visualizza - Ordine dei Medici Veterinari della provincia di Brescia

selezione della stampa internazionale
a cura di Gianfranco Panina
I moderni vaccini veterinari
L
a conditio sine qua non per un vaccino è che esso sia
innocuo e sufficientemente efficace. Differenti, tuttavia, sono le condizioni che si pongono per un vaccino
destinato agli animali da compagnia rispetto a quello
da impiegarsi negli animali da produzione. Reazioni
indesiderate sono più accettabili negli animali da produzione, purchè il vaccino dia una buona protezione all’allevamento in toto, mentre le stesse reazioni sono meno
accettabili negli animali da compagnia, dove l’obiettivo
è la salute del singolo animale.
Questa situazione non è disgiunta da un fattore economico. Infatti, se un vaccino non risponde al meglio o se
il suo costo viene ritenuto troppo alto esso non troverà
applicazione negli allevamenti, in particolare in quelli che
hanno un basso margine di profitto, come gli aviari. Al
contrario, nel campo degli animali da compagnia, che
un vaccino oltre ad essere efficace sia di basso costo non
riveste altrettanta importanza.
Di conseguenza, mentre la domanda di un vaccino innocuo è equivalente sia per gli animali da produzione che
per quelli da compagnia, la qualità dei vaccini destinati a
quest’ultimi può variare considerevolmente. Spesso, essi
non sono valutati con sufficiente rigorosità e i dati a supporto della loro efficacia sono incompleti o insufficienti.
Gli stessi veterinari pratici frequentemente non hanno
una preparazione che permetta loro una valutazione
critica dei dati relativi all’innocuità e all’efficacia di un
vaccino, ammesso che quei dati siano disponibili. Non è
raro, infatti, che lo sviluppo di un vaccino avvenga solo
su basi empiriche e, in tal caso, un vaccino può risultare
solo occasionalmene efficace.
Una legislazione e una regolamentazione esistono, ma
esse non sono sufficientemente adeguate. Da qui l’auspicio dell’Associazione Americana dei Medici Veterinari che
si istituisca un comitato internazionale, analogo a quello
esistente per la medicina umana, deputato a valutare
innocuità, efficacia e durata dell’immunità di ogni vaccino veterinario, registrando nel contempo ogni reazione
indesiderata.
rochete e dei dermatofiti.
Vaccini DNA - Una tecnologia incoraggiante deriva dal
rapido sviluppo di metodiche atte all’isolamento dei
geni della virulenza dei patogeni, alla loro inserzione
in appropriati vettori virali e all’inoculazione nei tessuti
muscolari dell’ospite al fine di permettere la codifica degli
antigeni della virulenza e la stimolazione della risposta
dell’ospite.
Batteri e lieviti vettori - Nell’ultima decade, batteri e lieviti sono stati utilizzati per trasferire gli antigeni ai tessuti
linfoidi dell’ospite. La capacità di certe salmonelle di localizzarsi nei tessuti linfoidi intestinali, come le placche di
Peyer, è stata sfruttata per sviluppare vaccini per l’uomo
e per gli animali.
Alimenti ricombinanti - Malgrado le perplessità e anche le proibizioni che si manifestano nei riguardi degli
alimenti geneticamente modificati, sono state di recente
create piante transgeniche commestibili, quali banane o
patate, introducendo i geni codificanti gli antigeni della
virulenza di alcuni patogeni. La prospettiva è quella di
immunizzare per via orale un vasto numero di animali, a
costi contenuti.
Vaccini anti-idiotipi - Lo sviluppo degli anticorpi monoclonali offre la possibilità di produrre anticorpi contro gli
stessi siti che fissano l’antigene (anti-idiotipi). Pertanto,
l’immunizzazione di un ospite con anticorpi monoclonali
può potenzialmente indurre nel recipiente una protezione
contro i determinanti della virulenza di un patogeno, senza esposizione all’agente o agli antigeni della virulenza.
Fino ad oggi la tecnica non ha trovato pratica applicazione. Una delle ragioni sta nel fatto che la reattività verso
un singolo antigene di virulenza è raramente efficiente nel
proteggere verso la malattia. La necessità di un cocktail di
anticorpi monoclonali diretti verso differenti marcatori di
virulenza riduce l’applicabilità del metodo.
