STAGIONE 2016/ 2017 IL CASELLANTE di Camilleri e Dipasquale Libretto di sala a cura di Claudia Braida Martedì 24 gennaio 2017 Ore 21.00 con Moni Ovadia Valeria Contadino Mario Incudine e con Sergio Seminara Giampaolo Romania e i musicisti Antonio Vasta, fisarmanica Antonio Putzu, fiati scene Giuseppe Dipasquale musiche originali Mario Incudine con la collaborazione di Antonio Vasta costumi Elisa Savi luci Gianni Grasso ingegnere del suono Paolo Cillerai la canzone La crapa avi li corna è di Antonio Vasta regia Giuseppe Dipasquale produzione Promo Music-Corvino Produzioni Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano Comune di Caltanissetta “Allura Nino accapì. Se non ce l’aviva potuto fari come fìmmina ad aviri figli, voliva provari a fari frutti addivintanno àrbolo. E in quel momento giurò che l’avrebbi sempri accuntintata, a costo d’addivintari lui stisso concime, terra, filo d’erba, acqua.” A. Camilleri Il Casellante è, fra i racconti di Camilleri, uno dei più struggentemente divertenti del ciclo cosiddetto mitologico. Secondo a Maruzza Musumeci e prima de Il Sonaglio, questo racconto ambientato nella Sicilia di Camilleri, terra di contraddizioni e paradossi, narra la vicenda di una metamorfosi. Ma questa Sicilia è la Vigàta di Camilleri che diventa ogni volta metafora di un modo di essere e ragionare le cose di Sicilia. Dopo il successo ottenuto dalle trasposizioni per il teatro de Il birraio di Preston, La concessione del telefono, che insieme a La Cattura, Troppu trafficu ppi nenti, La Signora Leuca, Cannibardo e la Sicilia, che costituiscono la drammaturgia degli ultimi anni, l’autore del romanzo e il regista dell’opera tornano nuovamente insieme per riproporre al pubblico teatrale nazionale una nuova avventura dai racconti camilleriani. Una vicenda affogata nel mondo mitologico di Camilleri, che vive di personaggi reali, trasfigurati nella sua grande fantasia di narratore. Una vicenda emblematica che disegna i tratti di una Sicilia arcaica e moderna, comica e tragica, ferocemente logica e paradossale ad un tempo. Il Casellante è il racconto delle trasformazioni del dolore della maternità negata e della guerra, ma è anche il racconto in musica divertito e irridente del periodo fascista nella Sicilia degli anni Quaranta. Il carattere affascinante di questo progetto, posto essenzialmente sulla novità del testo e della sua possibile realizzazione, si sposa tutt’uno con la possibilità di ricercare strade sempre nuove e diverse per la drammaturgia contemporanea. La parola, ed il giuoco che con essa e di essa è possibile intraprendere, fa di questo testo un oggetto naturale da essere iniziato e elaborato all’interno di un’alchimia teatrale vitale e creativa. Altro aspetto è quello della lingua di Camilleri. Una lingua personale, originalissima, che calca e ricalca, in una divertita e teatralissima sinfonia di parlate, una meravigliosa sicilitudine linguistica, fatta di neologismi, di sintassi travestita, di modi d’uso linguistico mutuati dal dialetto che esaltano la recitazione di possibili attori pensati a prestare i panni al mondo dei personaggi camilleriani. Giuseppe Dipasquale Moni Ovadia È considerato uno dei più prestigiosi e popolari uomini di cultura e artisti della scena italiana. Il suo teatro musicale, ispirato alla cultura yiddish che ha contribuito a far conoscere e di cui ha dato una lettura contemporanea, è unico nel suo genere, in Italia e in Europa. Noto per il suo costante impegno politico e civile a sostegno dei diritti e della pace, è un punto di riferimento per le giovani generazioni. Ovadia inizia l’attività teatrale vera e propria nel 1984, collaborando con personalità di primo piano come Pier’Alli, Bolek Polivka, Tadeusz Kantor, Giorgio Marini e Franco Parenti. Nel 1987 crea, con Mara Cantoni, Dalla sabbia e dal tempo in occasione del festival di Cultura Ebraica: è un modo per fondere le proprie esperienze di attore e musicista, dando vita alla proposta di un "teatro musicale" in cui ancora oggi opera la sua ricerca espressiva. Nel 1990 fonda la TheaterOrchestra e mette in scena Golem, presentato a Milano, Roma, Berlino, Parigi, New York. Nel 1993 si impone all’attenzione del grande pubblico con Oylem Goylem, una creazione di teatro musicale in forma di cabaret, osannato dalla critica e dal pubblico. Nel 1994 inizia il sodalizio artistico con Roberto Andò con cui mette in scena Frammenti sull’Apocalisse, Diario ironico dall’esilio (1995), Il caso Kafka (1997), Le storie del signor Keuner (2006-2007); nascono anche Dybbuk (1995), spettacolo sull’Olocausto, accolto come uno degli eventi principali della stagione, e Ballata di fine millennio (1996, con il Piccolo Teatro di Milano). Del 1998 è Mame, mamele, mamma, mamà con la TheaterOrchestra. Tra gli altri spettacoli degli anni Duemila: Konarmjia: L’armata a cavallo dal testo di Isaac Babel’ (2003); ); La bella utopia e Adesso