici. Le disposizioni relative alle pratiche commerciali scorrette, recate dal d.lgs. 146/2007, sono poste a presidio dei rapporti tra professionisti e consumatori, al fine di ampliare la tutela di questi ultimi sulla base dell’uni‐ co divieto generale, introdotto dalla direttiva 29/2005/CE e trasfuso nell’art. 19 del nuovo codice del consumo (d.lgs. 206/2005), di pratiche commerciali sleali che si verificano all’esterno di un eventuale rapporto contrattuale tra consumatore e professionista o in seguito alla conclusione di un contratto e durante la sua esecuzione. L’ambito di applicazione delle nuove norme sulle pratiche commerciali scorrette (artt. 18-27 c. cons.) si estende a tutti i rapporti intercorsi tra consumatore e professionista: prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto. Poiché la pratica commerciale deve avere una diretta relazione con la promozione, vendita e fornitura di un prodotto o servizio da professionisti a consumatori, si può affermare che sono compresi nella relativa disciplina: tutti i rapporti busi‐ ness to consumer precontrattuali (ivi compresa la pubblicità ingannevole) e contrattuali aventi a oggetto un bene o servizio destinato esclusivamente a un consumatore; le condotte della fase contrattuale o postcontrattuale consistenti in azioni od omissioni del professionista che possono influenza‐ re scorrettamente la scelta di esercitare un diritto (ad es., recesso) o a far valere una tutela (ad es., riparazione o sostituzione del bene acquistato). Per «pratiche commerciali» devono intendersi qualsiasi azione, omis‐ sione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale (ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto), posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori. Elementi costitutivi delle pratiche commerciali scorrette sono: a) la condotta del professionista contraria alla diligenza professionale. Interpretando la norma nazionale alla luce di quella comunitaria si può affermare che la scorrettezza della pratica è esclusa solo quando risulti provato che il professionista ha adottato tutte quelle misure specifiche ragionevolmente necessarie nel caso concreto per evitare di fuorviare il comportamento economico del consumatore. Non è sufficiente, quindi, che il professionista si sia attenuto alla generale osservanza dei principi di correttezza e buonafede o «alle pratiche oneste», vigenti nel suo settore di attività; b) l’idoneità a falsare in maniera rilevante il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non sarebbe stata presa. L’«idoneità a falsare» si riferisce al concetto di «pregiudizio economico» che il consumatore può subire, anche a livello di semplice pericolo, per effetto della pratica scorret‐ ta; così come per «consumatore medio» si intende il pubblico di riferimento del prodotto particolarmente sensibile o vulnerabile della pratica scorretta. 2 Il nuovo impianto normativo, secondo quanto prevede l’art. 19 , lett. a, c. cons., non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto. Ne consegue che il consumatore è astrattamente legittimato ad avvalersi dei seguenti rimedi: a) responsabilità precontrattua‐ le, attraverso cui ottenere il risarcimento del danno subìto per aver stipulato un contratto a condizioni meno favorevoli di quanto volesse, per effetto del comportamento osservato dal professionista; b) annullamento del contratto, ove stipulato a seguito di azioni od omissioni ingannevoli per dolo del professionista (art. 1439), ovvero a seguito di violenza (art. 1434); c) risoluzione del contratto per grave inadempimento agli obblighi informativi (art. 1454), unitamente all’eventuale risarcimento del danno. Ampiamente dibattuta con riferimento alla schematizzata disciplina e soltanto accennabile in questa sede [pagliantini 2009, 164 ss.], è piuttosto la questione se la recente novellazione del codice del consumo implichi una generale e radicale rivisitazione del tradizionale principio di non interferenza tra rimedi invalidanti e rimedi risarcitori [de cristofaro 2008, 91 ss.] ovvero non si tratti piuttosto di un intervento sul piano della trasparenza informativa, di c.d. «ordine pubblico economico», che presti alla «reticenza» la sua disciplina (in termini di inversione dell’onere probatorio) per riceverne in cambio veste e conseguenze giuridiche nell’ambito teorico dei c.d. «vizi incompleti del contratto» (dolo «colposo» e c.d. «violenza debole») [sacco 1997, 256; mantovani 1995, 187 ss.]. Il dolo, come si è detto, viene in considerazione non solo in presenza di un comportamento attivo ma anche nelle ipotesi in cui uno dei contraenti si astenga dal fornire informazioni che avrebbero indotto l’altra parte a non contrattare se ne avesse avuto conoscen‐ za. In questa materia assume particolare rilievo il tema del rapporto fra reticenza e doveri di informazione, più precisamente la com‐ plessa questione relativa all’individuazione dei presupposti in presenza dei quali la condotta del contraente che si astenga dal fornire informazioni all’altra parte possa integrare gli estremi del dolo omissivo. La dottrina offre, sul punto, uno scenario alquanto articolato. In base a una prima, più rigida, ipotesi ricostruttiva [stolfi 1961, 153], la reticenza diviene rilevante ai fini dell’azione di annullamento, soltanto nelle ipotesi in cui sussiste un obbligo di informazione derivante dalla legge, in via diretta, si pensi all’assicurazione (art. 1892), ovvero indiretta, si pensi alla discipli‐ na in tema di transazione (arg. ex art. 1971). Secondo un diverso orienta‐ mento, caratterizzato peraltro da iter argomentativi non sempre omogenei, la violazione dell’obbligo di informare nella fase delle trattative, basato sul principio di correttezza previsto dall’art. 1337, rileva anche come causa di annullamento [visintini 1972, 91; sacco 2004, 563]. Questa soluzione non trova accoglimento nell’ambito dell’orientamento dottrinale che colloca sul piano risarcitorio gli effetti della violazione del generale obbligo di informa‐ zione [pietrobon 1990, 104; benatti 1963, 66; d’amico 2002, 57]. Appare innegabile, tuttavia, che in questo settore, al pari di altri, si pone l’esigenza di trovare un punto di equilibrio fra il bisogno di trasparenza contrattuale e l’efficiente allocazione delle risorse, in questo caso di quelle informative [roppo 2001, 816]. In giurisprudenza appare frequente il ricorso al principio secondo cui il dolo omissivo può concretizzare una causa di annullamento del contratto a norma dell’art. 1439, solo quando l’inerzia della parte si inserisca in un comportamento complesso, adeguatamente preordinato a realizzare l’inganno perseguito. Pertanto, la mera reticenza, limitandosi a non contra‐ stare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non viene considerata «idonea» a costituire causa invalidante del contratto (Cass. 8295/1994; App. Milano 11 luglio 2003, con riferimento all’ipotesi di contratto di cessione di partecipazioni azionarie). è opportuno rilevare, infine, che nell’ambito della disciplina dei singoli contratti questa problema‐ tica emerge in modo del tutto particolare dalla citata disposizione avente a oggetto le dichiarazioni inesatte e le reticenze nel contratto di assicurazio‐ ne, la cui portata è oggetto di diverse ipotesi ricostruttive. Il dibattito a cui tale disciplina ha dato origine non può essere analizzato in questa sede; è il caso di sottolineare, tuttavia, che la giurisprudenza ha finito per elaborare un principio di diritto secondo cui la reticenza dell’assicurato determina l’annullamento del contratto ex art. 1892 quando si verificano, simultanea‐ mente, le seguenti condizioni: la dichiarazione sia inesatta o reticente; la reticenza sia stata determinante ai fini della formazione del consenso dell’assicuratore; l’assicurato abbia reso la dichiarazione con dolo o colpa grave (Cass. 3165/2003; Cass. 2148/2001). L’art. 1892 non viene ritenuto applicabile, invece, al contratto di assicurazione fideiussoria o cauzionale, le cui peculiarità renderebbero preferibile il richiamo allo schema della fideiussione; pertanto, nelle ipotesi di dichiarazioni inesatte o reticenti del contraente-debitore in ordine alla formazione del rapporto principale la validità del contratto deve essere valutata alla stregua delle regole generali in materia di annullabilità per errore o per dolo (Cass. 6757/2001). Secondo l’insegnamento tradizionale, l’annullamento per dolo presuppone l’esistenza dell’animus decipiendi, vale a dire della volontà di ingannare l’altro contraente. L’intenzione di trarre in inganno è subordinata, per un verso, alla conoscenza della falsità della rappresentazione che si produce nella vittima, per altro verso, alla credenza che la volontà possa essere determinata con quegli artifizi. Il dolo-vizio, tuttavia, appare utilizzabile anche nelle ipotesi di raggiri puramente colposi. L’estensione del suo campo di applicazione viene giustificata con l’ampiezza dei criteri di imputazione previsti nella disciplina della responsabilità aquiliana [sacco 2004, 549] (sull’ammissibilità del requisito colposo, anche, gentili [1989, 3]). Più cauta, invece, appare la posizione secondo cui l’annullamento per inganno colposo deve avere una portata limitata; in particolare, si ritiene che tale rimedio debba trovare applicazione nelle ipotesi in cui il raggiro provenga da un professionista della materia contrattuale ovvero nelle ipotesi in cui l’inganno scaturisca da un comportamento commissivo piuttosto che omissivo [roppo 2001, 818]. La giurisprudenza, quanto meno nelle dichiarazioni di principio, sembra aderire all’orientamento tradizionale, indicando quale connotato essenziale del dolo invalidante, la volontaria realizzazione di un’alterazione nella rappresentazione della realtà. Occorre sottolineare però che nell’ambito di una pronuncia avente a oggetto la responsabilità per i danni derivanti dall’aver confidato sulla veridicità di informazioni ricevute da una banca, è stata affermata l’esistenza di un interesse giuridicamente protetto, configu‐ 2 rabile alla stregua dell’art. 1439 , a non vedersi alterare o comunque formare in modo scorretto la volontà non soltanto per l’opera dolosa ma anche per quella meramente colposa di un terzo (Cass. 5659/1998). Nella ricognizione degli aspetti che concorrono a delineare il dolo sul piano strutturale è opportuno richiamare, per un verso, il nesso causale fra questo vizio del consenso e la stipulazione del contratto, per altro verso, la problematica relativa alle modalità di valutazione del contegno tenuto dal deceptus. a) Con riferimento al primo aspetto è appena il caso di sottoli‐ neare che, esaurita la fase relativa alla qualificazione delle condotte suscettibili di configurare i raggiri, si pone l’esigenza di valutarne l’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima. Più precisamente, in materia di dolo l’inganno deve essere stato tale da determinare nel deceptus la falsa rappresentazione della realtà e, quindi, la scelta di indursi a stipulare il contratto. b) Con riferimento al secondo aspetto è possibile delineare soluzioni volte a sottolineare, per un verso, il principio per cui il comportamento della vittima del dolo deve essere valutato in astrat‐ to, alla stregua cioè del criterio della normale diligenza; per altro verso, la necessità che il deceptus sia stato concretamente ingan‐ nato. Il capoverso dell’art. 1439 prende in considerazione l’ipotesi in cui i raggiri sono stati usati da un terzo, prevedendo l’annullabilità del contratto se i raggiri erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio. Attraverso questa disposizione si persegue l’obiettivo di estendere la tutela dell’effettività del volere alle ipotesi in cui il dolo venga posto in essere da un soggetto estraneo al rapporto contrat‐ tuale. Sul piano interpretativo i principali problemi a cui tale norma dà origine riguardano l’individuazione dei soggetti a cui è possibile attribuire la qualifica di «terzo» e la portata che assume il requisito della conoscenza della parte avvantaggiata. Quanto al primo aspetto, la dottrina sembra orientata a escludere, sia pure con sfumature diverse, che possano considerarsi terzi coloro i quali operano in vario modo come ausiliari del contraente e, quindi, estende la gamma dei soggetti il cui dolo debba essere ricondotto all’attività contrat‐ tuale della parte. La giurisprudenza, invece, adotta tradizionalmente un approccio volto a porre in evidenza il ruolo della rappresentanza in senso tecnico, la cui assenza implica l’estraneità del terzo rispetto all’affare e, quindi, l’applicabilità del comma 2 dell’art. 1439 (sul punto, la ricognizione di cavallo borgia [1998, 479]). La disposizione in esame è caratterizzata, come si è detto, dagli ulteriori riferimenti alla conoscenza e al vantaggio del contraente nei cui confronti viene proposta l’azione di annullamento: a) il primo requisito (conoscenza) induce ad affermare che la tutela prevista dalla norma opera soltanto se l’altra parte ha effetti‐ vamente conosciuto l’inganno, non potendosi ritenere sufficiente la mera riconoscibilità; b) quanto al secondo requisito (vantaggio), la disposizione non sembra introdurre un autonomo requisito di rilevanza, piuttosto, appunto, il vantaggio evocato dal legislatore è semplicemente l’avvenuta stipulazione del contratto, a prescindere dal suo contenu‐ to e dagli effetti che ne derivano. ■ 6. L’art. 1440 disciplina la figura del c.d. dolus incidens, vale a dire quella forma di dolo che rileva in via esclusiva come comporta‐ mento illecito, da cui è comunque derivata una falsa rappresenta‐ zione della realtà e, quindi, una deviazione della determinazione della parte ingannata. Il contraente che agisce in forza di tale disposizione per chiedere il risarcimento del danno, non è tenuto a esercitare anche l’azione di annullamento del contratto, in quanto la domanda ha come presupposto che i raggiri non abbiano avuto carattere determinante del consenso. Secondo l’insegnamento tradizionale, quando si evoca questa figura «non si intende di fare una differenza di dolo, bensì di oggetto su cui cadono le conseguenze dell’inganno, oggetto che sarà in tale caso qualche circostanza non essenziale» [trabucchi ???, 151]. In un’altra ipotesi ricostruttiva, il dolo incidente finisce per evocare l’errore non essenziale, determinato da raggiro, che assume rilevanza in via eccezionale a motivo del comportamento illecito da cui ha tratto origine [mirabelli 1980, 563]. Di recente in questa disciplina si è ritenuto di poter individuare il modello dei «vizi incompleti», di quelle fattispecie, cioè, nelle quali il vizio non incide sulla validità del contratto, ma ciò nondimeno legittima il ricorso al rimedio risarcitorio [mantovani 1995, 187]. L’illecito a cui questo tipo di raggiro dà origine viene normalmente ricondotto nell’ambito della responsabilità aquiliana [trabucchi ???, 151]; tuttavia, non mancano soluzioni di segno contrario, che qualificano il comportamento previsto dall’art. 1440 alla stregua di un’ipotesi