Fabrizio Di Marzio
La nullità del contratto
1. Nullità: concetto, categorie, specie, casi. - 2. Nullità per mancanza o impossibilità
di un elemento essenziale. - 3. Nullità per illiceità. Illiceità ed elementi del contratto.
- 4. Contratto contrario all’ordine pubblico o al buon costume. - 5. Contratto contra‐
rio a norme imperative. Nullità virtuale. - 6. Contratto in frode alla legge. - 7. Nullità
parziale. - 8. Efficacia del contratto nullo. Conversione. - 9. Giudizio di nullità.
■ 1. Nella disciplina dei contratti la nullità è la figura generale
dell’invalidità. Nel silenzio della legge la contrarietà a norme impera‐
tive, ordine pubblico o buon costume e l’insufficienza strutturale
dell’atto sono, tendenzialmente, causa di nullità (art. 1418). Specifi‐
che disposizioni comminano, in alcuni casi, annullabilità e rescindi‐
bilità.
La dottrina tradizionale, in un’ottica rigorosamente volontaristica,
concepiva la nullità sotto un profilo strutturale, quale imperfezione della
fattispecie: e dunque come conseguenza necessitata della mancanza o
della grave anomalia di un elemento costitutivo ed essenziale del contratto.
Poiché lo schema legale è posto a limite della manifestazione di volontà
per garantirne l’effettività, la non conformità di quella manifestazione allo
schema era considerata vizio della volontà (comportavano nullità anche
l’incapacità e l’errore ostativo). L’accordo prodotto dalla volontà viziata era
considerato nullo e perciò improduttivo di qualsiasi effetto. Nella prospettiva
attuale, in cui il contratto è tutelato nei limiti della sua compatibilità con gli
interessi che l’ordinamento considera meritevoli (art. 1322), la nullità si
giustifica – piuttosto che per la carenza strutturale dell’atto quale sintomo di
volontà negoziale assente o viziata – come conseguenza della non tutela‐
bilità del contratto rispetto a interessi protetti in misura prevalente, la
lesione dei quali è data dall’incompletezza strutturale dell’atto o dalla sua
contrarietà al diritto imperativo [barcellona 1973, 279; galgano 1976, 457;
tommasini 1978, 875].
In considerazione della disciplina codicistica – da un lato debitri‐
ce delle visioni classiche della nullità come difetto strutturale e
dall’altro attenta anche al controllo di compatibilità tra programma
contrattuale e ordinamento positivo – si apprezzano, pertanto, due
categorie di nullità:
a) nullità per mancanza o impossibilità di un requisito
essenziale, cioè nullità derivanti dal mancato assolvimento di un
onere posto dalla legge, contemplate, sulla scia della tradizione, a
tutela immediata dell’interesse particolare dei contraenti all’utilità
della contrattazione e a tutela mediata dell’interesse generale alla
regolarità del traffico;
b) nullità per illiceità, cioè nullità derivanti dalla violazione di
obblighi imposti dalla legge, contemplate, in forza delle esigenze
emergenti nel moderno Stato sociale, a tutela diretta dell’interesse
generale alla regolarità del traffico e a tutela indiretta degli interessi
particolari dei contraenti.
La prevalenza accordata all’interesse particolare (nullità da
mancato assolvimento di un onere) o generale (nullità da illiceità)
determina differenze di disciplina: il contratto nullo nel primo
senso ha una rilevanza più pregnante, e spiega maggiori effetti del
contratto nullo nel secondo senso (ad es., artt. 1417, 1972 e 2126).
L’atto nullo è dunque produttivo di alcuni specifici effetti (ancora
artt. 1424 e 2652, n. 6). Ciò accade perché evidentemente l’atto nullo non
è, secondo il diritto positivo, irrilevante. Così, nei limiti della sua ridotta
rilevanza, spiega un’episodica efficacia. Per queste ragioni, se sul piano
della teoria generale può essere difficile distinguere la «nullità» – quale
qualificazione puramente negativa – dall’«inesistenza» [de giovanni 1964],
sul piano del diritto positivo l’atto nullo, in quanto giuridicamente rilevante
(come dimostra la sua pur ridotta efficacia), deve dirsi esistente [sacco
1965, 456; di majo 2002, 50]. Bisogna dunque evitare di confonderlo con
l’atto inesistente, e perciò assolutamente irrilevante e dunque per definizio‐
ne (quale «non atto») improduttivo di effetti.
La dottrina civilistica risalente, che invece identificava nullità e inesi‐
stenza e discorreva di «assoluta nullità» o «inesistenza», giungeva a
questa conclusione proprio sul presupposto della coincidenza concettuale
tra «irrilevanza giuridica» (irrilevanza dell’atto per il diritto) e «inesistenza
giuridica», e dietro l’idea dell’inefficacia assoluta e irrimediabile dell’atto
nullo, quale unica possibile conseguenza dell’assoluta irrilevanza (ciò che
per il diritto è irrilevante deve essere anche assolutamente improduttivo di
effetti) [windscheid 1873, § 82, 197; pacchioni 1939, 188; fedele 1943].
Nel genere «nullità» si distinguono usualmente diverse specifi‐
cazioni.
a) A seconda dell’ambito di incidenza, si annoverano la «nullità
totale» e la «nullità parziale»:
i) la nullità totale coinvolge l’intero contratto;
ii) la nullità parziale solo una parte (nullità parziale oggettiva,
art. 1419) oppure, nei contratti plurilaterali, singole partecipazioni
(nullità parziale soggettiva, art. 1420).
b) Sotto un profilo temporale si distinguono nullità originaria,
nullità successiva e nullità derivata (per i quali concetti si riman‐
da alle corrispondenti forme di invalidità, v. ???).
c) Sotto il profilo della legittimazione attiva si distinguono nullità
assoluta e nullità relativa: mentre la prima può essere fatta valere
da chiunque vi abbia interesse, invece la nullità relativa (ipotesi
eccezionale) può essere azionata soltanto da taluni legittimati (art.
1421).
d) Nell’ambito delle due categorie generali, i casi di nullità pos‐
sono raggrupparsi secondo questa classificazione:
i) il contratto è nullo nei casi espressamente previsti dalla
legge (art. 14183). Sia nel codice sia nella legislazione complemen‐
tare, sono rinvenibili numerosissime previsioni espresse di nullità.
Nel codice rilevano: la nullità della vendita di cosa futura non venuta
a esistenza (art. 14722), la nullità dell’assicurazione per inesistenza
del rischio (art. 1895), la nullità della transazione relativa a un
contratto illecito (art. 19721); la nullità del patto commissorio (art.
2744); nella legislazione speciale, le nuove ipotesi introdotte dalla
normazione di origine comunitaria a tutela del consumatore (può
trattarsi sia di nullità per incompletezza che di nullità per illiceità;
ii) il contratto è nullo quando manca dei requisiti essenziali
(art. 14182), quando l’oggetto è indeterminabile (art. 14182), quan‐
do oggetto e condizione sospensiva sono impossibili (artt. 14182 e
13542);
iii) il contratto è nullo quando causa, oggetto, motivi, condizione
sono illeciti (artt. 14182, 1344, 13541 e 1355), sono cioè contrari a
norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1343);
iv) in via residuale, il contratto è nullo quando è contrario a
norme imperative (si tratta di nullità per illiceità) salvo che la legge
disponga diversamente (art. 14181): comminando una diversa
specie di invalidità, oppure la risoluzione o, infine, nessuna conse‐
guenza sulla validità. La norma ha portata sussidiaria e di chiusura.
■ 2. Il primo caso di nullità per mancanza di un elemento essenzia‐
le del contratto è data dalla mancanza dell’accordo delle parti (artt.
14182 e 1325, n. 1). L’accordo è costituito dalla comune intenzione
dei contraenti espressa nel contratto (art. 1362), ossia dalla
congruenza tra le dichiarazioni contrattuali. Rileva, pertanto, la
volontà del contraente non in quanto tale ma in quanto:
a) desunta dai suoi atti concreti;
b) e nella misura in cui appare congruente con la volontà mani‐
festata dall’altro contraente.
Il contratto nullo per mancanza di accordo – ossia della sua essenza –
viene da taluno assimilato al contratto inesistente [carresi 1987, 618]; ma
generalmente si afferma che l’accordo mancante e l’accordo inesistente si
differenziano in ciò: mentre il primo, per le modalità comportamentali tenute
dai contraenti, è figura di un qualche consenso, in realtà non raggiunto,
invece il secondo, per le modalità comportamentali tenute dai contraenti,
non appare nemmeno tale [zatti-colussi 1995, 441; gentili 2006, 1461]
(Cass. 3378/1993). A esemplificare la distinzione valga un esempio.
Premesso che un’ipotesi classica di contratto inesistente è nel mancato
incontro di proposta e accettazione (Cass. 3854/1985), del tutto diverso è
però il caso in cui nel testo di una compravendita immobiliare è incluso fra
gli altri un bene che il venditore non aveva inteso vendere e che l’acquiren‐
te non aveva inteso comperare: se il testo del contratto è smentito dall’esito
dell’istruzione probatoria, che ha consentito di appurare l’errore in cui tutti
erano caduti, e dunque la volontà effettiva dei contraenti, la vendita deve
essere dichiarata – piuttosto che come tale inesistente – nulla limitatamen‐
te a quel bene (Cass. 2197/1993).
Casi paradigmatici di mancanza dell’accordo sono: la dichiara‐
zione non seria (come quando effettuata nel corso di una lezione di
diritto o in una scena filmica); la dichiarazione frutto di violenza
fisica; la dichiarazione formata ma non comunicata o comunicata
per uno scopo oggettivamente diverso dall’accettazione. Altri casi di
mancanza di accordo ricorrono nelle nullità per mancanza del
consenso di tutti i contitolari dell’interesse dedotto in contratto,
come accade quando solo taluno dei comproprietari dispone con‐
trattualmente del bene comune.
Un caso di nullità per dichiarazione di volontà non seria è dato dalla
disciplina della condizione sospensiva meramente potestativa. L’art.
1355 dispone che è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un
obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere
dalla mera volontà dell’alienante o del debitore. La nullità è tradizionalmen‐
te spiegata come reazione ordinamentale alla mancanza di una seria
volontà di obbligarsi o alla mancanza, a tutti gli effetti, della volontà di
obbligarsi. Dedurre in condizione l’evento incerto e futuro della volontà di
obbligarsi contrattualmente, e dunque dedurre in condizione la volontà
futura al contratto, equivale a negare la sussistenza nel presente di una
volontà contrattuale [messineo 1968, 178] (Cass. 1432/1983; Cass.
4504/1997).
Producono nullità del contratto per mancanza di accordo la proposta o
l’accettazione estorte con la violenza fisica. A differenza della coazione
psicologica al contratto (violenza morale), che determina l’annullabilità (art.
1434), nel caso in esame non si ha alcuna volontà, neppure viziata. Si
sostiene da taluno che nell’ipotesi di violenza fisica, per l’assenza assoluta
della volontà, non ricorre la nullità per mancanza dell’accordo ma l’inesi‐
stenza del contratto [bianca 2000, 658]. Tuttavia, il simulacro di contratto
che risulta dalla violenza può favorire affidamenti di soggetti a essa estra‐
nei (terzi inconsapevoli o la stessa controparte, all’oscuro della violenza
subita dall’altro contraente a opera del terzo). L’apparenza fenomenica del
contratto favorisce l’accoglimento della tesi della nullità.
Circa le nullità per anomalie nella comunicazione della dichiarazione,
esse non comprendono i casi di errore ostativo – errore nella comunica‐
zione di una volontà da dichiararsi – disciplinati nell’ambito delle cause di
annullabilità (art. 1433) ma le evenienze di comunicazione di una volontà
che non si voleva dichiarare. Non si ha errore nella dichiarazione come
tale voluta, ma una dichiarazione come tale mai voluta: come per la
comunicazione avente contenuto di proposta o accettazione effettuata però
per finalità diverse dalla proposta o dall’accettazione (ad es., dichiarazione
trasmessa non dall’autore, che pure l’aveva formulata, ma, contro la
volontà di questo, da un terzo (Cass. 1778/1969)). Un caso difficile è dato
dal dissenso occulto, ricorrente quando le parti attribuiscono significati
diversi a un testo comune (ad es., compravendita di un appartamento
descritto nel contratto come insistente al primo piano: una parte comprende
pianterreno, l’altra il piano superiore). Certa dottrina sostenne che in simili
evenienze il contratto non è nemmeno nullo ma, in quanto non concluso,
addirittura inesistente [stolfi 1954, 280]; la dottrina contemporanea ricondu‐
ce la fattispecie alla disciplina dell’errore ostativo [pietrobon 1963, 291].
Si ha nullità per mancanza dell’accordo anche quando soltanto taluni e
non tutti i titolari di un interesse dedotto in un contratto ne dispongono
prestando il proprio consenso. La pratica conosce due ordini di casi: a) la
disposizione da parte di taluni comproprietari del bene comune e b) le
modifiche del contratto di società incidenti sulle posizioni personali dei
soci adottate non all’unanimità ma a maggioranza, secondo la procedura di
formazione della volontà assembleare. La giurisprudenza afferma la nullità
del contratto per mancanza di un consenso necessario (Cass., s.u.,
7481/1993; Cass. 171/1977). In dottrina si propongono anche soluzioni
diverse: come l’inefficacia relativa del contratto, impugnabile dal soggetto
che non ha prestato il consenso, o la nullità per impossibilità dell’oggetto
[rubino 1971, 382; gentili 2006, 1463].
Il contratto è nullo se privo di causa (artt. 14182 e 1325, n. 2).
Poiché la causa esprime il profilo funzionale dell’atto (la
costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico, art.
1321), essa è mancante quando non è possibile scorgere nel
contratto una funzione oggettiva che possa giustificare il movimento
di ricchezza programmato: ossia la sintesi degli effetti, il sacrificio
insito nella prestazione compensato dal guadagno insito nella
controprestazione. Il che può verificarsi o per l’intrinseca contrad‐
dittorietà o irragionevolezza della regola contrattuale (come il patto
di riscatto che preveda la restituzione di un prezzo superiore a
quello pagato, nullo nei limiti dell’eccedenza, art. 15002) oppure per
l’irragionevolezza estrinseca della regola contrattuale, emergente
dall’esame del fatto che ne costituisce il riferimento materiale (come
nelle fattispecie classiche degli accordi in cui si costituiscono o si
trasferiscono a un contraente prerogative già nella sua titolarità).
Si è affermata la nullità per mancanza di causa del contratto di accerta‐
mento che abbia a oggetto una situazione inesistente o già certa (Cass.
7274/1983); del contratto di divisione per mancanza del presupposto
fondamentale costituito dal titolo che ha dato luogo alla comunione (Cass.
22427/1972); dell’operazione negoziale finalizzata unicamente a realizzare
un risparmio d’imposta (Cass. 20398/2005); della transazione conclusa da
un soggetto estraneo alla lite (Cass. 7319/1993); del contratto preliminare
non al definitivo, ma ad altro preliminare (Trib. Napoli 21 febbraio 1985);
del contratto aleatorio in realtà privo di alea, come la rendita vitalizia con
vitaliziando prossimo alla morte (Cass. 117/1999); del contratto fondato su
una presupposizione quando si accerti l’insussistenza, già al momento
della stipulazione, della situazione presupposta (c.d. «falsa presupposizio‐
ne»): come per la compravendita di un terreno non edificabile sul presup‐
posto dell’edificabilità (Cass. 8200/1990) o la locazione di un immobile per
collocarvi una struttura pubblicitaria pur in presenza di un regolamento
comunale che vieta l’utilizzo (Cass. 8689/1995).
Una peculiare fattispecie di nullità per mancanza di causa è individuata
dalla giurisprudenza nella conclusione di un contratto in assenza, da parte
di uno dei contraenti, di qualsiasi seria intenzione di adempiere (preordina‐
to inadempimento). Così accade quando, in un preliminare di compraven‐
dita, il promissario acquirente – nell’esecuzione di una truffa – consegni
alla controparte, a titolo di acconto sul prezzo convenuto, un assegno
postdatato e privo di copertura, tratto su un conto corrente da tempo estinto
(Cass. 5917/1999).
Una questione interessante concerne il contratto di fideiussione. Si è
ritenuta nulla per mancanza di causa la fideiussione prestata dal socio
illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali. Un simile contrat‐
to non determina, infatti, lo scopo oggettivo tipico – il rafforzamento delle
garanzie del creditore – visto che il patrimonio obbligato in garanzia dei
debiti sociali era già per altro verso, e per quei debiti, sussidiariamente
obbligato (App. Genova 12 maggio 1982).
Come l’accordo, anche la causa deve risultare dal contratto.
Pur non dovendo essere espressa nel rispetto di oneri formali, e pur
potendo essere individuata mediante i canoni di interpretazione del
contratto, essa deve chiaramente emergere a prescindere dal
ricorso a qualsiasi termine di riferimento esterno al contratto.
Deve considerarsi nulla per mancanza di causa il contratto irragione‐
volmente attributivo di un’utilità: ossia la convenzione con la quale si
attribuisce a un soggetto una prerogativa senza che si evinca dalla conven‐
zione stessa (se formale), o senza che l’interessato riesca a provare (se la
convenzione non è gravata da oneri formali) la causa che fonda l’attribuzio‐
ne (Cass. 3421/1968). Un noto caso giurisprudenziale: una società conces‐
sionaria di autolinee, a seguito di una legge regionale sulla pubblicizzazio‐
ne di alcune di esse tramite trasferimento del patrimonio sociale ad apposi‐
to consorzio, ha stipula con quest’ultimo un preliminare di compravendita
nel quale si pattuisce che, prima della conclusione del definitivo, la conces‐
sionaria cederà ad altra società le concessioni delle autolinee non ricom‐
prese nel programma di legge. Successivamente, la società concessionaria
effettua le cessioni ad altra società, senza che nell’atto di trasferimento
risulti la ragione del medesimo né un qualsivoglia corrispettivo. Quando la
motorizzazione civile invita le parti a stipulare un nuovo contratto di cessio‐
ne asserendo la nullità del primo per mancanza della necessaria autorizza‐
zione ministeriale, la cedente (nel frattempo passata sotto il controllo del
consorzio, a cui era stato trasferito l’intero pacchetto azionario) si rifiuta,
sostenendo la nullità del contratto stipulato per difetto assoluto di causa. I
giudici aditi dalla cessionaria condividono la prospettazione della cedente,
ritenendo la nullità del contratto per difetto di causa. Dal testo del contratto,
infatti, non risulta il titolo di tale trasferimento né il corrispettivo, ma soltanto
la semplice e unilaterale attribuzione patrimoniale dalla cedente alla
cessionaria, che non può in alcun caso assurgere a causa giuridica del
contratto, non delucidandone lo scopo (Cass. 12401/1992).
La questione della mancanza di causa si pone non soltanto nei
casi in cui dall’esame del contratto la funzione appaia mancare, ma
anche quando quest’ultima – pur apparente – non possa dirsi
effettivamente sussistente secondo un criterio di ragionevolezza.
Pacifica, in tal senso, è la nullità per carenza di causa della vendita
in cui sia convenuto un prezzo che sotto il profilo della ragionevolez‐
za economica non è tale, essendo puramente simbolico (come
quando è rappresentato dall’unità monetaria non ulteriormente
scomponibile). Benché la causa formalmente sussista, e risulti dal
contratto, non è considerata effettivamente tale poiché all’apparen‐
za non corrisponde nessuna concreta sostanza. Dibattuta è invece
la soluzione per la vendita in cui sia convenuto un prezzo effettivo
ma assolutamente sproporzionato al valore del bene, e dunque non
propriamente simbolico ma irrisorio: la quale fattispecie sembra
porre, più che un problema causale, un problema di equilibrio delle
prestazioni.
Il contratto è nullo se privo di oggetto (artt. 1325, n. 3, e 14182):
se, cioè, l’oggetto è propriamente assente (ad es., contratto a
prestazioni corrispettive in cui non si indica il corrispettivo). Il con‐
tratto è nullo se l’oggetto è privo dei requisiti posti dalla legge (artt.
1346 e 14182): essendo illecito, impossibile (ad es., vendita del
parto di un animale sterile), o indeterminato e indeterminabile (ad
es., contratto in cui si menziona ma non si determina né direttamen‐
te né indirettamente il bene: come nella locazione di una «casa»,
non altrimenti specificata).
In senso ampio, l’oggetto del contratto si identifica con il conte‐
nuto. In questo senso, l’oggetto corrisponde al programma negozia‐
le, ed è dato dall’insieme di clausole che costituisce il regolamento
contrattuale. In senso più circoscritto, con l’oggetto si indicano la
prestazione contrattuale o il bene della vita dedotto nella prestazio‐
ne. Nella giurisprudenza si accoglie, di volta in volta, la nozione di
«oggetto» utile alla risoluzione dei problemi posti dalla specifica
controversia (si è affermato che l’oggetto va inteso sia come bene
sia come contenuto del contratto; ma si è anche sostenuto che
l’oggetto inteso in senso diretto è il diritto dedotto in contratto, inteso
in senso indiretto, il bene su cui cade tale diritto). L’interrogativo
sulla presenza dell’oggetto nel contratto ha ovviamente senso
esclusivamente accogliendo la concezione dell’oggetto quale bene
o prestazione; infatti, per la difficoltà di censire casi di contratti
senza alcun contenuto, il generale riferimento a questo svuoterebbe
la norma della pratica funzione. A ogni modo, le pronunce che
comminano la nullità del contratto per mancanza dell’oggetto resta‐
no rare. Se manca l’oggetto, prima ancora è carente la causa,
risultando inafferrabile la ragione oggettiva del trasferimento di
ricchezza realizzato nel contratto (come si è visto, la mancata
indicazione del prezzo nella compravendita è costantemente risolta
nella nullità del contratto per mancanza non di oggetto ma di
causa).
L’oggetto mancante è l’oggetto che in concreto non c’è ma che
in astratto avrebbe potuto esserci. Diverso il caso dell’oggetto
impossibile. Tale l’oggetto che in concreto è assente e che non
potrebbe essere presente neanche in astratto, come nell’esempio
classico della compravendita del parto di animale sterile. In giuri‐
sprudenza si ritiene che ricorra l’impossibilità dell’oggetto, e dunque
la nullità del contratto, ogni qualvolta la prestazione non possa
avere esecuzione per la presenza di impedimenti di carattere
materiale o giuridico originari (e non sopravvenuti: si avrebbe
risoluzione per sopravvenuta impossibilità della prestazione, art.
1463) tali da rendere (non semplicemente difficoltosa ma) inattuabi‐
le in maniera assoluta la finalità a cui la prestazione medesima è
diretta.
Su questi presupposti, è stata esclusa la nullità per impossibilità
materiale dell’oggetto nel caso di contratto costitutivo di servitù di passag‐
gio quando il passaggio, ancorché difficoltoso, sia pur sempre possibile
(Cass. 10341/2002) e nel caso di malriusciti lavori di riparazione su auto‐
vettura gravemente danneggiata ma pur sempre oggettivamente riparabile
(Cass. 6927/2001); è stata poi esclusa la nullità per impossibilità giuridica
dell’oggetto nel caso di mancanza dei requisiti legali di abitabilità per
l’appartamento compravenduto o locato pur materialmente abitabile (Cass.
12860/1992); ma dichiarata la nullità della permuta avente a oggetto da un
lato un terreno, e dall’altro parte di un immobile da edificarvi, stante l’as‐
senza di concessione edilizia (Cass. 12709/1992).
Mentre l’impossibilità materiale può agevolmente accostarsi alla
mancanza dell’oggetto, invece l’impossibilità giuridica – in quanto
dipendente da una mancata corrispondenza del regolamento
contrattuale non con la realtà materiale ma con lo statuto normativo
del bene dedotto nell’accordo – coinvolge fattispecie che si fanno
agevolmente classificare nell’ambito dell’illiceità per contrasto del
contratto con norme imperative (come nell’esempio classico della
vendita di cosa incommerciabile).
Qualità essenziali dell’oggetto del contratto sono la determina‐
tezza o, in alternativa, la determinabilità: ossia la sufficiente
identificazione dell’oggetto nel contratto o attraverso l’indicazione
delle sue concrete caratteristiche di quantità e di qualità (determina‐
tezza) o attraverso l’indicazione dei criteri attraverso i quali quelle
caratteristiche possano essere stabilite (determinabilità). L’oggetto
di un contratto può dirsi sufficientemente identificato o identificabile
quando di esso siano indicati gli elementi essenziali i quali, logica‐
mente coordinati, non lascino dubbi sulla individuazione dello
stesso come l’oggetto stabilito dai contraenti. Poiché manca una
norma di legge che regoli, in via generale, in che modo l’oggetto
debba essere identificato o reso identificabile, ogni mezzo deve
ritenersi idoneo: dalla lettura del contratto stesso all’utilizzo di
documenti, fatti e cose esterni al contratto, purché richiamati in esso
e purché siano rispettati i requisiti di forma eventualmente richiesti.
Il settore contrattuale in cui si fa più spesso questione sulla indetermi‐
natezza e indeterminabilità dell’oggetto del contratto è quello della vendita
immobiliare. Le sentenze in argomento applicano il generale principio
secondo cui l’art. 1346 deve essere interpretato non in senso rigoroso ma
in senso ampio. Il contratto ha un oggetto determinabile ogni qualvolta
esso sia individuabile attraverso l’interpretazione del contratto oppure
attraverso consulenza tecnica o con qualsivoglia altro mezzo idoneo allo
scopo. Circa quest’ultimo punto, si è ammesso l’utilizzo della planimetria
allegata al contratto benché non sottoscritta dalle parti (Cass. 7047/1983);
si è esclusa l’indeterminabilità dell’oggetto per mancanza nel contratto
dell’indicazione di almeno tre confini – dato indispensabile esclusivamente
ai fini della trascrizione (artt. 2659, n. 4, e 2826), allorché l’indicazione di
soli due confini consenta l’individuazione del bene (Cass. 3813/1981).
L’autosufficienza del testo contrattuale esclude che il requisito
della determinabilità possa dirsi soddisfatto dal comportamento
successivo delle parti. La pratica di rimettere la determinazione
dell’oggetto a un futuro accordo tra le stesse parti espone al
rischio di nullità tutte le volte che nel contratto stesso non siano
stabiliti i parametri della futura determinazione che consentano,
anche per mezzo di operazioni tecniche, l’individuazione dell’ogget‐
to. Il rinvio al mero accordo successivo, escludendo la sussistenza
di un accordo attuale, equivale alla mancata conclusione del con‐
tratto.
Il contratto è nullo quando non è redatto nella forma prevista a
pena di nullità (artt. 1325, n. 4, 1350 ss. e 14182). La norma, anzi‐
ché presupporre la separata apprezzabilità del contratto, da un lato,
e della forma da esso assunta, dall’altro, postula invece che quando
la legge dispone una particolare forma contrattuale (che il contratto
sia stipulato in una particolare forma e consista di una particolare
forma), al mancato rispetto dell’onere segue la nullità.
In senso lato, la forma designa la figura esteriore del contratto. La
dottrina tradizionale concepiva la forma prima come mezzo di manifestazio‐
ne della volontà creatrice del negozio; poi come esternazione di un interno
contenuto. Per questa visione – sulla forma come manifestazione di una
realtà già esistente ma non ancora comunicata – il contratto risultava
composto da due elementi distinti: a) l’«interno volere» e b) la sua «feno‐
menica manifestazione» (il negozio come volontà espressa: dichiarazione
di volontà). La forma si presentava come elemento naturale e necessario
del negozio [de ruggiero-maroi 1950, 104; cariota ferrara s.d., 417]. Suc‐
cessivamente, per l’influenza della teoria precettiva – che guardava al
negozio non come volontà creatrice di effetti giuridici esteriorizzata attra‐
verso la forma, ma come autoregolamento di privati interessi, e dunque
dato della realtà sociale – l’artificiosa distinzione tra «forma esteriore» ed
«essenza interna» dell’atto è stata definitivamente abbandonata. Escluden‐
do la rilevanza dell’interna volontà e concependo il negozio come autorego‐
lamento (atto) inscindibilmente composto di forma e contenuto e impensa‐
bile in assenza di uno dei due costituenti, si identifica la forma con l’atto
stesso, considerato nel suo apparire. La forma quale manifestazione
materiale del contratto non si distingue dal contratto stesso: interrogarsi
sull’esistenza della forma è lo stesso dell’interrogarsi sull’esistenza del
contratto [betti 1994, 125; messineo 1968, 143; carresi 1987, 362].
In una più ristretta concezione, la forma denota una modalità legal‐
mente imposta di formazione del contratto; anziché risolversi nel contratto
stesso (nel suo fenomenico accadere), la forma vale come elemento della
fattispecie legale «contratto», autonomamente apprezzabile ed espressa‐
mente posto dall’art. 1325 [cian 1969, 4].
I contratti possono essere conseguentemente divisi in due
categorie:
a) contratti a forma libera, cioè contratti per i quali la legge non
richiede l’adempimento di particolari oneri formali;
b) contratti a forma imposta, cioè contratti per i quali la legge
ne richiede l’esecuzione. Il mancato assolvimento dell’onere com‐
porta la nullità dell’atto.
In ossequio al tradizionale principio di libertà delle forme, chiara
espressione del valore dell’autonomia negoziale, per opinione diffusa il
rapporto fra contratti non formali e contratti formali è tra regola ed eccezio‐
ne: come pure induce a ritenere l’art. 1325, n. 4, la forma legale sarebbe un
requisito solo eventuale, e non necessitato, del contratto. Se in alcuni
casi la legge richiede una specifica veste formale a pena di nullità, nella
generalità dei casi si deve intendere che non richiede: vale la regola della
forma libera. Sul finire del secolo scorso, in ragione anche del fenomeno
del c.d. neoformalismo (ossia del forte incremento di previsioni sulla
forma legale a pena di nullità) la dottrina delle forme libere è stata varia‐
mente criticata, a vantaggio della diversa visione del rapporto di mera
alternatività tra regole sulla forma libera e regole sulla forma vincolata
[perlingieri 1986; irti 1997, 145]; visione progressivamente affermatasi in
letteratura [breccia 2006, 506].
In giurisprudenza le pronunce più interessanti concernono la questione
della forma degli atti e contratti collegati a negozi formali. L’opinione
tradizionale è che tali atti, ove non risulti una diversa volontà di legge
(come per la procura, art. 1392 e il contratto preliminare, art. 1351), siano a
forma libera; accogliendo la tesi innovativa, si può reputare invece che tali
atti, in ragione del nesso con contratti formali, siano pure essi a forma
vincolata. La giurisprudenza, nelle affermazioni di principio, appare salda‐
mente ancorata all’idea della libertà delle forme. Tuttavia, nella soluzione
dei casi pratici, evidenzia spesso la sua considerazione anche per la tesi
formalistica. Di rilievo le costanti decisioni in materia di mandato senza
rappresentanza alla compravendita di immobili dove, per esigenze di
certezza, la giurisprudenza affianca la disciplina dell’incarico al mandatario
senza rappresentanza alla disciplina della procura (che ne dispone il
rilascio nella stessa forma dovuta per il contratto finale, art. 1392) e richie‐
de la forma scritta a pena di nullità (Cass. 6063/1998). Stessa soluzione
per la cessione di contratto immobiliare: giacché con la cessione si attua
una modificazione soggettiva del regolamento formale, ammissibile nei
limiti in cui è realizzata adempiendo agli stessi oneri formali (Cass.
3725/1991). Si richiede inoltre la forma scritta per il patto di opzione
relativo a contratto formale e per la successiva dichiarazione di accettazio‐
ne (Cass. 3339/1987), e così pure per il negozio fiduciario su beni
immobili (Cass. 5565/2001). La soluzione è adottata anche per i contratti
risolutivi di contratti formali, nella giusta convinzione che un contratto
formale possa essere rimosso soltanto da altro contratto formale (Cass.
2772/1992). L’indirizzo è esteso al caso del contratto risolutivo di prelimina‐
re di definitivo formale. Benché soltanto il secondo preliminare debba
essere redatto nella forma prevista per il contratto definitivo (art. 1351),
l’identica incidenza dei due contratti su diritti immobiliari favorisce l’interpre‐
tazione estensiva dell’onere formale, a copertura anche dei contratti
risolutivi (Cass., s.u., 8878/1990).
■ 3. Il contratto è nullo se illecito (art. 14182). La definizione
dell’illiceità è data nell’art. 1343, sulla causa illecita: contrarietà alle
norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; ma tale
definizione è ritenuta valida per tutti gli altri casi elencati. Norme
imperative, ordine pubblico e buon costume costituiscono i tre
parametri dell’illiceità.
Secondo l’insegnamento recepito, l’illiceità fissa il limite assolu‐
to alla negoziabilità. L’illiceità discrimina l’attività negoziale con
riguardo ai risultati che essa si prefigge; pervade come qualificazio‐
ne assorbente tutti quei contratti volti a un risultato che possa
argomentarsi come contrario a principi-valori riconosciuti e promossi
dall’ordinamento. In quanto limite all’esercizio della libertà contrat‐
tuale sostanziato da principi-valori condivisi, l’illiceità si definisce nei
contenuti sulla base del diritto storicamente rilevante in una determi‐
nata organizzazione sociale.
L’opinione comune ritiene che l’essenza dell’illiceità sia nell’ano‐
malia funzionale del negozio, nel suo deviare dalla funzione per la
quale è ammesso nell’ordinamento, nel suo porsi al servizio di un
risultato vietato perché confliggente con le finalità riconosciute,
astrattamente consacrate dal legislatore nel tipo contrattuale e
concretamente attuate dalle parti nel forgiare un modello atipico o
anche inedito o nell’usare il modello tipico per uno scopo pratico
ritenuto legittimo. Nel contratto illecito la funzione è strumentalizzata
dalle parti, che si rivolgono per mezzo di esso a obiettivi vietati
all’autonomia privata.
Le enunciazioni del codice racchiudono l’illiceità nell’ambito
della causa, dell’oggetto, dei motivi della condizione e del modo; la
riferiscono a determinati elementi costitutivi del contratto, piuttosto
che al contratto in se stesso considerato. Il contratto è pertanto
nullo se sono illeciti: la causa (artt. 1343 e 14182: ad es.,
meretricio), l’oggetto (artt. 1346 e 14182: ad es., compravendita di
droga), i motivi (artt. 1345 e 14182: ad es., locazione di apparta‐
mento a chi si sa essere latitante), la condizione (art. 1354) e il
modo (art. 794).
Nel codice del 1865 si menzionava soltanto l’illiceità della causa. La
dottrina era conseguentemente solita ricondurre altre ipotesi di illiceità
entro i confini (oltremodo dilatati) dell’illiceità della causa, omettendo anche
di parlare, specificamente, di «illiceità della causa» e discorrendo, onni‐
comprensivamente, di «illiceità del negozio» (o «illiceità del suo
contenuto») [ferrara 1902, 4]. Nel progetto italo francese del codice delle
1
obbligazioni del 1927, pur essendo l’illiceità riferita alla causa (artt. 10, 27
e 29), il carattere di liceità è esteso anche all’oggetto (art. 23). Anche per
l’influenza esercitata da questa esperienza, nella codificazione del 1942 la
figura dell’illiceità perde la sua compattezza: accanto all’illiceità della causa
– nell’architettura del codice ancora espressione paradigmatica dell’illiceità
stessa – campeggiano quella dei motivi e quella dell’oggetto.