Odessa, ancora da Babel’ (2013); Benvenuti nel Ghetto, ideato per il settantesimo anniversario dell’insurrezione nel Ghetto di Varsavia (2013); Le Supplici di Eschilo, al Teatro Greco di Siracusa (2015). Giuseppe Dipasquale Regista e autore teatrale, si diploma in Regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica "Silvio d’Amico". Lavora in teatro dal 1981 ed è stato fino allo scorso anno direttore del Teatro Stabile di Catania. Di lui si contano oltre quaranta regie. Per il Premio Borgese scrive e dirige Massimo Foschi e Mariella Lo Giudice in Per un ritratto dello scrittore, su testi di Sciascia e Borgese; segue Spiritus Mundi, opera in musica di Maurizio Squillante per il XXXIX Festival dei Due Mondi di Spoleto, sotto la direzione artistica di Gian Carlo Menotti; per il Teatro Stabile di Catania dirige: Sinfonie d’amore, di Giuseppe Fava, Il magnifico cornuto, di Fernand Crommelynck, La Cattura di Pirandello, scritto insieme a Camilleri, con Turi Ferro, Orestea, nella traduzione di Pier Paolo Pasolini; per il Teatro Eliseo di Roma: Il negozio all’angolo, musical di Bock, Masteroff, Harnick, con Paolo Ferrari; sempre per il Teatro Stabile di Catania: Il birraio di Preston, dal romanzo di Andrea Camilleri, Don Giovanni in Sicilia, di Vitaliano Brancati, con Mariano Rigillo, I Beati Paoli con Giulio Brogi e Pippo Pattavina, Troppu trafficu ppi nenti di A. Camilleri e G. Dipasquale, rifacimento di Molto rumore per nulla di William Shakespeare, Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello, con Pino Caruso, Cannibardo e la Sicilia di Andrea Camilleri con Massimo Ghini, che debutta al Festival dei Due Mondi di Spoleto diretto da Giorgio Ferrara, I Giganti della montagna di Luigi Pirandello con Vincenzo Pirrotta e Magda Mercatali; e ancora: Erano tutti miei figli di Arthur Miller, con Mariano Rigillo e Anna Teresa Rossini, Il giardino dei ciliegi di Anton Cecov, con Magda Mercatali, Re Lear di William Shakespeare, con Mariano Rigillo e Sebastiano Tringali, La Tempesta di Shakespeare per il Festival Internazionale Shakespeariano di Danzica (2006). Valeria Contadino Attrice catanese, si forma al teatro stabile di Catania iniziando la sua carriera giovanissima. Cresce sul palco a fianco di Ida Carrara, Giulio Brogi, Mariano Rigillo, Pippo Pattavina, Mariella Lo Giudice, Guia Ielo, Tuccio Musumeci, Marcello Perracchio, Gilberto Idonea. Nel 2004 per lo stesso ente catanese interpreta l’Allieva ne La lezione di E. Ionesco e Agnese ne La scuola delle mogli di Molière. Recita testi di autori contemporanei come Andrea Camilleri - Il birraio di Preston, La concessione del telefono e Troppu trafficu ppi nenti- spettacoli rappresentati in Italia e in Europa. Da quel momento inizia una fervida attività teatrale con produzioni nazionali che la vedono impegnata in lunghe tournée riscuotendo successi in prestigiosi teatri italiani. Lavora con registi come Walter Pagliaro, Maurizio Scaparro, Armando Pugliese, Giuseppe Dipasquale, Fabio Grossi, Claudio Di Palma, Vincenzo Pirrotta, Geppy Gleijeses, Alfredo Ariàs. Il 2013 la vede impegnata in tournée nazionale a fianco di Leo Gullotta nel ruolo di Titania nel Sogno di una notte di mezza estate di W. Shakespeare e ne L’avaro di Molière nel ruolo di Marianna, con Lello Arena. Tra le sue interpretazioni più note ricordiamo quelle di Iana ne La Governante di V. Brancati, regia di M. Scaparro, di Gwendalin ne L’importanza di chiamarsi Ernesto di O. Wilde, regia G. Gleijeses e di Anna in Se’ Nummari di Totò Rizzo, per la regia di Vincenzo Pirrotta; spettacoli tutti rappresentati in tournée nazionali. Recentemente è stata impegnata nella tournée de Il Bugiardo di C. Goldoni a fianco di Andrea Giordana, G. Gleijeses e Marianella Bargilli, e in Casa di bambola di H. Ibsen, regia di Maurizio Scaparro, nel ruolo di Nora. Mario Incudine Attore, musicista e autore di colonne sonore, è uno dei personaggi più rappresentativi della nuova world music italiana. Una crescita artistica partita dal successo dei suoi primi album, Terra e Abballalaluna (Egea), Beddu Garibbard e Anime Migranti (Finisterre/Felmay) e consacrata da pubblico e critica con il pluripremiato album Italia Talìa (Universal), secondo posto al “Premio Tenco 2013” e vincitore assoluto del Premio nazionale per la musica tradizionale “Città di Loano”. Conta svariate collaborazioni con i più importanti artisti italiani e internazionali della musica, del teatro e della danza, tra gli altri: Camilleri, De Gregori, Battiato, Dalla, Haber, Ghini. Mario Incudine si è esibito nei più prestigiosi festival di world music in Italia, Cina, Marocco, Tunisia, Algeria, Capoverde, Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Germania, Turchia, Romania, Siberia, Messico e Stati Uniti, collezionando nell’ultimo anno più di 100 concerti dal vivo. Voce dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium del Parco della Musica di