Vaccini subunitari e multi-combinazioni - Esistono
ampie dimostrazioni in letteratura circa l’efficacia dei
vaccini multivalenti. Tuttavia, se è dimostrato che un
antigene può avere un effetto adiuvante sulla risposta
immunitaria ad un altro antigene co-somministrato,
alle volte può realizzarsi un effetto opposto, cioè soppressivo. La recente realizzazione di vaccini subunitari
ha portato ad un approfondimento delle eventuali reazioni indesiderate, in particolare reazioni autoimmuni
verso i tessuti dell’ospite, legate alla somministrazione
di più vaccini subunitari in una sola preparazione. Certe reazioni di questo tipo sarebbero state osservate in
militari americani geneticamente predisposti, sottoposti all’inoculazione di vaccini subunitari multipli. Poichè
tale reattività non ha in genere un’insorgenza acuta,
Attuali approcci all’immunizzazione
Vaccini tradizionali - Quelli che trovano impiego in veterinaria sono costituiti da batteri o virus inattivati o vivi
attenuati, da peptidi subunitari e sintetici, nonchè da
tossoidi. Alcuni miglioramenti sono stati introdotti negli
ultimi anni, coniugando alle metodiche tradizionali nuove
tecnologie, ma anche grazie all’identificazione di nuovi
gruppi di antigeni immunostimolanti. Progressi risultano
evidenti soprattutto nell’ambito delle clamidie, delle spi-
I
selezione della stampa internazionale
reazioni di questo tipo sono di difficile identificazione
negli animali da produzione, data la loro breve vita.
Sono peraltro di difficile identificazione nella popolazione degli animali da compagnia, essendo essa frammentata fra più proprietari.
Adiuvanti - L’industria è da tempo impegnata nella ricerca
di nuovi mezzi capaci di potenziare la risposta agli antigeni
vaccinali. Tra le vie più promettenti si possono citare la tossina colerica e le citochine. La tossina colerica, meglio ancora una sua subunità geneticamente modificata, è risultata
efficace in esperimenti di vaccinazione orale. Le citochine,
somministrate per via orale, sembrerebbero in grado di
modulare la risposta immunitaria attraverso una stimolazione e un’espansione dei tessuti linfoidali mucosali.
Carter P.B., Carmichael L.E. (2003) Modern veterinay vaccines and the Shaman’s apprentice.
Comp. Immunol. Microbiol. Infect. Dis. 26, 389-400
I virus pox come vettori di vaccino
L
a scoperta di Jenner del 1798 ha gettato le basi dell’immunologia. Nel giro di due secoli, essa ha portato
all’eradicazione mondiale del vaiolo, a seguito di una
campagna di vaccinazione su scala mondiale. Paradossalmente, proprio negli anni in cui si raggiungeva l’eradicazione del vaiolo (anni ‘80) si assistette ad un’esplosione
di interesse per il virus vaccinia e altri poxvirus, derivante
dall’applicazione della genetica molecolare per clonare e
per esprimere geni estranei tramite virus pox ricombinanti, che risultano particolarmente idonei a un utilizzo come
vaccini. Infatti:
1- sono stabili quando vengono liofilizzati come vaccino,
sono di basso costo e di facile preparazione e somministrazione;
2- i vaccini possono essere somministrati per varie vie,
inclusa quella orale, come dimostrato dalla vaccinazione delle volpi selvatiche;
3- i vaccini inducono risposte sia anticorpali che di celluleT citotossiche verso antigeni estranei, con prolungata immunità dopo una singola inoculazione;
4- i poxvirus presentano un genoma ampio e flessibile, il
che permette vaste delezioni o vari inserimenti di DNA
estraneo, con il risultato di creare vaccini multivalenti;
5- l’uso di poxvirus ricombinanti come vaccino permette
una discriminazione tra animali vaccinati e naturalmente infetti, poichè il vaccino ricombinante possiede un
quadro di antigeni differente da quello dei patogeni.
Un fattore limitante all’uso dei virus pox ricombinanti
come vaccini risiede nella possibile preesistente immunità verso il virus pox vettore, considerando anche che i
membri della famiglia Poxviridae sono fra loro antigenicamente correlati.