Secondo l’insegnamento corrente il contratto ha causa illecita
quando realizza un assetto di interessi contrastante con o elusivo di
norme imperative (di ordine pubblico), ordine pubblico o buon
costume (artt. 1343 e 1344). Nei contratti di scambio l’illiceità
risiede, appunto, nello scambio di prestazioni. Le prestazioni posso‐
no essere entrambe illecite (ad es., contratto di ricettazione), en‐
trambe lecite (ad es., contratto di corruzione impropria: retribuzione
per il compimento di un atto conforme ai doveri d’ufficio) o l’una
lecita e l’altra illecita (ad es., contratto di usura). Nei contratti con
comunione di scopo l’illiceità si colloca nello scopo comune perse‐
guito dalle parti e oggettivato nel contratto (ad es., contratto di
associazione per delinquere). Vi è motivo illecito quando le parti si
determinano al contratto per un motivo illecito e comune a entrambe
(art. 1345). Si porta usualmente l’esempio della locazione di un’abi‐
tazione per permettere al lenone di avviare un postribolo, e del
noleggio di una nave al contrabbandiere perché eserciti i suoi
traffici. La condizione illecita (art. 1354) si ha quando l’evento
dedotto in condizione afferma un interesse illecito, di una o di tutte
le parti. Gli esempi ricorrenti concernono la condizione potestativa,
e si inquadrano nel condizionamento abusivo operato da un con‐
traente ai danni dell’altro. Così il contratto condizionato alla commis‐
sione di un delitto, alla stipulazione di un matrimonio, all’abbandono
o alla professione di un’ideologia politica o di una confessione
religiosa. Ma l’illiceità può attenere anche al fatto dedotto, tale da
assicurare interessi immeritevoli (come il contratto subordinato
all’esito positivo di un condizionamento della pubblica amministra‐
zione). Si ha illiceità dell’oggetto (artt. 1346 e 14182) quando a
essere illecita è non la funzione del contratto, ma il bene o il servizio
(oggetto finale), o la prestazione (di quel bene o di quel servizio:
oggetto strumentale) dedotta in contratto.
La distinzione tra illiceità della causa e illiceità dei motivi ha dato
luogo a forti perplessità. Sul presupposto che il motivo rilevante è quello
oggettivato nel contratto – ossia il motivo che integra la causa – si stenta a
cogliere un’effettiva differenza tra le due ipotesi [carresi 1949, 44; betti
1994, 384]. L’evoluzione di pensiero che corre tra la concezione della
causa accolta dai compilatori del codice (l’astratta funzione sociale ed
economica del contratto) alle visioni oggi affermatesi, della causa come
funzione economico-individuale del contratto, come suo scopo concreto, ha
contribuito a offuscare gli incerti confini della distinzione. Il processo di
storicizzazione e individualizzazione della ragione dello scambio, sempre
per come obiettivata nel singolo contratto, dà ampio rilievo alle specifiche
motivazioni che hanno animato le parti e favorisce una tendenziale compe‐
netrazione tra causa e motivi [nuzzo 1990, 2; roppo 2001, 413]. Pertanto si
afferma anche che quella tra illiceità della causa e dei motivi è un’antitesi di
scuola [breccia 1999, 9].
Un discorso molto simile interessa la condizione, quale motivo oggetti‐
vato in una clausola del contratto. La illiceità che la colpisce, pur assumen‐
dosi come distinguibile, si riconosce anche come rispondente all’identica
ragione che fonda l’illiceità di causa e oggetto [carusi 2006, 302].
L’introduzione nella codificazione vigente dell’illiceità dell’oggetto ha
indotto la dottrina a interrogarsi sugli ambiti, eventualmente diversi, dell’illi‐
ceità della causa e dell’illiceità dell’oggetto: sia perché l’illiceità dell’og‐
getto determina sempre l’illiceità della causa; sia perché è davvero difficile
individuare un’ipotesi di causa illecita in cui non sia sostenibile anche
l’illiceità dell’oggetto. La maggiore insidia per la razionalità del sistema
insita nell’espressa previsione dell’illiceità dell’oggetto si coglie compiuta‐
mente considerando il problematico rapporto che corre tra oggetto e
contenuto del contratto. Se si opacizzano o addirittura scompaiono i
confini tra le due nozioni, sfuma di conseguenza anche ogni pretesa di
tenere almeno logicamente distinte l’«illiceità della causa» (e l’«illiceità dei
motivi») e l’«illiceità dell’oggetto». Per queste ragioni diffusa è la convinzio‐
ne che tra illiceità della causa e illiceità dell’oggetto possono esservi
commistioni, influenze e sovrapposizioni [cariota ferrara s.d., 592; scogna‐
miglio 2008, 378].
In conclusione, benché la dottrina si sia a lungo cimentata in raffinate
analisi volte a circoscrivere le aree di incidenza dell’illiceità causale rispetto
all’illiceità degli altri elementi coinvolti, non può dirsi che sia infine riuscita
nell’intento. L’insucesso era inevitabile: infatti, tutto ciò che è illecito nel
contratto è pur sempre riferibile anche alla causa. Nell’elemento causale
struttura e funzione si sovrappongono inseparabilmente. Mentre sul piano
strutturale la causa è elemento del contratto, invece sul piano funzionale ne
esprime la realtà unitaria e dunque, come si è scritto, anche la sua «funzio‐
ne illecita» [palermo 1970, 169].
■ 4. Ordine pubblico e buon costume, quali clausole generali
dell’illiceità, costituiscono i parametri sostanziali di quel giudizio e si
contrappongono alle norme imperative, che invece ne costituiscono
il parametro formale. Questa comune natura dà ragione della
presenza in altri ordinamenti di una soltanto di tali clausole (gute
Sitten in Germania, comprensivi del nostro ordine pubblico; public
policy, nella cui area semantica rientra anche l’immoralità, nei
sistemi anglosassoni).
Il sintagma ordine pubblico è inserito per la prima volta nel
codice napoleonico del 1812, quale somma dei valori fondamentali
affermati dalla Rivoluzione francese e fatti propri dalla codificazione:
uguaglianza, libertà, proprietà. L’opinione corrente ritiene che esso
esprima i valori fondamentali dell’ordinamento in un determinato
momento storico, ponendosi come limite all’autonomia privata che,
nel suo libero esplicarsi, deve comunque rispettare quei valori. La
politicità e la socialità determinative dell’essenza del concetto lo
caratterizzano nell’elasticità e variabilità storico-spaziale.
Circa l’individuazione dei valori di ordine pubblico, un punto essen‐
ziale di riferimento è tradizionalmente individuato nello ius cogens; tanto
che le indagini classiche sull’ordine pubblico ne appiattivano il concetto
sullo stesso diritto imperativo [ferrara 1902, 61]. Questa concezione, mossa
dalla preoccupazione di preservare la libertà contrattuale dall’arbitrio
giudiziale, sconfessava natura e funzione dell’ordine pubblico quale
clausola di sensibilizzazione delle regole positive all’evoluzione dei valori
sociali; inoltre annullava la sua rilevanza di parametro autonomo dell’illicei‐
tà: da affiancarsi alle norme imperative, e non da dedursi semplicemente
dalle stesse. Natura e funzione di clausola generale dell’ordine pubblico
sono tuttavia costantemente sostenute nella dottrina successiva. Sia pure
attraverso passaggi contrassegnati da un’evidente gradualità (per il medio
della deduzione dell’ordine pubblico dal diritto cogente non solo espresso,
ma anche implicito) e nel confronto tra visioni positivistiche e visioni
antiformalistiche, si afferma progressivamente l’idea dell’ordine pubblico
quale insieme di valori intransigibili immanenti nell’ordinamento e conse‐
guenti all’evoluzione sociale [betti 1994, 383].
Trattandosi di valori di sistema, i valori di ordine pubblico sono
desumibili in via interpretativa, senza che occorra l’espressa commi‐
natoria di nullità e nemmeno l’indicazione legislativa del comando o
del divieto.
Circa le fonti dell’ordine pubblico, rilevano sopra tutto i princi‐
pi-valori sanciti dalla Costituzione (direttamente o anche indiret‐
tamente, ossia attraverso il richiamo a fonti esterne all’ordinamento,
come le convenzioni internazionali): diritti inviolabili dell’uomo,
doveri inderogabili di solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale
dei cittadini, tutela della salute, della libertà e della dignità umana
sopra tutti. Oltre ai principi costituzionali rilevano i principi ordina‐
tori del diritto comunitario e del diritto interno: non solo impera‐
tivo ma anche dispositivo. Pure importanti le fonti extralegali
(etiche ed economiche), le deontologie professionali e, riassuntiva‐
mente, i principi storicamente elaborati dalla cultura giuridica.
Ricorre tradizionalmente l’idea dell’ordine pubblico che lo assimila a
quella di interesse pubblico [ferrara 1902, 4]. Questa concezione risente
di una semplificazione concettuale indotta dalla struttura del diritto tradizio‐
nale, organizzato secondo criteri sufficientemente netti di delimitazione
territoriale tra pubblico e privato e sfornito di una fonte superiore quale la
Costituzione (che riconosce e impone il rispetto dei diritti – dunque indivi‐
duali – fondamentali). Dopo l’entrata in vigore della Costituzione e l’avvento
del diritto deformalizzato dello Stato sociale si ingenera l’opinione che
accanto alle norme imperative di interesse pubblico si pongano altre dirette
a tutelare imperativamente interessi individuali ma fondamentali [Ferri
1970, 210]. L’ordine pubblico non risente, per questa ragione, di una
frattura interna, che separi la tutela degli interessi generali da quella degli
interessi individuali. Possono infatti dirsi di ordine pubblico, per comune
opinione, solo gli interessi (pubblici o privati) radicati nei valori fondamentali
dell’ordinamento.
Contrastano con l’ordine pubblico i contratti che limitano la
libertà (di espressione, di associazione, di religione, di lavoro), come
la vendita del voto elettorale e del posto di lavoro; i contratti disposi‐
tivi del diritto all’integrità fisica e alla salute (compravendita di un
organo doppio, limitazioni di responsabilità per danni alla salute) e,
in generale, aventi a oggetto diritti non disponibili (identità
personale, riservatezza, diritto morale d’autore). Contrastano altresì
con l’ordine pubblico i contratti in cui è pregiudicato l’ordinato
svolgersi dei rapporti economici (come gli accordi limitativi della
concorrenza in perpetuo).
In tema di rapporto di lavoro sono illeciti nella causa per violazione
dell’ordine pubblico: il contratto in cui il corrispettivo stabilito per la presta‐
zione di lavoro consiste non in una retribuzione ma nell’assunzione dell’ob‐
bligazione di adottare e di istituire erede il lavoratore (Cass. 835/1964); il
contratto con il quale un lavoratore si impegna dietro corrispettivo a lascia‐
re libero il suo posto di lavoro a vantaggio di altro lavoratore (Cass.
2859/1974); il bando di concorso per assunzione contenente discriminazio‐
ni ai danni di talune categorie di lavoratori (Cass., s.u., 7081/1986). Circa le
disposizioni a tutela degli incapaci, l’impegno di ottenere il provvedimento
autorizzativo per la vendita di beni dell’incapace assunto verso terzi dal
rappresentante legale del medesimo è nullo per contrarietà a norme di
ordine pubblico, contrastando con l’esigenza che l’attività di amministrazio‐
ne del patrimonio dell’incapace sia giustificata esclusivamente dalla
considerazione degli interessi dell’incapace stesso (Cass. 557/1968).
Contrari all’ordine pubblico sono pure i contratti comprensivi di clausole
compromissorie per le quali le controversie tra le parti o (se negozi
associativi) fra membro e organizzazione collettiva, sono devolute a collegi
arbitrali composti da soggetti non del tutto (o perlomeno non sufficiente‐
mente) estranei alla sfera di interessi di taluna delle parti in conflitto (Cass.,
s.u., 1178/1963; Cass. 2680/1984).
Accanto a formule di più immediato sapore collettivo, come
quelle dell’ordine pubblico costituzionale, o politico, o dell’ordi‐
ne pubblico tecnologico, si apprezzano l’ordine pubblico perso‐
nale e familiare (esteso sino ai territori di frontiera delle manipola‐
zioni genetiche) e l’ordine pubblico matrimoniale (con tutta
l’ampia casistica sugli accordi in vista del matrimonio, in vista del
divorzio, in alternativa al matrimonio), quali configurazioni in cui la
clausola generale si vede assegnati obiettivi controversi e non
pacificati, nella loro essenza, dai risultati del pubblico dibattito.
Deve tuttavia precisarsi che tali formule si rivelano non diversi
modi di ‘essere’ dell’ordine pubblico (dal punto di vista ontologico)
ma più modestamente diversi modi di operare, con riguardo agli
specifici ambiti di incidenza (secondo un punto di vista funzionale).
L’ordine pubblico conserva e custodisce i valori ritenuti non negozia‐
bili (dal legislatore, e anche dall’elaborazione culturale del diritto)
nei più diversi ambiti; di conseguenza, le varie modalità operative
che si possono annoverare nell’esperienza si presentano ontologi‐
camente identiche: sfaccettature distinte ma tutte costitutive del
complesso prisma dell’ordine pubblico.
In questa prospettiva, la più importante specificazione è data
dalla figura, settoriale, dell’ordine pubblico economico. Mentre la
caratteristica dell’ordine pubblico è di porsi come limite negativo alla
libera determinazione dei contraenti, l’ordine pubblico economico si
caratterizza invece per la sua portata positiva, propulsiva, distin‐
guendosi in ordine pubblico economico di direzione, espresso
dagli interventi legislativi di indirizzo e sviluppo del progresso eco‐
nomico (in materia di politica del credito, controllo dei prezzi, tutela
dell’effettività della concorrenza, e così via) e ordine pubblico
economico di protezione, espresso dalle leggi a tutela dei con‐
traenti deboli. Mentre l’ordine pubblico non economico sottrae
determinati territori allo scambio economico, a tutela di valori non
patrimonializzabili, invece l’ordine pubblico economico tutela l’eser‐
cizio della libertà contrattuale e, regolamentandola, reprime gli abusi
consumati dalla parte forte in pregiudizio della parte debole, con ciò
tutelando il contratto nella sua essenza. Da qui l’opportunità di
isolare, nell’ampio genere «ordine pubblico», una categoria subordi‐
nata rinvenibile nei principi essenziali che costituiscono l’«ordine
giuridico del mercato».
Il buon costume esprime i canoni dell’onestà o, come anche si
dice, della moralità accolti dalla società civile: nella sfera sessuale e
familiare, costituente il settore di tradizionale rilevanza, ma anche in
tutti gli altri ambiti in cui si svolge la vita associata. Il buon costume
non afferma positivamente tali valori, ma pone i precetti di rispetto
minimo di questi canoni: segna il confine negativo oltre il quale il
contratto più che non promuovere i valori dell’ordinamento, più che
restare indifferente a essi, li viola apertamente, offendendo la
morale e il senso di onestà diffusi nell’organizzazione sociale. Come
l’ordine pubblico, anche il buon costume svolge dunque una funzio‐
ne conservativa dei valori prevalenti nell’ordinamento ponendosi
quale limite negativo all’agire contrattuale. Altra caratteristica del
buon costume, che lo accomuna all’ordine pubblico, risiede nella
relatività storica e spaziale dei principi che lo sostanziano. Una
caratteristica comune finale è data dalla desumibilità, anche dei
precetti del buon costume, in via interpretativa, a prescindere da
un’espressa previsione di legge.
È da sempre pacifico che viola il buon costume il contratto con
cui il pubblico ufficiale effettua, dietro corrispettivo, un atto conforme
o contrario ai doveri del suo ufficio; il mutuo concesso al giocatore
d’azzardo; la prestazione sessuale a pagamento; il contratto con cui
si dispone della propria integrità fisica o morale (art. 5).
Contrasta con il buon costume il contratto a titolo oneroso avente a
oggetto il conferimento di un incarico professionale stipulato fra i compe‐
tenti organi di un’istituzione pubblica e un membro del consiglio di ammini‐
strazione dell’ente, con intenzionale lesione degli interessi di quest’ultimo
(Cass. 5408/1982); l’accordo fraudolento intercorso tra l’acquirente di beni
immobili di proprietà di minori e il loro genitore e inteso a defraudare i
minori del prezzo a essi dovuto per la vendita degli immobili, così da poter
dividere tra loro la differenza illecitamente sottratta (Cass. 234/1960); il
contratto di rilegatura di libri a contenuto pornografico (Cass.
10779/1994); il contratto con cui taluno, in vista delle elezioni, si impegni,
verso corrispettivo, a far convergere il suo voto e quello dei suoi sostenitori
sulla controparte, e a procurare la rinunzia al mandato parlamentare, a
favore di quest’ultima, da parte di altri candidati eventualmente eletti in suo
luogo (Cass. 1574/1971).
Le valutazioni di contrarietà al buon costume e all’ordine pubbli‐
co possono coincidere: ciò quando il canone di onestà esprime,
anche, un valore essenziale dell’ordinamento. Sicché appare
difficile collocare alcune ipotesi di illiceità nell’ambito delle violazioni
del buon costume piuttosto che nell’ambito dell’offesa ai principi
dell’ordine pubblico.
Queste coincidenze tra le valutazioni di contrarietà al buon costume e
all’ordine pubblico, che hanno indotto diversa dottrina a ritenere ordine
pubblico e buon costume espressioni sostanzialmente equivalenti [breccia
1999, 209]. Nondimeno, a giudizio dei più, fra ordine pubblico e buon
costume permane una differenza ontologica, veicolando il buon costume
valori esclusivamente etici, di cui realizza la giuridificazione [ferri 1970,
209]. La differenza ontologica tra ordine pubblico e buon costume è
tendenzialmente ravvisata, pertanto, nella fonte legale del primo e nella
fonte morale del secondo. La distinzione si conserva nella misura in cui sia
possibile riscontrare un’effettiva morale sociale, cosa che appare proble‐
matica nelle società evolute, amalgamate da valori non monistici ma
pluralistici. Si dovrebbe pertanto concordare sulla opportunità del riferimen‐
to ai valori costituzionali per dare chiara sostanza ai precetti, altrimenti
inutilizzabili per eccessiva opinabilità, del buon costume. Tanto che,
secondo l’opinione più diffusa, il buon costume e l’ordine pubblico (già per
vicinanza ontologica, ma soprattutto per stringente necessità operativa) si
sostanziano entrambi nei valori fondamentali espressi nell’ordinamento.
Per tali ragioni appare ragionevole ritenere che il buon costume non si
distingua (almeno non completamente) ma sia in rilevante misura ricompre‐
so nello spazio più ampio occupato dall’ordine pubblico, di cui rappresenta
una particolare modalità o connotazione: l’ordine pubblico etico, che
trova cioè immediato fondamento nei principi etici assunti nell’ordinamento
a sua peculiare caratterizzazione, apprezzabile nella sua separatezza per
la specificità di disciplina disposta dall’art. 2035 sulla irripetibilità della
prestazione immorale.
■ 5. Le norme imperative possono essere individuate, con l’opi‐
nione comune, nelle norme cogenti poste dalla legge ordinaria, o da
fonti a essa sovrordinate, subordinate o equiparate. Nel diritto dei
contratti rilevano le norme imperative poste dalla legge, da atti
aventi forza di legge, da norme comunitarie e da fonti regolamentari
autorizzate dalla legge (ma non anche quelle introdotte da fonti di
produzione subordinate alla legge e non autorizzate dalla legge).
Funzione delle norme imperative è di strutturare gli spazi entro cui si
svolge l’esercizio dell’autonomia privata: tradizionalmente, attraver‐
so comandi negativi (norme proibitive); attualmente anche attra‐
verso comandi positivi (norme precettive).
Alla violazione delle norme imperative è dedicata la norma
generale dell’art. 14181, secondo cui il contratto contrario a norma
imperativa è nullo a meno che, si precisa con clausola di salvezza,
la legge non disponga diversamente.
La legge può prevedere per la violazione di una norma imperati‐
va la semplice irregolarità del contratto o conseguenze diverse
dall’invalidità (recesso, risoluzione, inefficacia in senso stretto o
altro); può prevedere, in alternativa, l’invalidità del contratto (nullità,
annullabilità, rescissione); oppure può tacere. L’assenza di sanzione
espressa non comporta l’assenza di sanzione. Poiché la nullità per
contrarietà a norme imperative è espressione di un principio
generale, opera a prescindere dalla previsione della sanzione nel
contesto della specifica norma (imperativa) violata. Si esplica così la
funzione dell’art. 14181: di chiudere il sistema introducendo,
accanto alla nullità testualmente prevista, una forma di nullità
inespressa, derivante da una violazione non esplicitamente sanzio‐
nata dalla legge civile. È questa la figura della nullità virtuale.
Se la mera disattenzione di una norma imperativa non espres‐
samente sanzionata può comportare la nullità, potendo essa
comportare anche la semplice irregolarità, o altre conseguenze
ancora, o nessuna conseguenza, sorge l’esigenza di individuare un
criterio con cui discriminare i due ordini di casi (nullità, non nullità).
Secondo un criterio consolidato per stabilire se la violazione di
una norma imperativa non esplicitamente sanzionata comporta
l’illiceità del contratto bisogna indagare il fondamento della norma.
Se essa risponde a ragioni di ordine pubblico e assicura la tutela dei
valori fondamentali dell’ordinamento, il contratto è illecito, altrimenti
no. Questo criterio funzionale è stabilmente seguito in giurispru‐
denza.
Oltre ai casi già citati in materia di contrasto con l’ordine pubblico di
precetti non espressamente sanzionati con la nullità, un significativo ordine
di ipotesi riguarda l’esercizio incontrollato di prestazioni professionali
per le quali si richiedono determinati requisiti di professionalità e correttez‐
za, presuntivamente posseduti soltanto da coloro che hanno ottenuto
1
l’iscrizione in appositi albi previsti dalla legge (art. 2231 ), e ai quali soltan‐
to l’esercizio di tali professioni è pertanto riservato. Ne consegue la nullità
per violazione della norma imperativa di ordine pubblico dell’iscrizione
all’albo del contratto concluso per abusivo esercizio della professione di:
dentista (Cass. 10769/1995); ragioniere (Cass. 305/1996); ingegnere
(Cass. 1157/1996); intermediario finanziario (Cass. 3272/2001); avvocato
(Cass. 3740/2007). Ma lo stesso è opinabilmente ritenuto anche per
professioni che non sembrerebbero necessitare di controlli a fini di ordine
pubblico, come nei casi di: agente di commercio (Cass. 9063/1994);
giornalista (Cass. 2476/1996); mediatore (Cass. 19066/2006).
Al fine di implementare la razionalità e la prevedibilità delle
decisioni, la dottrina ha cercato di controllare l’analisi funzionale con
l’ausilio di correttivi. Sempre in prospettiva funzionale, in presenza
di norma imperativa sanzionata ma non con l’invalidità si ritiene che
la nullità possa essere comminata soltanto se l’esigenza perseguita
dal legislatore mediante la previsione della specifica sanzione non
può essere compiutamente conseguita per mezzo della relativa
irrogazione (criterio del minimo mezzo). In prospettiva strutturale,
un importante indice sintomatico della natura di norma imperativa di
ordine pubblico è dato, per opinione comune, dall’assolutezza
dell’obbligo imposto: giacché l’interesse che non tollera compres‐
sioni è l’interesse di ordine pubblico.
In alternativa al criterio funzionale si pongono criteri strutturali.
Poiché l’art. 14181 fissa la regola della nullità e l’eccezione di un
diverso trattamento, si potrebbe ipotizzare che la nullità debba
essere pronunciata ogni qual volta non vi sia una norma che
statuisca la salvezza degli effetti del contratto contrario a norma
imperativa oppure dichiari una sanzione diversa dalla nullità. La
clausola di riserva dell’art. 14181 perderebbe tuttavia la sua autono‐
ma funzione, ponendosi come inutile ripetizione del principio per cui
la regola speciale (di salvezza) deroga alla regola generale (di
invalidità). Poiché la libera esplicazione dell’autonomia privata
integra un principio fondamentale dell’ordinamento, suscettibile
soltanto di divieti posti in via eccezionale a segnarne il limite funzio‐
nale, parte della dottrina difende la tesi che un problema di nullità
virtuale si porrebbe soltanto per l’inottemperanza di norme impera‐
tive proibitive e non anche per la disattenzione di norme imperati‐
ve precettive o ordinative (o di struttura, o di configurazione). Ogni
norma precettiva è tuttavia convertibile in un divieto; pertanto non si
può apprezzare alcuna differenza sostanziale tra norme precettive e
norme proibitive: anche la norma precettiva, che pone un comando
in positivo, limita l’autonomia privata e si presta a essere trattata
con la nullità.
Il criterio strutturale che attualmente gode di maggior credito si
fonda sulla distinzione che si ritiene di tracciare tra repressione
della regola contrattuale, da un lato, e repressione del comporta‐
mento tenuto da taluni dei contraenti nella stipulazione del
contratto, dall’altro. L’osservazione fondamentale è che l’art. 14181
disciplina, testualmente, il caso del contrasto tra contratto e norma
imperativa e sanziona con la nullità (salvo diversa disposizione di
legge) il regolamento di autonomia che perciò è disapprovato in se
stesso; non si interessa, questa norma, del comportamento tenuto
dalle parti nella conclusione del contratto. La sanzione del compor‐
tamento non può determinare, di per se stessa, la disapprovazione
del contratto che da quel comportamento si origina. Occorre, per
questa conseguenza, che il contratto sia autonomamente (cioè a
prescindere dal comportamento tenuto dalla parte) contrario alla
norma imperativa. Il che si verifica, secondo l’opinione dominante,
quando a essere contrario alla norma imperativa sia non soltanto il
comportamento di una parte, bensì il comportamento di tutte le
parti che hanno dato luogo al contratto. Al di fuori di questa eve‐
nienza, in cui il contratto sia determinato da condotte tutte disappro‐
vate, e quindi si ponga come disapprovato in se stesso, la non
conformità a norma imperativa del comportamento determinerà
sanzioni diverse dalla nullità: quelle, per l’appunto, che hanno a
oggetto non un regolamento di interessi, ma una condotta (negozia‐
le), come accade per l’annullabilità e la rescissione.
Impegnativo banco di prova delle varie opinioni è quello delle norme
imperative penalmente sanzionate che non prevedono anche la nullità
del contratto posto in essere. In generale vi è accordo, in dottrina come in
giurisprudenza, che illiceità penale e illiceità civile non sono necessaria‐
mente coincidenti. Un comportamento penalmente sanzionato non neces‐
sariamente determina la nullità del contratto che produce. Infatti, perché
operi la sanzione della nullità, occorre che il contratto sia riprovato dalla
legge civile. Si possono verificare tre eventualità di massima. a) La legge
penale, oltre che punire il reo (una alcune o tutte le parti dell’accordo) può
«disapprovare» (per così dire) direttamente il contratto, vietando la vendita,
l’acquisto o il commercio di determinati beni (ad es., artt. 250, 352, 470,
474, 648, 686, 705 e 710 c.p.). In simili fattispecie ciò che la legge penale
direttamente sanziona è il regolamento a cui le parti sono pervenute.
Nessuno dubita che, civilisticamente, il contratto sia illecito. Esso, infatti, è
contrario a una norma imperativa (penale): ricade nell’area di interesse
1
dell’art. 1418 . Queste fattispecie sono denominate reati-contratto
[leoncini 1990, 1053]. In effetti, il reato-contratto è già valutabile come
1
illecito in base a norme diverse dall’art. 1418 , e specificamente in base
2
all’art. 1418 : perché illecito nella causa, nell’oggetto o nel motivo determi‐
nante e comune alle parti. Così il delitto di ricettazione è illecito sia in
1
quanto reato-contratto (art. 648 c.p.; art. 1418 ) sia perché illecito nell’og‐
2
getto (artt. 648 c.p.; artt. 1343 e 1418 ); il patto di corruzione è illecito
2
(anche) nel motivo (artt. 318 ss. c.p.; artt. 1345 e 1418 ). In altri termini,
nessun problema si pone se il contratto penalmente vietato ha causa,
oggetto o motivo determinante illeciti, poiché in questi casi è la legge
civile che dispone la nullità [vassalli 1985, 467]. b) Nessun problema si
pone se la legge penale punisce il comportamento di entrambi i con‐
traenti (ad es., turbata libertà degli incanti, art. 353 c.p.). In simili fattispe‐
cie il contratto è certamente illecito per contrarietà all’ordine pubblico.
Infatti, ciò che la legge direttamente sanziona è il regolamento a cui le
parti sono pervenute. c) A volte la legge penale si limita a punire il compor‐
tamento di una parte nella fase delle trattative, senza disapprovare espres‐
samente il contratto: penalmente rilevante è non l’assetto di interessi
raggiunto, ma la condotta tenuta da una delle parti ai danni dell’altra per
raggiungerlo. Si discorre di reati in contratto [leon-cini 1990, 999]. Si tratta
di figure realizzate con la cooperazione artificiosa della vittima, che è
indotta con mezzi illeciti (frode, violenza, approfittamento dello stato di
bisogno o di inferiorità psichica) a una disposizione patrimoniale (ad es.,
artt. 629, 640, 641, 643 e 644 c.p.). Poiché la norma imperativa non si
interessa della convenzione ma si limita a disapprovare solo alcune tra le
condotte che la realizzano, sorge una grave incertezza sul trattamento
civilistico del contratto.
Un’autorevole dottrina, sviluppando la distinzione riportata fra «sanzio‐
ne del contratto» e «sanzione del comportamento» (delittuoso) di uno dei
contraenti, ha sostenuto che in questo ultimo caso, poiché la norma penale
non vieta il comportamento di entrambe le parti che si accordano, non vieta
di conseguenza il contratto «come tale», ma come «comportamento
materiale». In sostanza, il reato è circoscrivibile nel comportamento di
1
una delle parti e non travolge il contratto [oppo 1963, 178]. L’art. 1418 ,
infatti, si riferisce solo al contratto e mai al comportamento di una o di tutte
le parti, che costituisce invece l’oggetto della legge penale. Siccome legge
civile e legge penale disciplinano ambiti diversi (la prima il contratto, la
seconda la condotta del reo), si comprende come la violazione della legge
penale non determini la nullità del contratto frutto del comportamento
unilateralmente inottemperante, e come invece il contratto come tale
vietato secondo la legge penale (perché frutto di comportamenti tutti vietati)
sia nullo secondo la legge civile [ferri 1970, 165; de nova 1985, 447]. A
questa soluzione si obietta che, attesa la non coincidenza tra illiceità
penale e illiceità civile, è arbitrario desumere la liceità del contratto argo‐
mentando dalla punibilità di una parte soltanto: nessun ostacolo impedireb‐
be che all’illiceità del contratto l’ordinamento affiancasse, sul piano penali‐
stico, una sanzione a carico di un contraente soltanto. Inoltre, lo stesso
legislatore commina, a volte, la nullità del contratto proibito a uno soltanto
dei contraenti, come nel caso del contratto stipulato dal professionista
abusivo (art. 2231) [moschella 1981, 306; villa 1993, 116].
La giurisprudenza si è richiamata a volte alla visione invalsa nella
dottrina prevalente, la quale visione altrettante volte ha tuttavia respinto,
applicando il tradizionale e consolidato criterio funzionale sulla natura – se
di ordine pubblico o meno – della norma penale violata (rispettivamente,
Cass. 1749/1969; Cass. 4234/2003; Cass. 7998/1990).
Discusso è il fondamento della nullità virtuale. Oltre alla visione
tradizionale, secondo cui si avrebbe una delle classiche fattispecie
di illiceità (non per violazione di ordine pubblico o buon costume,
ma per violazione di norme imperative), per un diverso avviso, oggi
alquanto diffuso, si tratterebbe di una fattispecie diversa dall’illiceità:
di nullità semplice, denominata nullità da illegalità. La figura si
caratterizzerebbe per i termini del contrasto con la norma
imperativa, giacché quel contrasto involge non la causa (o altri
elementi rilevanti ai fini dell’illiceità), ma il contratto genericamente
considerato. Mentre al contrasto tra contratto e norma imperativa si
applicherebbe la regola della nullità salvo diversa disposizione,
invece per il contrasto della causa con norma imperativa varrebbe la
più severa regola della nullità del contratto, senza possibile salvez‐
za; mentre al secondo si applicherebbe l’intero apparato rimediale
previsto per l’illiceità, invece al primo si applicherebbero le conse‐
guenze meno drastiche riferite dalla legge non all’illiceità della
causa o dell’oggetto (art. 2126) ma all’illiceità del contratto generica‐
mente intesa.
L’applicazione del criterio sostanziale per discriminare i casi di
nullità virtuale – ossia la natura (se di ordine pubblico o meno) della
norma imperativa violata – cagionando un’interferenza tra contratto
illecito e contratto contrario a norma imperativa rende tuttavia
problematica la conclusione dell’effettiva diversità tra illiceità e
illegalità.
■ 6. La violazione delle norme imperative può determinarsi non
soltanto per contrasto diretto ma anche per contrasto indiretto, ossia
attraverso l’elusione della norma: formalmente rispettata ma disat‐
tesa nella sostanza. Qualora la funzione illecita si realizzi secondo
tale modalità, si ha illiceità della causa per frode alla legge. La
formula di cui si serve il codice nell’art. 1344, secondo cui la causa
in frode deve «reputarsi» illecita, suscita l’idea che l’idea che la
causa del contratto sarebbe in se stessa lecita, ma diviene illecita in
quanto strumentalizzata per fini vietati alle parti: in quanto abusata.
La funzione reale espressa dal contratto può dunque sfuggire alla
semplice considerazione della «causa» intesa come «funzione
economico-sociale»; questa la ragione che fonda il ricorso alla
frode: creare un’apparenza di liceità attraverso l’utilizzo di un model‐
lo contrattuale riconosciuto dalla legge.
Le incertezze suscitate dalla pur intuitiva figura della frode alla legge
sono dovute alle concezioni adottate dagli interpreti in ordine alla causa
quale funzione del contratto, abusata nel caso concreto [d’amico 1993,
165]. Se infatti si insiste nella visione tradizionale della funzione
economico-sociale, può diventare difficile ricomprendere nell’area della
causa il fenomeno violativo che viene (pertanto) inquadrato nel concetto di
«frode»: la funzione oggettiva del contratto potrebbe essere formalmente
rispettata permanendo tuttavia il risultato negativo di sostanziale disatten‐
zione della finalità della legge. Questa difficoltà spiega anche il dibattito tra
approcci interpretativi (classificati come teorie oggettive) volti a valorizza‐
re l’attività contrattuale elusiva in se stessa considerata e realizzatrice dello
scopo vietato dalla legge (secondo cui l’essenza della fenomeno sarebbe
nella modalità della violazione: non diretta ma indiretta) [bianca 2000, 625;
gentili 2006, 1505] e approcci (classificati come teorie soggettive) fondati
sull’importanza assegnata al motivo elusivo, comune alle parti e determi‐
nativo del particolare procedimento contrattuale adottato, volto al raggiungi‐
mento di un risultato, seppure non perfettamente coincidente, sostanzial‐
mente analogo a quello espressamente vietato [carraro 1943, 83; santoropassarelli 1986, 191].