Roma, è anche direttore dell’orchestra internazionale "7LuasOrkestra" e compone colonne sonore per il teatro, per la danza e per il cinema. Ha diretto con Moni Ovadia Le supplici di Eschilo, per il 51° ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, curandone anche la traduzione in siciliano e le musiche originali. È attore, compositore e regista dello spettacolo Il dolore pazzo dell’amore di e con Pietrangelo Buttafuoco. PER APPROFONDIRE Moni Ovadia. L'ironia di un testimone del tempo Salomone Ovadia, per tutti Moni, ebreo bulgaro nativo di Plovdiv ma residente pressoché da sempre in Italia, dove ha studiato, si è laureato e ha iniziato una carriera artistica straordinaria, quasi interamente volta alla conservazione e alla diffusione dell’antica cultura yiddish e dell’Europa dell’Est, lo scorso 16 aprile ha compiuto settant’anni. Gli rendiamo omaggio, in una stagione purtroppo segnata da odi e rancori d’ogni sorta, proprio per questa sua meritoria e infaticabile opera di ribellione al razzismo, in aperto contrasto con il pogrom morale che è stato riservato a quei popoli e a quelle etnie prima dai nazisti e poi da un Occidente chiuso, gretto e incapace di valorizzare la ricchezza di un’esperienza umana e sociale tra le più ricche al mondo. Artista ironico e auto-ironico, narratore dotato di una lucidità e di una profondità fuori dal comune e intellettuale poliedrico, si è distinto anche per alcune fortissime polemiche nei confronti di quelle comunità ebraiche, fra cui la sua di Milano, che giustificano acriticamente le politiche espansionistiche e feroci dell’estrema destra israeliana, a cominciare da quelle portate avanti dal governo Netanyahu, compiendo sistematiche mattanze come quella verificatasi due anni fa nella Striscia di Gaza. Uomo di sinistra ma lontano, anzi direi avulso, da ogni cliché tipico di una certa sinistra elitaria, Ovadia può essere considerato il classico giullare del popolo, una sorta di Dario Fo ebreo, dotato del coraggio necessario ad assumere posizioni spesso scomode e minoritarie. Con arguzia e toni quasi scanzonati, ci ha condotto e continua a condurci alla scoperta di un universo per molti di noi inedito e, proprio per questo, estremamente affascinante, facendoci scoprire le radici e il senso profondo di un insieme di valori che, in fondo, sono anche i nostri o, comunque, sono conciliabili con la nostra storia e la nostra tradizione, in questo grande mosaico di razze, etnie ed esperienze diverse, ma al tempo stesso complementari, che è il Vecchio Continente. Moni Ovadia e la passione politica, poi, perché siamo al cospetto di un artista impegnato e partecipe: al fianco dei lavoratori, della FIOM, delle battaglie civili in difesa della Costituzione e della libertà d’informazione, contro ogni forma di malvagità e di barbarie e al servizio di un’idea di società e di futuro che, se si affermasse, potrebbe guidarci fuori dal baratro di una crisi che non ci stancheremo mai di ripetere che non è solo economica. Nel 2014 si è persino candidato con la Lista Tsipras, al fine di favorire l’affermarsi di una concezione radicalmente alternativa di Europa (quella spinelliana, per l’appunto) rispetto all’orgia liberista che da trent’anni domina la scena pubblica, i dibattiti, i convegni e le decisioni dei vari governi, siano essi dichiaratamente di destra o falsamente di sinistra. Moni Ovadia che, a dispetto dei suoi settant’anni, possiede ancora la vitalità di un ragazzo continua a girare l’Italia e il mondo con i suoi spettacoli e la sua semplicità, così intrisa di quella leggerezza calviniana che è approfondimento senza pesantezza e spirito popolare senza mai scadere nella fatuità o nei luoghi comuni. Moni Ovadia e il suo ultimo libro: Il coniglio di Hitler e il cilindro del demagogo, a dimostrazione di come si possa essere eccezionali senza annoiare né porsi mai su un piedistallo. Un testimone del tempo e un punto di riferimento, in questa resistenza etica e psicologica al cinismo imperante e alla triste, e purtroppo diffusa, convinzione che non vi siano alternative ad esso. R. Bertoni, da: www.moniovadia.net Andrea Camilleri e il “Ciclo mitologico” Nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925, Andrea Camilleri vive da anni a Roma. Regista, autore teatrale e televisivo, ha scritto saggi sullo spettacolo. È sposato, ha tre figlie, quattro nipoti e una bisnipote. La mattina, appena alzato, gli piace "tambiasare" per una "mezzorata" circa, facendo tutte quelle cose inutili come raddrizzare un quadro, scorgere la copertina di un libro, etc. Durante gli anni della seconda guerra mondiale frequenta il liceo classico Empedocle di Agrigento ma non sostiene l'esame di maturità perché nel maggio 1943, a causa dell'imminente sbarco in Sicilia delle forze alleate, si decide che valga il solo scrutinio. Inizia quindi, come ricorda lo scrittore, "una sorta di mezzo periplo della Sicilia