Ad oggi, numerosi vettori sono stati costruiti partendo soprattutto da virus vaccinia e da avipoxvirus, ma anche da
virus pox del suino, della pecora, della capra, della lepre
e da virus parapox.
Principali vettori pox
Vaccinia virus - Si tratta del virus che ha permesso l’eradicazione del vaiolo nell’uomo. La vaccinazione, condotta
per quasi due secoli, consisteva nell’inoculazione per via
intradermica del virus vaccinia. L’intervento è risultato relativamente innocuo; al di là della tipica pustola al punto di
inoculazione, sono state rarissime le complicazioni, registrate per lo più nei bambini o nei soggetti immunodepressi.
In tempi recenti, per un possibile uso come vettore di antigeni estranei, si è ricorsi a processi idonei ad aumentarne
l’innocuità, quali la delezione di alcuni geni coinvolti nel
metabolismo dell’acido nucleico o passaggi in ospiti innaturali o in colture di tessuto.
Il virus vaccinia, come altri poxvirus, ha la capacità di rimanere infettante per un considerevole periodo di tempo
nei materiali essicati. Poichè esso può infettare un gran
numero di specie animali ed è stata dimostrata la trasmissione del virus da uomini recentemente vaccinati ad animali selvatici e domestici, non va trascurato il rischio che
il virus vaccinale infetti accidentalmente altre specie. Per
esempio, per dimostrare l’innocuità del virus ricombinante vaccinia-rabbia, la sua patogenicità fu studiata in oltre
50 differenti specie di mammiferi e uccelli che potevano
venire a contatto con le esche vaccinali.
È probabile che in futuro molti vettori derivati da virus
vaccinia troveranno impiego nell’uomo e negli animali
come vaccini profilattici o curativi. Non vi è dubbio che
così facendo si svilupperà un’immunità anche verso i vettori e ciò potrebbe interferire con una susseguente vaccinazione che impieghi un vettore omologo. Per evitare tale
inconveniente, si dovrà ricorrere a differenti combinazioni
di vettori e/o a differenti vie di immunizzazione.
Il primo vaccino ricombinante basato su un vettore poxvirus
ad essere stato utilizzato nel campo, è stato il vaccino ricombinante vaccinia-rabbia, con il quale sono state condotte
alcune campagne di vaccinazione orale delle volpi, su larga
scala. Il vaccino si è dimostrato innocuo ed efficace.
II
selezione della stampa internazionale
Malgrado la moltiplicazione di avipoxvirus sia ristretta
alle specie aviarie, i ceppi attenuati sono risultati vettori
efficaci ed estremamente innocui per i mammiferi. È stato
infatti dimostrato che l’inoculazione in cellule di mammifero di ricombinanti basati su avipox conduce alla
espressione del gene estraneo e che l’inoculazione nei
mammiferi induce immunità protettiva. Questa osservazione è abbastanza sorprendente e prospetta un vettore
assolutamente innocuo, da potersi impiegare anche in
individui che esibiscono un’immunità verso il virus vaccinia. Negli ultimi dieci anni sono stati prodotti numerosi
virus ricombinanti partendo da un ceppo attenuato di
virus pox dei canarini. Due vaccini per gatti, allestiti con
questa tecnologia, sono stati già autorizzati dall’Unione
Europea.
Avipoxvirus - Trattasi di virus che replicano nelle sole specie aviarie; sono stati isolati da un gran numero di specie,
quali polli, canarini, piccioni, pinguini, quaglie ed altre. I
ceppi selvatici possono causare serie malattie nelle specie
loro ospiti naturali. Possono infettare altre specie, ma non
sono state segnalate conseguenze patogene. Il ceppo del
piccione risulta naturalmente attenuato per i pulcini e per
questa ragione è stato usato come vaccino in quest’ultima
specie. Ceppi attenuati di avipoxvirus sono stati ottenuti con
centinaia di passaggi su fibroblasti di embrione di pollo.
Considerando la possibilità di utilizzare un vettore derivato da avipox per la preparazione di un vaccino per
polli, la scelta dovrebbe cadere su un ceppo attenuato,
per ridurre il rischio e le eventuali conseguenze di una
diffusiuone nell’ambiente e ad altre specie.