Delle insufficienze accusate dall’indagine causale nella repressione
della frode alla legge fu consapevole in certa misura il legislatore, che
giunse alla scrittura dell’art. 1344 dopo molteplici ripensamenti. Nell’iniziale
formulazione dell’art. 216 del progetto preliminare la norma prevedeva
l’illiceità del contratto che, pur avendo causa lecita, costituisce il mezzo per
eludere l’applicazione di norme imperative; benché la disposizione menzio‐
nasse anche la causa (al fine di chiarire che la sua liceità non è sufficiente
a escludere la frode) riferiva la strumentalizzazione all’intero contratto. La
disposizione, rielaborata nell’art. 241 del progetto definitivo, contemplò
l’illiceità del contratto in frode alla legge senza più nessun riferimento alla
causa (disponendo che «oltre che nei casi espressamente previsti dalla
legge, il contratto è nullo […] quando costituisce il mezzo per eludere
disposizioni imperative e proibitive della legge o di norme collettive»).
Proprio con esclusivo riguardo alla causa, invece, è stata redatta la norma
nella sua formulazione definitiva.
L’indagine sulla frode mira ad accertare la strumentalizzazione
del contratto in sé lecito al fine vietato. Oggetto dell’analisi è il
rapporto tra lo scopo del divieto e il fine concreto raggiunto con il
contratto: dunque, la sostanza economica dell’affare maturato
con il contratto. Importante, in tal senso, è il rinvenimento di indici
sintomatici della frode sedimentatisi, per ciascuna delle figure
ricorrenti, a seguito dell’elaborazione giurisprudenziale; ciò che,
tuttavia, conta essenzialmente è l’interpretazione del, nonché la
sussistenza o l’insussistenza di un interesse meritevole delle parti
all’adozione di quelle particolari modalità negoziali.
L’apprezzamento della sostanza economica dell’affare alla luce della
meritevolezza dell’interesse a servirsi dello specifico schema contrattuale
[morello 1992, 504] spinge l’indagine oltre l’elemento causale, l’esame del
quale potrebbe non essere sufficiente a evidenziare la meritevolezza
dell’impiego della modalità contrattuale prescelta; si afferma pertanto che la
causa del contratto fraudolento può apparire in se stessa pienamente lecita
[breccia 1999, 266]. Diviene così rilevante anche l’indagine sui motivi:
essendo il contratto costituito dal comune intento fraudolento. Si prende
atto, nella dottrina recente, che il contrasto, così spesso rimarcato tra teorie
oggettive e teorie soggettive non deve essere enfatizzato; nemmeno
sfugge che la giurisprudenza, nell’indagare la frode, valorizza sia il risultato
pratico a cui conduce il contratto e che in esso è oggettivamente
perseguito, sia l’intento elusivo che ha animato i contraenti [gitti 1993, 466].
L’indagine sul profilo causale accentua la problematicità del suo risulta‐
to quando la frode è consumata attraverso una serie di atti e contratti tra
di loro collegati. In tal caso, infatti, la considerazione delle ragioni del
singolo contratto risulta insufficiente a svelare il senso dell’intera operazio‐
ne realizzata nel procedimento negoziale in frode alla legge. Né, a tal fine,
apporta alcuna concreta utilità il mero ricorso alla nozione legislativa di
‘causa’ come elemento del contratto, con la conseguenza che la distinzione
tra «atto contro la legge» e «atto in frode alla legge» è destinata a rimanere
incerta.
Nella prassi applicativa, a prescindere dalle opzioni interpreta‐
tive di volta in volta affermate, prevale un atteggiamento
pragmatico. I giudici leggono la norma che pone il divieto a volte in
via estensiva altre volte, e benché non si dichiari apertamente, in
via analogica, facendo sempre attenzione alla sostanza concreta
dell’affare e ritenendo l’elusione del divieto quando il contratto
apparentemente legale consente risultati vietati o anche solo simili a
quelli vietati. Perciò, in molti casi l’applicazione dell’art. 1344 non
appare necessaria e viene evitata a vantaggio delle norme sulla
illiceità diretta.
Il settore di tradizionale applicazione della figura è costituito dal divieto
del patto commissorio, stabilito negli artt. 1963 e 2744, statuenti rispetti‐
vamente: la nullità del patto accessorio al contratto di anticresi con cui si
conviene che nel caso di mancato pagamento del debito il creditore
acquista la proprietà del bene; la nullità del patto fra creditore e debitore
secondo cui, in mancanza del pagamento nel termine fissato, la proprietà
di un bene del debitore dato in pegno o ipotecato passa al creditore. Il patto
commissorio è costruito come illecito di modalità di lesione: le norme
sanzionano un patto accessorio al contratto di anticresi, oppure all’atto
costitutivo di pegno o di ipoteca. Il codice abrogato, agli artt. 1884 e 1894,
sanzionava solo il patto commissorio afferente al pegno e all’anticresi. Le
vivaci polemiche che seguirono determinarono, nel codice in vigore,
l’estensione del divieto al patto accessorio all’ipoteca. Non si dubita,
tuttavia, che il divieto abbia natura non formale ma materiale, inibendo un
preciso risultato (Cass., s.u., 1611/1989). Esso è pertanto esteso al patto
commissorio autonomo, non afferente ad anticresi o garanzie reali, ma
stipulato come autonoma alienazione in garanzia (ossia condizionata
nell’effetto reale al mancato adempimento di un coevo contratto di mutuo,
oggetto della garanzia commissoria) [bianca 1965, 714; carnevali 1982,
502] (Cass. 1787/1993) e al patto commissorio obbligatorio (con cui il
debitore si impegna a trasferire un suo bene al creditore in caso di inadem‐
pimento dell’obbligazione assunta) (Cass. 8325/1990).
La giurisprudenza ha precisato che il divieto di patto commissorio
opera in caso di coesistenza di una vendita con un mutuo non in ogni caso
ma solo quando risulti che i due contratti sono stati stipulati in reciproca
interdipendenza, in modo che si appalesi l’intento comune alle parti di
costituire a mezzo della vendita una garanzia reale per il mutuante-acqui‐
rente in caso di inadempimento del venditore-mutuatario (Cass. 672/1998;
Cass. 13580/2004). Ciò che dunque conta è la funzione concreta ed
effettiva del contratto, e non la causa formale (o funzione economicosociale). un’importante applicazione ha riguardato il contratto di sale and
lease-back, in cui un soggetto (venditore e utilizzatore) aliena un bene ad
altro soggetto (acquirente e finanziatore) che glielo concede in leasing.
L’originaria appartenenza del bene concesso in leasing a una delle parti del
contratto determina un’obiettiva funzione di garanzia: così da suscitare lo
schema dell’ alienazione a scopo di garanzia dell’adempimento. Secondo
la giurisprudenza il contratto non è sen’altro illecito. Esso deve essere
ritenuto lecito e meritevole se, dall’esame della concreta operazione
economica, possa desumersi la realizzazione di una struttura contrattuale
finalizzata a un meritevole esercizio di impresa (smobilizzo di risorse per
acquisire liquidità); illecito in quanto strumentalizzato a fini riprovati, quale
quello di comporre una convenzione commissoria. È pertanto importante
verificare la ricorrenza, nel caso concreto, di alcuni indici sintomatici della
frode alla legge, come: la qualità soggettiva delle parti, diversa da quella di
società di leasing e di imprenditore; la difficoltà economica del venditoreutilizzatore; l’eccessività dei canoni; l’incongrua durata del contratto (Cass.
10805/1996).
■ 7. Oltre che negli elementi essenziali, il contratto può essere
incompleto o illecito in uno o più elementi accidentali, secondari,
accessori (nullità parziale oggettiva). Inoltre, se si tratta di contrat‐
to plurilaterale, può essere incompleto o illecito in alcune partecipa‐
zioni (nullità parziale soggettiva). Poiché tale incompletezza o
illiceità non investe alcun elemento fondamentale, il contratto non
può dirsi necessariamente pregiudicato nella sua totalità. Infatti, può
essere conservato nella sua struttura e nei suoi effetti essenziali
(oltre che nella sua struttura e nei suoi effetti inessenziali laddove
non incisi dal vizio). Il problema della nullità parziale è dunque nella
conservazione di contratti privati di alcune previsioni o di alcune
partecipazioni e dunque nell’utilizzabilità di contratti ridotti nell’effet‐
tualità, e pertanto non più corrispondenti all’articolazione di interessi
inizialmente calatavi. La soluzione di questo problema è nel coniu‐
gare l’esigenza della conservazione del contratto con il rispetto
dell’autonomia privata: avendo cura di evitare che attraverso il
mantenimento di contratti ridotti si consentano a taluno dei con‐
traenti vantaggi ingiustificati secondo l’originario assetto di interessi.
Dispone al riguardo l’art. 14191 che la nullità di una parte del con‐
tratto e la nullità di singole clausole non comportano necessaria‐
mente la nullità dell’intero contratto; perché ciò accada si richiede,
inoltre, la prova che senza quella parte colpita da nullità i contraenti
non sarebbero giunti a un accordo. In giurisprudenza vale la massi‐
ma costante per cui, in forza del generale principio di
conservazione, la nullità di una clausola odi una parte del contratto
non lo pregiudica, normalmente, nella sua interezza; la nullità
parziale si estende e travolge l’intero negozio soltanto in casi ecce‐
zionali.
Per clausola si intende non una proposizione del testo contrat‐
tuale ma un precetto che disciplina un’obbligazione contrattuale,
principale o accessoria, nel suo insieme. La clausola precetto può
essere di due tipi, «principale» o «accessoria»:
a) la clausola principale è quella che veicola un requisito
essenziale del contratto;
b) la clausola accessoria è quella che tratta un elemento
inessenziale del contratto.
Poiché la nullità che involge un requisito essenziale del contratto
determina, ai sensi dell’art. 1418, la nullità totale del contratto, si
deve convenire che l’art. 1419 disciplina la nullità della clausola
accessoria, e dunque la nullità che intacca un elemento non deter‐
minante del contratto.
Poiché il riferimento alla clausola denota la parte elementare del
contratto, dell’elemento costitutivo semplice e non ulteriormente
scomponibile, si apprezza l’ulteriore riferimento legislativo al concet‐
to, maggiormente comprensivo, di parte, quale momento del con‐
tratto integrabile anche da un insieme organico di singoli precetti:
per il quale valgono sempre le regole della nullità parziale, rispetto
alle quali la distinzione tra «clausola» e «parte» non sembra possi‐
bile.
L’art. 14191 dispone che la nullità di una clausola comporta la
nullità del contratto se risulta che le parti, in assenza di essa, non
avrebbero raggiunto l’accordo. Secondo l’opinione attualmente
prevalente, benché il codice indirizzi l’indagine sulla volontà delle
parti, essa deve appuntarsi sul contratto (la volontà delle parti,
infatti, può rilevare solo in quanto è oggettivata in esso). Attraverso
questo esame, deve ricostruirsi l’oggettiva articolazione di inte‐
ressi contrapposti che esso contratto realizza e individuare lo scopo
pratico che i contraenti avevano avuto di mira. Il raffronto tra lo
scopo pratico originariamente divisato con lo scopo pratico effettiva‐
mente raggiungibile induce all’estensione della nullità quando essi
divergono e alla non estensione quando essi non divergono.
Sino a tempi recenti il dibattito sul giudizio di nullità parziale si è divari‐
cato in tre diverse teoriche. a) Indagando la volontà reale delle parti al
momento della conclusione del contratto può verificarsi se dalle dichiara‐
zioni rilasciate dalle parti o inserite nel testo del contratto o dal comporta‐
mento tenuto dalle parti medesime prima, durante o dopo la stipulazione
2
(secondo il canone ermeneutico dell’art. 1362 ) possa evincersi la volizio‐
ne di una o di entrambe nel caso della declaratoria di nullità di questa o
quella parte del contenuto contrattuale [fragali 1959, 320; gandolfi 1991,
1058] (Cass. 986/1967; Cass. 1023/1976). b) In alternativa, si può conside‐
rare la volontà ipotetica: accertando cosa avrebbero fatto i contraenti se
avessero conosciuto la nullità della parte o clausola del contratto che
stavano concludendo [criscuoli 1959, 236; cataudella, 1974, 206] (Cass.
986/1967; Cass. 5100/1980). c) Infine, questo giudizio può essere conse‐
guito prescindendo del tutto dalla volontà delle parti in quanto tale, per
privilegiare l’indagine sull’assetto degli interessi cristallizzato nel contratto
[roppo 1971, 707; casella 1974, 35; di majo 2002, 105-106] (Cass.
2340/1995; Cass. 8970/2000). La recessività delle visioni volontaristiche,
determinata dalla generale evoluzione della dogmatica contrattuale secon‐
do la prospettiva precettiva, e la conseguente valorizzazione del concreto
assetto di interessi non vanno sopravvalutate nelle conseguenze: accanto‐
nando l’improbabile richiamo alla volontà effettiva delle parti, la distanza tra
l’esame di un’astratta volontà ipotetica (pur sempre desumibile dal contrat‐
to) e l’apprezzamento del concreto assetto di interessi secondo una lettura
del regolamento improntata a buonafede si riduce sensibilmente [sacco
1193, 503].
Per l’art. 14192 la nullità di singole clausole non comporta la
nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di
diritto da norme imperative. Le clausole contrattuali che determi‐
nano difformemente effetti già disciplinati da norme imperative, e
dunque sottratti all’autonomia negoziale, sono illecite; il contratto
non è però nullo: l’illecita volontà delle parti è automaticamente
sostituita dalla prevalente volontà della legge; il vizio della clausola
è sanato dall’inserzione automatica della regola imperativa secondo
il meccanismo stabilito – per la generalità dei casi – nell’art. 1339.
La sostituzione automatica opera anche quando la clausola
viziata sia essenziale in quanto per effetto della sostituzione il
contratto, di nuovo completo, è recuperato alla sua funzione.
Perché la sostituzione possa operare si richiede che esista, in
concreto, una norma imperativa specifica e omogenea, idonea a
sostituire automaticamente la clausola nulla.
È discusso se sia sufficiente la presenza di: a) una norma imperativa
precettiva, che cioè disciplini positivamente una situazione, o invece di b)
una norma imperativa precettiva e proibitiva, che cioè oltre a disciplinare
positivamente la situazione commini espressamente la nullità per la
clausola difforme, o infine di c) una norma imperativa proibitiva precettiva
e che specifichi la sostituzione necessaria della clausola nulla con il
comando di legge. Nonostante gli avvisi secondo cui necessiterebbe una
norma imperativa che disponga anche sulla sostituzione necessaria
[criscuoli 1959, 226] (Cass. 3783/1981), per l’opinione prevalente la
sostituzione coattiva non presuppone una previsione espressa nella
specifica norma da inserire o in un’altra; i caratteri di imperatività e di
sostitutività possono infatti essere desunti dal fondamento della norma
sostitutiva [barcellona 1969, 170; nuzzo 1975, 137; de nova 1976, 486]
(Cass. 7822/1997; Cass. 8794/2000).
Se deve escludersi che la norma imperativa debba essere formulata in
senso proibitivo, precettivo e sostitutivo, si deve parimenti escludere che
essa debba essere formulata in senso proibitivo oltre che precettivo
(giacché ogni comando negativo può essere convertito in positivo); così
come deve escludersi che le nullità che danno luogo a sostituzione debba‐
2
no essere necessariamente testuali: non disponendo l’art. 1419 che la
previsione di nullità debba essere espressamente comminata essa può
essere anche virtuale [saracini 1971, 50; Cass., s.u., 6602/1984].
Soddisfatte le condizioni per la sostituzione automatica di clau‐
sole, a nulla rileva la contraria volontà delle parti confezionata
nella clausola sul patto di nullità totale in caso di nullità anche di una
singola clausola.
La nullità parziale in senso soggettivo invalida una partecipa‐
zione nel contratto plurilaterale con comunione di scopo e non si
estende alll’intero regolamento a meno che quella partecipazione
debba essere considerata, secondo le circostanze, essenziale.
L’art. 1420, nel dettare la regola, non fa riferimento alla volontà delle
parti. Secondo un criterio oggettivo, l’effetto diffusivo della nullità è
collegato esclusivamente al carattere di essenzialità della parteci‐
pazione desunta dalle circostanze del caso concreto. Se lo scopo
avuto di mira dalle parti e dedotto in contratto continua a essere
realizzabile nonostante il venire meno della singola partecipazione,
il contratto si conserva.
■ 8. La rilevanza giuridica del contratto nullo (e l’alterità rispetto al
contratto inesistente) si apprezza nella produzione di alcuni parti‐
colari effetti. Essi formano un ventaglio più o meno ampio a secon‐
da del tipo di nullità. Se il contratto è semplicemente nullo gli effetti,
per quanto ridotti, si manifesteranno in misura maggiore di quanto
accade per il contratto nullo perché illecito.
L’efficacia del contratto nullo si manifesta in una varia fenome‐
nologia, irriducibile a unità. A volte il contratto nullo produce effetti a
seguito di altri atti, a esso successivi, che ne consentono il
recupero; altre volte il contratto nullo produce effetti perché è stato
eseguito; altre volte ancora il contratto nullo produce effetti a causa
dell’inottemperanza di un onere.
Soltanto il primo ordine di casi è trattato in una norma generale.
Dispone l’art. 1423 che, fatte salve diverse previsioni di legge, il
contratto nullo non può essere convalidato. Quale atto di auto‐
nomia privata, ammissibile nei limiti in cui verte su situazioni dispo‐
nibili, la convalida non può interessare un contratto nullo; ma resi‐
duano eccezioni: per l’opinione comune, integrano la clausola di
riserva la conferma della donazione nulla e la modifica del contratto
di società nullo.
La nullità della donazione non può essere fatta valere dagli eredi o
aventi causa del donante se costoro, conoscendola, dopo la morte di quello
hanno confermato o dato volontaria esecuzione al contratto (art. 799). Il
recupero dell’atto dipende dalla realizzazione di altro atto – di convalida –
da parte del confermante, che per conseguenza non potrà più impugnare
l’originario contratto. La vicenda è spiegata anche nei termini della forma‐
zione progressiva del contratto nullo perché incompleto [fedele 1943, 102;
santoro-passarelli 1986, 249]. La nullità del contratto di società di capitali
non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di
tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle
5
imprese (art. 2332 ). Al contrario di quanto accade nella conferma del
negozio nullo, nella sanatoria del contratto associativo l’atto non promana
da soggetti estranei alla sua confezione (e in ipotesi pregiudicati) ma da
coloro che hanno concluso il contratto viziato; inoltre, il contratto viene
modificato attraverso l’eliminazione della regola nulla, cosicché il nuovo
contratto si presenta non come un contratto invalido ma sanato, bensì un
contratto valido, realizzatosi attraverso un procedimento di formazione
progressiva [gentili 2006, 1576].
Nel secondo ordine di casi rientra il contratto di lavoro. Per il disposto
1
dell’art. 2126 la nullità (o l’annullamento) del contratto non produce effetto
per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione; opera tuttavia il limite
generale della nullità dovuta a illiceità (della causa o dell’oggetto), che
determina esclusivamente la salvezza del diritto alla retribuzione se il
lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore
2
(art. 2126 ). L’opinione prevalente spiega il fenomeno in termini di sanato‐
ria. Si ritiene che con l’art. 2126 sia stata introdotta una limitazione alla
generale irretroattività della pronuncia di nullità a tutela del prestatore
[torrente 1962, 275]; in prospettiva anticontrattualistica, si sostiene invece
che l’effetto discenda non dal contratto, ma dal fattuale rapporto instaurato‐
si tra le parti [dell’olio 1970, 104], considerato anche nei termini di una
fattispecie diversa e più ampia avente fonte legale [monticelli 1995, 142].
Nel terzo ordine rileva la trascrizione immobiliare: per l’art. 2652, n.
6, la domanda giudiziale diretta a far dichiarare la nullità del contratto
trascritto nei pubblici registri deve essere a sua volta trascritta entro 5 anni
dalla trascrizione di quello; diversamente, la sentenza di nullità non pregiu‐
dica i diritti acquistati dai terzi in buonafede con contratti a loro volta
trascritti anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità. Le esigen‐
ze pratiche che hanno indotto il legislatore a prevedere una novità così
importante si individuano, nella tutela della sicurezza del traffico giuridico
[mengoni 1975, 301] (Cass. 1095/1967). Si ritiene che la norma introduca
una fattispecie di sanatoria [falzea 1958, 692; sacco 1193, 493] (Cass.,
s.u., 5341/1978); per altra opinione, il contratto nullo integrerebbe una
fattispecie più ampia, di natura acquisitiva, a favore del terzo subacquirente
di buonafede [natoli 1971, 170].
Il più importante degli effetti spiegabili dal contratto nullo è
realizzato dall’istituto della conversione. A norma dell’art. 1424 il
contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso allorché
ne contenga i requisiti di sostanza e di forma e sia accertata l’ipote‐
tica volontà delle parti favorevole alla conversione.
Presupposto fondamentale per l’operatività della conversione è
la sussistenza di un contratto nullo (ma la disciplina vale anche
per gli atti unilaterali) che contenga i requisiti sostanziali e formali
di un altro contratto (in cui può essere convertito). In tal modo, la
legge stabilisce una relazione strutturale tra contratto nullo e altro
contratto, che viene usualmente indicata come rapporto di conti‐
nenza: il secondo contratto deve essere contenuto nel primo, più
ampio ma nullo. Il rapporto di continenza è funzionale a evitare che
attraverso la conversione le parti restino vincolate a effetti non
pattuiti e non voluti (come accadrebbe se il contratto sostitutivo
potesse svolgere effetti più ampi di quello nullo).
L’interpretazione corrente del rapporto di continenza è molto
rigorosa: il contratto nullo deve avere una portata più ampia del contratto
sostitutivo di cui deve soddisfare i requisiti formali e contenutistici (Cass.,
s.u., 2464/1958) [santoro-passarelli 1986, 254]. Sulla base di questi
princìpi, si è ammessa la convertibilità di una vendita a effetti reali, nulla, in
una vendita a effetti obbligatori (Cass. 1036/1953); di una cambiale o di un
assegno privi di requisiti essenziali in promesse unilaterali di pagamento
(Cass. 3266/1971; Cass. 381/1977). Invece, la conversione è stata esclusa
la convertibilità di un contratto di edizione in un contratto di vendita (Trib.
Firenze 21 giugno 1971); del contratto di cessione volontaria di area
oggetto di occupazione espropriativa già perfezionatasi in negozio di
accertamento dell’entità della somma spettante al proprietario del suolo
(Cass. 1040/2006); del contratto di affitto a coltivatore diretto in contratto di
affitto a conduttore non coltivatore diretto (Cass. 920/1983).
Perché operi la conversione la legge richiede, inoltre, la confor‐
me volontà delle parti all’effetto. Se sotto il vigore del vecchio
codice alcuni studiosi avevano valorizzato il riferimento diretto alla
volontà effettiva delle parti, con la nuova codificazione anche in
forza della lettera dell’art. 1424 – espressamente riferita alla ricerca
della volontà ipotetica delle parti – tale indirizzo è tramontato, e
l’alternativa si è concentrata tra volontà ipotetica delle parti e scopo
oggettivo avuto di mira (ma non conseguito) dalle medesime nel
contratto viziato. Tuttavia – come già esposto in tema di nullità
parziale – l’effettiva diversità delle vedute non deve essere soprav‐
valutata, inferendosi per lo più la volontà ipotetica dalla compatibilità
tra gli scopi oggettivi del contratto nullo e del contratto in
sostituzione.
In questo senso si pone la moderna giurisprudenza quando, da un lato,
richiama la necessità della presenza dell’elemento soggettivo e, dall’altro,
lo individua esclusivamente nell’intento pratico perseguito dalle parti e
oggettivamente emergente dal negozio nullo (Cass. 2912/2002). Così pure
la dottrina quando, difendendo la teoria della volontà ipotetica, chiarisce
che la ricostruzione di tale volontà deve essere condotta con riferimento
allo scopo originariamente perseguito dalle parti [de nova 1988, 3]: il che
implica che la volontà negoziale va apprezzata non per come le parti la
proclamano ma per come si manifesta nel contratto poi rivelatosi nullo,
quale scopo pratico perseguito in quel contratto; cosicché il giudizio di
conversione si risolve nella valutazione degli scopi propri nel contratto nullo
e del contratto sostitutivo, ossia nel raffronto tra due regole negoziali [di
majo 2002, 112; gentili 2006, 1568].
Si può allora concludere che: l’art. 1424 assoggetta la conversione al
presupposto che le parti, se avessero saputo della nullità, avrebbero voluto
il contratto sostitutivo; questa norma, però, aggiunge che tale volontà – che
deve essere definita «ipotetica» – deve essere ritenuta avuto riguardo allo
scopo perseguito dalle parti; aderendo alle moderne concezioni, lo scopo
perseguito dalle parti è quello che risulta all’esito dell’esame del singolo
contratto letto nel contesto spaziotemporale in cui è stato confezionato; se
tale scopo può essere realizzato, in massima parte, per mezzo di uno
schema contrattuale nuovo e diverso da quello nullo, questo presupposto
della conversione deve ritenersi realizzato. Al di là di tutte le differenze tra
gli istituti della nullità parziale e della conversione del contratto nullo –
il primo presuppone la nullità di una parte, il secondo la nullità dell’intero
contratto; il primo comporta una riduzione quantitativa del contratto origina‐
rio, che resta parzialmente in vita, il secondo determina una trasformazione
del contratto nullo in altro e diverso; nel primo l’idea della volontà ipotetica
inferita dallo scopo contrattuale è implicita, nel secondo è espressa –
nessuna apprezzabile differenza separa il giudizio di conversione dal
giudizio di nullità parziale.
Circa i limiti di operatività della conversione, vi è generale
concordia sulla non convertibilità del contratto illecito, colpito da
nullità non per lo strumento scelto dalle parti, bensì proprio per
l’intento pratico da queste avuto di mira, come tale non perseguibile
né con quel mezzo né con altri. Inoltre, si tende a ritenere non
convertibili: il contratto incompleto (che, in quanto tale, potrebbe
anche non consistere in un contratto vero e proprio, ma in un atto
prenegoziale); il contratto inesistente, come tale privo di qualsiasi
effetto; un contratto in un atto unilaterale, giacché la conversione,
pur operando sul piano delle trasformazioni giuridiche, non può
spingersi sino al punto di comportare l’atomizzazione del contratto
nullo in atti unilaterali (o la riduzione di un contratto nullo in un atto
unilaterale), ciascuno produttivo di effetti nuovi e diversi.
Diversa dalla conversione del contratto per come disciplinata dall’art.
1424 è la conversione legale, imposta cioè dalla legge: nella quale figura
si usa raggruppare una serie molto variegata di ipotesi, alcune soltanto
rientranti nella materia contrattuale, in cui sembra operare un meccanismo
analogo a quello finora indagato, ma profondamente diverso per un unico
aspetto: in tali ipotesi non deve essere verificata la volontà delle parti
poiché, prescindendo del tutto da essa, la legge impone la conversione
(come nel caso del contratto di mezzadria convertito nel contratto di affitto
di fondo rustico ai sensi degli artt. 25 ss. l. 203/1982). Una specie della
conversione legale è data dalla conversione formale, per cui determinati
atti privi di requisiti formali essenziali, e come tali nulli, sono legalmente
convertiti in altri atti, diversi dai primi non nel contenuto ma nella veste
formale (così, per l’art. 2701 l’atto pubblico redatto in violazione della
procedura o da pubblico ufficiale incapace o incompetente, se sottoscritto
dalle parti assume il valore di scrittura privata).
■ 9. La nullità del contratto, tranne i casi in cui la legge dispone
diversamente, può essere azionata da chiunque vi abbia interesse
(art. 1421).
Alla questione sulla natura dell’azione di nullità la dottrina di un
tempo ne anteponeva un’altra: se sia ammissibile un’azione sulla nullità,
attesa l’idea allora corrente sulla irrilevanza giuridica del contratto nullo
(assimilato all’epoca al contratto inesistente) [pacchioni 1939, 192]. Non
sfuggiva tuttavia l’interesse all’azione nei casi di incertezza sulla validità o
nullità del contratto. Con la teorizzazione delle azioni di mero
accertamento, che valgono cioè a rimuovere un’oggettiva incertezza, la
certezza delle situazioni giuridiche diviene oggetto di un preciso diritto
verso lo Stato [chiovenda 1933, 3]. Per l’opinione consolidata, l’azione di
nullità è un’azione di accertamento negativo; la sentenza ha natura
dichiarativa.
Il carattere assoluto, o generale, dell’azione di nullità, impone un
chiarimento circa la legittimazione dei terzi. Il concetto di «legitti‐
mazione ad agire» esprime la coincidenza fra la persona dell’attore
e quella del titolare del diritto azionato: tranne casi eccezionali,
ognuno può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (e non
anche di quelli degli altri, art. 81 c.p.c.). Il concetto di «interesse ad
agire» esprime il bisogno che quel diritto ha di essere tutelato nel
processo. Nel caso dell’azione di nullità, per espressa previsione di
legge, in astratto tutti indistintamente sono legittimati all’azione;
tuttavia, chi agisce deve essere mosso da un interesse concreto e
attuale a che sia dichiarata la nullità: artt. 1421 e 100 c.p.c. L’inte‐
resse di cui discorre l’art. 1421 non deve essere assimilato all’inte‐
resse menzionato nell’art. 100 c.p.c.: se il primo viene individuato
dalla dottrina ormai prevalente nella situazione in cui versa chi, per
la sua vicinanza o inclusione nel rapporto derivante dal contratto
impugnato riveste una posizione qualificata rispetto alla generalità
dei consociati (interesse sostanziale), il secondo viene detto «inte‐
resse processuale» e indica la concreta necessità di rivolgersi al
giudice per ottenere una tutela del proprio diritto altrimenti inattingi‐
bile.
La clausola di riserva nell’art. 1421 dà luogo al fenomeno della
nullità relativa (ossia a legittimazione riservata), in cui trova ricono‐
scimento la conformità agli interessi generali di una legittimazione
selezionata all’azione di nullità. La figura assume importanza nel
moderno diritto dei contratti asimmetrici, dove la nullità delle norme
a tutela della parte debole del rapporto può essere richiesta soltanto
da quest’ultima, nel cui interesse è stabilita.
Per l’art. 1422 l’azione di nullità è imprescrittibile ma sono
fatti salvi gli effetti della maturata usucapione e della prescrizione
delle azioni di restituzione: così dispone l’art. 1422. L’imprescrittibili‐
tà discende non solo dalla natura generale degli interessi tutelati ma
anche dalla natura stessa dell’azione, che non è costitutiva ma di
semplice accertamento. La salvezza degli effetti dell’usucapione e
la prescrizione delle azioni restitutorie si fondano su ragioni di
certezza e sul rilievo che si è avuto adempimento del contratto
nullo, con il successivo consolidamento della situazione di fatto a
seguito del decorso del tempo.
Tranne eccezioni, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità. La
norma, posta sempre dall’ art. 1421, da un lato fissa un principio
fondamentale dal punto di vista sostanziale (il destino del contratto
nullo, lesivo dell’interesse generale, è in grande misura sottratto alla
disponibilità delle parti); dall’altro, attribuisce un potere eccezionale
all’organo giudicante. La considerazione di questo potere giudiziale
nel sistema di diritto processuale ne disegna i confini:
a) anzitutto, il più importante è dato dalla cosa giudicata: se
sulla validità del contratto è sceso il giudicato, in un successivo
giudizio la questione di nullità è definitivamente preclusa anche al
giudice;
b) inoltre, il principio della disponibilità della prova (art. 115
c.p.c.) impone che i presupposti della nullità del contratto risultino
dagli atti acquisiti nel processo o dal notorio, con esclusione dell’uti‐
lizzo della scienza privata del giudice.
Per la giurisprudenza prevalente occorre, in ogni caso, che la validità
o l’invalidità del contratto integri l’elemento costitutivo della
domanda, poiché anche l’azione di accertamento della nullità è sottoposta
ai principi della domanda (art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza fra il
chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), si esclude che il giudice possa
dichiarare la nullità di un contratto di cui non si chieda dall’attore o dal
convenuto l’applicazione. Di conseguenza, il giudice non può rilevare
d’ufficio la nullità di un contratto contro cui si agisca per l’annullamento, la
risoluzione, la rescissione o la simulazione (Cass. 5003/1993; Cass.
1097/2005; Cass. 21632/2006). Inoltre, per le citate limitazioni, il giudice
non può conoscere di una causa di nullità diversa da quella reclamata
dall’attore (Cass. 2398/1988; Cass. 18210/2004). La dottrina generalmente
dissente, dietro l’argomento che l’art. 1421 non stabilisce limiti al potere di
rilevare d’ufficio la nullità [oriani 1991, 277].
Si disputa se nel rilevare d’ufficio la nullità il giudice debba
altresì dichiararla nel dispositivo della sentenza oppure – e come
generalmente si ritiene – debba limitarsi alla cognizione incidenta‐
le della questione: con effetti limitati al giudizio in corso. Il successo
di quest’ultima opinione è indotto dal principio, fissato nell’art. 112
c.p.c., della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato: il quale
inibisce qualsiasi pronuncia in assenza di domanda.
SEZIONE III.
L’annullabilità
1. Le cause di annullabilità. L’incapacità di agire. - 2. I vizi del consenso in generale.
- 3. L’errore e i presupposti della sua rilevanza. - 4. Ulteriori aspetti della disciplina
dell’errore. - 5. Il dolo. - 6. Il dolo incidente. - 7. La violenza. - 8. Disciplina dell’an‐
nullabilità. In particolare: la convalida del contratto annullabile.
■ 1. L’annullabilità del contratto trae origine da fattispecie previste
espressamente dalla legge, che finiscono per delineare un
«sistema» sostanzialmente tipico e tassativo. In tale contesto si
collocano: le situazioni in cui manca la capacità di agire, i vizi della
volontà e una serie di fattispecie previste in contesti particolari dal
legislatore, fra le quali, per limitarci al codice civile, vengono in
considerazione a titolo esemplificativo il conflitto di interessi nella
rappresentanza, la contrattazione del rappresentante con se stesso,
l’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un coniuge
senza il consenso dell’altro, laddove abbia a oggetto un bene
immobile o mobile registrato della comunione.
Il tema dell’incapacità delle parti viene in evidenza nella Sezio‐
ne I, Capo XII dedicato all’annullabilità del contratto. In particolare:
a) il comma 1 dell’art. 1425 stabilisce che il contratto è «annulla‐
bile» se una delle parti era legalmente incapace di contrattare;
b) il comma 2 considera «annullabile», quando ricorrono le
condizioni stabilite dall’art. 428, il contratto stipulato da persona
incapace di intendere o di volere.
Le cause di «incapacità di contrattare», normalmente intesa come
«incapacità di agire», vengono in considerazione con riferimento ai soggetti
che non hanno ancora acquistato la legale capacità di agire, i minorenni,
ovvero che l’abbiano successivamente perduta in tutto o in parte, vale a
dire gli interdetti, gli inabilitati, nonché coloro che siano stati ammessi al
beneficio dell’amministrazione di sostegno. L’incapacità di intendere o di
volere evoca la diversa nozione di «incapacità naturale», riferibile – in base
a quanto prevede l’art. 428 – al soggetto legalmente capace, ovvero al
maggiorenne affetto da infermità mentale, ma non interdetto né inabilitato,
o ancora alla persona che si trovi, per causa transitoria, al momento della
conclusione del contratto, in uno stato temporaneo di alterazione delle
proprie facoltà mentali.