a piedi o su camion tedeschi e italiani sotto un continuo mitragliamento per cui bisognava gettarsi a terra, sporcarsi di polvere di sangue, di paura". Sin dal 1949 Camilleri lavora alla Rai come delegato alla produzione, regista e sceneggiatore; in queste vesti ha legato il suo nome ad alcune fra le più note produzioni poliziesche della TV italiana, come i telefilm del Tenente Sheridan e del Commissario Maigret, e a diverse messe in scena di opere teatrali, con un occhio di riguardo a Pirandello. Col passare degli anni affianca a questa attività quella di scrittore; è autore di importanti saggi "romanzati" di ambientazione siciliana, nati dai suoi studi sulla storia dell'Isola. La scrittura prende finalmente il sopravvento al momento dell'abbandono del lavoro come regista/sceneggiatore per sopraggiunti limiti di età (mai pensione fu più opportuna!). Nel 1978, dopo una decina d'anni di inutili ricerche di una casa editrice disposta a dargli credito, esordisce nella narrativa con Il corso delle cose (Lalli), pubblicato gratis, con l'impegno di citare l'editore stesso nei titoli dello sceneggiato TV che ne viene tratto; il libro però non viene notato praticamente da nessuno. Nel 1980 esce da Garzanti Un filo di fumo (riedito poi, come il primo, da Sellerio), primo di una serie di romanzi ambientati nell'immaginaria cittadina siciliana di Vigàta, a cavallo fra la fine dell''800 e l'inizio del '900. Ma è nel 1992, con l'apparizione (sempre da Sellerio, che pubblica la gran parte delle sue opere) de La stagione della caccia, che Camilleri diventa un autore di grande successo: i suoi libri, ristampati più volte, vendono ora mediamente intorno alle 60.000 copie. Oltre alle opere ambientate nella Vigàta di un tempo, da Il Birraio di Preston (1995) - il libro ai suoi tempi più venduto con quasi 70.000 copie - a La concessione del telefono (1999), ci sono i gialli della Vigàta odierna del Commissario Montalbano, con l'invenzione del quale arriva il grande successo (dal 1999 anche televisivo). Montalbano è il protagonista di romanzi (il primo è La forma dell'acqua, del 1994) e racconti che non abbandonano mai le ambientazioni e le atmosfere siciliane e che non presentano alcuna concessione a motivazioni commerciali o a uno stile di più facile lettura. Da anni ormai le indagini del sarcastico Commissario, nonché le atmosfere e il divertente e azzeccato linguaggio italo-siculo dei romanzi e dei personaggi di Camilleri, affascinano migliaia di lettori. Nei suoi romanzi l'intreccio poliziesco è fondamentale, ma è anche il pretesto per la creazione dei personaggi. L'aspetto e il carattere di questi è una parte del lavoro di creazione che Camilleri cura particolarmente. I protagonisti delle sue storie sono spesso infatti molto divertenti ed ironici; ma anche molto malinconici, e questo vale in misura maggiore per il Commissario Montalbano. La cosiddetta “Trilogia fantastica” di Camilleri inizia nel 2007 con la pubblicazione di Maruzza Musumeci, seguita nel giugno 2008 da Il casellante e si conclude con Il sonaglio nel marzo 2009 . Tale trilogia si discosta totalmente dai precedenti lavori dell’autore per il suo carattere fantastico, che nasce da certi paesaggi dell’infanzia descritti con toni lirici e fiabeschi. Così Camilleri crea, partendo dal rapporto uomo-natura, le metamorfosi che segnano i tre romanzi, quella della donna-sirena, della donnaalbero e della donna-capra. Il tema del fantastico è condotto sullo schema della fiaba e del tradizionale “cunto” siciliano, legato all’oralità, ad una lingua ricca d’invenzioni e nello stesso tempo ancorata al buon senso dei modi di dire e dei proverbi. Con una narrazione piena di colori e di profumi tipici della Sicilia e che non si allontana dalla consueta Vigata, si giunge ad un inaspettato meraviglioso, in cui gli uomini protagonisti scoprono il vero amore venendo a contatto con donne straordinarie, che si distaccano totalmente da quella passività alla quale la tradizione siciliana le aveva sempre ancorate. Sono donne che nascondono un segreto, ammaliatrici, ferine, ma allo stesso tempo fedeli e amorevoli. Donne che nascono dalla tradizione classica di Omero e Ovidio e che si evolvono nel corso degli anni, fino ai giorni nostri, quando autori come A.M. Ortese, T. Landolfi, M. Soldati e Tomasi di Lampedusa ne riprenderanno i tratti significativi per la costruzione di personaggi così uguali e diversi fra loro. Ma tali componenti arcaiche e fantastiche, in Camilleri, nascono e si legano indissolubilmente alla realtà, attraversata dai tragici eventi storici del XX secolo: le due guerre mondiali, il fascismo, l’arretratezza del Sud e le pessime condizioni in cui il popolo vive e che spingono le persone a qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Inoltre, non vanno dimenticate realtà rimaste uguali, allora come oggi: gli omicidi, gli stupri e la mafia, che elargisce protezione