di responsabilità contrattuale [grisi 1990, 299], ovvero precontrattuale [mantovani 1995, 255]. Le conseguenze che vengono a realizzarsi sul piano risarcitorio pongono in evidenza un altro motivo di differenziazione fra il dolo incidente e quello determinante. Nel dolus causam dans, infatti, il risarcimento che può essere chiesto in aggiunta ovvero in alternati‐ va all’annullamento, deve essere commisurato al c.d. interesse negativo, vale a dire al pregiudizio risentito dalla vittima dell’ingan‐ no «per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto» (art. 1338). Nel caso di dolus incidens, invece, il risarci‐ mento non potrà essere limitato all’interesse negativo, ma dovrà estendersi al complesso delle utilità che la parte ingannata ha perso per aver concluso il contratto alle condizioni diverse determinate dai raggiri. ■ 7. Il codice civile stabilisce che il contraente, il cui consenso fu estorto con violenza, può chiedere l’annullamento del contratto (art. 1427). Al pari di quanto accade per gli altri vizi del consenso, la giustificazione di tale disciplina va ricercata nell’esigenza di garanti‐ re la libera formazione della volontà negoziale. Sebbene la coarta‐ zione derivante dalla violenza costituisca una grave forma di altera‐ zione della libertà di autodeterminarsi a stipulare il contratto, occorre comunque che l’ordinamento si faccia carico di delineare gli elementi che ne definiscono la fattispecie. Prima di porre mano all’analisi dei caratteri che il legislatore ha attribuito alla violenza, intesa come «minaccia da cui deriva l’annul‐ labilità del contratto», appare opportuno tuttavia soffermarsi sulle differenze che intercorrono fra il vizio in esame e altre figure suscet‐ tibili di presentare punti di contatto con il suo campo di applicazione. In questa prospettiva si inserisce, anzitutto, la tradizionale problematica relativa alla distinzione fra violenza fisica e violenza morale. L’esclusione della violenza fisica dal campo di applicazione della disciplina dei vizi del consenso è stata normalmente giustifica‐ ta muovendo dall’assunto secondo cui la vis absoluta farebbe venire meno, diversamente dalla violenza morale, ogni possibilità di scelta in merito al comportamento della parte. Una diversa ipotesi ricostruttiva tende, invece, a porre in evidenza l’effetto determinato dalla violenza piuttosto che le modalità della sua attuazione, prospettando l’applicabilità del rimedio dell’annullamento nelle ipotesi in cui una minaccia di carattere «fisico» abbia prodotto una mera alterazione del consenso [criscuoli 1970, 127; cavallo borgia 1998, 330]. A questa fattispecie si affiancano altre ipotesi in cui la dichiarazione viziata da minaccia deve ritenersi inefficace. In particolare si è affermato che viene in considerazione l’inefficacia automatica laddove, da un punto di vista sociale, la dichiarazione non presenti alcuna idoneità a creare un affida‐ mento serio, sicché in questi casi «il comportamento del minacciato non è una dichiarazione» [sacco 2004, 577]. Dalla violenza occorre altresì distinguere: a) lo stato di pericolo o di bisogno, che rendono possibile la rescissione del contratto laddove sussistano i requisiti stabiliti dagli artt. 1447 e 1448, i quali presuppongono il difetto di un’azione violenta dell’uomo; b) l’incapacità naturale dedotta nell’ambito della fattispecie dell’art. 428, posto che in tal caso viene in considerazione la capaci‐ tà di cosciente e libera autodeterminazione del soggetto, mentre la violenza incide sulla determinazione volitiva; c) la dipendenza economica della parte, di cui l’altro contraen‐ te abusi ponendo le premesse per l’eventuale applicabilità dell’art. 9 l. 192/1998 in tema di subfornitura. Occorre sottolineare, infine, che diversamente da quanto è stabilito per la violenza, il solo timore riverenziale non può costitui‐ re causa di annullamento del contratto (art. 1437). In tal modo si è provveduto a delimitare, in negativo, i confini del vizio in esame, escludendo che il contratto possa essere annullato nelle ipotesi di soggezione psicologica verso altri, determinata dalla loro posizione nella famiglia, nell’ambiente di lavoro ovvero in quello sociale. Alla stregua di quanto prevede l’art. 1435, occorre che la violen‐ za sia di tale natura da impressionare una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevo‐ le. In tale contesto si fa rimento all’età, al sesso e alla condizione delle persone. L’analisi della minaccia che legittima la richiesta di annullamento del contratto deve essere sviluppata, quindi, con riferimento agli elementi che caratterizzano, per un verso, la pro‐ spettazione del male, per altro verso, il male rappresentato alla parte. Quanto al primo aspetto, appare evidente il ricorso del legislato‐ re a criteri di valutazione che si collocano sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo. Sul piano oggettivo viene in considera‐ zione il parametro della «persona sensata», che mira a valutare le modalità di manifestazione della violenza, avendo riguardo all’a‐ stratta idoneità della minaccia a impressionare la vittima. Il rigore di questa ricognizione viene in qualche modo attenuato dal ricorso a parametri soggettivi, quali l’età, il sesso e la condizio‐ ne delle persone. Questo secondo tipo di valutazione non consente tuttavia di entrare nel merito della particolare situazione in cui versava la vittima della minaccia; in sostanza, la verifica delle circostanze indicate dal legislatore non può determinare una com‐ pleta soggettivazione dell’analisi. Affinché la violenza sia causa di annullamento del contratto, come si è detto, il legislatore richiede che il male prospettato sia ingiusto e notevole. Si ritiene, peraltro, pur nel silenzio della norma, che la minaccia debba riferirsi a un male futuro, nonché esterno al contratto, nel senso cioè che non può essere identificato con la privazione della prestazione attesa in forza del contratto. Il male minacciato deve dipendere in qualche modo dal compor‐ tamento dello stesso autore della violenza, sicché si esclude che il metus ab intrinseco, vale a dire il timore che non deriva dal com‐ portamento del minacciante ma sorge altresì in modo spontaneo nella persona, possa essere ritenuto idoneo a invalidare il negozio. Il male rappresentato come alternativa alla conclusione del contratto deve essere notevole. Questo requisito, che rileva sul piano eminentemente oggettivo, serve a escludere che la violenza possa determinare l’annullamento del contratto laddove il male prospettato abbia una portata poco rilevante. Valutare se il male minacciato presenti tali caratteristiche è compito dell’interprete, il quale potrà avvalersi dei criteri previsti dalla parte finale della norma, vale a dire l’età, il sesso e le condizioni della persona. Più articolata appare invece la problematica relativa all’indivi‐ duazione del significato assunto dall’espressione male ingiusto. Tale considerazione trae origine, per un verso, dalla complessità che caratterizza la nozione di «ingiustizia» sul piano civilistico; per altro verso, dalla circostanza che tale nozione viene utilizzata nell’ambito della disciplina avente a oggetto la violenza non solo nella disposizione che ne individua i caratteri, ma anche nella successiva previsione avente a oggetto la minaccia di far valere un diritto. L’art. 1438, infatti, stabilisce che questo tipo di minaccia può essere causa di annullamento del contratto solo quando è finalizza‐ ta a conseguire vantaggi ingiusti. La nozione di «male ingiusto» è stata oggetto di una pluralità di rico‐ struzioni che hanno posto in evidenza una serie di profili, fra i quali: il pregiudizio derivante dalla violazione di una norma giuridica, la lesione di un interesse giuridicamente protetto della vittima, la contrarietà al diritto (su tale dibattito, cavallo borgia [1998, 361]). Anche sul piano applicativo sono emerse diverse ipotesi ricostruttive. Per un verso, si è proposto di ricondur‐ re la figura in esame nella prospettiva della disciplina dei fatti illeciti, sicché il male produrrebbe gli effetti previsti dalla norma quando, «una volta operato, è a sua volta «ingiusto», e come tale capace di ricadere nella lata previsione dell’art. 2043» [sacco 2004, 582]. Per altro verso, si è esclusa la necessità di identificare le due aree prospettando una concezione più ampia e sfumata dell’ingiustizia rilevante ai fini della violenza (in particolare, del prato [1990, 80]). La problematica relativa alle caratteristi‐ che assunte da questo requisito della violenza trova un ulteriore spunto di interesse nel tema relativo alla coscienza dell’ingiustizia. A tale riguardo l’analisi della giurisprudenza pone in evidenza soluzioni non del tutto lineari; a sua volta, la dottrina appare divisa fra chi esclude la necessità della coscienza dell’illiceità e chi invece sottolinea l’esigenza di verificare l’esistenza dei requisiti soggettivi di colpevolezza (sul dibattito, amplius, cavallo borgia [1998, 369]). L’annullamento del contratto può essere richiesto non solo quando la minaccia sia esercitata nei confronti dell’altro contraente, ma anche quando la violenza sia stata diretta nei confronti di terzi. All’interno di questa seconda categoria di soggetti, peraltro, il legislatore distingue l’ipotesi in cui «la minaccia sia rivolta nei confronti del coniuge, dei discendenti e ascendenti, vale a dire verso i parenti più vicini alla parte», dal caso in cui «la minaccia sia rivolta nei confronti di qualunque altra persona». L’analisi della disciplina consente di rilevare l’esistenza di mede‐ sime soluzioni normative nell’ambito delle fattispecie previste dall’art. 1435 e dal comma 1 dell’art. 1436. Nell’ambito di tali previ‐ sioni, infatti, la violenza è causa di annullamento quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del contraente ovvero dei suoi parenti più stretti. Al contrario l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice ove il male minacciato riguardi altre persone. La maggiore cautela che caratterizza questo secondo tipo di giudizio trae origine dall’idea, tutt’altro che scontata, in base alla quale la minaccia posta in essere nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nel primo capoverso della norma presenti un minore grado di credibilità per il contraente. Nell’ambito della normativa avente a oggetto i vizi del consenso la coartazione derivante dalla violenza costituisce la forma più grave di alterazione della libertà di autodeterminarsi a stipulare il contratto. Tanto emerge in modo evidente dalla soluzione che l’art. 1434 consente di utilizzare nell’ipotesi di violenza del terzo. In questo caso, infatti, diversamente da quanto accade in materia di dolo del terzo, il contratto deve ritenersi annullabile anche se la violenza è ignota alla parte che se ne avvantaggia. A tale riguardo va dunque sottolineato che fra l’esigenza di tutela del soggetto che subisce la minaccia e quella di protezione dell’affidamento di controparte si rende necessario privilegiare l’interesse del primo ad autodetermi‐ narsi liberamente alla stipulazione del contratto. Affinché la violenza possa determinare l’annullamento del contratto si ritiene necessaria la sussistenza di un nesso di causa‐ lità fra la minaccia e la conclusione del contratto. In tale prospettiva occorre che la minaccia sia stata specificamente diretta al fine di estorcere il consenso per il contratto di cui venga richiesto l’annulla‐ mento. Più delicata appare la questione relativa alla possibilità di configurare, al pari di quanto accade in tema di dolo, una fattispecie di violenza «inci‐ dente». Si tratta, in sostanza, delle ipotesi in cui la minaccia non abbia influito sulla scelta di stipulare il contratto, ma abbia indotto la vittima a concludere un contratto diverso rispetto a quello voluto originariamente. A tale proposito si è prospettata l’applicazione analogica dell’art. 1440 alla violenza incidentale e quindi l’ammissibilità del risarcimento del danno piuttosto che l’annullamento del contratto [fedele 1948, 152]. Più opportu‐ namente, invece, si afferma che il silenzio del legislatore e la maggiore gravità della violenza rispetto al dolo non consentono di accogliere tale soluzione, sicché l’ipotesi della violenza incidentale deve ritenersi comun‐ que idonea a determinare l’annullamento del contratto [mirabelli 1980, 553; cavallo borgia 1998, 348]. La violenza, come si è detto, determina l’annullamento del contratto. Al tempo stesso questo vizio del consenso costituisce un illecito che consente alla vittima di agire per richiedere il risarci‐ mento del danno. L’azione diretta a far valere l’invalidità del con‐ tratto può essere accompagnata, dunque, da quella volta a ottenere tutela sul piano risarcitorio; d’altro canto, la vittima può limitarsi in astratto a chiedere solo il risarcimento. In ogni caso appare opportu‐ no tenere distinto il profilo relativo al risarcimento del danno da quello meramente restitutorio. La restituzione della prestazione eseguita consegue all’annullamento; il risarcimento rappresenta la conseguenza dell’illecito civile e tende a porre rimedio al danno eventualmente subito dalla vittima. La disciplina in tema di violenza si chiude con la previsione dell’art. 1438, in base alla quale la minaccia di far valere un diritto determina l’annullamento del contratto allorché i vantaggi perseguiti mediante la violenza siano ingiusti. In questa materia la giurisprudenza tende a interpretare in modo restrittivo la nozione di «ingiustizia». In particolare è frequente il ricorso al principio secondo cui la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, ai sensi dell’art. 1438, soltanto quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre a essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante e iniquo rispetto all’oggetto di quest’ulti‐ mo (Cass. 8290/1993). Un diverso registro sembra emergere in un’altra pronuncia secondo cui la minaccia rilevante è ravvisabile soltanto se venga prospettato un uso strumentale del diritto o del potere, nel senso cioè che essa risulti diretta non solo alla realizzazione dell’interesse la cui soddisfa‐ zione è prevista dall’ordinamento, ma anche al condizionamento della volontà (Cass. 6426/1996). In realtà, come si è autorevolmente sottolineato, l’art. 1438 contiene una norma di notevole importanza pratica, alla quale tuttavia non corrispon‐ de una parallela chiarezza [sacco 2004, 589]. Di tanto vi è conferma nella pluralità di ipotesi ricostruttive formulate dalla dottrina, da quelle tradizionali, volte a sottolineare il criterio dell’inerenza [santoro-passarelli 1957, 150] e dell’esorbitanza [carresi 1987, 484], a quelle più recenti che della fattispecie pongono in evidenza il profilo dell’abuso del contraente [corsaro 1979, 43], ovvero quello «dispositivo» del diritto [del prato 1990, 18]. Le difficoltà a cui dà origine la disposizione in esame potrebbero essere attenuate mediante il ricorso a due criteri, di tipo qualitativo e quantitativo, idonei a individuare con