La previsione dell’annullabilità dei contratti conclusi da chi versi
in una condizione di incapacità assoluta, è caratterizzata per il
minore da una deroga, introdotta dall’art. 1426, secondo cui «il
contratto non è annullabile, se il minore ha con raggiri occultato la
sua minore età; ma la semplice dichiarazione da lui fatta di essere
maggiorenne non è di ostacolo all’impugnazione del contratto».
La disposizione mira evidentemente a proteggere i terzi in buonafede
che siano stati ingannati dal minore mediante atti intenzionalmente destina‐
ti a celare l’esistenza della minore età. In questo caso il legislatore esclude
il rimedio dell’annullabilità in favore del minore, il quale celando maliziosa‐
mente la sua (minore) età mostra di avere una maturità mentale superiore
rispetto a quella dell’età effettiva.
Appare evidente che, nel delineare questa tipologia di annulla‐
mento, le citate disposizioni codicistiche richiamano, presupponen‐
done l’esistenza, la disciplina delle singole fattispecie di invalidità
contemplate nel Libro I, in particolare le norme ivi contenute (per il
cui esame, v. supra, cap. ???), che stabiliscono le modalità di
esecuzione degli atti idonei a produrre i loro effetti nella sfera
giuridica dell’incapace.
■ 2. L’analisi della disciplina avente a oggetto i vizi della volontà è
caratterizzata dalla presenza di problematiche divenute ormai
classiche nel diritto dei contratti. Tale riflessione pone in evidenza
numerosi e significativi punti di contatto con la storia di alcune
importanti categorie civilistiche. Basti pensare, con specifico
riferimento alla normativa in materia di errore, alla teoria del nego‐
zio giuridico, le cui vicende hanno profondamente condizionato le
ipotesi ricostruttive nonché le soluzioni normative aventi a oggetto
questo vizio del consenso. Come è noto, infatti, la portata innovativa
di tale disciplina rispetto allo scenario normativo delineato dal
codice abrogato, può essere colta alla luce del progressivo ridimen‐
sionamento del dogma della volontà e dell’accresciuta esigenza di
tutela dell’affidamento.
L’intera disciplina dei vizi della volontà, pur riferendosi a fattispe‐
cie distinte a cui sono collegate autonome azioni di impugnativa
negoziale, trae origine dall’esigenza di tutela della libertà negoziale,
più precisamente della libertà di autodeterminarsi in modo consape‐
vole nel porre in essere atti aventi un contenuto negoziale Questo
tipo di obiettivo, tuttavia, viene riconosciuto e in vario modo perse‐
guito anche nell’ambito di altre fattispecie, rispetto alle quali si pone
non di rado un problema di coordinamento.
Il corretto dispiegarsi dell’autonomia privata nella fase di formazione
del contratto trova significativi punti di riferimento, anzitutto, nella disciplina
del codice civile. In tal senso possono essere sinteticamente richiamati: il
citato art. 428, disposizione avente a oggetto gli atti e i contratti compiuti da
persona incapace di intendere o di volere, ma suscettibile, sulla base di
una rilettura compiuta da autorevole dottrina, di abbracciare ogni ipotesi di
suggestione, di sorpresa e di inesperienza [sacco 2004, 473]; l’obbligo di
comportarsi secondo buonafede nello svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto (art. 1337), la cui portata è stata oggetto di una
progressiva espansione a opera della giurisprudenza e, prima ancora, della
dottrina, la quale ha prospettato l’esistenza di punti di collegamento con il
tema dei vizi della volontà; l’istituto della rescissione, destinato a trovare
applicazione qualora il contratto sia stato concluso in condizioni di pericolo
ovvero in stato di bisogno (artt. 1447 s.).
In questa materia assume un ruolo sempre più significativo la legisla‐
zione speciale. Ove si volga lo sguardo al di fuori del codice, vengono in
considerazione numerose disposizioni poste a tutela degli interessi dei
consumatori, fra le quali a titolo meramente esplicativo è opportuno richia‐
mare le norme dettate in materia di contratti negoziati fuori dei locali
commerciali, conclusi a distanza, ovvero aventi a oggetto servizi o prodotti
finanziari collocati fuori sede nei confronti di investitori non professionali. In
questi contesti normativi gli elementi che caratterizzano la conclusione del
contratto, tanto sul piano oggettivo, quanto su quello soggettivo, giustifica‐
no, fra le altre, alcune previsioni destinate a garantire il c.d. «diritto di
ripensamento» in favore del contraente privo dei requisiti di professionalità.
Tale disciplina, inoltre, è arricchita dalla presenza di una mole crescente di
regole di comportamento, volte a garantire più elevati standard di correttez‐
za sia nella fase di stipulazione, sia in quella di esecuzione del contratto.
Con riferimento al diverso settore dei contratti di impresa è possibile
evocare la normativa destinata a fronteggiare le situazioni di abuso di
dipendenza economica nei rapporti di subfornitura nelle attività produttive.
In questa materia, fra l’altro, il legislatore prevede che il patto attraverso il
quale si realizza l’abuso venga sanzionato con la nullità. La disciplina
speciale, dunque, è proiettata verso la creazione di un impianto di regole
destinate a superare il carattere sempre più «angusto e rigido» del recinto
in cui si collocano i tradizionali vizi della volontà [d’amico 2002, 42], con
una serie di rimedi imperniati «sul fatto capace di generare il pericolo
prossimo del vizio del volere» [sacco 2004, 418]. In particolare appare
innegabile che la normativa speciale trova il suo presupposto nelle situazio‐
ni di strutturale asimmetria informativa in cui vengono a trovarsi i
contraenti, diversamente da quanto accade nella disciplina codicistica del
contratto che, pur non trascurando il problema, si riferisce essenzialmente
a ipotesi in cui la carenza di informazioni da parte di un contraente si
colloca pur sempre in un ambiente «informato» [iannarelli 2003, 45].
I vizi della volontà presentano ulteriori punti di contatto con altre fatti‐
specie, ora del diritto dei contratti, ora del diritto delle obbligazioni. A tale
riguardo occorre sottolineare come l’esperienza giuridica in tema di vizi del
consenso trovi uno dei suoi tradizionali profili problematici nell’individuazio‐
ne del rapporto che intercorre fra la disciplina in materia di errore e le
disposizioni aventi a oggetto le garanzie nella vendita e, più in generale, i
rimedi contro l’inadempimento.
■ 3. L’errore costituisce un vizio della volontà in quanto incide sul
processo formativo del consenso, determinando una falsa o distorta
rappresentazione della realtà, a causa della quale il contraente si
induce a stipulare. L’effetto invalidante dell’errore è subordinato non
solo alla circostanza che la volontà negoziale sia stata manifestata
in presenza di questa falsa rappresentazione, ma anche all’esi‐
stenza degli elementi che concorrono a renderla rilevante sul piano
giuridico.
I requisiti che devono caratterizzare l’errore trovano una regolamenta‐
zione alquanto dettagliata nella normativa codicistica. Tale circostanza
costituisce il risultato di un primo significativo mutamento di prospettiva
rispetto alla situazione anteriore alla normativa vigente. Nel codice civile
del 1865 la materia dell’errore risultava disciplinata da un numero limitato di
regole; va detto, anzi, che la sostanziale inadeguatezza dell’impianto
normativo costituisce una delle ragioni più rilevanti della vasta riflessione a
cui diede origine l’analisi dei casi in cui l’errore potesse ritenersi rilevante.
L’elaborazione teorica ebbe luogo all’interno di uno scenario nel quale il
negozio veniva analizzato sulla base del principio volontaristico. In tale
contesto vennero dunque elaborate le note distinzioni fra «errore proprio»
ed «errore improprio», fra «errore vizio» ed «errore ostativo». La prima
classificazione rispondeva all’esigenza di differenziare sul piano strutturale
e su quello funzionale l’errore che non toglieva la volontà ma la rendeva
imperfetta (errore in senso proprio), dall’errore che escludeva in radice la
volontà (errore in senso improprio), determinando la mancanza di un
elemento essenziale dell’atto [pietrobon 1990, 56].
Il ruolo centrale assolto dalla volontà emergeva anche nella
seconda classificazione, caratterizzata dalla distinzione fra l’«errore
vizio», suscettibile di determinare l’annullamento del negozio, e
l’«errore ostativo», che, avendo condotto a una divergenza tra
«dichiarazione» e «volontà», veniva ritenuto idoneo a determinare
la nullità del negozio. Le soluzioni formulate dalla dottrina sulla base
delle norme contenute nel codice del 1865 non hanno trovato
particolare fortuna nella successiva codificazione. In tal senso è
sufficiente rilevare che alcune delle figure qualificate in precedenza
in termini di errore ostativo sono state inserite dal legislatore del
1942 nell’ambito degli errori essenziali, a cui è collegato il rimedio
dell’annullamento. Peraltro, tale forma di invalidità è stata estesa
all’ipotesi tipica di errore ostativo, vale a dire quella prevista dall’art.
1433, in cui l’errore cade sulla dichiarazione.
Nel codice vigente l’annullabilità costituisce il rimedio di tutela
generale per il contraente che abbia stipulato un contratto in conse‐
guenza di un errore; rimedio alternativo è quello del mantenimento
del contratto rettificato, che consente di tutelare l’errante senza
invalidare il contratto. L’annullabilità del contratto per questo vizio
del consenso è possibile in presenza dei due requisiti stabiliti
dall’art. 1428, vale a dire l’essenzialità dell’errore e la sua riconosci‐
bilità da parte dell’altro contraente. In sostanza l’errore deve essere
riconducibile a una delle ipotesi selezionate e tipizzate dal legislato‐
re e, per altro verso, deve essersi manifestato con modalità tali da
poter essere rilevato da una persona di normale diligenza. Questo
secondo filtro è stato previsto dal legislatore in luogo del diverso
limite della scusabilità dell’errore, elaborato sulla base del sistema
dalla dottrina formatasi sul codice abrogato.
I requisiti che concorrono a rendere rilevante l’errore assolvono
la funzione di contemperare i diversi interessi che il legislatore ha
inteso tutelare attraverso tale normativa. Anzitutto, viene protetto
l’interesse dell’errante a liberarsi da un vincolo contrattuale indesi‐
derato, perché sorto in forza di una manifestazione di volontà
prestata in modo tutt’altro che consapevole e volontario. Vi è poi
l’interesse dell’altro contraente a vedere tutelato l’affidamento
riposto sul contenuto della dichiarazione dell’errante e, quindi, sulla
validità del contratto. Tale posizione riflette evidentemente il più
generale interesse alla sicurezza e alla certezza del traffico giuridico
[roppo 2001, 781]. La disciplina avente a oggetto tali requisiti trova
applicazione non solo ai contratti ma anche agli atti unilaterali fra
vivi aventi carattere negoziale, assoggettati ai sensi dell’art. 1324,
alle norme sui contratti (in tema di errore nelle opzioni che il contri‐
buente è chiamato a effettuare nella dichiarazione fiscale ai fini iva,
Cass. 9310/1997; in tema di dichiarazione unilaterale recettizia nei
confronti di una società di intermediazione mobiliare, App. Milano 19
luglio 2002). Peraltro, alla sfera di operatività della disciplina dei vizi
della volontà vengono ricondotti anche i contratti unilaterali (in tema
di fideiussione gratuitamente prestata, nei quali vi sia un controinte‐
ressato alla dichiarazione, Cass. 9777/1993); i contratti collegati,
vale a dire concepiti e voluti come funzionalmente e teleologica‐
mente connessi fra loro, sicché le vicende relative alla validità di
uno di essi si ripercuotono necessariamente sulla validità degli altri
(Cass. 5503/1981); e i lodi arbitrali irrituali (Cass. 5359/2004).
Affinché costituisca causa di annullamento del contratto,
dunque, l’errore deve essere, anzitutto, essenziale. Tale requisito
viene specificato dallo stesso legislatore all’interno dell’elenco
riportato nell’art. 1429. In base a tale disposizione l’errore, per
potersi ritenere essenziale, deve cadere sui seguenti elementi: la
natura o l’oggetto del contratto, l’identità o una qualità dell’oggetto
della prestazione, l’identità o le qualità della persona dell’altro
contraente, una norma giuridica che rilevi sulla materia del
contratto.
Questa previsione, da più parti criticata per la sua infelice formulazione,
è stata oggetto di diverse proposte interpretative volte a delinearne l’esatta
portata. In tale prospettiva merita di essere richiamato il dibattito fra quella
parte della dottrina che tende a costruire una classe omogenea di errori
essenziali e coloro che sostengono la necessità di procedere alla definizio‐
ne di distinti raggruppamenti. L’esigenza di precisare «un concetto di errore
astrattamente idoneo a invalidare il contratto, capace di comprendere e di
spiegare unitariamente le varie ipotesi previste dall’art. 1429» [pietrobon
1990, 342], si è manifestata in una serie di ipotesi ricostruttive che hanno
valutato criticamente l’enumerazione adottata dal legislatore, sino ad
ammettere l’esistenza di una formulazione di carattere generale, in base
alla quale deve ritenersi rilevante l’errore sia di diritto che di fatto riguardan‐
te gli elementi costitutivi della manifestazione di volontà del contraente
[allara 1955, 182].
A questa interpretazione si contrappone un diverso orientamento
caratterizzato da una dichiarata fedeltà al tenore letterale della disciplina
codicistica [sacco 2004, 508]. In tale prospettiva appare paradigmatica
l’ipotesi ricostruttiva volta a delineare l’esistenza di due classi, nel cui
ambito variano le condizioni di rilevanza dell’errore. L’errore sulla natura del
contratto e quello sull’identità dell’oggetto possono essere ritenuti essen‐
ziali ex se, in quanto non richiederebbero ulteriori accertamenti; negli altri
casi previsti dalla disposizione in esame l’errore può essere considerato
essenziale solo se, in concreto, abbia determinato il consenso di chi lo ha
commesso [roppo 2001, 783]. In questa sede, infine, è opportuno menzio‐
nare la questione relativa al carattere tassativo o esemplificativo delle
diverse fattispecie di errore essenziale previste dal legislatore. Sul punto, a
fronte di un orientamento che sembra ispirarsi al secondo tipo di imposta‐
zione [galgano 1998, 279], si afferma che la tassatività costituisca la
conseguenza necessaria della tipicità dei vizi [sacco 2004, 505], ovvero,
possa essere prospettata per la concreta difficoltà di individuare altre
ipotesi astratte di errore essenziale diverse da quelle indicate dal legislato‐
re [pietrobon 1990, 358].
L’esame della disciplina avente a oggetto il requisito dell’essen‐
zialità trova un importante nodo problematico nella valutazione
dell’errore sui motivi. Questo tipo di errore viene ritenuto general‐
mente inidoneo a giustificare l’annullamento del contratto.
Si tratta di un’impostazione accolta dalla giurisprudenza, la quale
esclude che in questi casi sussista un vizio della volontà in quanto i motivi
non spiegano un’incidenza diretta sul processo formativo del volere nego‐
ziale (Cass. 11153/2004). L’irrilevanza dell’errore sui motivi ai fini dell’an‐
nullabilità trova un generale consenso anche da parte della dottrina, che,
tuttavia, mostra di giungere a tale conclusione sulla base di diversi iter
argomentativi. Secondo l’impostazione tradizionale la necessità di conside‐
rare irrilevante l’errore sui motivi meramente individuali che hanno indotto
una parte a stipulare il contratto trae origine dall’esigenza di tutelare
l’affidamento dell’altro contraente. Il destinatario della dichiarazione, infatti,
non ha la possibilità di valutare l’incidenza dei motivi ai fini della conclusio‐
ne del contratto [betti 1950, 444].
In un’altra ipotesi ricostruttiva l’irrilevanza dei motivi viene spiegata
scandagliando il rapporto fra essenzialità dell’errore e limiti dell’autonomia
privata. In tale prospettiva si afferma che le esigenze personali da cui il
contraente ha tratto impulso per la stipulazione dell’atto, sono tutelate
dall’ordinamento, «soltanto nei limiti in cui vengono assunte dalle parti a
contenuto del programma negoziale». Ne consegue che l’errore sui motivi
deve ritenersi irrilevante in quanto, riguardando circostanze esterne e,
quindi, il modo di essere della realtà estranea alla situazione configurata
dalle parti, «non altera l’idoneità del negozio a fungere da strumento per la
obiettivazione e regolamentazione degli interessi» [barcellona 1966, 265].
L’irrilevanza dell’errore sui motivi sembra assumere contorni ancora più
netti nella ricostruzione di una recente dottrina, secondo cui tale soluzione
non viene in discussione neanche se l’errore sul motivo sia determinante
del consenso e neppure se noto alla controparte [roppo 2001, 785]. In
quest’ultimo caso, tuttavia, appare legittimo ritenere che la buonafede
precontrattuale ponga in capo al destinatario della dichiarazione l’obbligo di
avvisare l’errante. La violazione di tale obbligo, in base a una diversa
ipotesi ricostruttiva, è suscettibile di essere configurata in termini di reticen‐
za dolosa e, quindi, di invalidare il contratto in forza dell’art. 1439 [gallo
1999, 443].
a) L’errore sulla natura del contratto. Questa fattispecie viene
tradizionalmente ricondotta alla categoria dell’error in negotio, nella
quale trova collocazione l’errore avente a oggetto il tipo o il sottotipo
contrattuale concluso.
Le brevi osservazioni che questa prima figura consente di
formulare attengono essenzialmente all’individuazione del suo
campo di applicazione. In tal senso va detto che l’errore sulla natura
del contratto riguarda una materia tutt’altro che estranea ad altre
fattispecie di errore. In particolare la dottrina ha opportunamente
richiamato l’attenzione sugli incerti confini di questa fattispecie
rispetto all’errore di diritto, nonché all’errore sull’oggetto.
b) L’errore sull’oggetto del contratto. Questa figura deve
essere tenuta distinta dall’«errore sulla natura del contratto» ovvero
dall’«errore sull’oggetto della prestazione» previsto nel numero
successivo della medesima disposizione. La questione relativa
all’individuazione dei rispettivi campi di applicazione viene affrontata
muovendo dalla ricostruzione degli elementi che caratterizzano le
diverse fattispecie. Nell’ipotesi di cui al n. 1 dell’art. 1429 l’»oggetto
del contratto» deve essere inteso come prestazione, sicché in
questo caso l’errore cade sull’insieme delle prestazioni previste dal
contratto, su quelle più qualificanti o sul modo in cui interagiscono
fra loro. Nell’ipotesi di cui al successivo n. 2, l’«oggetto» deve
essere inteso come «bene su cui incidono gli effetti (obbligatori o
reali che siano) prodotti dal contratto».
c) L’errore sull’identità o sulle qualità dell’oggetto della
prestazione. Entrambe le tipologie di errore previste dall’art. 1429,
n. 2, sono riferite all’«oggetto» inteso come «bene su cui incidono
gli effetti del contratto». Questo comune riferimento non consente
tuttavia di escludere l’esigenza, per certi aspetti la necessità, di
tenere distinto l’«errore sull’identità dell’oggetto» dall’«errore relativo
alle sue qualità». Tanto emerge soprattutto ove si aderisca all’orien‐
tamento che, fedele al tenore letterale della norma, sottolinea le
differenti condizioni di operatività delle due tipologie di errore.
L’errore sull’identità dell’oggetto della prestazione rileva ex se,
mentre quello che cade sulle sue qualità, affinché possa ritenersi
essenziale, deve essere considerato determinante «secondo il
comune apprezzamento» o «in relazione alle circostanze».
Stabilendo che l’errore sulle qualità, per ritenersi essenziale,
deve essere determinante secondo il comune apprezzamento,
evidentemente si colloca la valutazione su un piano oggettivo. Al di
fuori di tali ipotesi l’errore sulle qualità può ritenersi essenziale
quando sia stato determinante «in relazione alle circostanze», vale
a dire sia stato soggettivamente determinante nel contesto
specifico del particolare contratto, sicché appare possibile una
valutazione in concreto dell’importanza che le parti hanno inteso
attribuire alle qualità su cui è caduto l’errore.
L’analisi della portata e del meccanismo di operatività dell’errore
sulle qualità dell’oggetto costituisce uno dei capitoli più complessi e
articolati della materia dei vizi del consenso. A tale riguardo è
sufficiente richiamare alcune delle principali problematiche collegate
a questa disposizione, vale a dire: l’individuazione delle caratteristi‐
che che concorrono a delineare le qualità rilevanti ai fini dell’essen‐
zialità dell’errore; il rapporto fra l’errore sulle qualità e l’inadempi‐
mento dell’obbligazione contrattuale per consegna di cosa priva
delle qualità promesse o essenziali, ovvero di aliud pro alio; la
problematica relativa all’errore sul valore ovvero sul prezzo della
prestazione.
L’errore sulle qualità dell’oggetto, diversamente da altre figure previste
nell’art. 1429, è caratterizzato dall’esistenza di un’ampia casistica.
a) Una delle principali applicazioni giurisprudenziali riguarda le ipotesi
di errore sulla natura di un terreno, in particolare i casi in cui una parte
attribuisca al suolo oggetto della compravendita una natura diversa da
quella risultante da strumenti urbanistici in via di approvazione. In questa
materia si erano progressivamente delineati due diversi orientamenti del
giudice di legittimità; il contrasto è stato risolto dalle sezioni unite della
Corte di cassazione, accogliendo l’indirizzo secondo cui la vendita o la
promessa di vendita di un terreno fabbricabile nella falsa convinzione che
si tratti di suolo agrario o di spazio pubblico, integra errore essenziale su
una qualità della cosa (Cass., s.u., 5900/1997).
b) Un altro settore nel quale tradizionalmente trova applicazione
l’errore sulla qualità dell’oggetto è quello dei contratti di compravendita di
opere d’arte. In particolare le ipotesi più ricorrenti sono quelle in cui l’opera
risulti non autentica successivamente alla conclusione del contratto ovvero
la sua paternità non corrisponda più a quella attribuita al momento del
perfezionamento dell’accordo. La possibilità di ricondurre l’errore in esame
alla figura di cui all’art. 1429, n. 2, c.c., costituisce ormai un dato acquisito,
sicché si ammette che l’errore di uno o di entrambi i contraenti sull’autenti‐
cità dell’opera e sull’identità del relativo autore è suscettibile di determinare
l’annullamento del contratto «non potendosi dubitare del fatto che, dal
punto di vista funzionale e da quello economico, la paternità dell’opera
d’arte ne costituisce una caratteristica individuante fondamentale» (Cass.
985/1998).
c) L’errore sul valore dell’oggetto della prestazione costituisce uno dei
temi di maggiore interesse nell’ambito della più vasta problematica collega‐
ta a questo vizio del consenso. L’errore sul valore viene generalmente
ritenuto irrilevante sulla base di una pluralità di argomentazioni, fra le quali,
oltre alla mancanza di previsioni specifiche nell’ambito dell’art. 1429,
vengono in considerazione: la possibilità di equiparare questa figura alla
valutazione errata sulla convenienza economica del contratto [scognami‐
glio 1961, 45] (Cass. 2518/1995); più in generale la sua corrispondenza a
uno sbaglio di valutazione, di stima [pietrobon 1990, 431]; la riconducibilità
alla categoria dei «motivi» che possono indurre le parti a stipulare il con‐
tratto [minervini 1987, 932].
Tanto in dottrina (fra gli ultimi, roppo [2001, 790]), quanto in giurispru‐
denza (Cass. 985/1998; Cass. 3892/1985), non si manca di sottolineare,
tuttavia, che questa tipologia di errore deve ritenersi essenziale e quindi
rilevante ai fini dell’azione di annullamento, quando costituisce l’effetto di
una falsa rappresentazione delle qualità essenziali della cosa dedotta nel
contratto. D’altro canto, secondo una ricostruzione dottrinale, occorre
riconoscere apertamente che anche l’errore sul valore apre la porta ai
rimedi previsti dall’ordinamento, laddove l’errore sia connesso « a una
situazione di lesione, di squilibrio tra le prestazioni pattuite» [gallo 1999,
444].
La problematica relativa a questo tipo di errore si interseca, inoltre, con
quella avente a oggetto l’errore sul prezzo. Nel diritto applicato si coglie un
ricorso indifferenziato alle due figure, non si distingue cioè fra «errore sul
valore» ed «errore sul prezzo», inteso come «erronea rappresentazione
della stima compiuta» (Cass. 2635/1996). Più articolato appare, invece,
l’atteggiamento della dottrina, la quale, da un lato, si colloca nella medesi‐
ma prospettiva della giurisprudenza utilizzando in modo equivalente le due
espressioni [trabucchi ???, 668]; dall’altro, propone un trattamento diffe‐
renziato delle due figure [pietrobon 1990, 430; minervini 1987, 936; galga‐
no 1998, 283]. La necessità di una diversificazione si deve soprattutto al
fatto che l’errore sul prezzo riguarda, diversamente da quello sul valore,
l’oggetto del contratto, più precisamente, l’oggetto della prestazione a cui è
tenuta una delle parti [roppo 2001, 791].
d) Cessione di quote societarie e di azioni.
L’applicabilità alla cessione di quote delle norme in tema di annullabilità
appare difficilmente praticabile, in quanto in questo tipo di operazioni il
contratto ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale
oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che la partecipazione
rappresenta. Ne consegue che il difetto di qualità può attenere unicamente
alla qualità dei diritti ed obblighi che in concreto la partecipazione sociale
sia idonea ad attribuire. (Cass. 5773/1996; Trib. Milano 17 ottobre 2002).
Analogo orientamento si coglie in materia di cessione di titoli azionari, nel
cui ambito si ritiene che le qualità determinanti del consenso vanno limitate
a quelle riguardanti la funzione tipica delle azioni, vale a dire l’insieme delle
facoltà e dei diritti che questi prodotti conferiscono al loro titolare, senza
alcun riguardo al valore di mercato di essi (Cass. 9067/1995).
d) L’errore sull’identità o sulle qualità di controparte. L’art.
1429, n. 3, scarsamente applicato dalla giurisprudenza, non è
destinato a determinati contratti tipici ovvero a una determinata
classe di contratti, in particolare ai contratti intuitu personae; piutto‐
sto contiene una disciplina dedicata a tutti i contratti e assolve la
funzione di tutelare la parte in quanto vittima di un errore sulle
caratteristiche personali dell’altro contraente.
e) L’errore di diritto. L’art. 1429 si chiude stabilendo che l’erro‐
re è essenziale quando, trattandosi di errore di diritto, è stato la
ragione unica o principale del contratto. Questa disposizione,
avente a oggetto secondo l’impostazione tradizionale l’ignoranza o
la falsa conoscenza di una norma giuridica, ha dato origine a un
ampio dibattito che si è andato progressivamente articolando
intorno a una serie di profili.
Il principale nodo problematico attiene all’individuazione dell’ambito di
applicazione dell’errore di diritto (esclusa dal legislatore per la transazione,
art. 1969, e la revoca della confessione, art. 2732), più precisamente alla
definizione dell’area di rilevanza suscettibile di essere attribuita a questo
errore rispetto alle altre figure previste nei numeri precedenti dell’art. 1429.
La previsione in esame ha dato origine a un’ulteriore problematica con
particolare riferimento al rapporto fra l’errore di diritto e il principio ignoran‐
tia legis non excusat. In dottrina si rileva che le due regole sono compatibili
in quanto si collocano su piani diversi; in particolare, si deve ritenere che la
norma contenuta nell’art. 1429 presupponga il principio e ne tragga le
conseguenze [roppo 2001, 794]. Anche nel diritto giurisprudenziale si
afferma che la presunzione di conoscenza di norme giuridiche non può
essere invocata per escludere la configurabilità e la rilevanza di un errore
determinato dall’ignoranza o dall’inesatta conoscenza di una norma (Cass.
3892/1985).
L’errore di diritto può operare a prescindere dal carattere dispositivo o
imperativo della norma su cui è intervenuto l’errore (Cass. 2688/1982).
D’altro canto si è esclusa la rilevanza dell’errore di diritto laddove la norma
imperativa di cui si è ignorata l’esistenza al momento della conclusione del
contratto abbia determinato l’integrazione del negozio a norma dell’art.
1339 e quindi la modifica del regolamento contrattuale, per la mancanza
del carattere negoziale delle clausole rispetto alle quali si è verificata una
sostituzione legale (Cass. 11032/1994).
Affinché costituisca causa di annullamento del contratto, come
si è detto, l’errore deve essere non solo essenziale ma anche
riconoscibile. Le caratteristiche di questo secondo requisito vengo‐
no delineate dallo stesso legislatore nell’art. 1431, in base al quale
l’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto,
alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una
persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo.
La giurisprudenza individua il fondamento di tale previsione nell’esigen‐
za di tutelare la buonafede dell’altro contraente (Cass. 980/1991). La
dottrina prevalente ritiene che il fondamento del criterio della riconoscibilità
debba essere individuato nel principio di tutela dell’affidamento [carresi
1987, 457; roppo 2001, 801]. Secondo altra dottrina l’indicazione pura e
semplice della tutela dell’affidamento non sarebbe sufficiente a delineare il
fondamento della nuova regola, che dovrebbe essere individuato piuttosto
nel principio dell’equo contemperamento degli interessi [pietrobon 1990,
109]. La ricostruzione della ratio sottostante la regola della riconoscibilità
può essere condotta anche alla luce del principio dell’efficienza. In tal
senso si è sostenuto che se lo scopo perseguito dall’ordinamento è quello
di evitare la possibilità di errori al minor costo possibile, appare giusto far
gravare il rischio dell’errore facilmente riconoscibile sul destinatario della
dichiarazione, vale a dire sulla parte che avrebbe potuto evitarlo sopportan‐
do il minor costo possibile [gallo 1999, 450; roppo 2001, 801].
La riconoscibilità dell’errore deve essere misurata in astratto, nel senso
cioè che occorre valutare la possibilità di tale riconoscimento in una
persona di media avvedutezza (Cass. 2518/1990). Questa modalità di
approccio, tuttavia, non determina «che non si tenga conto delle circostan‐
ze di fatto che in quel caso rendevano possibile al destinatario il riconosci‐
mento dell’errore» [sacco 2004, 528] (in giurisprudenza, Cass. 9777/1993).
Tanto emergerebbe dal ricorso ai criteri previsti dall’art. 1431, vale a dire il
contenuto del contratto, le circostanze che lo hanno caratterizzato e la
qualità dei contraenti In particolare le suddette circostanze assumono
l’aspetto di «fatti espressivi» del significato attribuito dall’errante al negozio,
l’indice esterno, obiettivamente apprezzabile, che assume la veste di
elemento giuridicamente rilevante [barcellona 1966, 276]. Rimangono
esclusi dal giudizio i fattori relativi alla sfera puramente soggettiva del
destinatario della dichiarazione [roppo 2001, 803].
La problematica relativa alle modalità di valutazione della rico‐
noscibilità dell’errore trova un tradizionale banco di prova nella
questione relativa alla portata dell’errore riconosciuto, anche se
astrattamente irriconoscibile.
Secondo la dottrina prevalente, nonché secondo un indirizzo giurispru‐
denziale consolidato, in tale circostanza si producono gli effetti dell’errore
riconoscibile, venendo meno l’esigenza di tutelare il destinatario della
dichiarazione [sacco 2004, 530; carresi 1987, 457; roppo 2001, 803;
galgano 1998, 300]. Altra dottrina esclude l’annullabilità del contratto
qualora l’agente non abbia adempiuto all’onere di diligenza nella dichiara‐
zione e il destinatario consegue la conoscenza dell’errore usando una
diligenza superiore a quella normale [mirabelli 1980, 547]. La rilevanza
dell’errore non riconoscibile ma riconosciuto è stata sottoposta a valutazio‐
ni critiche nell’ambito di un’altra ricostruzione teorica, secondo cui nella
fattispecie dell’errore, al pari di altri luoghi dell’ordinamento, l’elemento
giuridicamente rilevante deve essere individuato in ogni caso nell’«indice
esterno» obiettivamente apprezzabile e non già nella conoscenza della
controparte. In base a tale impostazione l’irrilevanza dell’errore in esame
non trae origine dalla buonafede, ma dalla mancanza di questo requisito
obiettivo [barcellona 1966, 277].
Un’ulteriore problematica connessa al requisito della riconoscibi‐
lità è rappresentata dalla rilevanza suscettibile di essere attribuita
all’errore comune. In sostanza, al pari di quanto si è appena
rilevato in tema di errore riconosciuto, si è andata progressivamente
delineando la questione relativa all’annullabilità del contratto carat‐
terizzato da un errore obiettivamente non riconoscibile nel quale,
tuttavia, siano incorsi entrambi i contraenti.
In giurisprudenza si ritiene ammissibile il rimedio dell’annullabili‐
tà in presenza di un errore bilaterale comune a entrambe le parti,
anche se privo del requisito esplicitato dall’art. 1431 (Cass.
5829/1979). Questa soluzione, la cui ragione giustificativa è indivi‐
duata nella circostanza che in presenza di un errore comune ver‐
rebbe meno l’esigenza di tutela dell’affidamento, è stata valutata
criticamente da parte della dottrina.
a) Anzitutto, si tende a rilevare che la costante applicazione di
questo principio finisce per nascondere l’esistenza di differenze di
non poco conto fra le molteplici fattispecie considerate. Tale qualifi‐
cazione certamente non può essere utilizzata nelle ipotesi in cui
l’errore riguarda un punto sul quale in realtà esiste una volontà
comune delle parti. In questi casi, al pari di quelli in cui vi siano stati
errori materiali in sede di redazione dell’atto, piuttosto che ricorrere
all’annullamento, appare preferibile applicare le norme degli artt.
1362 ss., al fine di far emergere mediante l’interpretazione l’effettivo
intento perseguito dai contraenti [gallo 1999, 452; roppo 2001, 804;
con particolare riferimento all’errore (improprio) sulla dichiarazione
memoriale, sacco 2004, 536].
b) Inoltre, si esclude che possa essere ricondotto alla figura in
esame l’errore bilaterale reciproco, definito anche come «doppio
errore asimmetrico» [roppo 2001, 804]. Si tratta delle ipotesi in cui
entrambi i contraenti siano incorsi in un errore ma su aspetti diversi
del contratto; in questi casi, evidentemente, ciascuna delle parti
potrà chiedere l’annullamento del contratto laddove sussistano i
requisiti dell’essenzialità e della riconoscibilità. Muovendo dalle
medesime considerazioni formulate in tema di errore riconosciuto, si
sostiene che l’errore non riconoscibile, anche se comune, non
determini necessariamente l’annullabilità del contratto [mirabelli
1980, 548] (in termini critici, anche, barcellona [1966, 276]). In una
diversa prospettiva, caratterizzata dall’esigenza di garantire la tutela
dell’affidamento incolpevole e l’equo contemperamento dell’interes‐
se delle parti, principi di valore operativo che costituiscono vere e
proprie direttive dell’ordinamento, l’errore comune è ritenuto idoneo
a determinare l’annullamento del contratto laddove oltre a essere
essenziale, sia anche riconoscibile, sebbene in base alle circostan‐
ze del caso concreto, attraverso una diligente valutazione dell’altro
contraente [bessone 1966, 1583; criscuoli 1985, 620].