e aiuto in cambio di silenzi e favori. Sta proprio in questa duplicità tra reale e fantastico, meraviglioso e ordinario, il valore segreto del “ciclo mitologico” di Camilleri. Dal romanzo Verso le tri accomenzò a chioviri a leggio. Allora Nino annò a pigliar il paracqua granni che sutta ci stavano dù pirsone e glielo portò. Ma Minica non lo vosi. “L’acqua di celo aiuta l’àrbolo a mettiri foglie”. Questa povirazza primao po’ si piglierà ‘na purmunia che se la porterà ‘n paradiso, pinsò Nino. Ma non potiva faricci nenti. Chiamari il medico? E che potiva fari il medico? L’avrebbi fatta portari ‘n manicomio. Ma lui da Minica non si sarebbi separato mai, per nisciuna ragiuni al munno. L’unica era aiutarla. Quanno vinni la sera, pigliò dù pali di ligno, tagliò le cime a forcella e l’infilò nel tirreno allato a a Minica, uno a dritta e l’altro a manca, in modo che ci putiva appujare le vrazza quanno si stancava. “L’arboli in criscenza hanno bisogno di sustegno” le spiegò. Lei aggradì. E po’ si lassò mettiri d’incoddro il mantello di tila cirata che era in dotazioni a ogni casellante. E si vippi macari un cicarone di latti càvudo. Il jorno appresso, ch’era sabato matina, s’arrisbigliò che ancora faciva scuro e scinnì al pianoterra. Addrumò il foco, annò a mungiri la crapa, quadiò il latti, lo misi dintra al cicarone e lo portò a sò mogliere. Ma s’addunò che minica durmiva addritta appuiata a un palo. La toccò a leggio supra a ‘na gamma, la sintì tepita, non doviva aviri patuto tanto friddo. Minica però in quel momento raprì l’occhi. Lo taliò, ma non lo vitti, come spisso faciva nell’ultimi tempi. “Te lo piglitanticchia di latti càvudo?”. Lei con lintizza lo misi a foco e con la testa fici ‘nzinga di sì. Fu allura, mentri che viviva, che nino s’addunò che si era cacata e pisciata. Tornò in casa, pigliò la sponza e il sapuni, niscì, nell’orto inchì il cato, s’acculò e la lavò tutta. Doppo principiò a travagliare per lei. ‘Nfussonò quattro pali a fari quatrato, lassannoli àvuti in modo che supra alla testa di sò mogliere ci ristavano ‘na vintina di centilimetri; tra le cime dei quattro pali, acchianato supra a ‘na scala, fici un intreccio di fili di ferro e po’ annò a pigliare dal magazzino un rotolo di ‘ncannizzata che tagliò quanto gliene abbisognava e che attaccò con la raffia ai fili di ferro. Ora so mogliere aviva un tetto. Nel doppopranzo, siccome in magazzino cerano altri dù rotoli di ‘ncannizzata, li usò per fari tri pareti. La quarta, quella dalla parte del casello, la lassò libbira. Ora Minica stava dentro a ‘na speci di casuzza come a quella dei sordati quanno montavano la guardia. “L’àrboli in criscenza hanno bisogno di protezioni”. Lei gli sorridì. “Ma ora devi mangiare qualichi cosa”. Minica era troppo contenta per diri di no. Camilleri, Il casellante, ed. Selleri, Palermo 2008 Minica, la donna-albero Come fìmmina, non era né beddra né laida, aviva ’na facci da mogliere, ma era ’na gran tra vagliatrice. La casa sbrillucicava sempri come uno specchio, tirato a lucito. Cucinava bono e sapiva macari come fari renniri alla meglio l’orto. Minica Olivieri è una donna semplicissima, non ha nessuna caratteristica fisica che la renda superiore alle altre donne, seduttiva o ammaliante; è un personaggio che non ha particolari sogni o aspirazioni: tipica donna siciliana, è dedita alla casa e al marito. La fatica e il lavoro non la spaventano, è capace di fare qualsiasi cosa: cucinare, coltivare, allevare animali e cusirisi qualichi vistito, pirchì sapiva fari macari questo, o ad arriparari la robba di Nino, cammise, mutanne, quasette. Tutte qualità che certamente fanno onore, soprattutto nel periodo di guerra, durante il quale ogni capacità umana è utile per sopravvivere. Minica ha un solo desiderio, poter avere un figlio, ma la sterilità del marito non lo permette. Finalmente un giorno, grazie alle cure di una sensale, riesce a rimanere incinta, ma l’esperienza devastante dello stupro distrugge il suo sogno, la sua felicità e la sua salute mentale. È una donna estremamente fedele, che non cede né alle avance di un soldato perdutamente innamorato di lei, né a quelle del vicino Michele Barrafato. Ma è proprio questa lealtà verso il marito a costarle cara: viene brutalmente violentata e maltrattata, perde il bambino e con lui anche il lume della ragione. Dal momento in cui scopre che non potrà mai più avere figli, il suo atteggiamento cambia completamente: non parla quasi più, smette gradualmente di mangiare e non riesce a svolgere con lucidità anche le più semplici faccende domestiche. Come se insieme al bambino le fosse stata estirpata qualsiasi forza vitale, qualsiasi sentimento: di lei rimane ora solo un corpo vuoto. Appena le viene comunicata l’infausta notizia, non ha il minimo sussulto: la sua reazione è simile a quella della Niobe ovidiana, nel momento in cui vede morire la figlia più piccola. Niobe aveva avuto da