maggiore chiarezza la nozione di «vantaggio ingiusto». Il criterio qualitativo è identificabile con la «strumen‐ talità o inerenza del contratto al contenuto e alla funzione tipica del diritto fatto valere»; quello quantitativo, suscettibile di essere utilizzato nei casi in cui permangano dubbi sulla qualificazione del vantaggio, consente di stabilire se il contratto, per i suoi contenuti concreti e specifici, «dà alla parte vantaggi normali, o invece vantaggi spropositati» [roppo 2001, 832]. La disciplina in esame presenta ulteriori profili problematici con riferi‐ mento all’ipotesi relativa alla minaccia di far valere un diritto inesistente o infondato (per una ricostruzione delle diverse soluzioni dottrinali, cavallo borgia [1998, 435]). A tale riguardo la giurisprudenza in tema di dimissioni del lavoratore offre diversi spunti di riflessione. Ove tali dimissioni siano state rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, posso‐ no essere annullate perché viziate da violenza morale solo qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento, non sussistendo l’inadempimento addebitato al dipendente, in quanto in questo caso con la minaccia del licenziamento il datore di lavoro persegue un effetto non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso (Cass. 6577/2003). In tema di dimissioni estorte dal datore di lavoro con la minaccia di un collocamento in cassa integrazio‐ ne, si è affermata la necessità di distinguere l’ipotesi in cui sussistano le condizioni legali per tale collocamento, nel qual caso è astrattamente configurabile il vizio del consenso di cui all’art. 1438, dall’ipotesi in cui tali condizioni non sussistano, nel qual caso è astrattamente configurabile il vizio di cui all’art. 1435 (Cass. 324/2003). ■ 8. L’individuazione dei presupposti in presenza dei quali è possi‐ bile invocare l’annullabilità del contratto consente di comprendere il modo in cui si atteggia la legittimazione a farla valere. Diversamen‐ te dalla nullità, infatti, l’annullabilità del contratto può essere doman‐ data solo dalla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge (art. 14411). Ciò si deve evidentemente alla circostanza che l’invalidità è posta a presidio dell’interesse della parte colpita dal vizio, alla quale è rimessa la scelta relativa al destino del contratto. Questa nozione ristretta di «legittimazione» presenta un allargamento con riferimen‐ to alle ipotesi di incapacità, rispetto alle quali è previsto che l’azione possa essere fatta valere anche dagli aventi causa (a titolo partico‐ lare) dell’incapace. Un altro elemento di differenziazione fra nullità e annullabilità è rappresentato dalla prescrizione; se, da un lato, l’azione di nullità è imprescrittibile, dall’altro, l’azione di annullamento si prescrive in 5 anni (art. 14421). In questo secondo caso il termine di decorrenza della prescrizione varia a seconda della fattispecie di invalidità. Se l’annullabilità dipende da incapacità legale o da vizio della volontà il termine di prescrizione decorre dal momento in cui viene meno l’elemento che ha dato origine alla causa di invalidità del contratto. In sostanza, allorché l’annullabilità dipende da vizio del consenso o da incapacità legale, il termine decorre dal giorno in cui è cessata la violenza, è stato scoperto l’errore o il dolo, è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore età (art. 14422). Negli altri casi il termine decorre dal giorno della conclusione del contratto (art. 14423). Il tema della prescrizione si atteggia con modalità differenti ove si consideri il modo di operare dell’eccezione di annullabilità del contratto. Il codice, infatti, stabilisce che l’annullabilità possa essere eccepita dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se fosse ormai prescritta l’azione per farla valere (art. 14424). La parte a cui spetta l’azione di annullamento potrebbe ritenere preferibile la diversa soluzione della conservazione del contratto. A questo scopo il legislatore ha previsto la convalida, mezzo di recupero del contratto che persegue l’obiettivo di stabilizzarne gli effetti. La disposizione dell’art. 1444 consente di individuare due diverse tipologie: la «convalida espressa» e la «convalida tacita»: a) la convalida espressa ricorre allorché si faccia ricorso a un atto che contenga la menzione del contratto e del motivo di annulla‐ bilità, e la dichiarazione che si intende convalidarlo (comma 1). La convalida del contratto annullabile presuppone che il negozio viziato sia già venuto a esistenza e, dunque, non può intervenire in via anticipata e preventiva. Sul piano strutturale la convalida espressa è un atto negoziale avente carattere unilaterale. Il contenuto dell’atto deve essere tale da non lasciare dubbi in ordine alla consapevolez‐ za dei suoi effetti da parte del contraente che se ne serve; b) la convalida tacita ricorre quando il contraente al quale spettava l’azione di annullamento vi ha dato esecuzione in modo volontario conoscendo il motivo di annullabilità (art. 14442). Diversamente da quanto emerge nella riflessione teorica, la giurispru‐ denza ritiene che l’esecuzione volontaria da cui scaturisce la convalida tacita del contratto annullabile, consista in un comportamento di natura negoziale, il quale si risolve in un’attività che presuppone per implicito una volontà incompatibile con quella di chiedere l’annullamento (Cass. 4441/2001). La volontà di convalidare il contratto può essere desunta da qualsiasi comportamento attinente all’esecuzione del contratto, non soltan‐ to cioè quello di stretto adempimento proprio del soggetto passivo di un’obbligazione nascente dal contratto stesso, ma anche quello posto in essere dalla controparte di accettazione e adesione alla prestazione dell’obbligato. Sezione IV. La simulazione 1. La figura. - 2. Simulazione assoluta e relativa. - 3. La simulazione degli atti unilaterali. - 4. Effetti della simulazione tra le parti. - 5. Effetti della simulazione nei confronti dei terzi. - 6. La prova della simulazione. ■ 1. Le disposizioni che il codice civile dedica all’istituto della simulazione (artt. 1414-1417) non ne consegnano all’interprete la figura che, dunque, è lasciata all’elaborazione della dottrina. La mancanza di una definizione legislativa non deve condurre l’inter‐ prete a dedurre un concetto di «simulazione «argomentando in base al buon senso ovvero assumendo come fondamento tradizioni giuridiche, che potrebbero essere false o gratuite, anche se furono vere in altri tempi; considerato infatti che nelle norme del codice una disciplina pressoché completa della simulazione, esistono tutti gli elementi per un’elaborazione dogmatica dell’istituto e dei suoi concreti atteggiamenti nel mondo del diritto [auricchio 1957, 23]. Occorre in particolare guardare agli studi di teoria generale e, in questa prospettiva, la simulazione si inquadra nel più ampio feno‐ meno giuridico dell’apparenza cui, non per caso, il codice civile fa esplicito riferimento nella disposizione di apertura della disciplina della simulazione ove è richiamato il contratto apparente. Invero, un contratto si considera simulato allorché le parti di esso pongono in essere, e rendono visibile (apparente) ai terzi, un assetto di interessi del quale non intendono avvalersi, nel senso che sono tra loro d’accordo che gli effetti giuridici dell’atto simulato non devono in realtà prodursi. Ciò che caratterizza l’istituto è, dunque, la contemporanea e duplice presenza di un accordo (detto «accordo simulatorio» o «controdichiarazione») tenuto nascosto, appunto dissimulato (inve‐ ro il legislatore del codice utilizza proprio la locuzione di «contratto dissimulato»), accanto a un accordo («accordo simulato») che, come si è detto, è meramente apparente e inefficace. Varie possono essere le ragioni per le quali le parti fanno ricorso alla simulazione; svolge al riguardo un ruolo decisivo il legame culturale molto forte degli operatori, specie nella prassi notarile, con gli schemi contrattuali tipizzati e collaudati che finisce per limitare la costruzione di modelli diversi, sicché lo scarto fra il tipo adottato esternamente e quello che si vuole adottare in realtà si colma con una controdichiarazione [sacco-de nova 2004, 641]. Di certo, poi, l’autonomia privata tende a utilizzare l’accordo simulatorio allo scopo di aggirare le norme cogenti dell’ordinamento; paradigmatici sono in proposito i casi delle disposizioni in materia fiscale o in materia di prelazioni legali (con il caso emblematico della prelazione agraria) oppure la disciplina vincolistica alla libertà di testare posta a tutela dei diritti dei legittimari. A sua volta, l’accordo simulatorio o, per meglio dire, il contratto dissimulato cela la reale intesa tra le parti che può riguardare, in alternativa, la scelta di conservare la situazione giuridica reale immutata rispetto a quella anteriore all’atto simulato, ovvero la scelta di mutare la reale situazione giuridica preesistente, ma in termini differenti, in tutto o in parte, da quelli che esse fanno appari‐ re nell’atto simulato. Gli studi sulla simulazione sono stati fortemente influenzati dall’impo‐ stazione che a essi è stata data all’inizio del secolo scorso quando la dottrina [coviello 1904, 597] – sulla scorta della teoria del negozio giuridico forgiata in Germania sulla scia della pandettistica e delle sue manifestazio‐ ni nella letteratura giuridica tedesca della seconda metà del XIX secolo – si orientò per la lettura del fenomeno in termini di divergenza fra l’interno volere e la sua manifestazione esteriore (ampio conto delle varie posizioni in ferrara [sen.???, 1922, 1]), benché, sulla scorta di analogo impianto del Code Napoléon, il codice civile del 1865, senza riferimento alcuno a impalcature formali della disciplina, regolasse solo le contro dichiarazioni le quali (se) «fatte per privata scrittura non possono avere effetto che fra le parti contraenti e i loro successori a titolo universale» (art. 1319); ciò che peraltro costituiva l’unico dato certo in materia (così, già, messina [1907, 393; 1908, 10; 1948, 69], ripreso più tardi da auricchio [1957, 1], proprio in apertura del suo fondamentale contributo). Con il tramonto della dottrina del negozio giuridico, trovano nuovo spazio, e progressivamente si affer‐ mano, quelle voci [kohler 1878, 91; messina 1948, 86; segré 1924, 865; romano 1954, 15; pugliatti 1951, 541; santoro passarelli 1954, 133; auric‐ chio 1957, 192; distaso 1960] che già avevano imperniato la loro analisi sul raffronto della dichiarazione con la contro dichiarazione, piuttosto che della volontà interna dei contraenti con quella esteriorizzata. L’idea di fondo che dovesse guardarsi alle dichiarazioni delle parti permise di dare rilievo all’analisi strutturale della dichiarazione apparente la quale ben poteva realizzare (pur nella sua funzione di costituire l’apparenza, mentre la realtà del rapporto sarebbe stata consegnata alla contro dichiarazione) un atto completo e perfetto almeno dal punto di vista della volontà (perché effetti‐ vamente e validamente voluto) e della liceità (in linea di principio e salva la valutazione da compiersi nelle concrete circostanze). In questa cornice si fa strada la concezione del contratto simulato (non come privo di accordo) bensì come mancante della causa perché essa, per ricordare, ad esempio, un’illustre dottrina tra quelle che si muovono lungo questa traccia [pugliatti 1951, 546], appare tipica e diversa dallo scopo concreto e dissimulato che le parti intendono perseguire, così che il contratto simulato va considerato come negozio nullo o giuridicamente inesistente. Complice l’insoddisfazione per la nota e perdurante evanescenza della nozione di «causa del contratto», si matura la svolta più significativa del pensiero giuridico intorno alla simulazione. Dal piano strutturale della fattispecie (incompleta e quindi invalida), l’attenzione si sposta allora sul piano dell’efficacia del contratto simulato [scognamiglio 1950] (ma, in particolare, auricchio [1957, 189]), sicché l’inefficacia di questo deriva dalla volontà dei contraenti poiché, per loro stessa valutazione, manca l’autore‐ golamento: la singolarità del fenomeno della simulazione relativa è da vedersi nel fatto che qui la dichiarazione valida non corrisponde all’autore‐ golamento; in vero il negozio simulato, può senz’altro presentarsi con i suoi elementi costitutivi essenziali effettivamente corrispondenti a quanto voluto dalle parti, e dunque è valido perché, nella valutazione da compiersi alla stregua della legge, esso è dotato di una struttura perfetta ed è perfetto come titolo o documento tipico, tuttavia l’efficacia giuridica dell’autoregola‐ mento si determina al di fuori della dinamica della fattispecie. Evidenti i riflessi che discendono dall’impianto di ordine sistematico in ordine alla visione del più ampio fenomeno dell’autonomia privata: il negozio giuridico subisce due valutazioni, che non si escludono ma concorrono e corrispon‐ dono ai due diversi punti di vista riconducibili, per un verso, all’ordinamento in relazione alla fattispecie legislativa (che corrisponde alla valutazione operata dal legislatore sul comportamento delle parti) e, per altro verso, alle parti stesse in relazione ai propri interessi (che si manifesta nel precet‐ to o autoregolamento realmente voluto dai contraenti e che trova la sua espressione in termini normativi sul piano dell’efficacia negoziale) [ibidem, 15]. Nulla di strano, allora, che le due valutazioni possano anche divergere in taluni casi, come accade nella simulazione, la cui disciplina ben rappre‐ senta la più generale distinzione e separazione normativa degli effetti dei negozi fra le parti e nei confronti dei terzi [ibidem, 198; gentili 1982]. ■ 2. Si parla dunque di simulazione assoluta allorché le parti, attraverso l’accordo (simulatorio) che assume esclusiva rilevanza interna tra di esse, intendono che il contratto (simulato) apparente‐ mente stipulato sia tra loro del tutto improduttivo di effetti giuridici: si tratta della situazione di assoluta inefficacia tra le parti menzionata dal codice (art. 14141). Con accordo simulatorio anteriore al matrimonio, può realizzarsi la simulazione del matrimonio (art. 123), da molti ricondotto a un’ipotesi di simulazione assoluta poiché gli sposi convengono di escludere totalmen‐ te obblighi e diritti che discendono dal matrimonio. In pratica, e per varie ragioni, si crea l’apparenza dello stato di persone coniugate al fine di conseguire un effetto giuridico che da ciò dipende, ad esempio, il consegui‐ mento della cittadinanza (App. Firenze 28 agosto 1988) o il permesso di espatrio (Trib. Milano 6 luglio 1978). Nel codice la simulazione è considera‐ ta «causa di impugnazione» del matrimonio da parte dei coniugi – accom‐ pagnata da specifiche preclusioni di proponibilità – a ciascuno dei quali è infatti conferito il diritto di impugnare il negozio. È per altro discutibile che la figura conservi un legame sistematico con la disciplina negoziale della simulazione