Pastoret P.P., Vanderplasschen A. (2003) Poxviruses as vaccine vectors. Comp. Immunol. Microbiol. Infect. Dis. 26, 343-355
Differenti fenotipi molecolari nella BSE
F
ino ad oggi si è sempre pensato che l’encefalopatia
spongiforme bovina (BSE), causa molto probabile
della variante della malattia di Creutzfeld-Jakob (vCJD)
nell’uomo, fosse sostenuta da un unico agente infettante,
con una struttura stabile e uniforme, anche nel caso di
trasmissione ad altre specie.
Nell’ambito delle ricerche routinarie con test rapido che
vengono eseguite in Francia per svelare l’eventuale presenza nei bovini del prione della BSE, sono stati evidenziati fenotipi molecolari atipici in tre animali di età avanzata, che non avevano mai presentato sintomi di BSE, nel
corso della loro vita.
I tre casi mostravano un profilo elettroforetico della proteina prionica proteasi-resistente (PrPres), accumulata nel
cervello, inusuale se paragonato a quello di 55 casi tipici
di BSE. In tutti e tre i casi era evidente una maggiore
massa molecolare di PrPres non glicosilata e una intensa
colorazione con l’anticorpo molecolare P4.
Alcune ipotesi possono essere avanzate per spiegare
questa osservazione.
Il fatto descritto potrebbe essere una manifestazione
spontanea dell’agente BSE che sviluppa nel bovino
differenti strutture molecolari. I meccanismi coinvolti in
tale fenomeno non sono noti. Tuttavia, cambiamenti di
PrPres sono stati recentemente descritti a seguito della
trasmissione del prione bovino (BSE) a topi transgenici
esprimenti la proteina prionica umana. Il fenomeno non
si è realizzato inoculando gli stessi topi transgenici umani
con prione umano (vCDJ). È probabile che alla base dei
casi descritti vi siano differenze genetiche, relative ai geni
dei prioni, tra i bovini atipici e la popolazione bovina, in
grado di dar luogo a varianti dei profili elettroforetici di
PrPres. È noto, peraltro, che la sequenza del gene umano
PRNP influenza la struttura molecolare di PrPres, nel caso
di malattia umana sporadica di Creutzfeld-Jakob (CJD).
Secondo un’altra ipotesi, i bovini con PrPres anomala
potrebbero essersi infettati con un’altra fonte di agente
infettante, per esempio derivato da pecore e capre, cioè
scrapie. L’infezione sperimentale di bovini con un ceppo
britannico naturale di scrapie, ricavato da pecora, ha
portato a simili differenze nei profili elettroforetici di PrPres, comparati a quelli tipici dei bovini colpiti da BSE. Si
potrebbe arguire che alcuni casi di BSE siano comparsi
anche in bovini che non hanno avuto alcuna possibilità
di infettarsi con farine di carne. Secondo l’ipotesi oggi
maggiormente accettata, all’origine della BSE vi è stato
il riciclaggio nei bovini dell’agente della scrapie, ma
l’infezione diretta dei bovini da parte di questo agente
potrebbe anche essersi realizzata, così come avviene
in natura tra pecore e capre, che possono infettarsi per
contatto o attraverso una contaminazione ambientale.
Infine, partendo dall’osservazione che differenti profili di
PrPres sono stati evidenziati tra uomini colpiti da malattia
spontanea (CJD) o da variante (vCJD), si potrebbe supporre che una forma spontanea rara di queste malattie
potrebbe esistere anche nei bovini, ed essere all’origine
dell’epidemia di BSE.
Biacabe A., Laplanche J., Ryder S., Baron T. (2004)
Distinct molecular phenotypes in bovine prion diseases. EMBO Reports 5 (1), 110-115
III
selezione della stampa internazionale
Infusione di lattoferrina idrolisato
nelle mammelle bovine con mastite subclinica
L
a lattoferrina (LF) è una glicoproteina legante il ferro,
presente in molte secrezioni mucosali dei mammiferi.