■ 4. A questo punto è possibile procedere all’esame di ulteriori
aspetti della disciplina dell’errore, a partire dall’art. 1430, in base al
quale l’errore di calcolo non determina l’annullamento del
contratto, ma solo la sua rettifica, tranne che, determinando un
errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso. Questa
disposizione ha trovato ampia applicazione da parte della giurispru‐
denza, i cui interventi hanno finito per far emergere due distinte
figure, vale a dire l’«errore di calcolo in senso stretto» e l’«errore di
quantità»:
a) con riferimento all’errore di calcolo in senso stretto viene in
considerazione un orientamento ormai consolidato secondo cui
l’errore di calcolo si ha quando, definiti in modo chiaro e preciso i
termini da computare e il criterio matematico da seguire, si commet‐
te un errore materiale di cifra che si ripercuote sul risultato finale,
rilevabile ictu oculi, in base a quegli stessi dati e criteri, a seguito
della ripetizione corretta del calcolo. In presenza di questi presuppo‐
sti, il rimedio è rappresentato non già dall’annullamento del contrat‐
to, bensì dalla sua rettifica, proposta dall’errante.
b) l’errore di quantità viene in considerazione quando la parte ha
avuto ragionevolmente una falsa rappresentazione, una falsa conoscenza
della realtà rispetto ai dati aritmetici o al criterio matematico in base ai quali
si debba effettuare quel calcolo, che, posti quei dati e quel criterio, è invece
esatto. In questa diversa ipotesi il contratto potrebbe essere annullato, a
condizione che l’errore sia stato determinante del consenso.
L’esame delle posizioni assunte sul punto dalla dottrina offre uno
scenario più articolato. In base a un primo indirizzo occorre ridimensionare
l’effettivo valore normativo dell’art. 1430, sicché appare opportuna una
sostanziale assimilazione fra la rettifica dell’errore di calcolo e l’interpreta‐
zione correttiva della dichiarazione caratterizzata da errori materiali [carresi
1987, 455; mirabelli 1980, 541]. Secondo un diverso orientamento, la
disciplina in esame consente di attribuire un ruolo autonomo all’errore di
calcolo e quindi di evitarne l’appiattimento sulla disciplina dell’interpretazio‐
ne [piazza 1964, 600]. In base a questa ipotesi ricostruttiva occorre esten‐
dere la portata della previsione dell’art. 1430, collocandone l’operatività sul
piano della formazione del contratto. L’analisi del rapporto fra interesse
regolato e interesse reale finisce in tal modo per determinare un duplice
ordine di soluzioni: a) laddove l’errore abbia determinato una totale diffor‐
mità fra tali interessi, cioè, quando l’errore di calcolo abbia avuto un’effica‐
cia determinante del consenso, il contratto sarà annullabile; b) laddove,
invece, tale difformità sia solo parziale, la rettifica consentirà di operare una
corretta ricostruzione dell’interesse perseguito dall’errante [ibidem, 607].
Il codice civile attribuisce al contraente nei confronti del quale è stata
proposta l’azione di annullamento per errore la possibilità di inibirne gli
effetti ricorrendo alla rettifica. In tal senso l’art. 1432 prevede che la parte
in errore non possa domandare l’annullamento del contratto se l’altra offre
di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto
che quella intendeva concludere. Tale possibilità è subordinata tuttavia alla
circostanza che l’attore non abbia subito un pregiudizio dall’errore che ha
determinato l’esercizio dell’azione. La disposizione consente di evitare le
conseguenze perverse che l’azione di annullamento potrebbe determinare
ove l’errante continuasse a perseguire l’obiettivo dello scioglimento del
contratto, nonostante la disponibilità manifestata dall’altro contraente a
eseguire il contratto in senso conforme a quanto si intendeva effettivamen‐
te stabilire.
In tal senso essa finisce per evocare alcuni principi generali del
diritto dei contratti. La norma, da un lato, si collega alla clausola
generale di buonafede, in quanto esclude che l’azione di annulla‐
mento possa sortire effetti in presenza di una disponibilità del
convenuto a intervenire sulle parti del regolamento contrattuale
rispetto alle quali si è verificato l’errore; dall’altro, consente di
evocare il principio di conservazione del contratto.
L’applicazione del principio generale della buonafede induce peraltro
ad ammettere, pur in mancanza di un’espressa previsione normativa, la
rettifica, con effetti ex tunc, di un atto negoziale unilaterale recettizio [sacco
2004, 532]. Dall’altro lato, la previsione della rettifica, al pari di altre fatti‐
specie previste dal legislatore (artt. 1367, 1450 e 1467), consente di
evocare il principio di conservazione del contratto [quadri 1973, 52; pietro‐
bon 1990, 232; mirabelli 1980, 549]. Tanto emerge in considerazione del
fatto che la rettifica costituisce uno strumento idoneo a offrire stabilità al
regolamento di interessi perseguito dalle parti al momento della conclusio‐
ne del contratto.
Sul piano strutturale la rettifica è un atto unilaterale recettizio che la
parte non in errore può esercitare al fine di evitare l’annullamento del
contratto; in particolare essa si configura come atto di esercizio di un diritto
potestativo [pietrobon 1990, 234; franzoni 1998, 305]. Nell’ipotesi in cui le
modifiche proposte vengano ritenute inidonee dall’attore a determinare la
conservazione del contratto sarà il giudice a dover ricostruire sulla base di
parametri oggettivi gli interessi che l’errante intendeva perseguire.
Sul piano applicativo le principali problematiche sollevate da tale
disposizione attengono, per un verso, all’individuazione dei limiti entro i
quali la rettifica sia utilizzabile nei contratti viziati da errori; per altro verso,
al rapporto esistente fra tale istituto e i principi in tema di trascrizione. Il
primo aspetto finisce per evocare la controversa questione relativa al
campo di applicazione della rettifica [pietrobon 1990, 233; scognamiglio
1961, 50]; quanto al secondo aspetto è appena il caso di menzionare il
principio di diritto in base al quale la disciplina della rettifica del contratto
non contiene alcuna eccezione alle regole che governano la trascrizione
(Cass. 11265/2002, ove si stabilisce che si applica il criterio dell’anteriorità
della trascrizione di cui all’art. 1445 ai fini dell’opponibilità ai terzi dell’atto di
alienazione inficiato da errore poi emendato con la rettifica).
L’art. 1433 individua due ulteriori tipologie di errore, vale a dire,
l’errore che cade sulla dichiarazione e l’ipotesi in cui la dichiarazio‐
ne è stata trasmessa in modo inesatto dalla persona o dall’ufficio
che ne era stato incaricato. Tali fattispecie evocano in modo eviden‐
te la tradizionale figura dell’errore ostativo, che, diversamente
dall’errore vizio, avente a oggetto la formazione della volontà
contrattuale, rende difforme la volontà contrattuale dalla sua manife‐
stazione. In questi casi, infatti, la volontà perseguita con il contratto
si forma in modo corretto ma viene dichiarata o trasmessa al desti‐
natario in modo diverso da quella del suo autore.
La distinzione fra le due tradizionali tipologie di errore è stata
ricondotta a unità sul piano del trattamento normativo. La disposi‐
zione in esame, infatti, stabilisce che all’errore avente a oggetto la
dichiarazione, così come all’errore di trasmissione, debba applicarsi
il regime giuridico previsto nelle disposizioni precedenti, vale a dire
quelle riguardanti le ipotesi di errore vizio. L’impostazione adottata
dal legislatore trova una convincente spiegazione nella ricostruzione
dei mutamenti che hanno interessato sul piano generale la conce‐
zione stessa del ruolo dell’errore. In tal senso occorre sottolineare
ancora una volta che questa disciplina costituisce una significativa
innovazione del codice civile del 1942, posto che, come si è visto (v.
supra, n. 2), l’errore ostativo era suscettibile di determinare la
nullità e non già l’annullamento del contratto.
Il passaggio a una forma più attenuata di invalidità evidenzia un
mutamento di prospettiva nell’individuazione degli interessi ritenuti
meritevoli di tutela. Il rimedio della nullità esprimeva la scelta di
proteggere la sfera giuridica della parte la cui dichiarazione fosse
formulata in modo difforme dalla sua effettiva volontà, ovvero fosse
trasmessa in modo inesatto, anche nelle ipotesi in cui il destinatario
non potesse riconoscere in alcun modo l’esistenza dell’errore. La
diversa esigenza di garantire la sicurezza dei traffici e, in
particolare, l’affidamento del destinatario della dichiarazione fondato
su circostanze oggettive, ha indotto il legislatore a ritenere applica‐
bile all’errore ostativo la forma meno grave di invalidità, vale a dire
l’annullamento (Relazione al codice civile, n. 652).
In questa materia, dunque, il contemperamento fra i diversi
interessi di cui sono portatori i contraenti ha luogo attraverso l’appli‐
cazione del medesimo trattamento normativo previsto per l’errore
vizio. La soluzione pone a carico della sfera giuridica dell’errante i
rischi connessi alla formulazione della sua volontà negoziale, in tal
modo dando attuazione anche in questa materia al principio di
autoresponsabilità. In termini più generali, nell’attribuire rilevanza
giuridica a quanto emerge in modo oggettivo dalla dichiarazione, la
disposizione in esame presenta un meccanismo che concorre ad
affrancare i vizi del consenso dal dogma della volontà.
Delineata la portata di tale disposizione, a questo punto occorre formu‐
lare qualche breve osservazione sul suo campo di applicazione (sul punto,
anche, memmo [1998, 311]). A tale riguardo la dottrina opportunamente
afferma che la norma in esame debba coprire «sia le alterazioni colposa‐
mente introdotte dall’addetto alla trasmissione, sia anche le alterazioni
dolose» [roppo 2001, 807] (in giurisprudenza Cass. 961/1988 esclude la
configurabilità di un errore ostativo in presenza di riempimento contra pacta
di foglio firmato in bianco, da parte di un terzo riempitore, al cui atto volitivo
si deve il completamento della scrittura).
L’individuazione del campo di applicazione dell’art. 1433 pone in
evidenza anche una serie di ipotesi che sembrano evocare l’errore
ostativo, ma che in realtà sono riconducibili ad altri istituti del diritto dei
contratti. In tal senso è utile richiamare la problematica relativa ai casi di
c.d. falsa demonstratio. A questo proposito viene in considerazione l’orien‐
tamento giurisprudenziale secondo cui non ricorre questa tipologia di errore
qualora il contenuto del contratto, come appare stipulato, non corrisponda
alla comune, reale volontà delle parti (Cass. 19558/2003). In questo caso,
sia che l’erronea formulazione o trascrizione debba essere attribuita alle
parti medesime, sia che debba essere ricondotta a un terzo da loro incari‐
cato, deve prevalere sulla lettera del contratto ciò che le parti hanno
effettivamente voluto (Cass. 9127/1993).
■ 5. La disciplina che il legislatore dedica al dolo, inteso come
«vizio della volontà», è contenuta nella Sezione II, Capo XII della
normativa in tema di contratti in generale. La diversa accezione che
tale figura assume in quanto criterio di imputazione dell’illecito, trova
il suo punto di riferimento normativo nelle disposizioni dettate in
materia di responsabilità (artt. 1225 e 2043).
In base al comma 1 dell’art. 1439, il dolo determina l’annulla‐
mento del contratto quando i raggiri posti in essere da uno dei
contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe
contrattato. La disposizione contenuta nel comma 2 sanziona con
l’invalidità del contratto l’ipotesi in cui i raggiri sono stati utilizzati da
un terzo e fossero noti al contraente che ne ha tratto vantaggio. Sul
piano descrittivo occorre rilevare che il dolo-vizio consiste sia nel
trarre in inganno la parte interessata con notizie false, con parole o
con fatti, direttamente o tramite terzi (dolo commissivo), sia nel
nascondere circostanze o fatti decisivi alla conoscenza altrui (dolo
omissivo). In sostanza il dolo è causa di annullamento del contratto
allorché gli artifici, i raggiri, le menzogne e gli altri comportamenti
ritenuti giuridicamente rilevanti ai fini del vizio in esame, abbiano
determinato nella controparte una rappresentazione alterata della
realtà inducendola a prestare un consenso che altrimenti sarebbe
mancato.
Più complessa appare invece la ricostruzione di tale figura sul
piano strutturale; a tale riguardo vengono in considerazione le
diverse forme di condotta suscettibili di essere qualificate come
«raggiri», anzitutto la c.d. macchinazione. Questa tipologia di
comportamento ricorre laddove attraverso manovre e artifici sia
stata creata nel deceptus una falsa rappresentazione della realtà.
Tanto in dottrina quanto in giurisprudenza la macchinazione viene
pacificamente ritenuta idonea a giustificare l’azione di annullamento per
dolo. È opportuna, tuttavia, la precisazione secondo cui tale comportamen‐
to «è rilevante, in quanto induca nella vittima un errore determinante del
consenso» e sussista «un ragionevole nesso causale fra macchinazione e
decisione di contrattare» [roppo 2001, 813].
L’esame dei comportamenti rilevanti ai fini della ricostruzione
della figura del dolo-vizio, trova un altro punto di riferimento nella
menzogna. Il mendacio consiste in una consapevole falsificazione
della verità, che si differenzia sia dalla machinatio, per la sostanzia‐
le mancanza di manovre tese a creare volutamente un travisamento
della realtà, sia dalla reticenza, in considerazione del fatto che
l’alterazione della verità ha luogo attraverso un comportamento
commissivo.
La possibilità di ricondurre la semplice menzogna ai raggiri che integra‐
no la fattispecie del dolo è valutata in modo alquanto eterogeneo. La
giurisprudenza offre uno scenario nel quale accanto ad atteggiamenti di
apertura si coglie la presenza di soluzioni improntate a un maggiore rigore.
Frequente appare il ricorso a formule che tendono a configurare l’esistenza
del dolo laddove sussistano requisiti ulteriori rispetto alla semplice menzo‐
gna. Sembra prevalere, comunque, un approccio caratterizzato dall’esigen‐
za di un’indagine di fatto volta a rilevare l’effettiva idoneità del mendacio a
trarre in inganno il deceptus. In tal senso, si afferma la necessità di proce‐
dere alla valutazione del comportamento tenuto dall’autore delle menzogne
avendo riguardo «alle circostanze di fatto e alle qualità e condizioni dell’al‐
tra parte» (Cass. 10718/1993).
La dottrina tende ad affermare che anche questa tipologia di raggiro
possa integrare gli estremi del dolo ove in concreto la menzogna sia stata
determinante del consenso [gallo 1999, 460]. Nella ricerca di parametri di
qualificazione delle fattispecie rilevanti, a fronte dei limiti manifestati sul
punto dal diritto giurisprudenziale, appare utile il criterio secondo cui
occorre muovere dall’individuazione dell’oggetto sul quale cade la menzo‐
gna [sacco 2004, 554]. In tale prospettiva possono ritenersi generalmente
irrilevanti le menzogne che fanno riferimento alla sfera propria e non hanno
riflessi ulteriori [roppo 2001, 814]; devono ritenersi rilevanti, invece, quelle
relative a dati che in modo diretto o indiretto toccano la sfera dell’altro
contraente ovvero l’andamento del mercato [sacco 2004, 555].
Il «dolo-vizio» dianzi esaminato (c.d. dolus malus) è tradizional‐
mente distinto dal c.d. dolus bonus, che non è causa di annulla‐
mento del contratto essendo agevolmente appurabile e non manife‐
stando di regola un reale animus decipiendi. Tale nozione, che
finisce per evocare una distinzione di evidente sapore manualistico,
viene in considerazione con riferimento alle ipotesi in cui il contraen‐
te nell’esercizio dei suoi affari abbia fatto ricorso a vanterie o ad
accorgimenti maliziosi diretti a esaltare il valore della propria presta‐
zione.
I caratteri propri della figura del dolus bonus non sono, tuttavia, pacifi‐
camente individuati dalla dottrina. Un’opinione tradizionale configura il
dolus bonus come il complesso degli accorgimenti ingannatori «tollerati»
nella pratica degli affari, volti a stimolarne la conclusione [trabucchi ???,
151]. Si è autorevolmente affermato, peraltro, che sul piano strettamente
giuridico il criterio di delimitazione fra dolo illecito e furberia lecita (dolus
bonus) debba essere desunto dalla correttezza a cui le parti sono tenute
nel condurre le trattative, valutata, in modo contingente e variabile, alla
stregua della «pratica comune del traffico» [betti 1950, 448]. L’affermata
irrilevanza di questa tipologia di raggiro ha subito una progressiva erosione
sul piano teorico in seguito alla crescente valorizzazione dell’obbligo di
lealtà imposto alle parti nelle trattative dall’art. 1337 e, successivamente, ai
mutamenti che hanno caratterizzato il nostro scenario normativo in materia
di tutela del consumatore. Secondo un’autorevole ricostruzione, la circo‐
stanza che questi comportamenti siano in contrasto con l’obbligo di buona‐
fede a cui le parti sono tenute durante le trattative, emerge dalla considera‐
zione in base alla quale il dolus bonus finirebbe per legittimare ogni con‐
traente a speculare sulla debolezza intellettuale dell’altra parte [sacco
2004, 569].
In una diversa prospettiva il principio posto a fondamento del dolus
bonus viene ritenuto in contrasto con la ratio della regola che non contem‐
pla la scusabilità fra i requisiti di rilevanza dell’errore. In particolare si
sottolinea l’incongruenza di un sistema nel quale dovrebbe essere tutelato
chi cade spontaneamente in errore, mentre sarebbe privo di protezione il
contraente che cade nell’inganno altrui per propria deficienza [roppo 2001,
818]. Muovendo da un’interpretazione restrittiva dell’art. 1338, si è inoltre
rilevato «che solamente la responsabilità precontrattuale per reticenza su
cause di invalidità del contratto incontra il limite dell’ignoranza colpevole,
essendo invece diversamente regolate le ipotesi in cui l’informazione
dovuta presenta un contenuto differente» [realmonte 1994, 133]. Altra parte
della dottrina tende, invece, a limitare la figura del dolus bonus ai casi di
pratiche commerciali normalmente inidonee a irretire e che per tale motivo,
in concreto, non abbiano tratto in inganno il contraente cui erano dirette
[criscuoli 1957, 5].
L’esaltazione del prodotto deve concernere, comunque, profili suscetti‐
bili di vario apprezzamento soggettivo [criscuoli 1968, 98]. Stabilire, così,
quale sia il confine che demarca il dolus bonus dal dolus malus è questione
che viene a intercettare il rilievo sul piano giuridico degli obblighi
informativi, la cui consistenza è stata sensibilmente accentuata dalle
recenti normative a tutela del consumatore, nel senso di restringere l’area
del dolus bonus. Nella giurisprudenza, si sono ritenute configurare dolus
bonus le dichiarazioni precontrattuali con cui un contraente abbia presenta‐
to la realtà in modo a sé più favorevole quando, in relazione al contesto in
cui sono state rese, presentassero un modesto livello di attendibilità
nell’ambito della trattativa, così da escludere che l’altro contraente possa
avervi attribuito un peso particolare (Cass. 3001/1996).
D’altro canto, in dottrina si è affermata l’esistenza del dolo nell’ipotesi di
pubblicità menzognera, consistente nell’attribuire al bene o al servizio
specifiche qualità non rispondenti al vero [criscuoli 1968, 74]; in particolare
la pubblicità menzognera è stata considerata causa di annullabilità del
contratto ove il rivenditore fosse consapevole del raggiro [bianca ???, 667].
La pubblicità ingannevole è stata specificamente vietata a seguito dell’en‐
trata in vigore del d.lgs. 74/1992, in attuazione della direttiva 84/450/CEE,
prevedendosi che «la pubblicità deve essere palese, veritiera e
2
corretta» (art. 1 ). È stata qualificata come «ingannevole» qualsiasi
pubblicità «che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca
in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è
rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole,
possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per
questo motivo, leda o possa ledere un concorrente» (art. 2, lett. b). Succes‐
sivamente tale disciplina è stata integrata dalla direttiva 97/55/CE in tema
di pubblicità comparativa, recepita in Italia con il d.lgs. 67/2000. Si segnala,
2
inoltre, la previsione dell’art. 1 , lett. c, l. 281/1998 (c.d. «Statuto dei
consumatori e degli utenti»), che configurava come diritto fondamentale dei
consumatori e degli utenti quello «a un’adeguata informazione e a una
corretta pubblicità».
A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 145/2007 e del d.lgs.
146/2007 si è attivato un «doppio binario» di protezione, di cui uno a tutela
del consumatore nei «rapporti tra consumatori e imprese» (BtoC) in
relazione a pratiche commerciali scorrette e, l’altro, a tutela delle imprese
nei loro reciproci «rapporti commerciali» (BtoB) in riferimento a comporta‐
menti caratterizzati da pubblicità ingannevole e comparativa illecita. Ambe‐
due i Decreti dianzi citati sono espressione delle direttive 114/2006/CE e
29/2005/CE, il cui scopo principale è quello di garantire il corretto funziona‐
mento del mercato interno, introducendo, da un lato, la figura delle pratiche
commerciali scorrette fra imprese e consumatori e, dall’altro, modificando
la normativa in materia di pubblicità ingannevole tra gli operatori economici.
Le disposizioni relative alle pratiche commerciali scorrette, recate dal
d.lgs. 146/2007, sono poste a presidio dei rapporti tra professionisti e
consumatori, al fine di ampliare la tutela di questi ultimi sulla base dell’uni‐
co divieto generale, introdotto dalla direttiva 29/2005/CE e trasfuso nell’art.
19 del nuovo codice del consumo (d.lgs. 206/2005), di pratiche commerciali
sleali che si verificano all’esterno di un eventuale rapporto contrattuale tra
consumatore e professionista o in seguito alla conclusione di un contratto e
durante la sua esecuzione. L’ambito di applicazione delle nuove norme
sulle pratiche commerciali scorrette (artt. 18-27 c. cons.) si estende a tutti i
rapporti intercorsi tra consumatore e professionista: prima, durante e dopo
un’operazione commerciale relativa a un prodotto. Poiché la pratica
commerciale deve avere una diretta relazione con la promozione, vendita e
fornitura di un prodotto o servizio da professionisti a consumatori, si può
affermare che sono compresi nella relativa disciplina: tutti i rapporti busi‐
ness to consumer precontrattuali (ivi compresa la pubblicità ingannevole) e
contrattuali aventi a oggetto un bene o servizio destinato esclusivamente a
un consumatore; le condotte della fase contrattuale o postcontrattuale
consistenti in azioni od omissioni del professionista che possono influenza‐
re scorrettamente la scelta di esercitare un diritto (ad es., recesso) o a far
valere una tutela (ad es., riparazione o sostituzione del bene acquistato).
Per «pratiche commerciali» devono intendersi qualsiasi azione, omis‐
sione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale (ivi compresa
la pubblicità e la commercializzazione del prodotto), posta in essere da un
professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un
prodotto ai consumatori.
Elementi costitutivi delle pratiche commerciali scorrette sono:
a) la condotta del professionista contraria alla diligenza professionale.
Interpretando la norma nazionale alla luce di quella comunitaria si può
affermare che la scorrettezza della pratica è esclusa solo quando risulti
provato che il professionista ha adottato tutte quelle misure specifiche
ragionevolmente necessarie nel caso concreto per evitare di fuorviare il
comportamento economico del consumatore. Non è sufficiente, quindi, che
il professionista si sia attenuto alla generale osservanza dei principi di
correttezza e buonafede o «alle pratiche oneste», vigenti nel suo settore di
attività;
b) l’idoneità a falsare in maniera rilevante il comportamento economico
del consumatore medio, inducendolo ad assumere una decisione di natura
commerciale che altrimenti non sarebbe stata presa. L’«idoneità a falsare»
si riferisce al concetto di «pregiudizio economico» che il consumatore può
subire, anche a livello di semplice pericolo, per effetto della pratica scorret‐
ta; così come per «consumatore medio» si intende il pubblico di riferimento
del prodotto particolarmente sensibile o vulnerabile della pratica scorretta.
2
Il nuovo impianto normativo, secondo quanto prevede l’art. 19 , lett. a,
c. cons., non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in
materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od
efficacia del contratto. Ne consegue che il consumatore è astrattamente
legittimato ad avvalersi dei seguenti rimedi: a) responsabilità precontrattua‐
le, attraverso cui ottenere il risarcimento del danno subìto per aver stipulato
un contratto a condizioni meno favorevoli di quanto volesse, per effetto del
comportamento osservato dal professionista; b) annullamento del contratto,
ove stipulato a seguito di azioni od omissioni ingannevoli per dolo del
professionista (art. 1439), ovvero a seguito di violenza (art. 1434); c)
risoluzione del contratto per grave inadempimento agli obblighi informativi
(art. 1454), unitamente all’eventuale risarcimento del danno.
Ampiamente dibattuta con riferimento alla schematizzata disciplina e
soltanto accennabile in questa sede [pagliantini 2009, 164 ss.], è piuttosto
la questione se la recente novellazione del codice del consumo implichi
una generale e radicale rivisitazione del tradizionale principio di non
interferenza tra rimedi invalidanti e rimedi risarcitori [de cristofaro 2008, 91
ss.] ovvero non si tratti piuttosto di un intervento sul piano della trasparenza
informativa, di c.d. «ordine pubblico economico», che presti alla
«reticenza» la sua disciplina (in termini di inversione dell’onere probatorio)
per riceverne in cambio veste e conseguenze giuridiche nell’ambito teorico
dei c.d. «vizi incompleti del contratto» (dolo «colposo» e c.d. «violenza
debole») [sacco 1997, 256; mantovani 1995, 187 ss.].
Il dolo, come si è detto, viene in considerazione non solo in
presenza di un comportamento attivo ma anche nelle ipotesi in cui
uno dei contraenti si astenga dal fornire informazioni che avrebbero
indotto l’altra parte a non contrattare se ne avesse avuto conoscen‐
za. In questa materia assume particolare rilievo il tema del rapporto
fra reticenza e doveri di informazione, più precisamente la com‐
plessa questione relativa all’individuazione dei presupposti in
presenza dei quali la condotta del contraente che si astenga dal
fornire informazioni all’altra parte possa integrare gli estremi del
dolo omissivo.
La dottrina offre, sul punto, uno scenario alquanto articolato. In base a
una prima, più rigida, ipotesi ricostruttiva [stolfi 1961, 153], la reticenza
diviene rilevante ai fini dell’azione di annullamento, soltanto nelle ipotesi in
cui sussiste un obbligo di informazione derivante dalla legge, in via diretta,
si pensi all’assicurazione (art. 1892), ovvero indiretta, si pensi alla discipli‐
na in tema di transazione (arg. ex art. 1971). Secondo un diverso orienta‐
mento, caratterizzato peraltro da iter argomentativi non sempre omogenei,
la violazione dell’obbligo di informare nella fase delle trattative, basato sul
principio di correttezza previsto dall’art. 1337, rileva anche come causa di
annullamento [visintini 1972, 91; sacco 2004, 563]. Questa soluzione non
trova accoglimento nell’ambito dell’orientamento dottrinale che colloca sul
piano risarcitorio gli effetti della violazione del generale obbligo di informa‐
zione [pietrobon 1990, 104; benatti 1963, 66; d’amico 2002, 57]. Appare
innegabile, tuttavia, che in questo settore, al pari di altri, si pone l’esigenza
di trovare un punto di equilibrio fra il bisogno di trasparenza contrattuale e
l’efficiente allocazione delle risorse, in questo caso di quelle informative
[roppo 2001, 816].
In giurisprudenza appare frequente il ricorso al principio secondo cui il
dolo omissivo può concretizzare una causa di annullamento del contratto a
norma dell’art. 1439, solo quando l’inerzia della parte si inserisca in un
comportamento complesso, adeguatamente preordinato a realizzare
l’inganno perseguito. Pertanto, la mera reticenza, limitandosi a non contra‐
stare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente,
non viene considerata «idonea» a costituire causa invalidante del contratto
(Cass. 8295/1994; App. Milano 11 luglio 2003, con riferimento all’ipotesi di
contratto di cessione di partecipazioni azionarie). è opportuno rilevare,
infine, che nell’ambito della disciplina dei singoli contratti questa problema‐
tica emerge in modo del tutto particolare dalla citata disposizione avente a
oggetto le dichiarazioni inesatte e le reticenze nel contratto di assicurazio‐
ne, la cui portata è oggetto di diverse ipotesi ricostruttive. Il dibattito a cui
tale disciplina ha dato origine non può essere analizzato in questa sede; è
il caso di sottolineare, tuttavia, che la giurisprudenza ha finito per elaborare
un principio di diritto secondo cui la reticenza dell’assicurato determina
l’annullamento del contratto ex art. 1892 quando si verificano, simultanea‐
mente, le seguenti condizioni: la dichiarazione sia inesatta o reticente; la
reticenza sia stata determinante ai fini della formazione del consenso
dell’assicuratore; l’assicurato abbia reso la dichiarazione con dolo o colpa
grave (Cass. 3165/2003; Cass. 2148/2001). L’art. 1892 non viene ritenuto
applicabile, invece, al contratto di assicurazione fideiussoria o cauzionale,
le cui peculiarità renderebbero preferibile il richiamo allo schema della
fideiussione; pertanto, nelle ipotesi di dichiarazioni inesatte o reticenti del
contraente-debitore in ordine alla formazione del rapporto principale la
validità del contratto deve essere valutata alla stregua delle regole generali
in materia di annullabilità per errore o per dolo (Cass. 6757/2001).
Secondo l’insegnamento tradizionale, l’annullamento per dolo
presuppone l’esistenza dell’animus decipiendi, vale a dire della
volontà di ingannare l’altro contraente. L’intenzione di trarre in
inganno è subordinata, per un verso, alla conoscenza della falsità
della rappresentazione che si produce nella vittima, per altro verso,
alla credenza che la volontà possa essere determinata con quegli
artifizi.
Il dolo-vizio, tuttavia, appare utilizzabile anche nelle ipotesi di raggiri
puramente colposi. L’estensione del suo campo di applicazione viene
giustificata con l’ampiezza dei criteri di imputazione previsti nella disciplina
della responsabilità aquiliana [sacco 2004, 549] (sull’ammissibilità del
requisito colposo, anche, gentili [1989, 3]). Più cauta, invece, appare la
posizione secondo cui l’annullamento per inganno colposo deve avere una
portata limitata; in particolare, si ritiene che tale rimedio debba trovare
applicazione nelle ipotesi in cui il raggiro provenga da un professionista
della materia contrattuale ovvero nelle ipotesi in cui l’inganno scaturisca da
un comportamento commissivo piuttosto che omissivo [roppo 2001, 818].
La giurisprudenza, quanto meno nelle dichiarazioni di principio, sembra
aderire all’orientamento tradizionale, indicando quale connotato essenziale
del dolo invalidante, la volontaria realizzazione di un’alterazione nella
rappresentazione della realtà. Occorre sottolineare però che nell’ambito di
una pronuncia avente a oggetto la responsabilità per i danni derivanti
dall’aver confidato sulla veridicità di informazioni ricevute da una banca, è
stata affermata l’esistenza di un interesse giuridicamente protetto, configu‐
2
rabile alla stregua dell’art. 1439 , a non vedersi alterare o comunque
formare in modo scorretto la volontà non soltanto per l’opera dolosa ma
anche per quella meramente colposa di un terzo (Cass. 5659/1998).
Nella ricognizione degli aspetti che concorrono a delineare il
dolo sul piano strutturale è opportuno richiamare, per un verso, il
nesso causale fra questo vizio del consenso e la stipulazione del
contratto, per altro verso, la problematica relativa alle modalità di
valutazione del contegno tenuto dal deceptus.
a) Con riferimento al primo aspetto è appena il caso di sottoli‐
neare che, esaurita la fase relativa alla qualificazione delle condotte
suscettibili di configurare i raggiri, si pone l’esigenza di valutarne
l’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e,
quindi, sul consenso di quest’ultima. Più precisamente, in materia di
dolo l’inganno deve essere stato tale da determinare nel deceptus
la falsa rappresentazione della realtà e, quindi, la scelta di indursi a
stipulare il contratto.
b) Con riferimento al secondo aspetto è possibile delineare
soluzioni volte a sottolineare, per un verso, il principio per cui il
comportamento della vittima del dolo deve essere valutato in astrat‐
to, alla stregua cioè del criterio della normale diligenza; per altro
verso, la necessità che il deceptus sia stato concretamente ingan‐
nato.
Il capoverso dell’art. 1439 prende in considerazione l’ipotesi in
cui i raggiri sono stati usati da un terzo, prevedendo l’annullabilità
del contratto se i raggiri erano noti al contraente che ne ha tratto
vantaggio. Attraverso questa disposizione si persegue l’obiettivo di
estendere la tutela dell’effettività del volere alle ipotesi in cui il dolo
venga posto in essere da un soggetto estraneo al rapporto contrat‐
tuale. Sul piano interpretativo i principali problemi a cui tale norma
dà origine riguardano l’individuazione dei soggetti a cui è possibile
attribuire la qualifica di «terzo» e la portata che assume il requisito
della conoscenza della parte avvantaggiata.
Quanto al primo aspetto, la dottrina sembra orientata a escludere, sia
pure con sfumature diverse, che possano considerarsi terzi coloro i quali
operano in vario modo come ausiliari del contraente e, quindi, estende la
gamma dei soggetti il cui dolo debba essere ricondotto all’attività contrat‐
tuale della parte. La giurisprudenza, invece, adotta tradizionalmente un
approccio volto a porre in evidenza il ruolo della rappresentanza in senso
tecnico, la cui assenza implica l’estraneità del terzo rispetto all’affare e,
quindi, l’applicabilità del comma 2 dell’art. 1439 (sul punto, la ricognizione
di cavallo borgia [1998, 479]).
La disposizione in esame è caratterizzata, come si è detto, dagli
ulteriori riferimenti alla conoscenza e al vantaggio del contraente nei
cui confronti viene proposta l’azione di annullamento:
a) il primo requisito (conoscenza) induce ad affermare che la
tutela prevista dalla norma opera soltanto se l’altra parte ha effetti‐
vamente conosciuto l’inganno, non potendosi ritenere sufficiente la
mera riconoscibilità;
b) quanto al secondo requisito (vantaggio), la disposizione non
sembra introdurre un autonomo requisito di rilevanza, piuttosto,
appunto, il vantaggio evocato dal legislatore è semplicemente
l’avvenuta stipulazione del contratto, a prescindere dal suo contenu‐
to e dagli effetti che ne derivano.
■ 6. L’art. 1440 disciplina la figura del c.d. dolus incidens, vale a
dire quella forma di dolo che rileva in via esclusiva come comporta‐
mento illecito, da cui è comunque derivata una falsa rappresenta‐
zione della realtà e, quindi, una deviazione della determinazione
della parte ingannata. Il contraente che agisce in forza di tale
disposizione per chiedere il risarcimento del danno, non è tenuto a
esercitare anche l’azione di annullamento del contratto, in quanto la
domanda ha come presupposto che i raggiri non abbiano avuto
carattere determinante del consenso.