rispetto alla quale, piuttosto, essa appare come una singolare e differente ipotesi di simulazione; si è ritenuto, anzi, che la figura della simulazione del matrimonio sia del tutto incompati‐ bile con il fenomeno della simulazione del negozio, giacché l’esercizio dell’impugnazione produce l’eliminazione di effetti del matrimonio che comunque si sono già verificati, mentre per la norma generale (art. 1414) l’accordo simulatorio esclude l’efficacia dell’atto simulato [irti 1976, 483]. Diversamente nell’ipotesi di simulazione relativa nella quale il contratto dissimulato esplicita la vera intenzione delle parti diretta a realizzare effetti giuridici differenti rispetto a quelli palesati nel contratto simulato. A questa situazione guarda l’altra regola del codice in forza della quale tra le parti ha effetto il contratto dissimu‐ lato, «purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma» (14142). Una sottospecie della simulazione relativa si realizza attraverso la falsa raffigurazione dei soggetti che partecipano all’atto, ossia attraverso l’«interposizione fittizia di persona». Con questa espres‐ sione si fa riferimento alle ipotesi nelle quali l’accordo simulatorio intercorso tra tutti gli interessati individua l’effettivo soggetto (inter‐ ponente) che è davvero la parte contrattuale, mentre nel contratto simulato tale è fatto risultare un soggetto (interposto o prestanome) che è, nell’intendimento di tutti, estraneo al contratto e presta soltanto il nome. È chiaro che il riferimento alla necessaria parteci‐ pazione di tutti gli interessati significa che l’accordo simulatorio deve coinvolgere anche la vera parte contrattuale il cui consenso, infatti, resta indispensabile affinché gli effetti dell’atto si producano nella sua sfera giuridica. Ciò non significa, ovviamente, che la partecipa‐ zione di tutti gli interessati all’accordo simulatorio debba essere contestuale, ben potendo verificarsi che taluno di costoro possa partecipare successivamente all’intesa già raggiunta dagli altri due (accordo simulatorio a formazione progressiva). Situazione del tutto differente, poiché non vi è alcuna finzione, è quella che viene usualmente qualificata come «interposizione reale di persona»; in queste ipotesi vi è un soggetto che non intende manifestarsi come parte di un certo affare e, quindi, incarica un altro soggetto di trattare e conclude‐ re per suo conto l’accordo con il terzo. Gli effetti del contratto si producono regolarmente tra le parti di questo e sarà solo con un diverso e successivo contratto che l’interposto (reale) ritrasferirà quanto da lui acquistato in capo a colui che gli aveva affidato l’incarico. Questo fenomeno giuridico nulla ha a che vedere con la simulazione giacché riguarda l’agire nell’interesse (per conto) altrui che, pertanto, si inquadra in altro insieme di regole e, precisa‐ mente, in quello della rappresentanza indiretta che, nel sistema del codice civile, è in via generale individuato nella disciplina del mandato senza rappresentanza (art. 1705). Si configura come interposizione reale, e non come simulazione, anche l’ipotesi nella quale sia intercorso l’accordo simulatorio tra interponente e interposto ma il terzo non lo conosca, ovvero lo conosca ma a esso non abbia aderito (Cass. 6451/2000). ■ 3. Il codice esplicitamente estende la disciplina prevista per il contratto simulato agli «atti unilaterali destinati a una persona determinata, che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il destinatario» (art. 14143). È al riguardo palese la connessione che, nel sistema del codice, si realizza tra la regola particolare da ultimo citata e l’altra, di carat‐ tere generale, a tenore della quale «le norme che regolano i contrat‐ ti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale» (art. 1324). La lettura combinata delle due disposizioni chiarisce in quali termini debba essere inteso il generale limite di compatibilità con riferimento alla disciplina del contratto simulato: per aversi la previ‐ sta estensione dell’applicabilità di quest’ultima è necessario che il destinatario dell’atto unilaterale abbia partecipato all’intesa simula‐ toria. In giurisprudenza l’applicabilità della disciplina della simulazione agli atti unilaterali è stata affermata, ad esempio, con riguardo alla promessa di pagamento e alla ricognizione di debito qualora esse siano indirizzate alla persona del creditore, ossia rivolti a soggetto determinato (Cass. 4564/1997). In presenza di atto negoziale unilaterale non destinato a soggetto determinato e, dunque, secondo l’opinione più diffusa, privo di natura ricettizia, la disciplina della simulazione non troverebbe applicazione per l’impossibilità di configurare l’accordo simulatorio; ad esempio, è stata asserita l’estraneità alla simulazione, trattandosi piuttosto di un fenomeno di collegamento negoziale, della rinuncia all’eredità da parte di un chia‐ mato alla quale sia stata affiancata la convenzione, tra tutti i chiamati alla medesima eredità, diretta a limitare od escludere l’efficacia della rinuncia nei loro rapporti interni (Cass. 1476/1971; Cass. 1474/1969). In linea di principio invece, secondo la comune opinione, va esclusa la possibilità di simulazione per gli atti privi di natura negoziale. In pratica, il quadro è ben più composito, frutto anche della diversità di posizioni circa la sussistenza della natura negoziale nelle varie ipotesi di atto. Così, ad esempio, la giurisprudenza ha concluso che la dichiarazione del coniuge non acquirente richiesta al fine di escludere un bene immobile o mobile u.c. registrato dalla comunione legale (art. 179 ) può avere natura negoziale se esprime la condivisione dell’intento dell’altro coniuge di destinare alla propria attività personale il bene acquistato ovvero può avere natura (non negoziale) ricognitiva e portata meramente confessoria (Cass. 22755/2009), nel qual caso non è soggetta ad azione di simulazione, ma unicamente ad azione di accertamento del falso unilaterale o concordato (Trib. Napoli 17 novembre 1993). La giurisprudenza in tema di simulazione dell’atto di quietanza imposta la questione in termini differenti senza affrontare in via diretta il problema della sua natura negoziale, poiché il più delle volte, esaurendo e risolvendo la vicenda della rilevanza della simulazione circa il contenuto della dichiara‐ zione contenuta nell’atto di quietanza sul piano meramente probatorio, giunge a riconoscere la sussistenza del divieto di prova testimoniale della simulazione. Le argomentazioni differenti che vengono addotte hanno comunque sullo sfondo un differente approccio in ordine alla natura nego‐ ziale della quietanza. Per un verso, nel quadro delineato dall’art. 1417, si sostiene che, in caso di simulazione dedotta da una delle parti per l’accer‐ tamento del negozio simulato lecito, oggetto della prova non è il contratto (o l’atto) simulato bensì il sottostante accordo simulatorio il quale, appun‐ to, si configura come uno di quei patti, anteriori o contestuali al documento che il combinato disposto degli artt. 2722 e 2726 vieta di provare con testimoni in contrasto con la documentazione scritta di pagamento (Cass. 9297/2012; Cass. 6877/2002) o ancora, sempre da una prospettiva che ammette la natura negoziale della quietanza, si afferma che, se il venditore, che nel contratto abbia rilasciato quietanza liberatoria per l’intero prezzo della vendita, chiede di provare di aver ricevuto soltanto parte del prezzo stesso, deve essere esclusa la possibilità che vi sia stata simulazio‐ ne del negozio di quietanza, dovendosi soltanto indagare sulla veridicità della dichiarazione unilaterale del venditore di aver ricevuto il prezzo integrale (Cass. 4522/1993). Per altro verso, la possibilità di contestare l’esistenza del pagamento attestato dalla quietanza, configurandosi questa come confessione stragiudiziale tra le parti (proveniente dal creditore e rivolta al debitore), è stata limitata soltanto alla prova di quei fatti (errore di fatto o violenza) richiesti dall’art. 2732 per far venir meno l’efficacia della confessione, con esclusione perciò della simulazione (Cass. 15380/2010; Cass. 18882/2007). Trova così ulteriore conferma che l’esistenza dell’accordo simu‐ latorio, in forza del quale il negozio che si fa apparire deve restare improduttivo di effetti, costituisce il tratto essenziale dell’istituto della simulazione. In assenza di questo tratto essenziale, infatti, non si ha simula‐ zione ma, al più, potrebbe aversi il caso di una mera riserva mentale da parte dell’autore dell’atto, come tale irrilevante per il diritto anche se conosciuta dal destinatario dell’atto medesimo. ■ 4. Quanto agli effetti tra le parti dell’atto simulato, la legge detta regole distinte a seconda che, in base all’accordo simulatorio, si abbia «simulazione relativa» ovvero «simulazione assoluta». In quest’ultima ipotesi, si è visto che «il contratto simulato non produce effetto tra le parti» (art. 14141). È evidente che la norma non fa altro che dare rilevanza all’accordo simulatorio, ossia alla reale intesa tra le parti che, come sappiamo, è diretta a costituire un contratto meramente apparente il quale, appunto, non deve deter‐ minare alcuna modificazione della realtà giuridica a esso preesi‐ stente. Se una delle parti, contrariamente all’intesa simulatoria, pretende di esercitare i diritti di cui essa appare divenuta titolare, l’altra parte può difendersi promuovendo un’azione giudiziaria (detta «di simulazione») diretta a ottenere dal giudice la dichiarazione che l’atto era stato simulato, ossia che era meramente apparente e dunque privo di efficacia. L’azione di simulazione ha, pertanto, carattere dichiarativo diretta, come è, a ottenere dal giudice un provvedimento di accertamento della realizzata simulazione a opera delle parti. Quanto appena enunciato consegue a una posizione consolida‐ ta, in particolare nella giurisprudenza, che qualifica il contratto simulato come «contratto nullo», benché il dato normativo testuale (art. 14141) faccia riferimento a una mera inefficacia del contratto simulato. L’azione diretta a fare accertare la natura simulata del contratto va dunque sottoposta alla disciplina generale dell’azione di nullità e, in specie, a quella in ordine alla legittimazione ad agire e alla rilevabilità d’ufficio dal giudice (art. 1421) nonché a quella relativa alla sua imprescrittibilità (art. 1422). Quando si versi in ipotesi di simulazione relativa, e ferma sem‐ pre l’inefficacia del contratto simulato (o apparente), ha effetto tra le parti il contratto dissimulato, «purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma» (art. 14142). È chiaro che il legislatore del codice ha inteso esplicitare una regola operazionale ed ha così evitato di addentrarsi in una faticosa ricerca di coerenza con le categorie dogmatiche in tema di invalidità negoziale. Questo orientamento pragmatico si è rivelato, lungo il corso del tempo, assai utile per il lavoro svolto dai giudici che non hanno esigenze di genere classificatorio e, dunque, puntualmente si uniformano all’idea tradizionale – sostenuta in via generale, ossia senza alcuna distinzione tra «simulazione relativa» ovvero «simulazione assoluta» [stolfi 1980, 527] – della nullità alla quale si accompagnano la rilevabilità d’ufficio della simulazione, la tenden‐ ziale non convalidabilità e l’imprescrittibilità dell’azione [sacco-de nova 2004, 668]. Ciò non toglie però che in epoca a noi più vicina l’analisi dei profili dogmatici ha condotto ad affermare che il contratto simulato appare collocarsi in una posizione intermedia tra la nullità e l’annullabilità accanto alla rescissione, alla risoluzione e alla revocazione [gentili 1982]. Per avere efficacia, dunque, il contratto dissimulato deve pre‐ sentare non soltanto tutti i requisiti che sono prescritti dalla discipli‐ na generale del contratto (artt. 1325 ss.) ma senza dubbio questi ultimi, a loro volta, devono essere conformi ai caratteri cui il legisla‐ tore ne subordina la validità. Si può ricordare, ad esempio, che la causa del contratto simulato non deve avere natura illecita (art. 1343) e non deve nemmeno essere reputata tale, ciò che può senz’altro verificarsi allorché il contratto (dissimulato) abbia costitui‐ to «il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa» (art. 1344). L’operazione negoziale realizzata in frode alla legge è anche quella posta in essere a danno dei creditori, sicché, ai fini della responsabilità dell’unico azionista di società per azioni, si è giunti a parificare l’interposi‐ zione reale di persona intestataria di azioni all’interposizione fittizia, in quanto attuata in frode alla legge e pertanto nulla (Cass. 7152/1983). È allora chiaro che il contratto dissimulato il quale non dovesse presentare i requisiti dalla legge richiesti per la sua validità, sarà dichiarato nullo (ed evidentemente sarà inefficace) dal giudice e al contempo, come è ovvio, nemmeno il contratto simulato produrrà alcun effetto tra le parti. A ben vedere, allora, la disposizione sugli effetti della simulazio‐ ne tra le parti (art. 1414) detta nel suo complesso una regola giuridi‐ ca univoca, nel senso che, in entrambi i casi ivi indicati, la legge dà rilevanza alla reale volontà delle parti contraenti così come essa è stata versata nell’accordo simulatorio (o nel contratto dissimulato). Va peraltro considerata la differenza fondamentale che corre tra l’azione diretta ad accertare la simulazione, di cui si è detto, e l’azione tendente a ottenere l’adempimento del contratto dissimulato. La prima, indipendentemente dalla prospettazione della domanda di simulazione come assoluta, che importa senz’altro un accertamento negativo, ovvero come relativa, è appunto imprescrit‐ tibile poiché viene intesa – lo si è poc’anzi ricordato – come azione di accertamento della nullità del contratto simulato. Diversamente, l’azione promossa per ottenere dal giudice l’affermazione del diffe‐ rente assetto di rapporti fra le parti contenuto nel contratto dissimu‐ lato, rispetto a quello che appare dal contratto simulato, ha natura costitutiva, con la decisiva conseguenza che è sottoposta alla prescrizione ordinaria decennale o, comunque, ai termini di prescri‐ zione secondo le regole proprie degli specifici diritti che si intendono affermare in quanto sorti dal negozio dissimulato ovvero pregiudicati da quello simulato. In ordine ai termini di prescrizione dell’azione, sulla scorta di un autore‐ vole insegnamento [stolfi 1972, 580], la giurisprudenza pone in termini netti la distinzione tra la natura dichiarativa e la natura costitutiva della relativa azione, senza dare rilievo, sotto questo profilo, alla differenza tra «simulazione assoluta» o «simulazione relativa». Si è affermato infatti che anche l’azione di simulazione relativa, come quella di simulazione assoluta, è imprescrittibile ed ha carattere dichiarativo se, anziché tendere ad accertare il negozio dissimulato per farne valere gli effetti, è volta ad accertarne la nullità (Cass. 18025/2003; Cass. 