suo marito, Anfione, re di Tebe, sette figli maschi e sette femmine, ed era tanto orgogliosa di loro che osò prendere in giro la dea Latona, la quale, invece, di figli ne aveva avuti solo due, Apollo e Artemide. Per l’oltraggio subito, Latona ordinò loro di vendicare l’offesa subita, uccidendo tutta la progenie della donna. Ben presto i quattordici giovani furono tutti assassinati e con loro morì anche Anfione. Niobe, davanti a quel massacro, rimase pietrificata, tutto ciò che la rendeva felice e fiera in un attimo era scomparso: non trasparivano da lei né odio né rabbia per i mandanti dell’omicidio, solo annichilimento muto e doloroso: “Senza più nessuno si sedette tra i cadaveri dei figli, delle figlie, del marito, e s’irrigidì per il dolore. Non un capello si mosse all’aria, sul volto un pallore mortale, gli occhi sbarrati sulle guance tristi; nulla di vivo c’era nella sua figura. Perfino la lingua – anche quella – le si era congelata dentro col palato indurito, e le vene avevano perso la capacità di pulsare. Il collo non poteva più piegarsi, le braccia non rispondevano più, il piede non poteva più camminare. Anche tra i visceri tutto era pietra.” (Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Pietro Bernardini Marzolla, Torino, Einaudi). Così anche Minica: Minica non chiangì né allura né appresso. A Nino parve che la sorgenti delle lagrime, dintra di lei, si era asciucata di colpo, doviva essiri addivintata tutta asciutta come il diserto. Non chiangì manco quella vota che, mentri cucinava, il cuteddro puntuto le cadì della mano e le si ’nfilò dritto nel pedi mancino. Niscì tanto sangue che Nino s’appagnò e accomenzò a darle adenzia con mano trimanti, e lo spirito col quali disinfittò a longo la firita doviva abbrusciare assà, ma lei nenti, né ’na lagrima né un lamento, né ai né bai. Tuttavia Minica non si dà per vinta, da questo momento in avanti, il suo unico obiettivo è quello di ritrovare un senso all’interno del mondo: come una novella Mirra, decide di diventare un albero, di mettere radici nelle profondità della natura per succhiarvi disperatamente la linfa della generatività. Il passaggio alla forma vegetale avviene per gradi, il primo vero passo è il rifiuto del cibo, accompagnato dal tentativo di farsi crescere le radici, per arrivare infine alla quasi totale perdita della parola e alla piena convinzione di essere un arbusto, ancora una volta in pericolo di essere sterile e quindi buono solo per la legna: Mangiava sempri di meno e quanno Nino arrinisciva a farli agliuttiri qualichi cosa, doppo tanticchia nisciva fora e vommitava. Spisso sinni stava nell’orto, ma non travagliava, non faciva nenti. Si stinnicchiava ’n terra e coi pedi nudi si mittiva a scavari il tirreno fino a quanno non li aviva completamenti ’nfussunati. «Basta con l’acqua, masannò t’arrifriddi!», «Dammi l’acqua, i radici si siccano!» Minica è profondamente convinta di questa sua decisione, non vuole sentire pareri contrari, desidera diventare un albero e allora diventerà un albero, a costo di sacrificare la propria vita. A niente servono i tentativi del marito di dissuaderla. Ad ogni sforzo di Nino, ad ogni sua contrarietà ad assecondare la follia della moglie, Minica oppone inizialmente la forza e successivamente una resistenza passiva: niente grida, niente lacrime, solo la decisione di esporsi al rischio di una lenta morte, come una pianta che non viene annaffiata ed è abbandonata al proprio destino: Vinni pigliato da ’na raggia orba. Senza parlari, si ghittò supra a so mogliere, l’agguantò per la vita, la sradicò, mentri Minica gli gracciava a sangue la facci con le deci dita, se la carricò, se la portò ’n casa, l’acchianò di supra, la ghittò nel letto e la pigliò a pagnittuna. Lei non chiangiva né si lamentiava, lo taliava con l’occhi sgriddrati […], ma Minica pariva non sintiri nenti, persa in un altro munno indove lui non sarebbe mai arrinisciuto ad arrivari. Nino capisce faticosamente che non può nulla contro la caparbietà della moglie e si convince che l’unico modo per mantenerla in vita e vederla ancora una volta felice è assecondare il suo volere; inizia allora ad occuparsi di lei come se fosse veramente un albero, finché un giorno si rende conto che la trasformazione sta veramente avvenendo; una trasformazione che, simile a quella di Mirra, inizia dai piedi ma che, diversamente da quest’ultima, qui si ferma, rimanendo incompiuta: le dita, in punta, avivano perso ugna, pelli e carni e ammostravano lo scheletro. Erano come un paro di quasette sfunnate che lassano nesciri fora le dita. Solo che ccà inveci vinivano fora l’ossiceddri, fini fini, tanticchia giallusi e cummigliati a tratti di macchiuzze virdi, ’na speci di muschio. Sinni stavano piegati e avivano già artigliato il tirreno. Tuttavia è proprio questa metamorfosi ad innalzare Minica da donna semplice, moglie di un casellante, a creatura nella quale si nasconde