Secondo l’insegnamento tradizionale, quando si evoca questa figura
«non si intende di fare una differenza di dolo, bensì di oggetto su cui
cadono le conseguenze dell’inganno, oggetto che sarà in tale caso qualche
circostanza non essenziale» [trabucchi ???, 151]. In un’altra ipotesi
ricostruttiva, il dolo incidente finisce per evocare l’errore non essenziale,
determinato da raggiro, che assume rilevanza in via eccezionale a motivo
del comportamento illecito da cui ha tratto origine [mirabelli 1980, 563]. Di
recente in questa disciplina si è ritenuto di poter individuare il modello dei
«vizi incompleti», di quelle fattispecie, cioè, nelle quali il vizio non incide
sulla validità del contratto, ma ciò nondimeno legittima il ricorso al rimedio
risarcitorio [mantovani 1995, 187]. L’illecito a cui questo tipo di raggiro dà
origine viene normalmente ricondotto nell’ambito della responsabilità
aquiliana [trabucchi ???, 151]; tuttavia, non mancano soluzioni di segno
contrario, che qualificano il comportamento previsto dall’art. 1440 alla
stregua di un’ipotesi di responsabilità contrattuale [grisi 1990, 299], ovvero
precontrattuale [mantovani 1995, 255].
Le conseguenze che vengono a realizzarsi sul piano risarcitorio
pongono in evidenza un altro motivo di differenziazione fra il dolo
incidente e quello determinante. Nel dolus causam dans, infatti, il
risarcimento che può essere chiesto in aggiunta ovvero in alternati‐
va all’annullamento, deve essere commisurato al c.d. interesse
negativo, vale a dire al pregiudizio risentito dalla vittima dell’ingan‐
no «per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del
contratto» (art. 1338). Nel caso di dolus incidens, invece, il risarci‐
mento non potrà essere limitato all’interesse negativo, ma dovrà
estendersi al complesso delle utilità che la parte ingannata ha perso
per aver concluso il contratto alle condizioni diverse determinate dai
raggiri.
■ 7. Il codice civile stabilisce che il contraente, il cui consenso fu
estorto con violenza, può chiedere l’annullamento del contratto (art.
1427). Al pari di quanto accade per gli altri vizi del consenso, la
giustificazione di tale disciplina va ricercata nell’esigenza di garanti‐
re la libera formazione della volontà negoziale. Sebbene la coarta‐
zione derivante dalla violenza costituisca una grave forma di altera‐
zione della libertà di autodeterminarsi a stipulare il contratto,
occorre comunque che l’ordinamento si faccia carico di delineare gli
elementi che ne definiscono la fattispecie.
Prima di porre mano all’analisi dei caratteri che il legislatore ha
attribuito alla violenza, intesa come «minaccia da cui deriva l’annul‐
labilità del contratto», appare opportuno tuttavia soffermarsi sulle
differenze che intercorrono fra il vizio in esame e altre figure suscet‐
tibili di presentare punti di contatto con il suo campo di applicazione.
In questa prospettiva si inserisce, anzitutto, la tradizionale
problematica relativa alla distinzione fra violenza fisica e violenza
morale. L’esclusione della violenza fisica dal campo di applicazione
della disciplina dei vizi del consenso è stata normalmente giustifica‐
ta muovendo dall’assunto secondo cui la vis absoluta farebbe
venire meno, diversamente dalla violenza morale, ogni possibilità di
scelta in merito al comportamento della parte.
Una diversa ipotesi ricostruttiva tende, invece, a porre in evidenza
l’effetto determinato dalla violenza piuttosto che le modalità della sua
attuazione, prospettando l’applicabilità del rimedio dell’annullamento nelle
ipotesi in cui una minaccia di carattere «fisico» abbia prodotto una mera
alterazione del consenso [criscuoli 1970, 127; cavallo borgia 1998, 330]. A
questa fattispecie si affiancano altre ipotesi in cui la dichiarazione viziata da
minaccia deve ritenersi inefficace. In particolare si è affermato che viene in
considerazione l’inefficacia automatica laddove, da un punto di vista
sociale, la dichiarazione non presenti alcuna idoneità a creare un affida‐
mento serio, sicché in questi casi «il comportamento del minacciato non è
una dichiarazione» [sacco 2004, 577].
Dalla violenza occorre altresì distinguere:
a) lo stato di pericolo o di bisogno, che rendono possibile la
rescissione del contratto laddove sussistano i requisiti stabiliti dagli
artt. 1447 e 1448, i quali presuppongono il difetto di un’azione
violenta dell’uomo;
b) l’incapacità naturale dedotta nell’ambito della fattispecie
dell’art. 428, posto che in tal caso viene in considerazione la capaci‐
tà di cosciente e libera autodeterminazione del soggetto, mentre la
violenza incide sulla determinazione volitiva;
c) la dipendenza economica della parte, di cui l’altro contraen‐
te abusi ponendo le premesse per l’eventuale applicabilità dell’art. 9
l. 192/1998 in tema di subfornitura.
Occorre sottolineare, infine, che diversamente da quanto è
stabilito per la violenza, il solo timore riverenziale non può costitui‐
re causa di annullamento del contratto (art. 1437). In tal modo si è
provveduto a delimitare, in negativo, i confini del vizio in esame,
escludendo che il contratto possa essere annullato nelle ipotesi di
soggezione psicologica verso altri, determinata dalla loro posizione
nella famiglia, nell’ambiente di lavoro ovvero in quello sociale.
Alla stregua di quanto prevede l’art. 1435, occorre che la violen‐
za sia di tale natura da impressionare una persona sensata e da
farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevo‐
le. In tale contesto si fa rimento all’età, al sesso e alla condizione
delle persone. L’analisi della minaccia che legittima la richiesta di
annullamento del contratto deve essere sviluppata, quindi, con
riferimento agli elementi che caratterizzano, per un verso, la pro‐
spettazione del male, per altro verso, il male rappresentato alla
parte.
Quanto al primo aspetto, appare evidente il ricorso del legislato‐
re a criteri di valutazione che si collocano sia sul piano oggettivo
che su quello soggettivo. Sul piano oggettivo viene in considera‐
zione il parametro della «persona sensata», che mira a valutare le
modalità di manifestazione della violenza, avendo riguardo all’a‐
stratta idoneità della minaccia a impressionare la vittima.
Il rigore di questa ricognizione viene in qualche modo attenuato
dal ricorso a parametri soggettivi, quali l’età, il sesso e la condizio‐
ne delle persone. Questo secondo tipo di valutazione non consente
tuttavia di entrare nel merito della particolare situazione in cui
versava la vittima della minaccia; in sostanza, la verifica delle
circostanze indicate dal legislatore non può determinare una com‐
pleta soggettivazione dell’analisi.
Affinché la violenza sia causa di annullamento del contratto,
come si è detto, il legislatore richiede che il male prospettato sia
ingiusto e notevole. Si ritiene, peraltro, pur nel silenzio della norma,
che la minaccia debba riferirsi a un male futuro, nonché esterno al
contratto, nel senso cioè che non può essere identificato con la
privazione della prestazione attesa in forza del contratto.
Il male minacciato deve dipendere in qualche modo dal compor‐
tamento dello stesso autore della violenza, sicché si esclude che il
metus ab intrinseco, vale a dire il timore che non deriva dal com‐
portamento del minacciante ma sorge altresì in modo spontaneo
nella persona, possa essere ritenuto idoneo a invalidare il negozio.
Il male rappresentato come alternativa alla conclusione del
contratto deve essere notevole. Questo requisito, che rileva sul
piano eminentemente oggettivo, serve a escludere che la violenza
possa determinare l’annullamento del contratto laddove il male
prospettato abbia una portata poco rilevante. Valutare se il male
minacciato presenti tali caratteristiche è compito dell’interprete, il
quale potrà avvalersi dei criteri previsti dalla parte finale della
norma, vale a dire l’età, il sesso e le condizioni della persona.
Più articolata appare invece la problematica relativa all’indivi‐
duazione del significato assunto dall’espressione male ingiusto.
Tale considerazione trae origine, per un verso, dalla complessità
che caratterizza la nozione di «ingiustizia» sul piano civilistico; per
altro verso, dalla circostanza che tale nozione viene utilizzata
nell’ambito della disciplina avente a oggetto la violenza non solo
nella disposizione che ne individua i caratteri, ma anche nella
successiva previsione avente a oggetto la minaccia di far valere un
diritto. L’art. 1438, infatti, stabilisce che questo tipo di minaccia può
essere causa di annullamento del contratto solo quando è finalizza‐
ta a conseguire vantaggi ingiusti.
La nozione di «male ingiusto» è stata oggetto di una pluralità di rico‐
struzioni che hanno posto in evidenza una serie di profili, fra i quali: il
pregiudizio derivante dalla violazione di una norma giuridica, la lesione di
un interesse giuridicamente protetto della vittima, la contrarietà al diritto (su
tale dibattito, cavallo borgia [1998, 361]). Anche sul piano applicativo sono
emerse diverse ipotesi ricostruttive. Per un verso, si è proposto di ricondur‐
re la figura in esame nella prospettiva della disciplina dei fatti illeciti, sicché
il male produrrebbe gli effetti previsti dalla norma quando, «una volta
operato, è a sua volta «ingiusto», e come tale capace di ricadere nella lata
previsione dell’art. 2043» [sacco 2004, 582]. Per altro verso, si è esclusa la
necessità di identificare le due aree prospettando una concezione più
ampia e sfumata dell’ingiustizia rilevante ai fini della violenza (in
particolare, del prato [1990, 80]). La problematica relativa alle caratteristi‐
che assunte da questo requisito della violenza trova un ulteriore spunto di
interesse nel tema relativo alla coscienza dell’ingiustizia. A tale riguardo
l’analisi della giurisprudenza pone in evidenza soluzioni non del tutto
lineari; a sua volta, la dottrina appare divisa fra chi esclude la necessità
della coscienza dell’illiceità e chi invece sottolinea l’esigenza di verificare
l’esistenza dei requisiti soggettivi di colpevolezza (sul dibattito, amplius,
cavallo borgia [1998, 369]).
L’annullamento del contratto può essere richiesto non solo
quando la minaccia sia esercitata nei confronti dell’altro contraente,
ma anche quando la violenza sia stata diretta nei confronti di terzi.
All’interno di questa seconda categoria di soggetti, peraltro, il
legislatore distingue l’ipotesi in cui «la minaccia sia rivolta nei
confronti del coniuge, dei discendenti e ascendenti, vale a dire
verso i parenti più vicini alla parte», dal caso in cui «la minaccia sia
rivolta nei confronti di qualunque altra persona».
L’analisi della disciplina consente di rilevare l’esistenza di mede‐
sime soluzioni normative nell’ambito delle fattispecie previste
dall’art. 1435 e dal comma 1 dell’art. 1436. Nell’ambito di tali previ‐
sioni, infatti, la violenza è causa di annullamento quando il male
minacciato riguarda la persona o i beni del contraente ovvero dei
suoi parenti più stretti. Al contrario l’annullamento del contratto è
rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del
giudice ove il male minacciato riguardi altre persone. La maggiore
cautela che caratterizza questo secondo tipo di giudizio trae origine
dall’idea, tutt’altro che scontata, in base alla quale la minaccia posta
in essere nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nel primo
capoverso della norma presenti un minore grado di credibilità per il
contraente.
Nell’ambito della normativa avente a oggetto i vizi del consenso
la coartazione derivante dalla violenza costituisce la forma più grave
di alterazione della libertà di autodeterminarsi a stipulare il contratto.
Tanto emerge in modo evidente dalla soluzione che l’art. 1434
consente di utilizzare nell’ipotesi di violenza del terzo. In questo
caso, infatti, diversamente da quanto accade in materia di dolo del
terzo, il contratto deve ritenersi annullabile anche se la violenza è
ignota alla parte che se ne avvantaggia. A tale riguardo va dunque
sottolineato che fra l’esigenza di tutela del soggetto che subisce la
minaccia e quella di protezione dell’affidamento di controparte si
rende necessario privilegiare l’interesse del primo ad autodetermi‐
narsi liberamente alla stipulazione del contratto.
Affinché la violenza possa determinare l’annullamento del
contratto si ritiene necessaria la sussistenza di un nesso di causa‐
lità fra la minaccia e la conclusione del contratto. In tale prospettiva
occorre che la minaccia sia stata specificamente diretta al fine di
estorcere il consenso per il contratto di cui venga richiesto l’annulla‐
mento.
Più delicata appare la questione relativa alla possibilità di configurare,
al pari di quanto accade in tema di dolo, una fattispecie di violenza «inci‐
dente». Si tratta, in sostanza, delle ipotesi in cui la minaccia non abbia
influito sulla scelta di stipulare il contratto, ma abbia indotto la vittima a
concludere un contratto diverso rispetto a quello voluto originariamente. A
tale proposito si è prospettata l’applicazione analogica dell’art. 1440 alla
violenza incidentale e quindi l’ammissibilità del risarcimento del danno
piuttosto che l’annullamento del contratto [fedele 1948, 152]. Più opportu‐
namente, invece, si afferma che il silenzio del legislatore e la maggiore
gravità della violenza rispetto al dolo non consentono di accogliere tale
soluzione, sicché l’ipotesi della violenza incidentale deve ritenersi comun‐
que idonea a determinare l’annullamento del contratto [mirabelli 1980, 553;
cavallo borgia 1998, 348].
La violenza, come si è detto, determina l’annullamento del
contratto. Al tempo stesso questo vizio del consenso costituisce un
illecito che consente alla vittima di agire per richiedere il risarci‐
mento del danno. L’azione diretta a far valere l’invalidità del con‐
tratto può essere accompagnata, dunque, da quella volta a ottenere
tutela sul piano risarcitorio; d’altro canto, la vittima può limitarsi in
astratto a chiedere solo il risarcimento. In ogni caso appare opportu‐
no tenere distinto il profilo relativo al risarcimento del danno da
quello meramente restitutorio. La restituzione della prestazione
eseguita consegue all’annullamento; il risarcimento rappresenta la
conseguenza dell’illecito civile e tende a porre rimedio al danno
eventualmente subito dalla vittima.
La disciplina in tema di violenza si chiude con la previsione
dell’art. 1438, in base alla quale la minaccia di far valere un diritto
determina l’annullamento del contratto allorché i vantaggi perseguiti
mediante la violenza siano ingiusti.
In questa materia la giurisprudenza tende a interpretare in modo
restrittivo la nozione di «ingiustizia». In particolare è frequente il ricorso al
principio secondo cui la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri
della violenza morale, ai sensi dell’art. 1438, soltanto quando il fine ultimo
perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre a essere
abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto
medesimo, sia anche esorbitante e iniquo rispetto all’oggetto di quest’ulti‐
mo (Cass. 8290/1993). Un diverso registro sembra emergere in un’altra
pronuncia secondo cui la minaccia rilevante è ravvisabile soltanto se venga
prospettato un uso strumentale del diritto o del potere, nel senso cioè che
essa risulti diretta non solo alla realizzazione dell’interesse la cui soddisfa‐
zione è prevista dall’ordinamento, ma anche al condizionamento della
volontà (Cass. 6426/1996).
In realtà, come si è autorevolmente sottolineato, l’art. 1438 contiene
una norma di notevole importanza pratica, alla quale tuttavia non corrispon‐
de una parallela chiarezza [sacco 2004, 589]. Di tanto vi è conferma nella
pluralità di ipotesi ricostruttive formulate dalla dottrina, da quelle
tradizionali, volte a sottolineare il criterio dell’inerenza [santoro-passarelli
1957, 150] e dell’esorbitanza [carresi 1987, 484], a quelle più recenti che
della fattispecie pongono in evidenza il profilo dell’abuso del contraente
[corsaro 1979, 43], ovvero quello «dispositivo» del diritto [del prato 1990,
18].
Le difficoltà a cui dà origine la disposizione in esame potrebbero
essere attenuate mediante il ricorso a due criteri, di tipo qualitativo e
quantitativo, idonei a individuare con maggiore chiarezza la nozione di
«vantaggio ingiusto». Il criterio qualitativo è identificabile con la «strumen‐
talità o inerenza del contratto al contenuto e alla funzione tipica del diritto
fatto valere»; quello quantitativo, suscettibile di essere utilizzato nei casi in
cui permangano dubbi sulla qualificazione del vantaggio, consente di
stabilire se il contratto, per i suoi contenuti concreti e specifici, «dà alla
parte vantaggi normali, o invece vantaggi spropositati» [roppo 2001, 832].
La disciplina in esame presenta ulteriori profili problematici con riferi‐
mento all’ipotesi relativa alla minaccia di far valere un diritto inesistente o
infondato (per una ricostruzione delle diverse soluzioni dottrinali, cavallo
borgia [1998, 435]). A tale riguardo la giurisprudenza in tema di dimissioni
del lavoratore offre diversi spunti di riflessione. Ove tali dimissioni siano
state rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, posso‐
no essere annullate perché viziate da violenza morale solo qualora venga
accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al
licenziamento, non sussistendo l’inadempimento addebitato al dipendente,
in quanto in questo caso con la minaccia del licenziamento il datore di
lavoro persegue un effetto non raggiungibile con il legittimo esercizio del
proprio diritto di recesso (Cass. 6577/2003). In tema di dimissioni estorte
dal datore di lavoro con la minaccia di un collocamento in cassa integrazio‐
ne, si è affermata la necessità di distinguere l’ipotesi in cui sussistano le
condizioni legali per tale collocamento, nel qual caso è astrattamente
configurabile il vizio del consenso di cui all’art. 1438, dall’ipotesi in cui tali
condizioni non sussistano, nel qual caso è astrattamente configurabile il
vizio di cui all’art. 1435 (Cass. 324/2003).
■ 8. L’individuazione dei presupposti in presenza dei quali è possi‐
bile invocare l’annullabilità del contratto consente di comprendere il
modo in cui si atteggia la legittimazione a farla valere. Diversamen‐
te dalla nullità, infatti, l’annullabilità del contratto può essere doman‐
data solo dalla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge (art.
14411). Ciò si deve evidentemente alla circostanza che l’invalidità è
posta a presidio dell’interesse della parte colpita dal vizio, alla quale
è rimessa la scelta relativa al destino del contratto. Questa nozione
ristretta di «legittimazione» presenta un allargamento con riferimen‐
to alle ipotesi di incapacità, rispetto alle quali è previsto che l’azione
possa essere fatta valere anche dagli aventi causa (a titolo partico‐
lare) dell’incapace.
Un altro elemento di differenziazione fra nullità e annullabilità è
rappresentato dalla prescrizione; se, da un lato, l’azione di nullità è
imprescrittibile, dall’altro, l’azione di annullamento si prescrive in 5
anni (art. 14421). In questo secondo caso il termine di decorrenza
della prescrizione varia a seconda della fattispecie di invalidità. Se
l’annullabilità dipende da incapacità legale o da vizio della volontà il
termine di prescrizione decorre dal momento in cui viene meno
l’elemento che ha dato origine alla causa di invalidità del contratto.
In sostanza, allorché l’annullabilità dipende da vizio del consenso o
da incapacità legale, il termine decorre dal giorno in cui è cessata la
violenza, è stato scoperto l’errore o il dolo, è cessato lo stato di
interdizione o di inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la
maggiore età (art. 14422). Negli altri casi il termine decorre dal
giorno della conclusione del contratto (art. 14423). Il tema della
prescrizione si atteggia con modalità differenti ove si consideri il
modo di operare dell’eccezione di annullabilità del contratto. Il
codice, infatti, stabilisce che l’annullabilità possa essere eccepita
dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se fosse
ormai prescritta l’azione per farla valere (art. 14424).
La parte a cui spetta l’azione di annullamento potrebbe ritenere
preferibile la diversa soluzione della conservazione del contratto.
A questo scopo il legislatore ha previsto la convalida, mezzo di
recupero del contratto che persegue l’obiettivo di stabilizzarne gli
effetti. La disposizione dell’art. 1444 consente di individuare due
diverse tipologie: la «convalida espressa» e la «convalida tacita»:
a) la convalida espressa ricorre allorché si faccia ricorso a un
atto che contenga la menzione del contratto e del motivo di annulla‐
bilità, e la dichiarazione che si intende convalidarlo (comma 1). La
convalida del contratto annullabile presuppone che il negozio viziato
sia già venuto a esistenza e, dunque, non può intervenire in via
anticipata e preventiva. Sul piano strutturale la convalida espressa è
un atto negoziale avente carattere unilaterale. Il contenuto dell’atto
deve essere tale da non lasciare dubbi in ordine alla consapevolez‐
za dei suoi effetti da parte del contraente che se ne serve;
b) la convalida tacita ricorre quando il contraente al quale
spettava l’azione di annullamento vi ha dato esecuzione in modo
volontario conoscendo il motivo di annullabilità (art. 14442).
Diversamente da quanto emerge nella riflessione teorica, la giurispru‐
denza ritiene che l’esecuzione volontaria da cui scaturisce la convalida
tacita del contratto annullabile, consista in un comportamento di natura
negoziale, il quale si risolve in un’attività che presuppone per implicito una
volontà incompatibile con quella di chiedere l’annullamento (Cass.
4441/2001). La volontà di convalidare il contratto può essere desunta da
qualsiasi comportamento attinente all’esecuzione del contratto, non soltan‐
to cioè quello di stretto adempimento proprio del soggetto passivo di
un’obbligazione nascente dal contratto stesso, ma anche quello posto in
essere dalla controparte di accettazione e adesione alla prestazione
dell’obbligato.
Sezione IV.
La simulazione
1. La figura. - 2. Simulazione assoluta e relativa. - 3. La simulazione degli atti
unilaterali. - 4. Effetti della simulazione tra le parti. - 5. Effetti della simulazione nei
confronti dei terzi. - 6. La prova della simulazione.
■ 1. Le disposizioni che il codice civile dedica all’istituto della
simulazione (artt. 1414-1417) non ne consegnano all’interprete la
figura che, dunque, è lasciata all’elaborazione della dottrina.
La mancanza di una definizione legislativa non deve condurre l’inter‐
prete a dedurre un concetto di «simulazione «argomentando in base al
buon senso ovvero assumendo come fondamento tradizioni giuridiche, che
potrebbero essere false o gratuite, anche se furono vere in altri tempi;
considerato infatti che nelle norme del codice una disciplina pressoché
completa della simulazione, esistono tutti gli elementi per un’elaborazione
dogmatica dell’istituto e dei suoi concreti atteggiamenti nel mondo del
diritto [auricchio 1957, 23].
Occorre in particolare guardare agli studi di teoria generale e, in
questa prospettiva, la simulazione si inquadra nel più ampio feno‐
meno giuridico dell’apparenza cui, non per caso, il codice civile fa
esplicito riferimento nella disposizione di apertura della disciplina
della simulazione ove è richiamato il contratto apparente.
Invero, un contratto si considera simulato allorché le parti di
esso pongono in essere, e rendono visibile (apparente) ai terzi, un
assetto di interessi del quale non intendono avvalersi, nel senso che
sono tra loro d’accordo che gli effetti giuridici dell’atto simulato non
devono in realtà prodursi.
Ciò che caratterizza l’istituto è, dunque, la contemporanea e
duplice presenza di un accordo (detto «accordo simulatorio» o
«controdichiarazione») tenuto nascosto, appunto dissimulato (inve‐
ro il legislatore del codice utilizza proprio la locuzione di «contratto
dissimulato»), accanto a un accordo («accordo simulato») che,
come si è detto, è meramente apparente e inefficace.
Varie possono essere le ragioni per le quali le parti fanno ricorso alla
simulazione; svolge al riguardo un ruolo decisivo il legame culturale molto
forte degli operatori, specie nella prassi notarile, con gli schemi contrattuali
tipizzati e collaudati che finisce per limitare la costruzione di modelli diversi,
sicché lo scarto fra il tipo adottato esternamente e quello che si vuole
adottare in realtà si colma con una controdichiarazione [sacco-de nova
2004, 641]. Di certo, poi, l’autonomia privata tende a utilizzare l’accordo
simulatorio allo scopo di aggirare le norme cogenti dell’ordinamento;
paradigmatici sono in proposito i casi delle disposizioni in materia fiscale o
in materia di prelazioni legali (con il caso emblematico della prelazione
agraria) oppure la disciplina vincolistica alla libertà di testare posta a tutela
dei diritti dei legittimari.
A sua volta, l’accordo simulatorio o, per meglio dire, il contratto
dissimulato cela la reale intesa tra le parti che può riguardare, in
alternativa, la scelta di conservare la situazione giuridica reale
immutata rispetto a quella anteriore all’atto simulato, ovvero la
scelta di mutare la reale situazione giuridica preesistente, ma in
termini differenti, in tutto o in parte, da quelli che esse fanno appari‐
re nell’atto simulato.
Gli studi sulla simulazione sono stati fortemente influenzati dall’impo‐
stazione che a essi è stata data all’inizio del secolo scorso quando la
dottrina [coviello 1904, 597] – sulla scorta della teoria del negozio giuridico
forgiata in Germania sulla scia della pandettistica e delle sue manifestazio‐
ni nella letteratura giuridica tedesca della seconda metà del XIX secolo – si
orientò per la lettura del fenomeno in termini di divergenza fra l’interno
volere e la sua manifestazione esteriore (ampio conto delle varie posizioni
in ferrara [sen.???, 1922, 1]), benché, sulla scorta di analogo impianto del
Code Napoléon, il codice civile del 1865, senza riferimento alcuno a
impalcature formali della disciplina, regolasse solo le contro dichiarazioni le
quali (se) «fatte per privata scrittura non possono avere effetto che fra le
parti contraenti e i loro successori a titolo universale» (art. 1319); ciò che
peraltro costituiva l’unico dato certo in materia (così, già, messina [1907,
393; 1908, 10; 1948, 69], ripreso più tardi da auricchio [1957, 1], proprio in
apertura del suo fondamentale contributo). Con il tramonto della dottrina
del negozio giuridico, trovano nuovo spazio, e progressivamente si affer‐
mano, quelle voci [kohler 1878, 91; messina 1948, 86; segré 1924, 865;
romano 1954, 15; pugliatti 1951, 541; santoro passarelli 1954, 133; auric‐
chio 1957, 192; distaso 1960] che già avevano imperniato la loro analisi sul
raffronto della dichiarazione con la contro dichiarazione, piuttosto che della
volontà interna dei contraenti con quella esteriorizzata. L’idea di fondo che
dovesse guardarsi alle dichiarazioni delle parti permise di dare rilievo
all’analisi strutturale della dichiarazione apparente la quale ben poteva
realizzare (pur nella sua funzione di costituire l’apparenza, mentre la realtà
del rapporto sarebbe stata consegnata alla contro dichiarazione) un atto
completo e perfetto almeno dal punto di vista della volontà (perché effetti‐
vamente e validamente voluto) e della liceità (in linea di principio e salva la
valutazione da compiersi nelle concrete circostanze). In questa cornice si
fa strada la concezione del contratto simulato (non come privo di accordo)
bensì come mancante della causa perché essa, per ricordare, ad esempio,
un’illustre dottrina tra quelle che si muovono lungo questa traccia [pugliatti
1951, 546], appare tipica e diversa dallo scopo concreto e dissimulato che
le parti intendono perseguire, così che il contratto simulato va considerato
come negozio nullo o giuridicamente inesistente.
Complice l’insoddisfazione per la nota e perdurante evanescenza della
nozione di «causa del contratto», si matura la svolta più significativa del
pensiero giuridico intorno alla simulazione. Dal piano strutturale della
fattispecie (incompleta e quindi invalida), l’attenzione si sposta allora sul
piano dell’efficacia del contratto simulato [scognamiglio 1950] (ma, in
particolare, auricchio [1957, 189]), sicché l’inefficacia di questo deriva dalla
volontà dei contraenti poiché, per loro stessa valutazione, manca l’autore‐
golamento: la singolarità del fenomeno della simulazione relativa è da
vedersi nel fatto che qui la dichiarazione valida non corrisponde all’autore‐
golamento; in vero il negozio simulato, può senz’altro presentarsi con i suoi
elementi costitutivi essenziali effettivamente corrispondenti a quanto voluto
dalle parti, e dunque è valido perché, nella valutazione da compiersi alla
stregua della legge, esso è dotato di una struttura perfetta ed è perfetto
come titolo o documento tipico, tuttavia l’efficacia giuridica dell’autoregola‐
mento si determina al di fuori della dinamica della fattispecie. Evidenti i
riflessi che discendono dall’impianto di ordine sistematico in ordine alla
visione del più ampio fenomeno dell’autonomia privata: il negozio giuridico
subisce due valutazioni, che non si escludono ma concorrono e corrispon‐
dono ai due diversi punti di vista riconducibili, per un verso, all’ordinamento
in relazione alla fattispecie legislativa (che corrisponde alla valutazione
operata dal legislatore sul comportamento delle parti) e, per altro verso,
alle parti stesse in relazione ai propri interessi (che si manifesta nel precet‐
to o autoregolamento realmente voluto dai contraenti e che trova la sua
espressione in termini normativi sul piano dell’efficacia negoziale) [ibidem,
15]. Nulla di strano, allora, che le due valutazioni possano anche divergere
in taluni casi, come accade nella simulazione, la cui disciplina ben rappre‐
senta la più generale distinzione e separazione normativa degli effetti dei
negozi fra le parti e nei confronti dei terzi [ibidem, 198; gentili 1982].
■ 2. Si parla dunque di simulazione assoluta allorché le parti,
attraverso l’accordo (simulatorio) che assume esclusiva rilevanza
interna tra di esse, intendono che il contratto (simulato) apparente‐
mente stipulato sia tra loro del tutto improduttivo di effetti giuridici: si
tratta della situazione di assoluta inefficacia tra le parti menzionata
dal codice (art. 14141).
Con accordo simulatorio anteriore al matrimonio, può realizzarsi la
simulazione del matrimonio (art. 123), da molti ricondotto a un’ipotesi di
simulazione assoluta poiché gli sposi convengono di escludere totalmen‐
te obblighi e diritti che discendono dal matrimonio. In pratica, e per varie
ragioni, si crea l’apparenza dello stato di persone coniugate al fine di
conseguire un effetto giuridico che da ciò dipende, ad esempio, il consegui‐
mento della cittadinanza (App. Firenze 28 agosto 1988) o il permesso di
espatrio (Trib. Milano 6 luglio 1978). Nel codice la simulazione è considera‐
ta «causa di impugnazione» del matrimonio da parte dei coniugi – accom‐
pagnata da specifiche preclusioni di proponibilità – a ciascuno dei quali è
infatti conferito il diritto di impugnare il negozio.
È per altro discutibile che la figura conservi un legame sistematico con
la disciplina negoziale della simulazione rispetto alla quale, piuttosto, essa
appare come una singolare e differente ipotesi di simulazione; si è ritenuto,
anzi, che la figura della simulazione del matrimonio sia del tutto incompati‐
bile con il fenomeno della simulazione del negozio, giacché l’esercizio
dell’impugnazione produce l’eliminazione di effetti del matrimonio che
comunque si sono già verificati, mentre per la norma generale (art. 1414)
l’accordo simulatorio esclude l’efficacia dell’atto simulato [irti 1976, 483].
Diversamente nell’ipotesi di simulazione relativa nella quale il
contratto dissimulato esplicita la vera intenzione delle parti diretta a
realizzare effetti giuridici differenti rispetto a quelli palesati nel
contratto simulato. A questa situazione guarda l’altra regola del
codice in forza della quale tra le parti ha effetto il contratto dissimu‐
lato, «purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di
forma» (14142).
Una sottospecie della simulazione relativa si realizza attraverso
la falsa raffigurazione dei soggetti che partecipano all’atto, ossia
attraverso l’«interposizione fittizia di persona». Con questa espres‐
sione si fa riferimento alle ipotesi nelle quali l’accordo simulatorio
intercorso tra tutti gli interessati individua l’effettivo soggetto (inter‐
ponente) che è davvero la parte contrattuale, mentre nel contratto
simulato tale è fatto risultare un soggetto (interposto o prestanome)
che è, nell’intendimento di tutti, estraneo al contratto e presta
soltanto il nome. È chiaro che il riferimento alla necessaria parteci‐
pazione di tutti gli interessati significa che l’accordo simulatorio deve
coinvolgere anche la vera parte contrattuale il cui consenso, infatti,
resta indispensabile affinché gli effetti dell’atto si producano nella
sua sfera giuridica. Ciò non significa, ovviamente, che la partecipa‐
zione di tutti gli interessati all’accordo simulatorio debba essere
contestuale, ben potendo verificarsi che taluno di costoro possa
partecipare successivamente all’intesa già raggiunta dagli altri due
(accordo simulatorio a formazione progressiva).
Situazione del tutto differente, poiché non vi è alcuna finzione, è quella
che viene usualmente qualificata come «interposizione reale di persona»;
in queste ipotesi vi è un soggetto che non intende manifestarsi come parte
di un certo affare e, quindi, incarica un altro soggetto di trattare e conclude‐
re per suo conto l’accordo con il terzo. Gli effetti del contratto si producono
regolarmente tra le parti di questo e sarà solo con un diverso e successivo
contratto che l’interposto (reale) ritrasferirà quanto da lui acquistato in capo
a colui che gli aveva affidato l’incarico. Questo fenomeno giuridico nulla ha
a che vedere con la simulazione giacché riguarda l’agire nell’interesse (per
conto) altrui che, pertanto, si inquadra in altro insieme di regole e, precisa‐
mente, in quello della rappresentanza indiretta che, nel sistema del codice
civile, è in via generale individuato nella disciplina del mandato senza
rappresentanza (art. 1705).
Si configura come interposizione reale, e non come simulazione, anche
l’ipotesi nella quale sia intercorso l’accordo simulatorio tra interponente e
interposto ma il terzo non lo conosca, ovvero lo conosca ma a esso non
abbia aderito (Cass. 6451/2000).
■ 3. Il codice esplicitamente estende la disciplina prevista per il
contratto simulato agli «atti unilaterali destinati a una persona
determinata, che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il
destinatario» (art. 14143).
È al riguardo palese la connessione che, nel sistema del codice,
si realizza tra la regola particolare da ultimo citata e l’altra, di carat‐
tere generale, a tenore della quale «le norme che regolano i contrat‐
ti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi
aventi contenuto patrimoniale» (art. 1324).
La lettura combinata delle due disposizioni chiarisce in quali
termini debba essere inteso il generale limite di compatibilità con
riferimento alla disciplina del contratto simulato: per aversi la previ‐
sta estensione dell’applicabilità di quest’ultima è necessario che il
destinatario dell’atto unilaterale abbia partecipato all’intesa simula‐
toria.
In giurisprudenza l’applicabilità della disciplina della simulazione agli
atti unilaterali è stata affermata, ad esempio, con riguardo alla promessa
di pagamento e alla ricognizione di debito qualora esse siano indirizzate
alla persona del creditore, ossia rivolti a soggetto determinato (Cass.
4564/1997).
In presenza di atto negoziale unilaterale non destinato a soggetto
determinato e, dunque, secondo l’opinione più diffusa, privo di natura
ricettizia, la disciplina della simulazione non troverebbe applicazione per
l’impossibilità di configurare l’accordo simulatorio; ad esempio, è stata
asserita l’estraneità alla simulazione, trattandosi piuttosto di un fenomeno
di collegamento negoziale, della rinuncia all’eredità da parte di un chia‐
mato alla quale sia stata affiancata la convenzione, tra tutti i chiamati alla
medesima eredità, diretta a limitare od escludere l’efficacia della rinuncia
nei loro rapporti interni (Cass. 1476/1971; Cass. 1474/1969).