7682/1997, con riguardo all’imprescrittibilità dell’azione con la quale l’attrice chiede l’imputazione o il rientro nella massa ereditaria di beni venduti a terzi, in base all’as‐ sunto che gli atti di compravendita dissimulano una donazione a un sogget‐ to diverso, nulla per difetto di forma); in coerenza con questo orientamento, si riconosce carattere dichiarativo, e dunque l’imprescrittibilità, all’azione di simulazione relativa per interposizione fittizia di persona, poiché essa non mira a far riconoscere gli elementi costitutivi del negozio dissimulato, ma è promossa al fine di identificare il vero contraente celato dall’interposto e perciò essa è in rapporto di derivazione immediata dall’accertamento della simulazione (Cass. 2225/1984), con un precedente specifico circa l’azione diretta a far dichiarare la simulazione soggettiva dell’atto costitu‐ tivo di società per azioni per interposizione fittizia di persona (Trib. Napoli 30 dicembre 1981). Per contro, la prescrizione ordinaria decennale può colpire l’azione di simulazione relativa ove con essa si tenda a fare valere un diritto che discenda immediatamente dal negozio dissimulato o che ne presupponga l’esistenza e l’efficacia (Cass. 14562/2004; Cass. 11215/1991; Cass. 4569/1979); ne consegue che l’avvenuta prescrizione dei diritti che presuppongono l’esistenza giuridica del negozio dissimulato può comunque far venir meno l’interesse a promuovere l’azione (impre‐ scrittibile) di accertamento della simulazione del negozio apparente (Cass. 382/1997; Cass. 4986/1991). Per le parti del contratto simulato, che di norma è la fonte dei diritti che si fanno valere in giudizio, la prescrizione ordinaria decorre dalla data della stipulazione di questo (Cass. 6493/1986). ■ 5. Ricorrente è l’affermazione che l’essenza della disciplina del codice in materia di simulazione consista nelle disposizioni riguar‐ danti gli effetti della simulazione nei confronti dei terzi (art. 1415) nonché nelle norme che regolano i rapporti con i creditori (art. 1416). È stato accortamente notato che il linguaggio del legislatore può apparire di tipo processuale giacché fa capo al concetto di «opponibilità» (della simulazione); tuttavia, non vi è dubbio che le due norme citate dettano (e quindi sono) regole di diritto sostanziale. Certamente la disciplina della simulazione rispetto ai terzi e ai rapporti con i (terzi) creditori costituisce un nucleo fondamentale nel sistema di regole previsto per l’istituto, ma deve comunque essere letta come parte di un corpo unitario di disciplina. Le due disposizio‐ ni infatti dettano precetti che, a seconda dei casi, confermano ovvero derogano alla regola base che governa l’intero impianto normativo in materia di simulazione; vale a dire la regola secondo cui la reale intesa tra le parti deve prevalere su quella apparente (art. 1414). Ebbene, va anzitutto chiarito che i terzi (inclusi i creditori) sono soggetti estranei all’assetto di interessi apparente, ma che sono da questo coinvolti in quanto titolari di una situazione giuridica influen‐ zata dall’entità della sfera giuridico patrimoniale di qualcuno fra i contraenti. Si comprende allora che il terzo, in funzione dell’interes‐ se vantato verso l’una o l’altra parte del contratto simulato, possa essere intenzionato a far prevalere la realtà sull’apparenza o vice‐ versa: in definitiva i terzi sono titolari di interessi potenzialmente contrapposti sicché la legge, al fine di dirimere il conflitto, stabilisce se, e in presenza di quali presupposti, debba essere tenuta ferma, ovvero derogata, la suddetta regola fondamentale. La necessità di un interesse specifico, in capo al terzo che agisce per l’accertamento della simulazione, esclude il mero riferimento alla legittima‐ zione generale prevista per l’azione di nullità (1421), poiché l’attore deve pur sempre dimostrare la presenza di un proprio concreto interesse ad agire secondo le norme generali e l’art. 100 c.p.c., non potendo l’azione di simulazione essere proposta sotto la specie di un fine generale di attuazio‐ ne della legge (Cass. 338/2001). La prima indicazione normativa consiste nell’attribuire al terzo, che subisce un pregiudizio dal contratto simulato (art. 14152), la possibilità di sottoporre quest’ultimo all’azione di simulazione, onde far prevalere la reale intesa su quella apparente. Si tratta, in tutta evidenza, di una conferma ulteriore del medesimo principio cui si ispira la regola base in precedenza dettata con riguardo all’efficacia, tra le parti, del contratto simulato (art. 1414). Si pone invece come eccezione a questo principio, giacché essa perviene a far prevalere l’apparenza sulla realtà, l’altra regola esplicitata dalla stessa disposizione (art. 14151) a tutela dei terzi che (a titolo oneroso oppure a titolo gratuito stante l’assenza nella norma di alcuna distinzione) hanno acquistato diritti dal titolare apparente. In questo caso la protezione del terzo corrisponde a quella che, anche in altre situazioni, il codice accorda all’acquirente a non domino, qualificato dalla buonafede (soggettiva), salvi gli effetti dei meccanismi di pubblicità. La preferenza verso coloro che hanno acquistato diritti dal titolare apparente ignorando, o non potendosi avvedere con la normale diligenza, che l’acquisto del loro dante causa era avvenuto in base a un atto simulato, trova infatti spiegazione nel principio della tutela dell’affidamento incolpevole (altra linea di pensiero preferisce piuttosto porre l’accento sull’esi‐ genza di sicurezza nella circolazione dei beni). La scelta così compiuta dal legislatore realizza poi una deroga ulteriore a un altro principio generale che viene espresso dalla regola per la quale se un atto traslativo di diritti è inefficace, sono inefficaci anche i succes‐ sivi trasferimenti (nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet). In capo al terzo, la buonafede si presume ed è sufficiente che sussista al tempo del suo acquisto (art. 11473), a nulla rilevando che egli abbia successivamente avuto la conoscenza della simula‐ zione; il che sposta sulla parte processuale che vuole opporre l’avvenuta simulazione l’onere di provare la malafede del terzo acquirente. La regola ora enunciata deve comunque essere coordinata con le disposizioni in tema di pubblicità, sicché deve escludersi la buonafede soggettiva in capo al terzo quando egli sia stato in grado di conoscere che il bene sarebbe potuto entrare solo fittiziamente nella sfera giuridica del suo dante causa; ciò che propriamente si verifica come conseguenza della trascrizione della domanda giudi‐ ziale di simulazione (art. 14151), qualora l’atto simulato sia a sua volta incluso tra quelli soggetti a trascrizione (artt. 26524 e 2643). Qualora invece la natura dell’oggetto della domanda giudiziale di simulazione ne determinasse l’esclusione dall’obbligo di trascri‐ zione, la prevalenza dell’acquisto va decisa in base alla regola generale sul possesso di buonafede (art. 1153), salvi gli effetti dell’usucapione. Al terzo acquirente che, nel conflitto con l’altro, dovesse cedere il proprio acquisto, residua l’azione di danni contro il proprio dante causa, responsabile in quanto parte dell’atto simula‐ to. Va posta in luce l’apparente antinomia tra la disciplina della trascrizio‐ ne delle domande giudiziali (art. 2652) e la collocazione sistematica del contratto simulato nella cornice della categoria della «nullità» nonché la conformazione, variamente argomentata da parte della giurisprudenza, dell’esercizio dell’azione di simulazione ai canoni normativi che governano l’azione di nullità (ad es., in tema di prescrizione). L’azione di simulazione riceve infatti dal legislatore del codice un differente trattamento rispetto a quella diretta a far accertare la nullità: la sentenza che dichiara la simula‐ zione non pregiudica i diritti acquisiti da terzi in buonafede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda di simula‐ zione (art. 2652, n. 4); diversamente, la sentenza dichiarativa della nullità non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buonafede con contratti trascritti successivamente a quello dichiarato nullo e precedentemente alla trascri‐ zione della domanda di nullità, sempreché quest’ultima sia stata trascritta decorsi 5 anni dalla prima trascrizione [del contratto supposto nullo] (art. 2652, n. 6). In realtà, non bisogna enfatizzare le ricadute sistematiche che la differente scelta legislativa comporterebbe sul piano dell’individuazione del vizio di invalidità da cui sarebbe affetto il negozio simulato, in particola‐ re nel senso di un indice normativo contrario al riconoscimento di un’ipotesi di nullità. La disciplina della trascrizione delle domande giudiziali soddisfa, infatti, istanze tra loro del tutto eterogenee sicché l’efficacia della loro trascrizione non risponde a una logica unitaria ma, appunto, le domande specificamente indicate devono rendersi pubbliche «agli effetti per ciascu‐ 1 na di esse previsti» (art. 2652 ). Nel caso della domanda di simulazione, lo scopo specifico (e circoscritto) della trascrizione è quello di fissare il momento nel quale cessa l’applicabilità delle disposizioni (artt. 1415 e 1416) poste a tutela dei terzi [stolfi 1980, 569]. Ulteriore eccezione alla regola base, secondo cui la reale intesa tra le parti deve prevalere su quella apparente (art. 1414), viene posta con riguardo ai creditori dell’apparente titolare (simulato acquirente) i quali possono far prevalere l’apparenza sulla realtà qualora (purché sempre in buonafede, secondo quanto sopra osservato) abbiano posto in essere atti di esecuzione (pignoramen‐ to) sui beni che furono oggetto del contratto simulato (art. 14161). Uguale tutela consistente nell’inopponibilità della simulazione, che dunque concretizza altra eccezione alla detta regola base, deve essere riconosciuta (sempre subordinatamente alla loro buonafede) ai creditori del titolare apparente che abbiano acquistato un diritto reale di garanzia (pegno o ipoteca) sul bene fittiziamente trasferito. In entrambe le due ultime situazioni, l’eccezione si giustifica perché i creditori del simulato acquirente sono portatori di un inte‐ resse specifico che si incentra proprio sul bene oggetto dell’atto simulato e, pertanto, essi sono dalla legge preferiti ai creditori del simulato alienante i quali, invece, hanno un interesse soltanto generico siccome fondato sul canone generale in tema di responsa‐ bilità patrimoniale del debitore (art. 2740). Differente è il caso nel quale gli interessi in contrapposizione siano riconducibili ai creditori (meramente) chirografari delle parti del contratto simulato. Invero, nel conflitto tra interessi che sono tutti ugualmente generici (art. 2740), rispetto ai creditori del simulato acquirente, sono preferiti i creditori del simulato alienante (e dunque prevale la realtà sull’apparenza) soltanto quando la ragione di credito propria di questi ultimi sia sorta anteriormente all’atto simulato (art. 14162). Questa soluzione poggia sulla semplice constatazione che i credito‐ ri del simulato alienante fanno affidamento sulla realtà della consi‐ stenza patrimoniale del proprio debitore come risulta essere al tempo nel quale sorge il loro credito. Se il credito è sorto dopo il contratto simulato, i creditori chirografari del simulato alienante fanno pur sempre affidamento sulla realtà del patrimonio del loro debitore come eventualmente diminuito in seguito alla fuoriuscita dei beni conseguente all’operazione negoziale simulata. Ne conse‐ gue, appunto, l’assenza di tutela per i creditori chirografari del simulato alienante. In questa circostanza, infatti, non vi è ragione di posporre (e dunque prevale) la posizione di coloro che sono credito‐ ri chirografari del simulato acquirente i quali, a loro volta, hanno fatto affidamento sulla consistenza patrimoniale del loro debitore come risulta essere al momento della nascita del loro credito. In ciò può ravvisarsi la giustificazione della scelta normativa (art. 14162) che limita a un’ipotesi specifica la tutela per i creditori chirografari del simulato alienante e finisce, negli altri casi, per accordare favore alle ragioni dei creditori chirografari del simulato acquirente. ■ 6. Nel codice la disciplina dettata per la prova della simulazione tiene conto della notevole asimmetria di posizioni fra i terzi estranei all’atto simulato e le parti del medesimo giacché, per sua natura, l’accordo simulatorio viene celato a coloro che non vi hanno parteci‐ pato. Ecco perché la prova che un contratto è simulato viene agevo‐ lata per i terzi e per i creditori, mentre è resa ben più severa per le parti. In particolare, in conformità a una regola generale in tema di prova testimoniale (art. 2722), quest’ultima – e di conseguenza quella per presunzioni (art. 27292) – è preclusa alle parti del con‐ tratto apparente rispetto al quale, invero, l’accordo simulatorio è certamente anteriore oppure contemporaneo; pertanto, se non hanno prova scritta, le parti potranno soltanto ricorrere alla confes‐ sione ovvero deferire il giuramento; ferme come è ovvio le eccezioni normative al divieto della prova testimoniale (art. 2724). È stato però ritenuto ammissibile l’interrogatorio formale, che abbia per oggetto negozi per i quali non sia richiesto l’atto scritto ad substantiam, sia perché escluso dal divieto di prova per testimoni, implicitamente fissato dal codice (art. 1417) per le parti, sia perché mezzo istruttorio volto a provocare la confessione giudiziale della controparte e, dunque, a ricercare la verità reale contro quella formale risultante dall’atto scritto; se le risposte date dall’interessato in sede di interrogatorio rendono verosimile la simulazione, diviene poi ammissibile la prova testimoniale in deroga al normale divieto (Cass. 19435/2008). Alla regola ora esposta fa eccezione l’ipotesi in cui le parti intendano provare l’illiceità del contratto dissimulato, dove la prova, sia testimoniale che presuntiva, è infatti dalla legge ammessa senza limiti (art. 1417), e ciò chiaramente allo scopo di favorire l’emersione, e la conseguente dichiarazione di nullità, dell’accordo nascosto qualora esso sia illecito. Nel caso in cui venga dedotta la nullità di un contratto preliminare di compravendita siccome dissimulante un patto commissorio vietato dalla legge (art. 2744), la simulazione costituisce soltanto causa petendi, cioè il fatto rivelatore del vietato patto commissorio posto a base dell’azione di nullità del contratto, sicché il relativo accertamento non è soggetto alle limitazioni della prova testimoniale (art. 1417), in quanto volta a far valere l’illiceità ex lege del negozio dissimulato (Cass. 8325/1990). L’esigenza di perseguire il negozio illecito ha peraltro indotto i giudici a far convergere la simulazione relativa verso l’illiceità parziale nella materia, ad esempio, delle locazioni abitative ove il contratto includa patti diretti ad aggirare le disposizioni di legge cogenti relative alla durata e al canone, realizzandosi così una fattispecie