qualcosa di magico, di speciale. Il vero miracolo, quello capace di far sì che Minica possa finalmente recuperare il suo posto nel mondo, è dato, alla fine della vicenda, da un agente esterno: il ritrovamento di un bambino, il quale restituisce immediatamente la donna alla sua stessa rinascita, all’esistenza piena della madre, al gusto della parola e del sorriso. DALLA RASSEGNA STAMPA Spoleto59, successo per il debutto de Il Casellante di Andrea Camilleri con Moni Ovadia. Al San Nicolò Teatro, storie di fascismo, barbieri, corna e buoni sentimenti nella Vigata degli anni ’40, di Carlo Vantaggioli, tuttoggi.info, 26 giugno 2016 Ha debuttato al San Nicolò Teatro Il Casellante, riduzione teatrale dell’omonimo racconto di Andrea Camilleri, con la regia di Giuseppe Dipasquale e protagonista Moni Ovadia. Il lavoro è frutto della collaborazione tra il Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano e il Comune di Caltanissetta. Per il debutto ufficiale della piece era presente a Spoleto anche il sindaco della città siciliana, Giovanni Ruvolo. Prima dell’apertura di sipario, Ruvolo, il sindaco di Spoleto, Fabrizio Cardarelli, Dipasquale, Giorgio Ferrara e lo stesso Moni Ovadia, hanno spiegato agli spettatori che hanno gremito il teatro, l’importanza della collaborazione tra le istituzioni primarie sul territorio, come i comuni, e chi produce seriamente cultura, intesa come fatti o eventi che possono arricchire un territorio ed i suoi abitanti. Il testo di Camilleri, già dopo le prime battute in scena, inizia ad avere un ritmo riconoscibilissimo e l’uso del dialetto siciliano, seppure molto mitigato rispetto alla lingua originale, fa subito volare il pensiero alla famosa serie televisiva del Commissario Montalbano. Anche se l’associazione tra le due cose potrebbe avere in sé il germe della eccessiva facilità, tuttavia bisogna riconoscere che quel progetto televisivo ha consentito un approccio decisamente diverso con i piccoli microcosmi isolani, al punto da rendere la mitica Vigata come il cortile di casa nostra. Ed è proprio tra Vigata e Castelvetrano che si svolge la storia de Il Casellante, in un periodo storico che è immerso nel fascismo sino agli stivali. Racconta il programma di sala: Il Casellante è, fra i racconti di Camilleri, uno dei più struggentemente divertenti del ciclo cosiddetto mitologico. Secondo a Maruzza Musumeci e prima de Il Sonaglio, questo racconto ambientato nella Sicilia di Camilleri, terra di contraddizioni e paradossi, narra la vicenda di una metamorfosi. Ma questa Sicilia è la Vigàta di Camilleri che diventa ogni volta metafora di un modo di essere e ragionare le cose di Sicilia. Dopo il successo ottenuto dalle trasposizioni per il teatro de Il birraio di Preston, La concessione del telefono, che insieme a La Cattura, Troppu trafficu ppi nenti, La Signora Leuca, Cannibardo e la Sicilia costituiscono la drammaturgia degli ultimi anni, l’autore del romanzo e il regista dell’opera tornano nuovamente insieme per riproporre al pubblico teatrale nazionale una nuova avventura dai racconti camilleriani. Una vicenda affogata nel mondo mitologico di Camilleri, che vive di personaggi reali, trasfigurati nella sua grande fantasia di narratore. Una vicenda emblematica che disegna i tratti di una Sicilia arcaica e moderna, comica e tragica, ferocemente logica e paradossale ad un tempo. Il Casellante è il racconto delle trasformazioni del dolore della maternità negata e della guerra, ma è anche il racconto in musica divertito e irridente del periodo fascista nella Sicilia degli anni Quaranta. Il carattere affascinante di questo progetto, posto essenzialmente sulla novità del testo e della sua possibile realizzazione, si sposa tutt’uno con la possibilità di ricercare strade sempre nuove e diverse per la drammaturgia contemporanea. La parola, ed il giuoco che con essa e di essa è possibile intraprendere, fa di questo testo un oggetto naturale da essere iniziato e elaborato all’interno di un’alchimia teatrale vitale e creativa. Altro aspetto è quello della lingua di Camilleri. Una lingua personale, originalissima, che calca e ricalca, in una divertita e teatralissima sinfonia di parlate una meravigliosa sicilitudine linguistica, fatta di neologismi, di sintassi travestita, di modi d’uso linguistico mutuati dal dialetto che esaltano la recitazione di possibili attori pensati a prestare i panni al mondo dei personaggi camilleriani. Determinante il cast degli attori-musicisti presenti al San Nicolò. In testa Moni Ovadia, ormai testimonianza vivente della cultura Yiddish e del Teatro musicale. Da sempre impegnato in politica, Ovadia diventa mattatore nella storia di Camilleri, passando con grande fluidità attraverso i molti caratteri previsti in scena, inclusa una opulenta mammana dai seni improbabili. Una scena esilarante, come anche quella della serenata La Crapa avi li corna, in cui l’arcaismo di cui