In linea di principio invece, secondo la comune opinione, va esclusa la
possibilità di simulazione per gli atti privi di natura negoziale. In pratica, il
quadro è ben più composito, frutto anche della diversità di posizioni circa la
sussistenza della natura negoziale nelle varie ipotesi di atto. Così, ad
esempio, la giurisprudenza ha concluso che la dichiarazione del coniuge
non acquirente richiesta al fine di escludere un bene immobile o mobile
u.c.
registrato dalla comunione legale (art. 179
) può avere natura negoziale
se esprime la condivisione dell’intento dell’altro coniuge di destinare alla
propria attività personale il bene acquistato ovvero può avere natura (non
negoziale) ricognitiva e portata meramente confessoria (Cass.
22755/2009), nel qual caso non è soggetta ad azione di simulazione, ma
unicamente ad azione di accertamento del falso unilaterale o concordato
(Trib. Napoli 17 novembre 1993).
La giurisprudenza in tema di simulazione dell’atto di quietanza imposta
la questione in termini differenti senza affrontare in via diretta il problema
della sua natura negoziale, poiché il più delle volte, esaurendo e risolvendo
la vicenda della rilevanza della simulazione circa il contenuto della dichiara‐
zione contenuta nell’atto di quietanza sul piano meramente probatorio,
giunge a riconoscere la sussistenza del divieto di prova testimoniale
della simulazione. Le argomentazioni differenti che vengono addotte hanno
comunque sullo sfondo un differente approccio in ordine alla natura nego‐
ziale della quietanza. Per un verso, nel quadro delineato dall’art. 1417, si
sostiene che, in caso di simulazione dedotta da una delle parti per l’accer‐
tamento del negozio simulato lecito, oggetto della prova non è il contratto
(o l’atto) simulato bensì il sottostante accordo simulatorio il quale, appun‐
to, si configura come uno di quei patti, anteriori o contestuali al documento
che il combinato disposto degli artt. 2722 e 2726 vieta di provare con
testimoni in contrasto con la documentazione scritta di pagamento (Cass.
9297/2012; Cass. 6877/2002) o ancora, sempre da una prospettiva che
ammette la natura negoziale della quietanza, si afferma che, se il
venditore, che nel contratto abbia rilasciato quietanza liberatoria per l’intero
prezzo della vendita, chiede di provare di aver ricevuto soltanto parte del
prezzo stesso, deve essere esclusa la possibilità che vi sia stata simulazio‐
ne del negozio di quietanza, dovendosi soltanto indagare sulla veridicità
della dichiarazione unilaterale del venditore di aver ricevuto il prezzo
integrale (Cass. 4522/1993). Per altro verso, la possibilità di contestare
l’esistenza del pagamento attestato dalla quietanza, configurandosi questa
come confessione stragiudiziale tra le parti (proveniente dal creditore e
rivolta al debitore), è stata limitata soltanto alla prova di quei fatti (errore di
fatto o violenza) richiesti dall’art. 2732 per far venir meno l’efficacia della
confessione, con esclusione perciò della simulazione (Cass. 15380/2010;
Cass. 18882/2007).
Trova così ulteriore conferma che l’esistenza dell’accordo simu‐
latorio, in forza del quale il negozio che si fa apparire deve restare
improduttivo di effetti, costituisce il tratto essenziale dell’istituto della
simulazione.
In assenza di questo tratto essenziale, infatti, non si ha simula‐
zione ma, al più, potrebbe aversi il caso di una mera riserva mentale
da parte dell’autore dell’atto, come tale irrilevante per il diritto anche
se conosciuta dal destinatario dell’atto medesimo.
■ 4. Quanto agli effetti tra le parti dell’atto simulato, la legge detta
regole distinte a seconda che, in base all’accordo simulatorio, si
abbia «simulazione relativa» ovvero «simulazione assoluta».
In quest’ultima ipotesi, si è visto che «il contratto simulato non
produce effetto tra le parti» (art. 14141). È evidente che la norma
non fa altro che dare rilevanza all’accordo simulatorio, ossia alla
reale intesa tra le parti che, come sappiamo, è diretta a costituire un
contratto meramente apparente il quale, appunto, non deve deter‐
minare alcuna modificazione della realtà giuridica a esso preesi‐
stente. Se una delle parti, contrariamente all’intesa simulatoria,
pretende di esercitare i diritti di cui essa appare divenuta titolare,
l’altra parte può difendersi promuovendo un’azione giudiziaria (detta
«di simulazione») diretta a ottenere dal giudice la dichiarazione che
l’atto era stato simulato, ossia che era meramente apparente e
dunque privo di efficacia. L’azione di simulazione ha, pertanto,
carattere dichiarativo diretta, come è, a ottenere dal giudice un
provvedimento di accertamento della realizzata simulazione a opera
delle parti.
Quanto appena enunciato consegue a una posizione consolida‐
ta, in particolare nella giurisprudenza, che qualifica il contratto
simulato come «contratto nullo», benché il dato normativo testuale
(art. 14141) faccia riferimento a una mera inefficacia del contratto
simulato. L’azione diretta a fare accertare la natura simulata del
contratto va dunque sottoposta alla disciplina generale dell’azione di
nullità e, in specie, a quella in ordine alla legittimazione ad agire e
alla rilevabilità d’ufficio dal giudice (art. 1421) nonché a quella
relativa alla sua imprescrittibilità (art. 1422).
Quando si versi in ipotesi di simulazione relativa, e ferma sem‐
pre l’inefficacia del contratto simulato (o apparente), ha effetto tra le
parti il contratto dissimulato, «purché ne sussistano i requisiti di
sostanza e di forma» (art. 14142).
È chiaro che il legislatore del codice ha inteso esplicitare una regola
operazionale ed ha così evitato di addentrarsi in una faticosa ricerca di
coerenza con le categorie dogmatiche in tema di invalidità negoziale.
Questo orientamento pragmatico si è rivelato, lungo il corso del tempo,
assai utile per il lavoro svolto dai giudici che non hanno esigenze di genere
classificatorio e, dunque, puntualmente si uniformano all’idea tradizionale –
sostenuta in via generale, ossia senza alcuna distinzione tra «simulazione
relativa» ovvero «simulazione assoluta» [stolfi 1980, 527] – della nullità alla
quale si accompagnano la rilevabilità d’ufficio della simulazione, la tenden‐
ziale non convalidabilità e l’imprescrittibilità dell’azione [sacco-de nova
2004, 668]. Ciò non toglie però che in epoca a noi più vicina l’analisi dei
profili dogmatici ha condotto ad affermare che il contratto simulato appare
collocarsi in una posizione intermedia tra la nullità e l’annullabilità accanto
alla rescissione, alla risoluzione e alla revocazione [gentili 1982].
Per avere efficacia, dunque, il contratto dissimulato deve pre‐
sentare non soltanto tutti i requisiti che sono prescritti dalla discipli‐
na generale del contratto (artt. 1325 ss.) ma senza dubbio questi
ultimi, a loro volta, devono essere conformi ai caratteri cui il legisla‐
tore ne subordina la validità. Si può ricordare, ad esempio, che la
causa del contratto simulato non deve avere natura illecita (art.
1343) e non deve nemmeno essere reputata tale, ciò che può
senz’altro verificarsi allorché il contratto (dissimulato) abbia costitui‐
to «il mezzo per eludere l’applicazione di una norma
imperativa» (art. 1344).
L’operazione negoziale realizzata in frode alla legge è anche quella
posta in essere a danno dei creditori, sicché, ai fini della responsabilità
dell’unico azionista di società per azioni, si è giunti a parificare l’interposi‐
zione reale di persona intestataria di azioni all’interposizione fittizia, in
quanto attuata in frode alla legge e pertanto nulla (Cass. 7152/1983).
È allora chiaro che il contratto dissimulato il quale non dovesse
presentare i requisiti dalla legge richiesti per la sua validità, sarà
dichiarato nullo (ed evidentemente sarà inefficace) dal giudice e al
contempo, come è ovvio, nemmeno il contratto simulato produrrà
alcun effetto tra le parti.
A ben vedere, allora, la disposizione sugli effetti della simulazio‐
ne tra le parti (art. 1414) detta nel suo complesso una regola giuridi‐
ca univoca, nel senso che, in entrambi i casi ivi indicati, la legge dà
rilevanza alla reale volontà delle parti contraenti così come essa è
stata versata nell’accordo simulatorio (o nel contratto dissimulato).
Va peraltro considerata la differenza fondamentale che corre tra
l’azione diretta ad accertare la simulazione, di cui si è detto, e
l’azione tendente a ottenere l’adempimento del contratto
dissimulato. La prima, indipendentemente dalla prospettazione della
domanda di simulazione come assoluta, che importa senz’altro un
accertamento negativo, ovvero come relativa, è appunto imprescrit‐
tibile poiché viene intesa – lo si è poc’anzi ricordato – come azione
di accertamento della nullità del contratto simulato. Diversamente,
l’azione promossa per ottenere dal giudice l’affermazione del diffe‐
rente assetto di rapporti fra le parti contenuto nel contratto dissimu‐
lato, rispetto a quello che appare dal contratto simulato, ha natura
costitutiva, con la decisiva conseguenza che è sottoposta alla
prescrizione ordinaria decennale o, comunque, ai termini di prescri‐
zione secondo le regole proprie degli specifici diritti che si intendono
affermare in quanto sorti dal negozio dissimulato ovvero pregiudicati
da quello simulato.
In ordine ai termini di prescrizione dell’azione, sulla scorta di un autore‐
vole insegnamento [stolfi 1972, 580], la giurisprudenza pone in termini netti
la distinzione tra la natura dichiarativa e la natura costitutiva della
relativa azione, senza dare rilievo, sotto questo profilo, alla differenza tra
«simulazione assoluta» o «simulazione relativa». Si è affermato infatti che
anche l’azione di simulazione relativa, come quella di simulazione assoluta,
è imprescrittibile ed ha carattere dichiarativo se, anziché tendere ad
accertare il negozio dissimulato per farne valere gli effetti, è volta ad
accertarne la nullità (Cass. 18025/2003; Cass. 7682/1997, con riguardo
all’imprescrittibilità dell’azione con la quale l’attrice chiede l’imputazione o
il rientro nella massa ereditaria di beni venduti a terzi, in base all’as‐
sunto che gli atti di compravendita dissimulano una donazione a un sogget‐
to diverso, nulla per difetto di forma); in coerenza con questo orientamento,
si riconosce carattere dichiarativo, e dunque l’imprescrittibilità, all’azione di
simulazione relativa per interposizione fittizia di persona, poiché essa
non mira a far riconoscere gli elementi costitutivi del negozio dissimulato,
ma è promossa al fine di identificare il vero contraente celato dall’interposto
e perciò essa è in rapporto di derivazione immediata dall’accertamento
della simulazione (Cass. 2225/1984), con un precedente specifico circa
l’azione diretta a far dichiarare la simulazione soggettiva dell’atto costitu‐
tivo di società per azioni per interposizione fittizia di persona (Trib. Napoli
30 dicembre 1981). Per contro, la prescrizione ordinaria decennale può
colpire l’azione di simulazione relativa ove con essa si tenda a fare valere
un diritto che discenda immediatamente dal negozio dissimulato o che ne
presupponga l’esistenza e l’efficacia (Cass. 14562/2004; Cass.
11215/1991; Cass. 4569/1979); ne consegue che l’avvenuta prescrizione
dei diritti che presuppongono l’esistenza giuridica del negozio dissimulato
può comunque far venir meno l’interesse a promuovere l’azione (impre‐
scrittibile) di accertamento della simulazione del negozio apparente (Cass.
382/1997; Cass. 4986/1991). Per le parti del contratto simulato, che di
norma è la fonte dei diritti che si fanno valere in giudizio, la prescrizione
ordinaria decorre dalla data della stipulazione di questo (Cass. 6493/1986).
■ 5. Ricorrente è l’affermazione che l’essenza della disciplina del
codice in materia di simulazione consista nelle disposizioni riguar‐
danti gli effetti della simulazione nei confronti dei terzi (art. 1415)
nonché nelle norme che regolano i rapporti con i creditori (art.
1416).
È stato accortamente notato che il linguaggio del legislatore può
apparire di tipo processuale giacché fa capo al concetto di
«opponibilità» (della simulazione); tuttavia, non vi è dubbio che le due
norme citate dettano (e quindi sono) regole di diritto sostanziale.
Certamente la disciplina della simulazione rispetto ai terzi e ai
rapporti con i (terzi) creditori costituisce un nucleo fondamentale nel
sistema di regole previsto per l’istituto, ma deve comunque essere
letta come parte di un corpo unitario di disciplina. Le due disposizio‐
ni infatti dettano precetti che, a seconda dei casi, confermano
ovvero derogano alla regola base che governa l’intero impianto
normativo in materia di simulazione; vale a dire la regola secondo
cui la reale intesa tra le parti deve prevalere su quella apparente
(art. 1414).
Ebbene, va anzitutto chiarito che i terzi (inclusi i creditori) sono
soggetti estranei all’assetto di interessi apparente, ma che sono da
questo coinvolti in quanto titolari di una situazione giuridica influen‐
zata dall’entità della sfera giuridico patrimoniale di qualcuno fra i
contraenti. Si comprende allora che il terzo, in funzione dell’interes‐
se vantato verso l’una o l’altra parte del contratto simulato, possa
essere intenzionato a far prevalere la realtà sull’apparenza o vice‐
versa: in definitiva i terzi sono titolari di interessi potenzialmente
contrapposti sicché la legge, al fine di dirimere il conflitto, stabilisce
se, e in presenza di quali presupposti, debba essere tenuta ferma,
ovvero derogata, la suddetta regola fondamentale.
La necessità di un interesse specifico, in capo al terzo che agisce per
l’accertamento della simulazione, esclude il mero riferimento alla legittima‐
zione generale prevista per l’azione di nullità (1421), poiché l’attore deve
pur sempre dimostrare la presenza di un proprio concreto interesse ad
agire secondo le norme generali e l’art. 100 c.p.c., non potendo l’azione di
simulazione essere proposta sotto la specie di un fine generale di attuazio‐
ne della legge (Cass. 338/2001).
La prima indicazione normativa consiste nell’attribuire al terzo,
che subisce un pregiudizio dal contratto simulato (art. 14152), la
possibilità di sottoporre quest’ultimo all’azione di simulazione, onde
far prevalere la reale intesa su quella apparente. Si tratta, in tutta
evidenza, di una conferma ulteriore del medesimo principio cui si
ispira la regola base in precedenza dettata con riguardo all’efficacia,
tra le parti, del contratto simulato (art. 1414).
Si pone invece come eccezione a questo principio, giacché
essa perviene a far prevalere l’apparenza sulla realtà, l’altra regola
esplicitata dalla stessa disposizione (art. 14151) a tutela dei terzi
che (a titolo oneroso oppure a titolo gratuito stante l’assenza nella
norma di alcuna distinzione) hanno acquistato diritti dal titolare
apparente. In questo caso la protezione del terzo corrisponde a
quella che, anche in altre situazioni, il codice accorda all’acquirente
a non domino, qualificato dalla buonafede (soggettiva), salvi gli
effetti dei meccanismi di pubblicità. La preferenza verso coloro che
hanno acquistato diritti dal titolare apparente ignorando, o non
potendosi avvedere con la normale diligenza, che l’acquisto del loro
dante causa era avvenuto in base a un atto simulato, trova infatti
spiegazione nel principio della tutela dell’affidamento incolpevole
(altra linea di pensiero preferisce piuttosto porre l’accento sull’esi‐
genza di sicurezza nella circolazione dei beni). La scelta così
compiuta dal legislatore realizza poi una deroga ulteriore a un altro
principio generale che viene espresso dalla regola per la quale se
un atto traslativo di diritti è inefficace, sono inefficaci anche i succes‐
sivi trasferimenti (nemo plus iuris transferre potest quam ipse
habet).
In capo al terzo, la buonafede si presume ed è sufficiente che
sussista al tempo del suo acquisto (art. 11473), a nulla rilevando
che egli abbia successivamente avuto la conoscenza della simula‐
zione; il che sposta sulla parte processuale che vuole opporre
l’avvenuta simulazione l’onere di provare la malafede del terzo
acquirente.
La regola ora enunciata deve comunque essere coordinata con
le disposizioni in tema di pubblicità, sicché deve escludersi la
buonafede soggettiva in capo al terzo quando egli sia stato in grado
di conoscere che il bene sarebbe potuto entrare solo fittiziamente
nella sfera giuridica del suo dante causa; ciò che propriamente si
verifica come conseguenza della trascrizione della domanda giudi‐
ziale di simulazione (art. 14151), qualora l’atto simulato sia a sua
volta incluso tra quelli soggetti a trascrizione (artt. 26524 e 2643).
Qualora invece la natura dell’oggetto della domanda giudiziale
di simulazione ne determinasse l’esclusione dall’obbligo di trascri‐
zione, la prevalenza dell’acquisto va decisa in base alla regola
generale sul possesso di buonafede (art. 1153), salvi gli effetti
dell’usucapione. Al terzo acquirente che, nel conflitto con l’altro,
dovesse cedere il proprio acquisto, residua l’azione di danni contro
il proprio dante causa, responsabile in quanto parte dell’atto simula‐
to.
Va posta in luce l’apparente antinomia tra la disciplina della trascrizio‐
ne delle domande giudiziali (art. 2652) e la collocazione sistematica del
contratto simulato nella cornice della categoria della «nullità» nonché la
conformazione, variamente argomentata da parte della giurisprudenza,
dell’esercizio dell’azione di simulazione ai canoni normativi che governano
l’azione di nullità (ad es., in tema di prescrizione). L’azione di simulazione
riceve infatti dal legislatore del codice un differente trattamento rispetto a
quella diretta a far accertare la nullità: la sentenza che dichiara la simula‐
zione non pregiudica i diritti acquisiti da terzi in buonafede in base a un atto
trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda di simula‐
zione (art. 2652, n. 4); diversamente, la sentenza dichiarativa della nullità
non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buonafede con contratti trascritti
successivamente a quello dichiarato nullo e precedentemente alla trascri‐
zione della domanda di nullità, sempreché quest’ultima sia stata trascritta
decorsi 5 anni dalla prima trascrizione [del contratto supposto nullo] (art.
2652, n. 6). In realtà, non bisogna enfatizzare le ricadute sistematiche che
la differente scelta legislativa comporterebbe sul piano dell’individuazione
del vizio di invalidità da cui sarebbe affetto il negozio simulato, in particola‐
re nel senso di un indice normativo contrario al riconoscimento di un’ipotesi
di nullità. La disciplina della trascrizione delle domande giudiziali soddisfa,
infatti, istanze tra loro del tutto eterogenee sicché l’efficacia della loro
trascrizione non risponde a una logica unitaria ma, appunto, le domande
specificamente indicate devono rendersi pubbliche «agli effetti per ciascu‐
1
na di esse previsti» (art. 2652 ). Nel caso della domanda di simulazione, lo
scopo specifico (e circoscritto) della trascrizione è quello di fissare il
momento nel quale cessa l’applicabilità delle disposizioni (artt. 1415 e
1416) poste a tutela dei terzi [stolfi 1980, 569].
Ulteriore eccezione alla regola base, secondo cui la reale intesa
tra le parti deve prevalere su quella apparente (art. 1414), viene
posta con riguardo ai creditori dell’apparente titolare (simulato
acquirente) i quali possono far prevalere l’apparenza sulla realtà
qualora (purché sempre in buonafede, secondo quanto sopra
osservato) abbiano posto in essere atti di esecuzione (pignoramen‐
to) sui beni che furono oggetto del contratto simulato (art. 14161).
Uguale tutela consistente nell’inopponibilità della simulazione,
che dunque concretizza altra eccezione alla detta regola base, deve
essere riconosciuta (sempre subordinatamente alla loro buonafede)
ai creditori del titolare apparente che abbiano acquistato un diritto
reale di garanzia (pegno o ipoteca) sul bene fittiziamente trasferito.
In entrambe le due ultime situazioni, l’eccezione si giustifica
perché i creditori del simulato acquirente sono portatori di un inte‐
resse specifico che si incentra proprio sul bene oggetto dell’atto
simulato e, pertanto, essi sono dalla legge preferiti ai creditori del
simulato alienante i quali, invece, hanno un interesse soltanto
generico siccome fondato sul canone generale in tema di responsa‐
bilità patrimoniale del debitore (art. 2740).
Differente è il caso nel quale gli interessi in contrapposizione
siano riconducibili ai creditori (meramente) chirografari delle parti
del contratto simulato.
Invero, nel conflitto tra interessi che sono tutti ugualmente
generici (art. 2740), rispetto ai creditori del simulato acquirente,
sono preferiti i creditori del simulato alienante (e dunque prevale la
realtà sull’apparenza) soltanto quando la ragione di credito propria
di questi ultimi sia sorta anteriormente all’atto simulato (art. 14162).
Questa soluzione poggia sulla semplice constatazione che i credito‐
ri del simulato alienante fanno affidamento sulla realtà della consi‐
stenza patrimoniale del proprio debitore come risulta essere al
tempo nel quale sorge il loro credito. Se il credito è sorto dopo il
contratto simulato, i creditori chirografari del simulato alienante
fanno pur sempre affidamento sulla realtà del patrimonio del loro
debitore come eventualmente diminuito in seguito alla fuoriuscita
dei beni conseguente all’operazione negoziale simulata. Ne conse‐
gue, appunto, l’assenza di tutela per i creditori chirografari del
simulato alienante. In questa circostanza, infatti, non vi è ragione di
posporre (e dunque prevale) la posizione di coloro che sono credito‐
ri chirografari del simulato acquirente i quali, a loro volta, hanno
fatto affidamento sulla consistenza patrimoniale del loro debitore
come risulta essere al momento della nascita del loro credito. In ciò
può ravvisarsi la giustificazione della scelta normativa (art. 14162)
che limita a un’ipotesi specifica la tutela per i creditori chirografari
del simulato alienante e finisce, negli altri casi, per accordare favore
alle ragioni dei creditori chirografari del simulato acquirente.
■ 6. Nel codice la disciplina dettata per la prova della simulazione
tiene conto della notevole asimmetria di posizioni fra i terzi estranei
all’atto simulato e le parti del medesimo giacché, per sua natura,
l’accordo simulatorio viene celato a coloro che non vi hanno parteci‐
pato. Ecco perché la prova che un contratto è simulato viene agevo‐
lata per i terzi e per i creditori, mentre è resa ben più severa per le
parti.
In particolare, in conformità a una regola generale in tema di
prova testimoniale (art. 2722), quest’ultima – e di conseguenza
quella per presunzioni (art. 27292) – è preclusa alle parti del con‐
tratto apparente rispetto al quale, invero, l’accordo simulatorio è
certamente anteriore oppure contemporaneo; pertanto, se non
hanno prova scritta, le parti potranno soltanto ricorrere alla confes‐
sione ovvero deferire il giuramento; ferme come è ovvio le eccezioni
normative al divieto della prova testimoniale (art. 2724).
È stato però ritenuto ammissibile l’interrogatorio formale, che
abbia per oggetto negozi per i quali non sia richiesto l’atto scritto ad
substantiam, sia perché escluso dal divieto di prova per testimoni,
implicitamente fissato dal codice (art. 1417) per le parti, sia perché
mezzo istruttorio volto a provocare la confessione giudiziale della
controparte e, dunque, a ricercare la verità reale contro quella
formale risultante dall’atto scritto; se le risposte date dall’interessato
in sede di interrogatorio rendono verosimile la simulazione, diviene
poi ammissibile la prova testimoniale in deroga al normale divieto
(Cass. 19435/2008).
Alla regola ora esposta fa eccezione l’ipotesi in cui le parti
intendano provare l’illiceità del contratto dissimulato, dove la prova,
sia testimoniale che presuntiva, è infatti dalla legge ammessa senza
limiti (art. 1417), e ciò chiaramente allo scopo di favorire
l’emersione, e la conseguente dichiarazione di nullità, dell’accordo
nascosto qualora esso sia illecito.
Nel caso in cui venga dedotta la nullità di un contratto preliminare di
compravendita siccome dissimulante un patto commissorio vietato dalla
legge (art. 2744), la simulazione costituisce soltanto causa petendi, cioè il
fatto rivelatore del vietato patto commissorio posto a base dell’azione di
nullità del contratto, sicché il relativo accertamento non è soggetto alle
limitazioni della prova testimoniale (art. 1417), in quanto volta a far valere
l’illiceità ex lege del negozio dissimulato (Cass. 8325/1990). L’esigenza di
perseguire il negozio illecito ha peraltro indotto i giudici a far convergere la
simulazione relativa verso l’illiceità parziale nella materia, ad esempio, delle
locazioni abitative ove il contratto includa patti diretti ad aggirare le
disposizioni di legge cogenti relative alla durata e al canone, realizzandosi
così una fattispecie negoziale simulata relativamente che permette alle
parti contraenti di provare con testimoni (art. 1417) il contratto dissimulato
(parzialmente illecito) nel quale le clausole nulle sono sostituite di diritto da
quelle di legge (Cass. 5371/1995).
La prova per testimoni (nonché quella per presunzioni) è pure
ammessa senza limiti se la domanda di simulazione venga proposta
dai creditori o dai terzi (art. 1417) in considerazione, appunto,
delle difficoltà che costoro incontrano per procurarsi l’eventuale
documento scritto, e tenuto nascosto, nel quale è versato l’accordo
simulatorio.
La medesima ragione è alla base della diffusa convinzione che,
in applicazione della regola generale, ammette i terzi a provare con
ogni mezzo la simulazione delle convenzioni matrimoniali,
anche quando la contro dichiarazione non ha la forma scritta richie‐
sta dalla legge (art. 1642), sicché le limitazioni probatorie poste da
quest’ultima devono intendersi «valevoli» solo per le parti delle
convenzioni simulate. Questa interpretazione evita un ingiustificato
trattamento pregiudizievole per i terzi ma pone il problema, specie
nei casi di simulazione relativa, che attraverso la libertà di prova si
finisce per dare rilevanza giuridica a patti dissimulati privi di qualun‐
que requisito di forma, in evidente contrasto con il sistema di regole
formali, alquanto intense, che governa la disciplina legale delle
convenzioni matrimoniali.
Ipotesi classica di applicazione delle disposizioni in tema di
simulazione per la tutela del diritto proprio di soggetti terzi, è quella
dell’erede di una parte contraente il quale chieda la dichiarazione di
simulazione nella qualità di legittimario e allo scopo di far valere il
proprio diritto alla reintegrazione della quota di riserva. In questo
caso il legittimario si pone come terzo rispetto ai contraenti (art.
1417) e, pertanto, è ammesso a provare con ogni mezzo la
simulazione del negozio dispositivo posto in essere dal de cuius.
Tuttavia la qualità di terzo sussiste soltanto quando il legittimario
impegna in giudizio il suo titolo di «legittimario», il solo in base al
quale la legge gli attribuisce una legittimazione speciale a opporsi
alla stessa volontà del de cuius.
Diversamente invece allorché l’erede, che sia anche legittimario,
abbia di mira l’acquisizione al patrimonio ereditario di un bene
che ha formato oggetto di un negozio dispositivo simulato cui ha
partecipato il de cuius; in questo caso l’erede impugna di simulazio‐
ne il negozio non quale legittimario ma nella qualità di erede,
successore a titolo universale: egli non può essere considerato
terzo ed è perciò soggetto alle limitazioni di legge in tema di prova
testimoniale della simulazione (artt. 1417 e 2722), in quanto si vale
di un titolo che lo pone nell’identica situazione giuridica del suo
dante causa.
Dall’esclusione della qualifica di «terzo» per l’erede (ancorché legitti‐
mario) discende che a lui può essere opposta la contro dichiarazione scritta
proveniente dal de cuius; viceversa ciò non sarebbe possibile e anzi, se
terzo, non gli si potrebbe opporre nemmeno la stessa simulazione (art.
1415) mentre, in linea generale, non si dubita che sia la simulazione sia le
contro dichiarazioni sono opponibili all’erede che agisce in quanto succes‐
sore a titolo universale [barbero 1955, 407].
Per altro, le limitazioni alla prova testimoniale della simulazione (artt.
1417 e 2722), non avendo natura pubblicistica ed essendo dirette esclusi‐
vamente alla tutela dell’interesse delle parti medesime, in caso di loro
inosservanza, non sono rilevabili d’ufficio nel giudizio di merito, né
possono farsi valere, per la prima volta, nel giudizio di legittimità (Cass.
7674/1986).
Sulla possibilità di attribuire la qualifica di «terzo» all’erede legittimario,
la giurisprudenza afferma che, contestualmente all’azione di dichiarazione
della simulazione, occorre che sia proposta anche la domanda di riduzione
per la reintegrazione della quota di legittima: l’erede legittimario è terzo
rispetto ai contraenti quando agisca a tutela del proprio diritto all’intangibili‐
tà della quota di riserva, proponendo in concreto una domanda di
riduzione, nullità o inefficacia dell’atto dissimulato poiché, in questo caso,
la lesione della quota di riserva assurge a causa petendi accanto al fatto
della simulazione; né assume rilievo il fatto che egli, oltre all’effetto di
reintegrazione, riceva, in quanto sia anche erede legittimo, un beneficio dal
recupero di un bene al patrimonio ereditario (Cass. 24134/2009, in un caso
di vendita che cela una donazione; Cass. 10849/1996; Cass. 5947/1986).
Si è anche affermato che il legittimario, il quale agisca per l’accertamento
della simulazione (assoluta) ovvero della nullità (sostanziale o
formale) del negozio dissimulato, non ha bisogno di esperire conte‐
stualmente la domanda di riduzione per essere considerato terzo ai fini
dei limiti di prova, poiché l’accoglimento della domanda di simulazione (o di
nullità) comporta la declaratoria di appartenenza del relativo bene all’asse
ereditario (Cass. 6315/2003); mentre la domanda di riduzione deve ritener‐
si necessaria nel caso l’atto dissimulato sia valido (Cass. 2836/1997, in
Vita not., in un caso di donazione, supposta nulla per difetto dei requisiti di
forma, dissimulata da una vendita per scrittura privata); resta chiaro però,
con speciale riguardo ai casi di negozio simulato valido (ad es., negozio
traslativo a titolo oneroso) che mascheri un negozio invalido (ad es.,
donazione o altra liberalità), che l’avvenuta prescrizione dell’azione di
riduzione per inerzia dell’interessato, rende inammissibile l’azione dichia‐
rativa della simulazione (che si ritiene imprescrittibile ove diretta ad accer‐
tare la nullità dell’atto dissimulato) poiché, l’azione dichiarativa e l’azione di
riduzione stanno tra loro in rapporto da mezzo a fine e, quindi, non si può
ricorrere al mezzo se non è possibile raggiungere il fine [stolfi 1969, 147].
Circa le condizioni per l’esercizio dell’azione di riduzione (art. 564), è
necessaria l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario,
solamente se il legittimario propone un’azione di simulazione che risulti
essere funzionale all’esperimento della domanda di riduzione, ancorché
quest’ultima non sia stata proposta contestualmente alla prima (Cass.
17896/2011; Cass. 4400/2011).
Si è pure sostenuto che la riduzione può essere richiesta anche
implicitamente, in quanto la domanda giudiziale deve essere interpretata
non solo nella sua formulazione letterale, ma anche, e soprattutto, nel suo
sostanziale contenuto e con riguardo alle finalità che la parte intende
perseguire (Cass. 5700/1995).
Altro significativo problema concreto, circa il regime probatorio
della simulazione, si pone in ordine alla domanda giudiziale di
revocatoria fallimentare, che abbia a oggetto la cessione di diritti a
titolo oneroso, proposta dal curatore del fallimento in ragione del
notevole squilibrio delle prestazioni a danno del fallito (art. 67 l.
fall.). Qui il problema del regime probatorio applicabile riguarda il
contraente in bonis che, convenuto nel giudizio, intenda evitare la
soccombenza attraverso la dimostrazione di avere versato un
corrispettivo superiore a quello indicato nell’atto impugnato il quale,
appunto, sarebbe simulato in relazione soltanto al prezzo effettiva‐
mente pagato.
In questi casi, il contraente del fallito che, al fine di evitare la
revocatoria, oppone al fallimento, in via di eccezione, la simulazione
(parziale) del prezzo, deve fornire la prova attraverso atto scritto di
data certa (art. 2704) anteriore alla dichiarazione di fallimento; in
quanto parte contraente dell’atto simulato, gli è infatti preclusa la
prova per testimoni (artt.1417 e 2722).
Quanto alla posizione del curatore, che ha promosso la revocatoria
fallimentare e deve difendersi dall’eccezione di simulazione del prezzo, la
giurisprudenza attuale si orienta nel ricondurla a quella di terzo semplice.
Egli infatti non subentra nella posizione sostanziale o processuale del fallito
e, pur essendo terzo quale organo pubblico della procedura, non è né terzo
(qualificato) che in buonafede abbia acquistato diritti dal titolare apparente
1
(art. 1415 ) e nemmeno creditore del titolare apparente che in buonafede
abbia compiuto atti di esecuzione sui beni oggetto del contratto simulato
1
(art. 1416 ) (Cass. 4729/1997; Cass. 8500/1996).
Ferma la tempestività della trascrizione della domanda di simulazione
(art. 1415), la scrittura privata, prodotta dal convenuto con azione revocato‐
ria fallimentare a dimostrazione di aver versato un corrispettivo effettivo
superiore a quello indicato nell’atto impugnato, è opponibile al curatore
soltanto quando presenti data certa (art. 2704) anteriore alla dichiarazione
di fallimento (Cass. 2256/1997; Cass. 6577/1997; Cass. 5792/1993; contra,
Cass. 3857/1996) e quando, oltre alla data certa, il contenuto specifico del
documento (o della serie di documenti tra loro ricollegabili) permetta in
modo incontestabile di collegare l’atto solutorio al negozio di cui costitui‐
rebbe esecuzione (Cass. 2315/2013, con riguardo a titoli di credito all’ordi‐
ne i quali, benché con data certa anteriore al fallimento, non sono idonei a
dimostrare, per la loro astrattezza, il necessario nesso tra il versamento
monetario e il contratto oggetto della domanda revocatoria).
Sezione V.
La rescissione
1. Squilibrio e rimedi in generale. - 2. Il contratto concluso in stato di pericolo. - 3. La
rescissione per lesione. - 4. Il regime dell’azione. - 5. L’offerta di modificazione del
contratto. - 6. Rescissione e usura. - 7. Quattro questioni controverse.
■ 1. La rescissione è un’impugnativa del contratto congegnata per
ovviare a uno squilibrio genetico del sinallagma, squilibrio indotto
dal contesto circostanziale nel quale avviene la formazione del
contratto [carpino ???, 6 ss.; vitucci ???, 433 ss.; schiavone ???,
63 ss.). Per effetto di specifiche circostanze esterne – lo stato di
pericolo e quello di bisogno – la determinazione volitiva della parte
lesa non è infatti libera bensì indotta ad accettare delle condizioni
inique. Dunque una situazione complessa, con una volontà obnubi‐
lata da fatti esterni che esita in uno squilibrio tra le prestazioni,
classificabile come un difetto genetico della causa. Lo stato
soggettivo di costrizione della parte lesa non è infatti indotto dalla
controparte, che piuttosto ne approfitta allo scopo di lucrare un
vantaggio sproporzionato. E di qui una disciplina che, se prossima a
quella dell’annullabilità, per molti aspetti se ne distacca.