negoziale simulata relativamente che permette alle parti contraenti di provare con testimoni (art. 1417) il contratto dissimulato (parzialmente illecito) nel quale le clausole nulle sono sostituite di diritto da quelle di legge (Cass. 5371/1995). La prova per testimoni (nonché quella per presunzioni) è pure ammessa senza limiti se la domanda di simulazione venga proposta dai creditori o dai terzi (art. 1417) in considerazione, appunto, delle difficoltà che costoro incontrano per procurarsi l’eventuale documento scritto, e tenuto nascosto, nel quale è versato l’accordo simulatorio. La medesima ragione è alla base della diffusa convinzione che, in applicazione della regola generale, ammette i terzi a provare con ogni mezzo la simulazione delle convenzioni matrimoniali, anche quando la contro dichiarazione non ha la forma scritta richie‐ sta dalla legge (art. 1642), sicché le limitazioni probatorie poste da quest’ultima devono intendersi «valevoli» solo per le parti delle convenzioni simulate. Questa interpretazione evita un ingiustificato trattamento pregiudizievole per i terzi ma pone il problema, specie nei casi di simulazione relativa, che attraverso la libertà di prova si finisce per dare rilevanza giuridica a patti dissimulati privi di qualun‐ que requisito di forma, in evidente contrasto con il sistema di regole formali, alquanto intense, che governa la disciplina legale delle convenzioni matrimoniali. Ipotesi classica di applicazione delle disposizioni in tema di simulazione per la tutela del diritto proprio di soggetti terzi, è quella dell’erede di una parte contraente il quale chieda la dichiarazione di simulazione nella qualità di legittimario e allo scopo di far valere il proprio diritto alla reintegrazione della quota di riserva. In questo caso il legittimario si pone come terzo rispetto ai contraenti (art. 1417) e, pertanto, è ammesso a provare con ogni mezzo la simulazione del negozio dispositivo posto in essere dal de cuius. Tuttavia la qualità di terzo sussiste soltanto quando il legittimario impegna in giudizio il suo titolo di «legittimario», il solo in base al quale la legge gli attribuisce una legittimazione speciale a opporsi alla stessa volontà del de cuius. Diversamente invece allorché l’erede, che sia anche legittimario, abbia di mira l’acquisizione al patrimonio ereditario di un bene che ha formato oggetto di un negozio dispositivo simulato cui ha partecipato il de cuius; in questo caso l’erede impugna di simulazio‐ ne il negozio non quale legittimario ma nella qualità di erede, successore a titolo universale: egli non può essere considerato terzo ed è perciò soggetto alle limitazioni di legge in tema di prova testimoniale della simulazione (artt. 1417 e 2722), in quanto si vale di un titolo che lo pone nell’identica situazione giuridica del suo dante causa. Dall’esclusione della qualifica di «terzo» per l’erede (ancorché legitti‐ mario) discende che a lui può essere opposta la contro dichiarazione scritta proveniente dal de cuius; viceversa ciò non sarebbe possibile e anzi, se terzo, non gli si potrebbe opporre nemmeno la stessa simulazione (art. 1415) mentre, in linea generale, non si dubita che sia la simulazione sia le contro dichiarazioni sono opponibili all’erede che agisce in quanto succes‐ sore a titolo universale [barbero 1955, 407]. Per altro, le limitazioni alla prova testimoniale della simulazione (artt. 1417 e 2722), non avendo natura pubblicistica ed essendo dirette esclusi‐ vamente alla tutela dell’interesse delle parti medesime, in caso di loro inosservanza, non sono rilevabili d’ufficio nel giudizio di merito, né possono farsi valere, per la prima volta, nel giudizio di legittimità (Cass. 7674/1986). Sulla possibilità di attribuire la qualifica di «terzo» all’erede legittimario, la giurisprudenza afferma che, contestualmente all’azione di dichiarazione della simulazione, occorre che sia proposta anche la domanda di riduzione per la reintegrazione della quota di legittima: l’erede legittimario è terzo rispetto ai contraenti quando agisca a tutela del proprio diritto all’intangibili‐ tà della quota di riserva, proponendo in concreto una domanda di riduzione, nullità o inefficacia dell’atto dissimulato poiché, in questo caso, la lesione della quota di riserva assurge a causa petendi accanto al fatto della simulazione; né assume rilievo il fatto che egli, oltre all’effetto di reintegrazione, riceva, in quanto sia anche erede legittimo, un beneficio dal recupero di un bene al patrimonio ereditario (Cass. 24134/2009, in un caso di vendita che cela una donazione; Cass. 10849/1996; Cass. 5947/1986). Si è anche affermato che il legittimario, il quale agisca per l’accertamento della simulazione (assoluta) ovvero della nullità (sostanziale o formale) del negozio dissimulato, non ha bisogno di esperire conte‐ stualmente la domanda di riduzione per essere considerato terzo ai fini dei limiti di prova, poiché l’accoglimento della domanda di simulazione (o di nullità) comporta la declaratoria di appartenenza del relativo bene all’asse ereditario (Cass. 6315/2003); mentre la domanda di riduzione deve ritener‐ si necessaria nel caso l’atto dissimulato sia valido (Cass. 2836/1997, in Vita not., in un caso di donazione, supposta nulla per difetto dei requisiti di forma, dissimulata da una vendita per scrittura privata); resta chiaro però, con speciale riguardo ai casi di negozio simulato valido (ad es., negozio traslativo a titolo oneroso) che mascheri un negozio invalido (ad es., donazione o altra liberalità), che l’avvenuta prescrizione dell’azione di riduzione per inerzia dell’interessato, rende inammissibile l’azione dichia‐ rativa della simulazione (che si ritiene imprescrittibile ove diretta ad accer‐ tare la nullità dell’atto dissimulato) poiché, l’azione dichiarativa e l’azione di riduzione stanno tra loro in rapporto da mezzo a fine e, quindi, non si può ricorrere al mezzo se non è possibile raggiungere il fine [stolfi 1969, 147]. Circa le condizioni per l’esercizio dell’azione di riduzione (art. 564), è necessaria l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, solamente se il legittimario propone un’azione di simulazione che risulti essere funzionale all’esperimento della domanda di riduzione, ancorché quest’ultima non sia stata proposta contestualmente alla prima (Cass. 17896/2011; Cass. 4400/2011). Si è pure sostenuto che la riduzione può essere richiesta anche implicitamente, in quanto la domanda giudiziale deve essere interpretata non solo nella sua formulazione letterale, ma anche, e soprattutto, nel suo sostanziale contenuto e con riguardo alle finalità che la parte intende perseguire (Cass. 5700/1995). Altro significativo problema concreto, circa il regime probatorio della simulazione, si pone in ordine alla domanda giudiziale di revocatoria fallimentare, che abbia a oggetto la cessione di diritti a titolo oneroso, proposta dal curatore del fallimento in ragione del notevole squilibrio delle prestazioni a danno del fallito (art. 67 l. fall.). Qui il problema del regime probatorio applicabile riguarda il contraente in bonis che, convenuto nel giudizio, intenda evitare la soccombenza attraverso la dimostrazione di avere versato un corrispettivo superiore a quello indicato nell’atto impugnato il quale, appunto, sarebbe simulato in relazione soltanto al prezzo effettiva‐ mente pagato. In questi casi, il contraente del fallito che, al fine di evitare la revocatoria, oppone al fallimento, in via di eccezione, la simulazione (parziale) del prezzo, deve fornire la prova attraverso atto scritto di data certa (art. 2704) anteriore alla dichiarazione di fallimento; in quanto parte contraente dell’atto simulato, gli è infatti preclusa la prova per testimoni (artt.1417 e 2722). Quanto alla posizione del curatore, che ha promosso la revocatoria fallimentare e deve difendersi dall’eccezione di simulazione del prezzo, la giurisprudenza attuale si orienta nel ricondurla a quella di terzo semplice. Egli infatti non subentra nella posizione sostanziale o processuale del fallito e, pur essendo terzo quale organo pubblico della procedura, non è né terzo (qualificato) che in buonafede abbia acquistato diritti dal titolare apparente 1 (art. 1415 ) e nemmeno creditore del titolare apparente che in buonafede abbia compiuto atti di esecuzione sui beni oggetto del contratto simulato 1 (art. 1416 ) (Cass. 4729/1997; Cass. 8500/1996). Ferma la tempestività della trascrizione della domanda di simulazione (art. 1415), la scrittura privata, prodotta dal convenuto con azione revocato‐ ria fallimentare a dimostrazione di aver versato un corrispettivo effettivo superiore a quello indicato nell’atto impugnato, è opponibile al curatore soltanto quando presenti data certa (art. 2704) anteriore alla dichiarazione di fallimento (Cass. 2256/1997; Cass. 6577/1997; Cass. 5792/1993; contra, Cass. 3857/1996) e quando, oltre alla data certa, il contenuto specifico del documento (o della serie di documenti tra loro ricollegabili) permetta in modo incontestabile di collegare l’atto solutorio al negozio di cui costitui‐ rebbe esecuzione (Cass. 2315/2013, con riguardo a titoli di credito all’ordi‐ ne i quali, benché con data certa anteriore al fallimento, non sono idonei a dimostrare, per la loro astrattezza, il necessario nesso tra il versamento monetario e il contratto oggetto della domanda revocatoria). Sezione V. La rescissione 1. Squilibrio e rimedi in generale. - 2. Il contratto concluso in stato di pericolo. - 3. La rescissione per lesione. - 4. Il regime dell’azione. - 5. L’offerta di modificazione del contratto. - 6. Rescissione e usura. - 7. Quattro questioni controverse. ■ 1. La rescissione è un’impugnativa del contratto congegnata per ovviare a uno squilibrio genetico del sinallagma, squilibrio indotto dal contesto circostanziale nel quale avviene la formazione del contratto [carpino ???, 6 ss.; vitucci ???, 433 ss.; schiavone ???, 63 ss.). Per effetto di specifiche circostanze esterne – lo stato di pericolo e quello di bisogno – la determinazione volitiva della parte lesa non è infatti libera bensì indotta ad accettare delle condizioni inique. Dunque una situazione complessa, con una volontà obnubi‐ lata da fatti esterni che esita in uno squilibrio tra le prestazioni, classificabile come un difetto genetico della causa. Lo stato soggettivo di costrizione della parte lesa non è infatti indotto dalla controparte, che piuttosto ne approfitta allo scopo di lucrare un vantaggio sproporzionato. E di qui una disciplina che, se prossima a quella dell’annullabilità, per molti aspetti se ne distacca. Come l’annullabilità, infatti, il contratto rescindibile è efficace sin quando non interviene una sentenza che caduca retroattivamente gli effetti: e allo stesso modo la rescissione è un rimedio che postula la domanda della parte lesa. Ma, a differenza dell’annullabilità, il contratto rescindibile non è convalidabile, la relativa azione si prescrive in 1 anno (e non in 5), per di più con un diverso momento di decorrenza (art. 14422) e la relativa eccezione non è imprescritti‐ bile (quand’anche il contratto non sia stato ancora eseguito). Quindi un regime assolutamente spurio: e la tendenziale inop‐ ponibilità ai terzi, diversamente da quanto prescritto nell’ipotesi di contratto annullabile, rende assai difficile un suo inquadramento nell’area dell’invalidità. Al tempo stesso, però, neanche ha un gran senso sostenere che la rescissione è funzionale a garantire un’equi‐ valenza oggettiva delle prestazioni contrattuali: sin quando c’è una libera e responsabile determinazione volitiva, sono le parti infatti a definire l’equilibrio dello scambio (c.d. «principio di equivalenza soggettiva delle prestazioni»). Gli è piuttosto che, tramite la rescis‐ sione, l’ordinamento intende soccorrere la determinazione negozia‐ le di quella parte che, impedita da fatti esterni a contrarre respon‐ sabilmente, non è addivenuta alla pattuizione di un giusto prezzo di mercato. Dunque non una disciplina per la tutela del contraente debole quanto a garanzia di un contrattare secondo logiche di mercato [vitucci ???, 433 ss.]. D’altronde, in un contesto normativo nel quale è ormai dominante l’introduzione di correttivi alla fisiologi‐ ca ineguaglianza del potere contrattuale (art. 9 l. 192/1998, sull’abu‐ so di dipendenza economica), l’istituto della rescissione può conti‐ nuare ad avere una ragion d’essere se lo si declina non come un quarto vizio della volontà (art. 22 Progetto italo-francese delle obbligazioni del 1927) ma quale impugnativa volta a neutralizzare forme di abuso, nel procedimento formativo del contratto, ostative al corretto svolgersi dell’autonomia contrattuale. In quest’ottica, di là dalla vischiosità della formulazione, l’art. 4: 109 pecl reprime il comportamento abusivo del contraente diretto a ottenere un «ingiusto profitto o un vantaggio iniquo» approfittando dello stato di biso‐ gno, debolezza e inesperienza della controparte. Mentre, nella medesima fattispecie, il § 138, abs. 2, bgb statuisce la nullità per immoralità del contratto. Ai sensi dell’art. 14484 non possono essere rescissi per lesione i contratti aleatori: e nell’ambito di applicazione della norma vanno ricompresi sia i contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti sia quelli contraddistinti da un’unilateralità o una bilateralità dell’alea (Cass. 3694/1986) [lanzillo e riccio ???, 113]. Ma il dettato normativo va interpretato perché se la sproporzione non è imputabile all’alea ma preesiste alla stipula del contratto, allora il rimedio della rescissione per lesione troverà applicazione. Se infatti un soggetto stipula un contratto di assicurazione pattuendo un premio di importo doppio rispetto a quello che il mercato contempla per il genere di rischio assicurato, c’è una lesione rilevante ai fini rescissori. È diverso il caso, cui 4 l’art. 1448 in realtà si riferisce, del pregiudizio successivo all’alea assunta: come nell’ipotesi del soggetto, assicuratosi senza però che il rischio si sia convertito in danno, il quale in realtà esegue una prestazione pecuniaria senza ricevere alcunché. Ma qui la sproporzione tra le prestazioni è l’effetto (sfavorevole) dell’alea assunta: e la rescindibilità sarebbe da escludere 4 anche in difetto dell’art. 1448 [roppo ???, 897]. ■ 2. L’art. 14471, che legittima all’impugnativa la parte che abbia negoziato a condizioni inique per sottrarre se stesso (o altri) dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, subordina la rescis‐ sione del contratto al contemporaneo ricorrere di tre requisiti: lo «stato di pericolo», lo «squilibrio contrattuale» in danno della parte in pericolo, la «malafede» della controparte. a) Lo stato di pericolo, definito come la necessità di salvare sé (o un terzo) dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, deve essere causalmente connesso al contratto: nel senso che il soggetto in stato di pericolo si serve del contratto al solo scopo di neutralizzarlo [mirabelli ???, 148; sesta ???, 807] (Cass. 2471/1954). Il