si parla nel programma di sala ha diretta rappresentazione. Con Ovadia un gruppo di musicisti-attori, di grande bravura: Antonio Vasta, Antonio Putzu, Mario Incudine, autore delle musiche di scena, e la intensa Valeria Contadino nella parte di Minica. In scena anche gli attori Sergio Seminara e Giampaolo Romania. Poche battute di inizio e si è già catapultati in un luogo nevralgico della vita “altrui” in una località come Vigata: la bottega di barbiere del paese. Intorno a questa e al suo animatore, il barbiere demiurgo-Moni Ovadia, si dipana una storia agrodolce condita di musiche, gag, serenate sulle corna di paese, drammi personali (lo stupro di Minica e la perdita del figlio che ha in grembo) e canzoni del fascio ridotte in mazurca di periferia. Una piece gradevole, costruita perfettamente da Giuseppe Dipasquale e molto partecipata dal pubblico di Spoleto59, che al termine tributerà lunghi applausi. Debutta "Il casellante", la Sicilia va a Spoleto con Camilleri, di Filippo Ilardo, palermo.repubblica.it, 25 giugno 2016 25 giugno 2016 Valeria Contadino, Mario Incudine e Moni Ovadia. Arriva un pezzo di Sicilia al Festival dei due mondi di Spoleto. Tratto dall’omonimo testo di Andrea Camilleri, Il Casellante debutterà oggi al Festival dei Due mondi di Spoleto. La regia è curata dall’ex direttore dello Stabile Giuseppe Dipasquale, che dopo Il birraio di Preston e La concessione del telefono, La Cattura, Troppu trafficu ppi nenti, La Signora Leuca, Cannibardo e la Sicilia, torna a mettere in scena un testo di Camilleri. Protagonista maschile sarà Moni Ovadia, direttore della Stagione del Teatro Regina Margherita di Caltanissetta, dove in questi mesi lo spettacolo è stato allestito e dove sarà riproposto il 29 giugno. Insieme a lui sulla scena, Mario Incudine, che firma anche le musiche originali, Valeria Contadino, Sergio Seminara, Giampaolo Romania e i musicisti Antonio Vasta e Antonio Putzu.“La riduzione teatrale, - dichiara il regista Dipasquale - realizzata insieme a Camilleri, mira a rendere la credibilità drammaturgica di questo testo forte e delicato: un grido della donna che subisce violenza, una metafora di estrema attualità. Si è tenuto il filo della narrazione come se gli accadimenti dei personaggi fossero usciti in quel momento dalla pagina. È un'operazione nuova rispetto a quelle finora messe in scena, che fa emergere l'espressività linguistica, fortemente teatrale dell'autore, una lingua che viene fuori dalla memoria ancestrale del dialetto, rielaborato in chiave colta”. Lo spettacolo segna anche il consolidamento del sodalizio artistico tra l'artista Moni Ovadia e Mario Incudine, iniziato con Le supplici nella scorsa edizione delle Rappresentazioni Classiche dell’Inda a Siracusa. “La mia collaborazione con Mario sta attraversando diversi progetti - spiega Moni Ovadia protagonista dello spettacolo - ma prima che un sodalizio artistico si tratta di un sodalizio umano, fondato sulla stima profonda e reciproca che ci lega. Questo dimostra che il futuro del teatro sta nell’alleanza generazionale che porta ad uno scambio fatto di apertura e fiducia, di complicità: io mi apro alla sua istintività, lui si fida della mia esperienza. È un dono per la vita avere incontrato alla mia età un compagno di viaggio come Mario, attore prodigioso, cantante supremo, dotato di una vena compositiva fresca e piena di gagliardia, un giovane pieno di energia, di gioia, di luce”. Nel testo di Camilleri la musica ha una forte funzione narrativa: il protagonista Nino e l'amico, suonatori provetti rispettivamente di mandolino e di chitarra, trascorrevano le domeniche suonando nella barberia del paese. “Anche nello spettacolo – aggiunge Moni Ovadia- la musica ha una valenza drammaturgica preminente, che ha trovato espressione grazie anche all’estro compositivo di Mario Incudine, di cui io canto alcune canzoni, come quelle dedicate al mondo della barberia. Ne esce rafforzata la relazione tra musiche e parole e risalta in modo più evidente l'inventiva linguistica di un autore come Camilleri, che sulla scia di Gadda e Joyce, ha dato vita ad un ineguagliabile sperimentalismo. Avere in bocca le sue parole è un grande privilegio”. Come in Maruzza Musumeci, che si trasforma in sirena, Minica, la protagonista femminile del Casellante, tenterà di trasformarsi in albero. “Camilleri – dichiara Valeria Contadino – ha una visione amorevole e forte della donna, come colei che è capace di sublimare il dolore attraverso la rinascita, che riesce a tirare fuori, anche dalla violenza e dalla maternità interrotta, l'altro da sé. Minica, tra le macerie della guerra, trova un bambino e lo mette al seno, scoprendo nella maternità la vera essenza femminile; la sua metamorfosi, che richiama il mito di Dafne, non è compiuta, ma è un tentativo che richiama la capacità, tipica dell'elemento femminile, di trasformare la morte in vita, il dolore in mutamento.”