Come l’annullabilità, infatti, il contratto rescindibile è efficace sin
quando non interviene una sentenza che caduca retroattivamente
gli effetti: e allo stesso modo la rescissione è un rimedio che postula
la domanda della parte lesa. Ma, a differenza dell’annullabilità, il
contratto rescindibile non è convalidabile, la relativa azione si
prescrive in 1 anno (e non in 5), per di più con un diverso momento
di decorrenza (art. 14422) e la relativa eccezione non è imprescritti‐
bile (quand’anche il contratto non sia stato ancora eseguito).
Quindi un regime assolutamente spurio: e la tendenziale inop‐
ponibilità ai terzi, diversamente da quanto prescritto nell’ipotesi di
contratto annullabile, rende assai difficile un suo inquadramento
nell’area dell’invalidità. Al tempo stesso, però, neanche ha un gran
senso sostenere che la rescissione è funzionale a garantire un’equi‐
valenza oggettiva delle prestazioni contrattuali: sin quando c’è una
libera e responsabile determinazione volitiva, sono le parti infatti a
definire l’equilibrio dello scambio (c.d. «principio di equivalenza
soggettiva delle prestazioni»). Gli è piuttosto che, tramite la rescis‐
sione, l’ordinamento intende soccorrere la determinazione negozia‐
le di quella parte che, impedita da fatti esterni a contrarre respon‐
sabilmente, non è addivenuta alla pattuizione di un giusto prezzo
di mercato. Dunque non una disciplina per la tutela del contraente
debole quanto a garanzia di un contrattare secondo logiche di
mercato [vitucci ???, 433 ss.]. D’altronde, in un contesto normativo
nel quale è ormai dominante l’introduzione di correttivi alla fisiologi‐
ca ineguaglianza del potere contrattuale (art. 9 l. 192/1998, sull’abu‐
so di dipendenza economica), l’istituto della rescissione può conti‐
nuare ad avere una ragion d’essere se lo si declina non come un
quarto vizio della volontà (art. 22 Progetto italo-francese delle
obbligazioni del 1927) ma quale impugnativa volta a neutralizzare
forme di abuso, nel procedimento formativo del contratto, ostative al
corretto svolgersi dell’autonomia contrattuale.
In quest’ottica, di là dalla vischiosità della formulazione, l’art. 4: 109
pecl reprime il comportamento abusivo del contraente diretto a ottenere un
«ingiusto profitto o un vantaggio iniquo» approfittando dello stato di biso‐
gno, debolezza e inesperienza della controparte. Mentre, nella medesima
fattispecie, il § 138, abs. 2, bgb statuisce la nullità per immoralità del
contratto.
Ai sensi dell’art. 14484 non possono essere rescissi per lesione
i contratti aleatori: e nell’ambito di applicazione della norma vanno
ricompresi sia i contratti aleatori per loro natura o per volontà delle
parti sia quelli contraddistinti da un’unilateralità o una bilateralità
dell’alea (Cass. 3694/1986) [lanzillo e riccio ???, 113].
Ma il dettato normativo va interpretato perché se la sproporzione non è
imputabile all’alea ma preesiste alla stipula del contratto, allora il rimedio
della rescissione per lesione troverà applicazione. Se infatti un soggetto
stipula un contratto di assicurazione pattuendo un premio di importo doppio
rispetto a quello che il mercato contempla per il genere di rischio
assicurato, c’è una lesione rilevante ai fini rescissori. È diverso il caso, cui
4
l’art. 1448 in realtà si riferisce, del pregiudizio successivo all’alea assunta:
come nell’ipotesi del soggetto, assicuratosi senza però che il rischio si sia
convertito in danno, il quale in realtà esegue una prestazione pecuniaria
senza ricevere alcunché. Ma qui la sproporzione tra le prestazioni è l’effetto
(sfavorevole) dell’alea assunta: e la rescindibilità sarebbe da escludere
4
anche in difetto dell’art. 1448 [roppo ???, 897].
■ 2. L’art. 14471, che legittima all’impugnativa la parte che abbia
negoziato a condizioni inique per sottrarre se stesso (o altri) dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona, subordina la rescis‐
sione del contratto al contemporaneo ricorrere di tre requisiti: lo
«stato di pericolo», lo «squilibrio contrattuale» in danno della parte
in pericolo, la «malafede» della controparte.
a) Lo stato di pericolo, definito come la necessità di salvare sé
(o un terzo) dal pericolo attuale di un danno grave alla persona,
deve essere causalmente connesso al contratto: nel senso che il
soggetto in stato di pericolo si serve del contratto al solo scopo di
neutralizzarlo [mirabelli ???, 148; sesta ???, 807] (Cass.
2471/1954).
Il pericolo deve inerire alla persona giacché il contratto concluso
per la necessità di scongiurare l’imminente perdita di uno o più beni,
a motivo di una minacciata confisca o per il timore di devastazioni,
non è rescindibile ai sensi dell’art. 1447 ma in forza dell’art. 1448, il
pericolo di danno al patrimonio integrando in realtà uno stato di
bisogno [sacco ???, 597; roppo ???, 886; lanzillo-riccio ???, 72].
Il pericolo, imputabile sia a un evento naturale che a un fatto
umano, può essere occasionato da un terzo – e allora la fattispecie
che si profila è quella della violenza morale (art. 1434) – o dalla
stessa parte che poi negozia. Non ha alcun rilievo infatti la circo‐
stanza che il pericolo sia stato volontariamente prodotto da chi poi
lo subisce o fosse altrimenti evitabile, come prescritto, per lo stato
di necessità rilevante quale esimente della responsabilità extracon‐
trattuale, dall’art. 2045. L’esempio classico è quello della scalata
alpina intrapresa dal turista avventato nella sciente consapevolezza
di non saper discendere senza l’ausilio di una guida, che poi do‐
manda un compenso esorbitante. In realtà la diversità di trattamento
normativo fra l’art. 2045 e l’art. 1447 si spiega con il fatto che,
mentre il primo si trova a contemperare la posizione dell’autore di
un danno con quella di colui che lo subisce, il secondo disposto ha
invece per oggetto una situazione nella quale, anziché compiere un
illecito, un soggetto stipula proprio a motivo di un pericolo incom‐
bente di cui l’altra parte profitta per lucrare dei vantaggi iniqui
[roppo ???, 886].
Il danno deve essere grave e tradursi in un pregiudizio tale che
la necessità di evitarlo funga da motivo determinante del consenso:
e, con l’applicazione analogica dell’art. 1435, la gravità viene solita‐
mente contestualizzata, apprezzandola in rapporto all’età, al sesso
e alle condizioni della persona in pericolo [minervini ???, 1697].
In dottrina è invalsa l’idea che l’art. 1447 possa utilmente invocarsi
anche per ovviare a situazioni di pericolo riguardanti il diritto all’onore, alla
reputazione o alla riservatezza [roppo ???, 886; carpino ???, 24; lanzilloriccio ???, 72]. In ogni caso dovrà sempre trattarsi di un pericolo attuale,
donde l’esclusione della rescissione per il caso di un pericolo soltanto
putativo (o che non importi un danno grave). Gli è, infatti, che il contraente
vittima di condizioni inique, per aver negoziato nell’erronea convinzione
dell’esistenza di un pericolo, potrà impugnare il contratto per vizio del
consenso, salvo pensare a una rescindibilità nel caso il contraente avvan‐
taggiato abbia riconosciuto l’errore. E se la riconoscibilità implica un
rimando all’art. 1337, parrebbe invece da escludere che un pericolo
putativo possa fondare una nullità del contratto per inutilità della prestazio‐
ne (così, invece, carresi ???, 2). Se poi c’è pericolo di un danno, minaccia‐
to nel caso non si addivenga alla stipula del contratto, troverà applicazione
la disciplina della violenza morale (artt. 1434 e 1435).
b) Il secondo requisito, le condizioni inique, implica uno squili‐
brio tra le prestazioni: che il legislatore, diversamente da quanto
prescritto nel caso di rescissione per lesione, rimette qui alla valuta‐
zione discrezionale del giudice. Quindi secondo un apprezzamento
caso per caso, rispetto al quale assumono rilievo una pluralità di
circostanze: oggettive (il livello di rischio e il grado di destrezza
necessario per ovviare al pericolo) e soggettive (la condizione
economica delle parti). Non è da trascurare, in ogni caso, la circo‐
stanza che le condizioni inique potrebbero pure consistere nell’im‐
posizione di condizioni contrattuali particolarmente gravose.
c) L’ultimo requisito si sostanzia nella malafede della contro‐
parte, la quale deve essere a conoscenza di un contrattare indotto
dalla specifica volontà di sfuggire a un pericolo. Il che, mostrando
per ciò stesso un intento di lucrare dei vantaggi iniqui, esclude
possa accamparsi una tutela dell’affidamento [roppo ???, 887].
D’altra parte, ai sensi dell’art. 14472, il giudice che dispone la
rescissione può, su espressa domanda della parte che ha approfit‐
tato, disporre un equo compenso per l’opera prestata. Il che, dando‐
si qui rilievo al valore economico della prestazione, ben si compren‐
de considerato che, per effetto della caducazione del contratto, nulla
verrebbe più altrimenti a spettare a chi ha compiuto l’attività
[marini ???, 895].
È molto discusso in dottrina, proprio in virtù di quanto dispone il comma
2, se l’ambito di applicazione dell’art. 1447, per il fatto che il pericolo qui
inerisce alla stipula di un negozio avente a oggetto una prestazione di
salvataggio, sia ristretto alla sola prestazione d’opera o involga qualsiasi
tipo di contratto [sacco ???, 599]. L’interpretazione restrittiva meglio
distingue lo «stato di pericolo» dallo «stato di bisogno» e fa refluire la
rescindibilità di tutti i contratti aventi a oggetto un dare e un fare nel dispo‐
sto dell’art. 1448: quindi al fatto che la lesione sia ultra dimidium. Sicché,
nell’ipotesi sintomatica dell’impellente esigenza di procurarsi un medicinale,
si avrebbe come risultato una rescindibilità del contratto subordinata alla
pattuizione di un prezzo eccedente la metà del valore di mercato del
prodotto. Il che, in un’ottica di effettività della tutela rimediale, non sembra
congruente.
■ 3. Quando la stipula di un contratto è dipesa dallo stato di biso‐
gno di una parte, bisogno di cui la controparte ha approfittato per
trarne vantaggio, l’art. 1448 dispone il rimedio generale della rescis‐
ssione per lesione. La rescissione, per altro, non è ammessa ove la
lesione non ecceda la metà del valore che la prestazione eseguita
(o promessa) dalla parte danneggiata aveva al momento della
stipula del contratto.
5
Fa eccezione, per espresso richiamo dell’art. 1448 , l’art. 763 riguardo
alla rescissione della divisione. Una disposizione, questa, che si iscrive per
altro nell’ambito di una disciplina specifica dettata per la divisione dell’ere‐
dità. Diversamente infatti da quanto dispone l’art. 1448, nella divisione
dell’eredità lo squilibrio vale in sé, senza che rilevi cioè la conoscenza (e
financo l’esistenza) di uno stato di bisogno (di uno dei coeredi); la divisione
si può poi rescindere per lesione oltre il quarto e la relativa azione si
prescrive entro 2 anni dalla divisione. Ammessa contro ogni tipo di atto che
abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari,
quest’azione di rescissione è per altro esclusa riguardo alla transazione
che abbia posto fine alle questioni insorte proprio a causa della divisione
2
(art. 764 ; Cass. 20256/2009). Per altro l’esclusione della transazione
discende dalla regola generale di cui all’art. 1970, nitido nell’escludere
un’impugnativa della stessa per causa di lesione.
La rescissione per lesione, rimedio tipico dei contratti a presta‐
zioni corrispettive, richiede, seconda una massima consolidata
(Cass. 18040/2011; Cass. 12116/2003), la simultanea presenza di
tre requisiti di pari rilievo: lo «stato di bisogno» del contraente leso,
la lesione ultra dimidium e l’«approfitta mento» della controparte.
a) Lo stato di bisogno, identificabile con la contingente difficol‐
tà economica della parte vittima dell’abuso, deve porsi come causa
efficiente [gazzoni ???, 1006] della sua determinazione volitiva a
contrarre: nel senso che il bisogno deve rappresentare l’unica
ragione determinante l’accettazione di condizioni economiche
sperequate. Stato di bisogno non c’è perciò allorché la parte lesa si
è determinata a contrarre per una maggior convenienza o la
migliore economicità di un dato risultato (Cass. 4630/1990). La
parte lesa può anche essere una società (che versi in uno stato di
dissesto): l’art. 1448 prescinde infatti dalla natura giuridica del
soggetto del cui stato di bisogno la controparte abbia profittato
(Cass. 19136/2004). Rileva, naturalmente, il motivo del bisogno:
che deve essere serio e non futile, nell’ottica di un interesse social‐
mente apprezzabile. Di conseguenza, mentre è rescindibile il
contratto con il quale un imprenditore, per evitare il fallimento
dell’azienda, vende sotto costo uno o più cespiti del proprio patrimo‐
nio, non lo è il contratto con il quale un collezionista acquista a un
prezzo esorbitante un libro molto raro ovvero, per aggiudicarselo a
un prezzo di mercato, aliena a un prezzo rovinoso altri suoi beni
onde poter disporre della liquidità necessaria [roppo ???, 887;
sacco ???, 600]. Allo stesso modo non viene in gioco l’art. 1448 nel
caso in cui l’azionista di minoranza di una società rinunzi al diritto di
ritirarsi dalla trattativa di cessione delle proprie quote di tale società,
contro impegno dell’acquirente a conferirgli un contratto di consu‐
lenza a favore della suddetta società: se, per quanto possa esservi
una sproporzione tra prestazione e compenso, non risulta che
l’azionista versasse, all’atto dell’accordo, in stato di bisogno.
Lo «stato di bisogno», per come lo declina la giurisprudenza
prevalente, è nozione molto ampia. L’ipotesi sintomatica è l’impellente
necessità di denaro, per ragioni personali o familiari, da cui poi la configu‐
razione del contratto lesivo come quello con il quale si dispone di un bene
a un prezzo vile. Non, quindi, uno stato di indigenza o di povertà: basta, a
integrarlo, una condizione transeunte di difficoltà economica
[minervini ???, 1663] (Cass. 6370/2004; Cass. 8200/1998). Può ben
essere, però, che il bisogno consista nell’indifferibile esigenza di un bene:
da cui la qualificazione di lesivo anche per il contratto con cui un imprendi‐
tore, onde soddisfare una commessa fattagli, acquista a un prezzo spro‐
porzionato il manufatto o la materia prima necessario per il ciclo di lavora‐
zione di un determinato prodotto [roppo ???, 887; lanzillo-riccio ???, 84]. È
molto discusso, viceversa, se lo stato di bisogno possa essere solo morale
[bianca ???, 685]. L’esempio comunemente fatto è quello del soggetto che,
per evitare il forte discredito sociale derivante dal non adempiere a dei
debiti di gioco, quindi un bisogno stricto sensu non patrimoniale, provvede
a svendere una parte del proprio patrimonio. E l’interpretazione più convin‐
cente parrebbe essere quella che contempla la rescindibilità pure per
questo contratto di alienazione: purché, però, si tratti di un interesse serio.
Lo stato di bisogno, proprio perché tutt’uno con una situazione
effettiva di carente liquidità, mai può consistere in uno stato psicolo‐
gico ovvero essere putativo. Si ha invece stato bisogno ov’anche
sia stato procurato dalla stessa vittima (Cass. 2328/2010) ovvero vi
sia incorso un terzo: sebbene, nel caso di stato di bisogno di una
persona diversa dal contraente, la difficoltà finanziaria del terzo
rilevi solo se vale in via mediata anche come bisogno del
contraente, per via, ad esempio, dei legami affettivi intercorrenti tra i
due. Emblematico è il caso del coniuge che svende i propri beni per
evitare il fallimento dell’altro oppure del socio che aliena sotto costo
taluni cespiti del proprio patrimonio per evitare il fallimento della
società di cui è anche amministratore. Non è d’altronde diverso il
trattamento normativo per il caso della violenza diretta contro terzi
(art. 1436).
Nell’ipotesi di contratto concluso a mezzo di rappresentante, ciò che
vale è lo stato di bisogno del rappresentato [minervini ???, 1666] (Cass.
2166/1986).
b) Affinché sia esperibile l’azione di rescissione è poi necessario
che ricorra una lesione, inderogabilmente quantificata dalla legge in
una sproprozione di oltre la metà (ultra dimidium) tra le rispettive
prestazioni. Il parametro di valutazione è, ovviamente, il valore di
mercato del bene, non assumendo alcuna rilevanza il c.d. «valore di
affezione» che la res ha per chi l’aliena: e, nell’accertare la spropor‐
zione, deve tenersi in considerazione, come evidenzia la giurispru‐
denza, anche il reddito effettivo che il bene alienato è in grado di
produrre.
Per altro la giurisprudenza è solita evidenziare che, per determinare il
valore degli immobili urbani, a parametro valutativo deve assumersi non il
reddito dovuto a contingenze temporanee od eccezionali (ad es., il blocco
dei fitti) ma quello che, nello stesso periodo, per il suo valore intrinseco e
secondo il normale andamento del mercato immobiliare, quel bene avrebbe
potuto produrre. Per le azioni societarie valgono le normali possibilità di
sfruttamento e/o di speculazione.
Come si ricava dallo stesso comma 2 dell’art. 1448, la valutazio‐
ne del valore delle prestazioni è riferita al momento della stipula del
contratto (Cass. 3176/2011), non a una sproporzione prodottasi, per
effetto di successive oscillazioni del mercato, al momento dell’ese‐
cuzione. Il che ben si comprende visto l’atteggiarsi della rescissione
a rimedio per ovviare a uno squilibrio genetico del contratto
[roppo ???, 891; sacco ???, 603]. È per di più necessario che la
lesione permanga sino al momento della proposizione della doman‐
da di rescissione (art. 14483): donde l’escludersi della rescissione
se il valore (reale) della prestazione che la vittima dell’abuso ha
ricevuto è aumentato ovvero se è diminuito quello della prestazione
che la stessa ha eseguito [carpino ???, 66; sacco ???, 604]. Am‐
mettere qui la rescissione avrebbe infatti l’effetto non di ovviare a
uno squilibrio, che seppur per circostazne sopravvenute non c’è più,
ma di consentire alla c.d. «parte lesa» di sciogliersi dal contratto
perché si è pentita di averlo stipulato. Ma questa forma di recesso
mascherato, indotta da una riformulazione del giudizio sulla conve‐
nienza dell’affare, è contraddetta dalla forza del legge del contratto
di cui all’art. 1372. Controverso è semmai se, a precludere la rescis‐
sione, basti un incremento di valore (della prestazione ricevuta) o
un decremento (di quella eseguita) tale da riportare lo squilibrio
sotto la soglia della metà (Cass. 5458/1978) ovvero, più plausibil‐
mente, il prodursi di un differenziale tale da ripristinare il pieno
equilibrio del sinallagma. In questa seconda ipotesi traendo spunto
da quanto dispone l’art. 1450 a proposito della riconduzione a
equità [sacco 604; carpino, 66].
c) L’ultimo requisito che si legge nel disposto dell’art. 1448 è
l’approfittamento: che, stando per altro alla dottrina [sacco 602] e
alla giurisprudenza più recente (Cass. 140/2007; Cass.
19625/2003), seppur necessario, non postula più l’iniziativa mali‐
ziosa di chi abusa o il dispiegarsi di un’attività operosa mirata
proprio a indurre la parte lesa a concludere l’affare. L’approfittamen‐
to, anziché in un’attività specifica, si sostanzia nella spinta psicologi‐
ca a lucrare un vantaggio ingiusto: e ricorre ogni qual volta si abbia
conoscenza dello stato di bisogno della controparte e dell’evidente
sproporzione tra le prestazioni. Anzi, con un ragionamento più che
plausibile, è invalso l’assunto che l’approfittamento, inteso quale
stato psicologico di chi abusa, può dedursi presuntivamente dal
fatto obiettivo della lesione [roppo ???, 892] (Cass. 1553/1989).
Secondo una dottrina minoritaria [biscontini ???, 214] la rescissione
per lesione avrebbe a oggetto anche i contratti non sinallagmatici sul
presupposto che si tratti di un rimedio per ovviare un regolamento contrat‐
tuale viziato a causa di uno stato di bisogno di cui la controparte ha profitta‐
to. La lettera della legge fa tuttavia espresso riferimento alla sproporzione
tra le prestazioni. Sicché sembra difficile estendere l’ambito di applicazio‐
ne dell’art. 1448: pur se è vero che non è da escludere la rescissione di un
contratto di società (ove a un socio, ad es., venga attribuita una percentua‐
le di utili molto bassa rispetto all’entità del suo conferimento, Cass.
639/1976 [roppo ???, 897]). Nel caso di un contratto di pegno, l’azione di
rescissione, esperita dal concedente sul presupposto della sussistenza di
una lesione ultra dimidium, deve reputarsi inammissibile proprio perché
non si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive. Quanto ai contratti
a titolo gratuito, classe nella quale si devono ricomprendere anche i casi
della donazione mista e di quella modale, non è prospettabile una lesione:
a meno che non si profili la fattispecie di un collegamento contrattuale.
Può farsi il caso del mutuo stipulato a condizioni eque ma seguito da una
donazione al mutuante di uno o più beni del mutuatario.
■ 4. La rescissione può essere fatta valere, in via di domanda o di
eccezione, solo da chi abbia stipulato in stato di pericolo o di
bisogno, non è rilevabile d’ufficio e la relativa azione si prescrive in
1 anno dalla stipula del contratto (art. 14491).
Per giurisprudenza consolidata, mentre la dottrina è variamente orien‐
tata, nel caso di sequenza preliminare-definitivo, sorgono due distinte
azioni, ciascuna con un proprio termine di prescrizione annuale, decorrente
dalla stipula del rispettivo contratto (Cass. 5458/1978; Cass. 15139/2000).
Nel caso la stipula del definitivo non abbia avuto luogo e il promissario
acquirente, autore dell’abuso, domandi il rimedio di cui all’art. 2932, si
ammette che il promittente venditore possa opporre in riconvenzionale la
rescissione del preliminare ov’anche la prescrizione sia maturata (Cass.
15139/2000).
Diversamente da quanto prescritto per l’annullabilità, non è poi
previsto, per altro con più di un dubbio di legittimità costituzionale
(art. 32 Cost.), che l’eccezione si possa opporre quando l’azione si
è prescritta (art. 14492). È vero che la stringente brevità del termine
è attenuata nel caso il fatto costituisca reato (applicandosi qui, in
forza dell’art. 29473, la più lunga prescrizione prevista per la fatti‐
specie criminosa, Cass. 18169/2004), nelle ipotesi di contratto
sospensivamente condizionato (il termine annuale qui decorrendo
dal momento del prodursi dell’evento dal quale dipendono gli effetti,
Cass. 6050/1995; Cass. 3055/1992) e, laddove il prezzo non sia
stato quantificato all’atto della stipula, sin quando non si è provve‐
duto alla sua determinazione (Cass. 10/1993): epperò non può
negarsi che la disciplina processuale è concepita con modalità tali
da stemperare molto l’operatività di un rimedio già rinserrato dal
legislatore in un ambito piuttosto angusto, nella palese ottica di
circoscrivere l’impatto di una tecnica di tutela equitativa giudicata
dirompente rispetto al valore dell’accordo come forma esclusiva di
composizione intangibile degli interessi delle parti.
Per altro, se dovesse muoversi dall’assunto che vuole il contratto
usurario, per molti ormai inglobante quello rescindibile, sanzionato con la
nullità (v. infra, n. 6), l’art. 1449 sarebbe da intendere come implicitamente
abrogato: con, per ciò stesso, l’annesso operare dell’azione, imprescritti‐
bile, di nullità [oppo ???, 544; lanzillo-riccio ???, 218).
La sentenza che dispone la rescissione è costitutiva e cancella
ex tunc gli effetti del contratto: sicché, ove si tratti di obbligazioni di
dare, il regime delle restituzioni sarà quello dell’indebito (art. 2033
ss.), mentre, nell’ipotesi di un facere, troverà applicazione la discipli‐
na sull’ingiustificato arricchimento (art. 2041; Cass. 6891/2009).
Con riguardo ai terzi, sia di buona che di malafede, la rescissione
non pregiudica i diritti che costoro abbiano acquistato, anche a
titolo gratuito, medio tempore: fatta salva, naturalmente, l’applicazio‐
ne delle regole sulla trascrizione. Sicché la rescissione è opponibi‐
le al terzo nel caso costui abbia trascritto il proprio acquisto succes‐
sivamente alla trascrizione della domanda di rescissione (artt. 1452,
2652, n. 1, e 2690)
Stando al disposto dell’art. 1451, il contratto rescindibile, diver‐
samente da quello annullabile, non può essere convalidato: e la
ratio della disposizione è solitamente spiegata con il rilievo che la
rescissione è rimedio ancillare non già e non tanto alla tutela di
un’integrità della volizione contrattuale quanto e piuttosto a garanti‐
re l’equilibrio dello scambio contrattuale [gazzoni ???, 1010]. E,
sebbene sia vero che il mancato esercizio dell’azione per 1 anno è
prossimo a una forma di convalida per omissione (art. 1444), nel
divieto di convalida è solitamente inclusa ogni eventuale forma di
rinunzia all’azione.
La dottrina, più nello specifico, è solita evidenziare che l’inconvalidabili‐
tà del contratto rescindibile trova la sua ragion d’essere nel fatto che, per
ovviare alla lesione, occorre una modifica del sinallagma contrattuale.
Quando invece si fa questione di contratto annullabile, a venire in risalto
non è tanto un’iniquità dello scambio, che anzi normalmente non c’è, bensì
il difetto di un’autentica (e consapevole) volontà di vincolarsi. Sicché una
successiva manifestazione di volontà conforme, alle condizioni e nei modi
di cui all’art. 1444, espressa da chi sarebbe legittimato a domandare
l’annullamento del contratto, è confacente allo scopo. Tutto al contrario
nell’ipotesi di rescissione, dove il vizio è emendabile con il solo riequilibrio
del sinallagma contrattuale. Non a caso è solo con un’offerta di modifica‐
zione, sì da ricondurre il contratto a equità, offerta promossa dall’autore
dell’abuso, che la rescissione può essere evitata (art. 1450).
Per effetto del divieto che si legge nell’art. 1451, è molto discusso se
possa transigersi su un contratto rescindibile. E, per quanto la nullità della
convalida deponga nel senso di un’invalidità di ogni atto dispositivo,
mediante rinunzia o transazione, del diritto alla rescissione [bianca ???,
693], l’intepretazione più liberale pare plausibile: da un lato infatti, già
nell’offerta di riconduzione a equità, è implicito un transigersi rispetto al
2
quantum, dall’altro c’è il disposto dell’art. 764 , che statuisce l’irrescindibi‐
lità della transazione con la quale si è posto fine alle questioni insorte a
causa della divisione [sesta ???, 823]. A meno di non ritenere, essendo
2
consentita la sola transazione su diritti disponibili (art. 1966), che l’art. 764
sia una norma eccezionale e consentita, stante la normale irrescindibilità
per lesione della transazione (art. 1970), soltanto una riconduzione pattizia
a equità del contratto rescindibile [gazzoni ???, 1010]. Questa lettura evita
che, per il tramite di una transazione, si incorra in una frode alla legge (art.
1344).
■ 5. L’art. 1450, in applicazione del principio di conservazione del
contratto, prevede che la rescissione può essere evitata se il con‐
traente contro il quale viene domandata offre di modificare il contrat‐
to in modo sufficiente da ricondurlo a equità. La natura giuridica di
questa facoltà è quella del diritto potestativo.
La legittimazione a offrire la riconduzione a equità è, quindi, del solo
contraente autore dell’abuso: per il principio di immodificabilità unilaterale
del contratto, alla parte lesa non è consentito infatti imporre la riduzione a
equità del sinallagma. Il che, naturalmente, non esclude che il contraente
leso possa proporre alla controparte di rinegoziare l’affare: e, ove costui
accetti, che si addivenga così a una riconduzione a equità. Ma si tratterà di
una vicenda modificativa prodotta per contratto e non per atto unilaterale.
L’offerta, qualificabile come un «atto unilaterale recettizio», deve
essere adeguata, nel senso di «idonea a ristabilire l’equilibrio
sinallagmatico», non essendo sufficiente un’offerta che riporti la
lesione infra dimidium. Dottrina e giurisprudenza concordano poi nel
ritenere che deve pure trattarsi di un’offerta puntuale ovvero con un
grado minimo di specificità, dovendosi indicare quali sono le clau‐
sole da modificare ed entro quali limiti (Cass. 3891/1994). Non è
ammessa perciò un’offerta generica, dovendo il giudice, appurato il
ricorrere dei presupposti per la rescissione, soltanto accertare se
l’offerta sia o meno idonea a riequilibrare il sinallagma contrattuale.
Nel compiere questo accertamento rileva il valore venale delle
prestazioni al momento della pronuncia: di talché, trattandosi di
vagliare il ricorrere di un equilibrio sinallagmatico oggettivo, non c’è
un vero e proprio giudizio di equità [gazzoni ???, 1012]. Tantomeno
può parlarsi di un’equità in funzione integrativa.
Ove poi l’offerta sia adeguata, è escluso che la parte lesa possa
rifiutarla. Gli è infatti che, come nel caso di una lesione cancellatasi
per effetto di fatti sopravvenuti, se l’offerta si mostra idonea a
riequilibrare il sinallagma contrattuale, non c’è più ragione per
considerare ex lege il contratto rescindibile [roppo ???, 895]. E di
conseguenza, ristabilitosi l’equilibrio dello scambio, difettano le
ragioni che potrebbero rendere meritevole il rifiuto del contraente
(non più prevaricato).
In dottrina è molto dibattuta la natura giuridica dell’offerta: se proces‐
suale, nel qual caso rileverebbe come un’eccezione per opporsi alla
domanda del contraente leso, o sostanziale, proponibile perciò anche in un
giudizio separato da quello rescissorio. A intenderla come un negozio
giuridico unilaterale e recettizio, l’offerta potrebbe anche farsi stragiudizial‐
mente e l’intervento del giudice si avrebbe soltanto nel caso di un conflitto
sulla valutazione della sua congruità [gazzoni ???, 1012].
■ 6. La riscrittura del reato di usura (art. 644 c.p.) ha, per altro,
profondamente ridimensionato l’ambito di applicazione della rescis‐
sione [quadri ???, 890]. Per effetto della l. 108/1996, adesso si
hanno infatti tre forme di usura:
a) quella c.d. pecuniaria in astratto, così detta perché prescin‐
de da qualsiasi rimando alla condizione del soggetto leso, configu‐
rabile automaticamente nel caso gli interessi convenuti oltrepassino
un tasso-soglia predeterminato ex lege;
b) quella c.d. pecuniaria in concreto, che si delinea invece
allorquando gli interessi pattuiti, pur se contenuti entro i limiti di
legge, sono sproporzionati e la vittima si trovi in condizioni di difficol‐
tà economica o finanziaria), infine
c) quella c.d. reale, anch’essa da accertarsi in concreto, confi‐
gurabile ogni qual volta i vantaggi, diversi dagli interessi, siano
sproporzionati (rispetto a quanto prestato) e risulti che il contraente
leso versava in uno stato di difficoltà economica o finanziaria all’atto
di effettuarli o di prometterli. I vantaggi, secondo l’art. 6443 c.p.,
possono consistere in una qualsiasi altra utilità.
Per il contratto di mutuo, ove siano stati pattuiti degli interessi
usurari, provvede invece da sé l’art. 18152, a norma del quale la
relativa clausola è nulla e, in luogo della sostituzione con il tasso
legale, non sono più dovuti interessi. Una specie di pena civile.
Si consideri che l’approfittamento, dapprima elemento costitutivo
della fattispecie criminosa, è stato derubricato ad aggravante del
reato (art. 644, n. 3, c.p.). Dunque, da un lato un’accentuata oggetti‐
vazione della fattispecie (sub a), dall’altro un richiamo alle condizio‐
ni di difficoltà economica o finanziaria, situazione meno grave dello
stato di bisogno.
Ora, visto che è usurario (sub b e sub c) qualsiasi contratto
sinallagmatico ove, in corrispettivo di una somma di denaro o di
un’altra utilità, è convenuta una prestazione sproporzionata, il
risultato è un progressivo dilatarsi delle fattispecie contrattuali
integranti il reato di usura: fattispecie che però dovrebbero chiamare
in causa il rimedio civilistico della nullità assoluta, se per illiceità
della causa (art. 1343) o relativa, se per contrarietà a una norma
imperativa (art. 14181) [oppo ???; 543]. Se non fosse che, a ragio‐
nare così, siccome è usurario (sub b e sub c) l’interesse o il vantag‐
gio sì sproporzionato ma infra dimidium, pur non applicandosi
l’azione generale di rescissione, il contratto sarebbe nullo: mentre
per il contratto usurario con lesione ultra dimidium, sebbene fatti‐
specie più grave, dovrebbe paradossalmente applicarsi il rimedio
della rescindibilità. In dottrina si è, perciò, profilata l’idea di un’abro‐
gazione tacita della disciplina della rescissione, stante la sua inope‐
ratività allorché, per il ricorrere dei presupposti applicativi della
legge penale (art. 644), è sempre la nullità, a prescindere dall’entità
della lesione, a sanzionare il contratto sproporzionato (un tempo)
rescindibile. Per quanto, onde evitare che il contraente leso si trovi
a restituire subito il corrispettivo ricevuto, sarebbe da preferire una
nullità parziale, applicando l’art. 14192 o, analogicamente, l’art.
18152 [carpino ???, 82 s.].
E tuttavia sembra che si possa pure plausibilmente sostenere
che, nelle ipotesi di usura sub b e c, ferma restando la responsabili‐
tà penale, mentre è rescindibile il contratto con una lesione ultra
dimidium, per quello infra dimidium si avrà una tutela risarcitoria nei
riguardi dell’usuario in forza del combinato disposto degli artt. 2043
c.c. e 185 c.p. Con l’art. 18152, norma generale per tutti i contratti
di credito, a disporre una specie di conversione del contratto di
mutuo da oneroso a gratuito.
■ 7. Rimangono incerte, per altro, almeno quattro questioni:
a) il contraente leso, se è vero che il raggio di operatività della
culpa in contrahendo non è circoscritto alle due ipotesi della manca‐
ta o invalida stipula del contratto (Cass., s.u., 26724/2007), può
domandare, in concorso con la rescissione, il risarcimento dei
danni?
b) il contraente leso può richiedere, in luogo della rescissione, il
solo risarcimento dei danni?
c) ove la lesione sia infra dimidium, è ammessa una tutela
risarcitoria? Quesito, più semplice degli altri, perché, di là da quanto
si potrebbe argomentare in tema di vizi incompleti del contratto, il
reato di usura ha cancellato il limite oggettivo della lesione ultra
dimidium.
d) si può configurare uno stato di bisogno nel caso di una sven‐
dita compiuta per realizzare un intento speculativo oppure per gioco
d’azzardo ovvero per fini criminali (Cass. pen. 1370/1990)?
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