pericolo deve inerire alla persona giacché il contratto concluso per la necessità di scongiurare l’imminente perdita di uno o più beni, a motivo di una minacciata confisca o per il timore di devastazioni, non è rescindibile ai sensi dell’art. 1447 ma in forza dell’art. 1448, il pericolo di danno al patrimonio integrando in realtà uno stato di bisogno [sacco ???, 597; roppo ???, 886; lanzillo-riccio ???, 72]. Il pericolo, imputabile sia a un evento naturale che a un fatto umano, può essere occasionato da un terzo – e allora la fattispecie che si profila è quella della violenza morale (art. 1434) – o dalla stessa parte che poi negozia. Non ha alcun rilievo infatti la circo‐ stanza che il pericolo sia stato volontariamente prodotto da chi poi lo subisce o fosse altrimenti evitabile, come prescritto, per lo stato di necessità rilevante quale esimente della responsabilità extracon‐ trattuale, dall’art. 2045. L’esempio classico è quello della scalata alpina intrapresa dal turista avventato nella sciente consapevolezza di non saper discendere senza l’ausilio di una guida, che poi do‐ manda un compenso esorbitante. In realtà la diversità di trattamento normativo fra l’art. 2045 e l’art. 1447 si spiega con il fatto che, mentre il primo si trova a contemperare la posizione dell’autore di un danno con quella di colui che lo subisce, il secondo disposto ha invece per oggetto una situazione nella quale, anziché compiere un illecito, un soggetto stipula proprio a motivo di un pericolo incom‐ bente di cui l’altra parte profitta per lucrare dei vantaggi iniqui [roppo ???, 886]. Il danno deve essere grave e tradursi in un pregiudizio tale che la necessità di evitarlo funga da motivo determinante del consenso: e, con l’applicazione analogica dell’art. 1435, la gravità viene solita‐ mente contestualizzata, apprezzandola in rapporto all’età, al sesso e alle condizioni della persona in pericolo [minervini ???, 1697]. In dottrina è invalsa l’idea che l’art. 1447 possa utilmente invocarsi anche per ovviare a situazioni di pericolo riguardanti il diritto all’onore, alla reputazione o alla riservatezza [roppo ???, 886; carpino ???, 24; lanzilloriccio ???, 72]. In ogni caso dovrà sempre trattarsi di un pericolo attuale, donde l’esclusione della rescissione per il caso di un pericolo soltanto putativo (o che non importi un danno grave). Gli è, infatti, che il contraente vittima di condizioni inique, per aver negoziato nell’erronea convinzione dell’esistenza di un pericolo, potrà impugnare il contratto per vizio del consenso, salvo pensare a una rescindibilità nel caso il contraente avvan‐ taggiato abbia riconosciuto l’errore. E se la riconoscibilità implica un rimando all’art. 1337, parrebbe invece da escludere che un pericolo putativo possa fondare una nullità del contratto per inutilità della prestazio‐ ne (così, invece, carresi ???, 2). Se poi c’è pericolo di un danno, minaccia‐ to nel caso non si addivenga alla stipula del contratto, troverà applicazione la disciplina della violenza morale (artt. 1434 e 1435). b) Il secondo requisito, le condizioni inique, implica uno squili‐ brio tra le prestazioni: che il legislatore, diversamente da quanto prescritto nel caso di rescissione per lesione, rimette qui alla valuta‐ zione discrezionale del giudice. Quindi secondo un apprezzamento caso per caso, rispetto al quale assumono rilievo una pluralità di circostanze: oggettive (il livello di rischio e il grado di destrezza necessario per ovviare al pericolo) e soggettive (la condizione economica delle parti). Non è da trascurare, in ogni caso, la circo‐ stanza che le condizioni inique potrebbero pure consistere nell’im‐ posizione di condizioni contrattuali particolarmente gravose. c) L’ultimo requisito si sostanzia nella malafede della contro‐ parte, la quale deve essere a conoscenza di un contrattare indotto dalla specifica volontà di sfuggire a un pericolo. Il che, mostrando per ciò stesso un intento di lucrare dei vantaggi iniqui, esclude possa accamparsi una tutela dell’affidamento [roppo ???, 887]. D’altra parte, ai sensi dell’art. 14472, il giudice che dispone la rescissione può, su espressa domanda della parte che ha approfit‐ tato, disporre un equo compenso per l’opera prestata. Il che, dando‐ si qui rilievo al valore economico della prestazione, ben si compren‐ de considerato che, per effetto della caducazione del contratto, nulla verrebbe più altrimenti a spettare a chi ha compiuto l’attività [marini ???, 895]. È molto discusso in dottrina, proprio in virtù di quanto dispone il comma 2, se l’ambito di applicazione dell’art. 1447, per il fatto che il pericolo qui inerisce alla stipula di un negozio avente a oggetto una prestazione di salvataggio, sia ristretto alla sola prestazione d’opera o involga qualsiasi tipo di contratto [sacco ???, 599]. L’interpretazione restrittiva meglio distingue lo «stato di pericolo» dallo «stato di bisogno» e fa refluire la rescindibilità di tutti i contratti aventi a oggetto un dare e un fare nel dispo‐ sto dell’art. 1448: quindi al fatto che la lesione sia ultra dimidium. Sicché, nell’ipotesi sintomatica dell’impellente esigenza di procurarsi un medicinale, si avrebbe come risultato una rescindibilità del contratto subordinata alla pattuizione di un prezzo eccedente la metà del valore di mercato del prodotto. Il che, in un’ottica di effettività della tutela rimediale, non sembra congruente. ■ 3. Quando la stipula di un contratto è dipesa dallo stato di biso‐ gno di una parte, bisogno di cui la controparte ha approfittato per trarne vantaggio, l’art. 1448 dispone il rimedio generale della rescis‐ ssione per lesione. La rescissione, per altro, non è ammessa ove la lesione non ecceda la metà del valore che la prestazione eseguita (o promessa) dalla parte danneggiata aveva al momento della stipula del contratto. 5 Fa eccezione, per espresso richiamo dell’art. 1448 , l’art. 763 riguardo alla rescissione della divisione. Una disposizione, questa, che si iscrive per altro nell’ambito di una disciplina specifica dettata per la divisione dell’ere‐ dità. Diversamente infatti da quanto dispone l’art. 1448, nella divisione dell’eredità lo squilibrio vale in sé, senza che rilevi cioè la conoscenza (e financo l’esistenza) di uno stato di bisogno (di uno dei coeredi); la divisione si può poi rescindere per lesione oltre il quarto e la relativa azione si prescrive entro 2 anni dalla divisione. Ammessa contro ogni tipo di atto che abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari, quest’azione di rescissione è per altro esclusa riguardo alla transazione che abbia posto fine alle questioni insorte proprio a causa della divisione 2 (art. 764 ; Cass. 20256/2009). Per altro l’esclusione della transazione discende dalla regola generale di cui all’art. 1970, nitido nell’escludere un’impugnativa della stessa per causa di lesione. La rescissione per lesione, rimedio tipico dei contratti a presta‐ zioni corrispettive, richiede, seconda una massima consolidata (Cass. 18040/2011; Cass. 12116/2003), la simultanea presenza di tre requisiti di pari rilievo: lo «stato di bisogno» del contraente leso, la lesione ultra dimidium e l’«approfitta mento» della controparte. a) Lo stato di bisogno, identificabile con la contingente difficol‐ tà economica della parte vittima dell’abuso, deve porsi come causa efficiente [gazzoni ???, 1006] della sua determinazione volitiva a contrarre: nel senso che il bisogno deve rappresentare l’unica ragione determinante l’accettazione di condizioni economiche sperequate. Stato di bisogno non c’è perciò allorché la parte lesa si è determinata a contrarre per una maggior convenienza o la migliore economicità di un dato risultato (Cass. 4630/1990). La parte lesa può anche essere una società (che versi in uno stato di dissesto): l’art. 1448 prescinde infatti dalla natura giuridica del soggetto del cui stato di bisogno la controparte abbia profittato (Cass. 19136/2004). Rileva, naturalmente, il motivo del bisogno: che deve essere serio e non futile, nell’ottica di un interesse social‐ mente apprezzabile. Di conseguenza, mentre è rescindibile il contratto con il quale un imprenditore, per evitare il fallimento dell’azienda, vende sotto costo uno o più cespiti del proprio patrimo‐ nio, non lo è il contratto con il quale un collezionista acquista a un prezzo esorbitante un libro molto raro ovvero, per aggiudicarselo a un prezzo di mercato, aliena a un prezzo rovinoso altri suoi beni onde poter disporre della liquidità necessaria [roppo ???, 887; sacco ???, 600]. Allo stesso modo non viene in gioco l’art. 1448 nel caso in cui l’azionista di minoranza di una società rinunzi al diritto di ritirarsi dalla trattativa di cessione delle proprie quote di tale società, contro impegno dell’acquirente a conferirgli un contratto di consu‐ lenza a favore della suddetta società: se, per quanto possa esservi una sproporzione tra prestazione e compenso, non risulta che l’azionista versasse, all’atto dell’accordo, in stato di bisogno. Lo «stato di bisogno», per come lo declina la giurisprudenza prevalente, è nozione molto ampia. L’ipotesi sintomatica è l’impellente necessità di denaro, per ragioni personali o familiari, da cui poi la configu‐ razione del contratto lesivo come quello con il quale si dispone di un bene a un prezzo vile. Non, quindi, uno stato di indigenza o di povertà: basta, a integrarlo, una condizione transeunte di difficoltà economica [minervini ???, 1663] (Cass. 6370/2004; Cass. 8200/1998). Può ben essere, però, che il bisogno consista nell’indifferibile esigenza di un bene: da cui la qualificazione di lesivo anche per il contratto con cui un imprendi‐ tore, onde soddisfare una commessa fattagli, acquista a un prezzo spro‐ porzionato il manufatto o la materia prima necessario per il ciclo di lavora‐ zione di un determinato prodotto [roppo ???, 887; lanzillo-riccio ???, 84]. È molto discusso, viceversa, se lo stato di bisogno possa essere solo morale [bianca ???, 685]. L’esempio comunemente fatto è quello del soggetto che, per evitare il forte discredito sociale derivante dal non adempiere a dei debiti di gioco, quindi un bisogno stricto sensu non patrimoniale, provvede a svendere una parte del proprio patrimonio. E l’interpretazione più convin‐ cente parrebbe essere quella che contempla la rescindibilità pure per questo contratto di alienazione: purché, però, si tratti di un interesse serio. Lo stato di bisogno, proprio perché tutt’uno con una situazione effettiva di carente liquidità, mai può consistere in uno stato psicolo‐ gico ovvero essere putativo. Si ha invece stato bisogno ov’anche sia stato procurato dalla stessa vittima (Cass. 2328/2010) ovvero vi sia incorso un terzo: sebbene, nel caso di stato di bisogno di una persona diversa dal contraente, la difficoltà finanziaria del terzo rilevi solo se vale in via mediata anche come bisogno del contraente, per via, ad esempio, dei legami affettivi intercorrenti tra i due. Emblematico è il caso del coniuge che svende i propri beni per evitare il fallimento dell’altro oppure del socio che aliena sotto costo taluni cespiti del proprio patrimonio per evitare il fallimento della società di cui è anche amministratore. Non è d’altronde diverso il trattamento normativo per il caso della violenza diretta contro terzi (art. 1436). Nell’ipotesi di contratto concluso a mezzo di rappresentante, ciò che vale è lo stato di bisogno del rappresentato [minervini ???, 1666] (Cass. 2166/1986). b) Affinché sia esperibile l’azione di rescissione è poi necessario che ricorra una lesione, inderogabilmente quantificata dalla legge in una sproprozione di oltre la metà (ultra dimidium) tra le rispettive prestazioni. Il parametro di valutazione è, ovviamente, il valore di mercato del bene, non assumendo alcuna rilevanza il c.d. «valore di affezione» che la res ha per chi l’aliena: e, nell’accertare la spropor‐ zione, deve tenersi in considerazione, come evidenzia la giurispru‐ denza, anche il reddito effettivo che il bene alienato è in grado di produrre. Per altro la giurisprudenza è solita evidenziare che, per determinare il valore degli immobili urbani, a parametro valutativo deve assumersi non il reddito dovuto a contingenze temporanee od eccezionali (ad es., il blocco dei fitti) ma quello che, nello stesso periodo, per il suo valore intrinseco e secondo il normale andamento del mercato immobiliare, quel bene avrebbe potuto produrre. Per le azioni societarie valgono le normali possibilità di sfruttamento e/o di speculazione. Come si ricava dallo stesso comma 2 dell’art. 1448, la valutazio‐ ne del valore delle prestazioni è riferita al momento della stipula del contratto (Cass. 3176/2011), non a una sproporzione prodottasi, per effetto di successive oscillazioni del mercato, al momento dell’ese‐ cuzione. Il che ben si comprende visto l’atteggiarsi della rescissione a rimedio per ovviare a uno squilibrio genetico del contratto [roppo ???, 891; sacco ???, 603]. È per di più necessario che la lesione permanga sino al momento della proposizione della doman‐ da di rescissione (art. 14483): donde l’escludersi della rescissione se il valore (reale) della prestazione che la vittima dell’abuso ha ricevuto è aumentato ovvero se è diminuito quello della prestazione che la stessa ha eseguito [carpino ???, 66; sacco ???, 604]. Am‐ mettere qui la rescissione avrebbe infatti l’effetto non di ovviare a uno squilibrio, che seppur per circostazne sopravvenute non c’è più, ma di consentire alla c.d. «parte lesa» di sciogliersi dal contratto perché si è pentita di averlo stipulato. Ma questa forma di recesso mascherato, indotta da una riformulazione del giudizio sulla conve‐ nienza dell’affare, è contraddetta dalla forza del legge del contratto di cui all’art. 1372. Controverso è semmai se, a precludere la rescis‐ sione, basti un incremento di valore (della prestazione ricevuta) o un decremento (di quella eseguita) tale da riportare lo squilibrio sotto la soglia della metà (Cass. 5458/1978) ovvero, più plausibil‐ mente, il prodursi di un differenziale tale da ripristinare il pieno equilibrio del sinallagma. In questa seconda ipotesi traendo spunto da quanto dispone l’art. 1450 a proposito della riconduzione a equità [sacco 604; carpino, 66]. c) L’ultimo requisito che si legge nel disposto dell’art. 1448 è l’approfittamento: che, stando per altro alla dottrina [sacco 602] e alla giurisprudenza più recente (Cass. 140/2007; Cass. 19625/2003), seppur necessario, non postula più l’iniziativa mali‐ ziosa di chi abusa o il dispiegarsi di un’attività operosa mirata proprio a indurre la parte lesa a concludere l’affare. L’approfittamen‐ to, anziché in un’attività specifica, si sostanzia nella spinta psicologi‐ ca a lucrare un vantaggio ingiusto: e ricorre ogni qual volta si abbia conoscenza dello stato di bisogno della controparte e dell’evidente sproporzione tra le prestazioni. Anzi, con un ragionamento più che plausibile, è invalso l’assunto che l’approfittamento, inteso quale stato psicologico di chi abusa, può dedursi presuntivamente dal fatto obiettivo della lesione [roppo ???, 892] (Cass. 1553/1989). Secondo una dottrina minoritaria [biscontini ???, 214] la rescissione per lesione avrebbe a oggetto anche i contratti non sinallagmatici sul presupposto che si tratti di un rimedio per ovviare un regolamento contrat‐ tuale viziato a causa di uno stato di bisogno di cui la controparte ha profitta‐ to. La lettera della legge fa tuttavia espresso riferimento alla sproporzione tra le prestazioni. Sicché sembra difficile estendere l’ambito di applicazio‐ ne dell’art. 1448: pur se è vero che non è da escludere la rescissione di un contratto di società (ove a un socio, ad es., venga attribuita una percentua‐ le di utili molto bassa rispetto all’entità del suo conferimento, Cass. 639/1976 [roppo ???, 897]). Nel caso di un contratto di pegno, l’azione di rescissione, esperita dal concedente sul presupposto della sussistenza di una lesione ultra dimidium, deve reputarsi inammissibile proprio perché non si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive. Quanto ai contratti a titolo gratuito, classe nella quale si devono ricomprendere anche i casi della donazione mista e di quella modale, non è prospettabile una lesione: a meno che non si profili la fattispecie di un collegamento contrattuale. Può farsi il caso del mutuo stipulato a condizioni eque ma seguito da una donazione al mutuante di uno o più beni del mutuatario. ■ 4. La rescissione può essere fatta valere, in via di domanda o di eccezione, solo da chi abbia stipulato in stato di pericolo o di bisogno, non è rilevabile d’ufficio e la relativa azione si prescrive in 1 anno dalla stipula del contratto (art. 14491). Per giurisprudenza consolidata, mentre la dottrina è variamente orien‐ tata, nel caso di sequenza preliminare-definitivo, sorgono due distinte azioni, ciascuna con un proprio termine di prescrizione annuale, decorrente dalla stipula del rispettivo contratto (Cass. 5458/1978; Cass. 15139/2000). Nel caso la stipula del definitivo non abbia avuto luogo e il promissario acquirente, autore dell’abuso, domandi il rimedio di cui all’art. 2932, si ammette che il promittente venditore possa opporre in riconvenzionale la rescissione del preliminare ov’anche la prescrizione sia maturata (Cass. 15139/2000). Diversamente da quanto prescritto per l’annullabilità, non è poi previsto, per altro con più di un dubbio di legittimità costituzionale (art. 32 Cost.), che l’eccezione si possa opporre quando l’azione si è prescritta (art. 14492). È vero che la stringente brevità del termine è attenuata nel caso il fatto costituisca reato (applicandosi qui, in forza dell’art. 29473, la più lunga prescrizione prevista per la fatti‐ specie criminosa, Cass. 18169/2004), nelle ipotesi di contratto sospensivamente condizionato (il termine annuale qui decorrendo dal momento del prodursi dell’evento dal quale dipendono gli effetti, Cass. 6050/1995; Cass. 3055/1992) e, laddove il prezzo non sia stato quantificato all’atto della stipula, sin quando non si è provve‐ duto alla sua determinazione (Cass. 10/1993): epperò non può negarsi che la disciplina processuale è concepita con modalità tali da stemperare molto l’operatività di un rimedio già rinserrato dal legislatore in un ambito piuttosto angusto, nella palese ottica di circoscrivere l’impatto di una tecnica di tutela equitativa giudicata dirompente rispetto al valore dell’accordo come forma esclusiva di composizione intangibile degli interessi delle parti. Per altro, se dovesse muoversi dall’assunto che vuole il contratto usurario, per molti ormai inglobante quello rescindibile, sanzionato con la nullità (v. infra, n. 6), l’art. 1449 sarebbe da intendere come implicitamente abrogato: con, per ciò stesso, l’annesso operare dell’azione, imprescritti‐ bile, di nullità [oppo ???, 544; lanzillo-riccio ???, 218). La sentenza che dispone la rescissione è costitutiva e cancella ex tunc gli effetti del contratto: sicché, ove si tratti di obbligazioni di dare, il regime delle restituzioni sarà quello dell’indebito (art. 2033 ss.), mentre, nell’ipotesi di un facere, troverà applicazione la discipli‐ na sull’ingiustificato arricchimento (art. 2041; Cass. 6891/2009). Con riguardo ai terzi, sia di buona che di malafede, la rescissione non pregiudica i diritti che costoro abbiano acquistato, anche a titolo gratuito, medio tempore: fatta salva, naturalmente, l’applicazio‐ ne delle regole sulla trascrizione. Sicché la rescissione è opponibi‐ le al terzo nel caso costui abbia trascritto il proprio acquisto succes‐ sivamente alla trascrizione della domanda di rescissione (artt. 1452, 2652, n. 1, e 2690) Stando al disposto dell’art. 1451, il contratto rescindibile, diver‐ samente da quello annullabile, non può essere convalidato: e la ratio della disposizione è solitamente spiegata con il rilievo che la rescissione è rimedio ancillare non già e non tanto alla tutela di un’integrità della volizione contrattuale quanto e piuttosto a garanti‐ re l’equilibrio dello scambio contrattuale [gazzoni ???, 1010]. E, sebbene sia vero che il mancato esercizio dell’azione per 1 anno è prossimo a una forma di convalida per omissione (art. 1444), nel divieto di convalida è solitamente inclusa ogni eventuale forma di rinunzia all’azione. La dottrina, più nello specifico, è solita evidenziare che l’inconvalidabili‐ tà del contratto rescindibile trova la sua ragion d’essere nel fatto che, per ovviare alla lesione, occorre una modifica del sinallagma contrattuale. Quando invece si fa questione di contratto annullabile, a venire in risalto non è tanto un’iniquità dello scambio, che anzi normalmente non c’è, bensì il difetto di un’autentica (e consapevole) volontà di vincolarsi. Sicché una successiva manifestazione di volontà conforme, alle condizioni e nei modi di cui all’art. 1444, espressa da chi sarebbe legittimato a domandare l’annullamento del contratto, è confacente allo scopo. Tutto al contrario nell’ipotesi di rescissione, dove il vizio è emendabile con il solo riequilibrio del sinallagma contrattuale. Non a caso è solo con un’offerta di modifica‐ zione, sì da ricondurre il contratto a equità, offerta promossa dall’autore dell’abuso, che la rescissione può essere evitata (art. 1450). Per effetto del divieto che si legge nell’art. 1451, è molto discusso se possa transigersi su un contratto rescindibile. E, per quanto la nullità della convalida deponga nel senso di un’invalidità di ogni atto dispositivo, mediante rinunzia o transazione, del diritto alla rescissione [bianca ???, 693], l’intepretazione più liberale pare plausibile: da un lato infatti, già nell’offerta di riconduzione a equità, è implicito un transigersi rispetto al 2 quantum, dall’altro c’è il disposto dell’art. 764 , che statuisce l’irrescindibi‐ lità della transazione con la quale si è posto fine alle questioni insorte a causa della divisione [sesta ???, 823]. A meno di non ritenere, essendo 2 consentita la sola transazione su diritti disponibili (art. 1966), che l’art. 764 sia una norma eccezionale e consentita, stante la normale irrescindibilità per lesione della transazione (art. 1970), soltanto una riconduzione pattizia a equità del contratto rescindibile [gazzoni ???, 1010]. Questa lettura evita che, per il tramite di una transazione, si incorra in una frode alla legge (art. 1344). ■ 5. L’art. 1450, in applicazione del principio di conservazione del contratto, prevede che la rescissione può essere evitata se il con‐ traente contro il quale viene domandata offre di modificare il contrat‐ to in modo sufficiente da ricondurlo a equità. La natura giuridica di questa facoltà è quella del diritto potestativo. La legittimazione a offrire la riconduzione a equità è, quindi, del solo contraente autore dell’abuso: per il principio di immodificabilità unilaterale del contratto, alla parte lesa non è consentito infatti imporre la riduzione a equità del sinallagma. Il che, naturalmente, non esclude che il contraente leso possa proporre alla controparte di rinegoziare l’affare: e, ove costui accetti, che si addivenga così a una riconduzione a equità. Ma si tratterà di una vicenda modificativa prodotta per contratto e non per atto unilaterale. L’offerta, qualificabile come un «atto unilaterale recettizio», deve essere adeguata, nel senso di «idonea a ristabilire l’equilibrio sinallagmatico», non essendo sufficiente un’offerta che riporti la lesione infra dimidium. Dottrina e giurisprudenza concordano poi nel ritenere che deve pure trattarsi di un’offerta puntuale ovvero con un grado minimo di specificità, dovendosi indicare quali sono le clau‐ sole da modificare ed entro quali limiti (Cass. 3891/1994). Non è ammessa perciò un’offerta generica, dovendo il giudice, appurato il ricorrere dei presupposti per la rescissione, soltanto accertare se l’offerta sia o meno idonea a riequilibrare il sinallagma contrattuale. Nel compiere questo accertamento rileva il valore venale delle prestazioni al momento della pronuncia: di talché, trattandosi di vagliare il ricorrere di un equilibrio sinallagmatico oggettivo, non c’è un vero e proprio giudizio di equità [gazzoni ???, 1012]. Tantomeno può parlarsi di un’equità in funzione integrativa. Ove poi l’offerta sia adeguata, è escluso che la parte lesa possa rifiutarla. Gli è infatti che, come nel caso di una lesione cancellatasi per effetto di fatti sopravvenuti, se l’offerta si mostra idonea a riequilibrare il sinallagma contrattuale, non c’è più ragione per considerare ex lege il contratto rescindibile [roppo ???, 895]. E di conseguenza, ristabilitosi l’equilibrio dello scambio, difettano le ragioni che potrebbero rendere meritevole il rifiuto del contraente (non più prevaricato). In dottrina è molto dibattuta la natura giuridica dell’offerta: se proces‐ suale, nel qual caso rileverebbe come un’eccezione per opporsi alla domanda del contraente leso, o sostanziale, proponibile perciò anche in un giudizio separato da quello rescissorio. A intenderla come un negozio giuridico unilaterale e recettizio, l’offerta potrebbe anche farsi stragiudizial‐ mente e l’intervento del giudice si avrebbe soltanto nel caso di un conflitto sulla valutazione della sua congruità [gazzoni ???, 1012]. ■ 6. La riscrittura del reato di usura (art. 644 c.p.) ha, per altro, profondamente ridimensionato l’ambito di applicazione della rescis‐ sione [quadri ???, 890]. Per effetto della l. 108/1996, adesso si hanno infatti tre forme di usura: a) quella c.d. pecuniaria in astratto, così detta perché prescin‐ de da qualsiasi rimando alla condizione del soggetto leso, configu‐ rabile automaticamente nel caso gli interessi convenuti oltrepassino un tasso-soglia predeterminato ex lege; b) quella c.d. pecuniaria in concreto, che si delinea invece allorquando gli interessi pattuiti, pur se contenuti entro i limiti di legge, sono sproporzionati e la vittima si trovi in condizioni di difficol‐ tà economica o finanziaria), infine c) quella c.d. reale, anch’essa da accertarsi in concreto, confi‐ gurabile ogni qual volta i vantaggi, diversi dagli interessi, siano sproporzionati (rispetto a quanto prestato) e risulti che il contraente leso versava in uno stato di difficoltà economica o finanziaria all’atto di effettuarli o di prometterli. I vantaggi, secondo l’art. 6443 c.p., possono consistere in una qualsiasi altra utilità. Per il contratto di mutuo, ove siano stati pattuiti degli interessi usurari, provvede invece da sé l’art. 18152, a norma del quale la relativa clausola è nulla e, in luogo della sostituzione con il tasso legale, non sono più dovuti interessi. Una specie di pena civile. Si consideri che l’approfittamento, dapprima elemento costitutivo della fattispecie criminosa, è stato derubricato ad aggravante del reato (art. 644, n. 3, c.p.). Dunque, da un lato un’accentuata oggetti‐ vazione della fattispecie (sub a), dall’altro un richiamo alle condizio‐ ni di difficoltà economica o finanziaria, situazione meno grave dello stato di bisogno. Ora, visto che è usurario (sub b e sub c) qualsiasi contratto sinallagmatico ove, in corrispettivo di una somma di denaro o di un’altra utilità, è convenuta una prestazione sproporzionata, il risultato è un progressivo dilatarsi delle fattispecie contrattuali integranti il reato di usura: fattispecie che però dovrebbero chiamare in causa il rimedio civilistico della nullità assoluta, se per illiceità della causa (art. 1343) o relativa, se per contrarietà a una norma imperativa (art. 14181) [oppo ???; 543]. Se non fosse che, a ragio‐ nare così, siccome è usurario (sub b e sub c) l’interesse o il vantag‐ gio sì sproporzionato ma infra dimidium, pur non applicandosi l’azione generale di rescissione, il contratto sarebbe nullo: mentre per il contratto usurario con lesione ultra dimidium, sebbene fatti‐ specie più grave, dovrebbe paradossalmente applicarsi il rimedio della rescindibilità. In dottrina si è, perciò, profilata l’idea di un’abro‐ gazione tacita della disciplina della rescissione, stante la sua inope‐ ratività allorché, per il ricorrere dei presupposti applicativi della legge penale (art. 644), è sempre la nullità, a prescindere dall’entità della lesione, a sanzionare il contratto sproporzionato (un tempo) rescindibile. Per quanto, onde evitare che il contraente leso si trovi a restituire subito il corrispettivo ricevuto, sarebbe da preferire una nullità parziale, applicando l’art. 14192 o, analogicamente, l’art. 18152 [carpino ???, 82 s.]. E tuttavia sembra che si possa pure plausibilmente sostenere che, nelle ipotesi di usura sub b e c, ferma restando la responsabili‐ tà penale, mentre è rescindibile il contratto con una lesione ultra dimidium, per quello infra dimidium si avrà una tutela risarcitoria nei riguardi dell’usuario in forza del combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 185 c.p. Con l’art. 18152, norma generale per tutti i contratti di credito, a disporre una specie di conversione del contratto di mutuo da oneroso a gratuito. ■ 7. Rimangono incerte, per altro, almeno quattro questioni: a) il contraente leso, se è vero che il raggio di operatività della culpa in contrahendo non è circoscritto alle due ipotesi della manca‐ ta o invalida stipula del contratto (Cass., s.u., 26724/2007), può domandare, in concorso con la rescissione, il risarcimento dei danni? b) il contraente leso può richiedere, in luogo della rescissione, il solo risarcimento dei danni? c) ove la lesione sia infra dimidium, è ammessa una tutela risarcitoria? Quesito, più semplice degli altri, perché, di là da quanto si potrebbe argomentare in tema di vizi incompleti del contratto, il reato di usura ha cancellato il limite oggettivo della lesione ultra dimidium. d) si può configurare uno stato di bisogno nel caso di una sven‐ dita compiuta per realizzare un intento speculativo oppure per gioco d’azzardo ovvero per fini criminali (Cass. pen. 1370/1990)? Bibliografia allara, La teoria generale del contratto, Torino, 1955; auricchio, La simula‐ zione nel negozio giuridico. 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