Essa gioca un importante ruolo di prevenzione nei primi
stadi di infezione della mammella, ritardando la proliferazione batterica. Questa attività antimicrobica viene
attribuita alla capacità della LF di legare e sequestrare il
ferro, realizzando così un ambiente deficiente di ferro che
limita la crescita microbica. La concentrazione di LF nel
latte bovino prodotto da mammelle con mastite clinica
o subclinica risulta più elevata rispetto al latte normale.
Inoltre, la concentrazione di LF nel latte bovino mastitico
varia in relazione al tipo di patogeno presente.
Nel corso di un esperimento, si è voluto valutare l’effetto terapeutico della somministrazione di lattoferrina
idrolisato (LFI) nella mammella di bovine con mastite
subclinica. LFI è stato prodotto trattando LF bovina con
pepsina suina. La scelta dell’idrolisato si è basata su una
precedente segnalazione, secondo cui l’attività antimicrobica dell’idrolisato enzimatico di LF risulterebbe da 8 a
25 volte maggiore di quella della LF.
L’esperimento fu condotto su 37 bovine con mastite subclinica, animali cioè senza segni evidenti di mastite, ma con un
numero di cellule somatiche nel latte superiore a 300.000/
ml. Campioni di latte furono prelevati da 50 quarti e coltivati
su terreno idoneo allo sviluppo di batteri causa di mastite.
Un totale di 28 ml di LFI (7% di proteina) venne infuso in
ognuno di 35 quarti di 25 bovine con mastite subclinica.
Per la precisione, vennero infusi 7 ml per ogni quarto, a 12
ore di intervallo, per 2 giorni. I restanti bovini funsero da
controlli, infusi con soluzione fisiologica. Mammelle batteriologicamente negative vennero infuse con LFI o con siero
fetale di vitello (SFV) per verificare l’effetto della proteina.
Risultati e conclusioni
A seguito della somministrazione di LFI, il numero di batteri
presenti nel latte dei quarti infetti andò diminuendo, fino a
scomparire al 14° giorno. La media dei conteggi delle cellule
somatiche (CCS) presentò il massimo valore 1 giorno dopo
la somministrazione di LFI, quindi diminuì gradualmente; a
7, 14 e 21 giorni i valori medi di CCS nel latte dei quarti di
bovine con mastite subclinica risultarono significativamente
più bassi rispetto a prima della somministrazione di LFI.
La concentrazione di LF nel latte raggiunse il suo massimo a 2-3 giorni, ritornando a valori uguali a prima del
trattamento al 14° giorno.
Per due giorni dopo somministrazione di LFI si osservò in
tutte le mammelle un lieve gonfiore, accompagnato dalla
presenza di coaguli nel latte, fenomeni che scomparvero
gradualmente.
Il CCS nel latte delle bovine normali aumentò dopo somministrazione di LFI o SFV, con picchi al 2°-3° giorno. Il
valore massimo raggiunto dopo somministrazione di LFI
risultò superiore di 5 volte al valore raggiunto dopo somministrazione di SFV.
Da quanto sopra si può concludere che la somministrazione di LFI può avere effetto terapeutico allorquando
viene infusa nei quarti di bovine con mastite subclinica.
Tuttavia, resta non chiarito il meccanismo di azione di
LFI. Esso potrebbe essere associato a una stimolazione
della migrazione dei neutrofili e a un potenziamento del
rilascio di LF da parte dei neutrofili e del tessuto epiteliale
mammario. In questo caso, la LF giocherebbe un ruolo
antibatterico e contribuirebbe all’inibizione della crescita
batterica nella ghiandola mammaria.
Kawai K., Nagahata H., Lee N.Y., Anri A., Shimazaki K. (2003)
Effect of infusing Lactoferrin Hydrolysate into bovine mammary glands with subclinical mastitis. Vet. Res. Comm. 27 (7), 539-548
Bioterrorismo e malattie infettive degli animali
S
i legge nelle cronache dell’epoca, che nell’anno
801 Grimoaldo, duca di Benevento, nel corso di
una lunga guerra contro l’imperatore Carlomagno,
abbia inviato in Baviera “homines cum pulveribus, quos
spargent per campos et montes, prata et fontes et de
ipso sparso pulvere mori boves”. È questa certamente
la prima testimonianza di un atto di “agro-terrorismo”,
perpetrato 1200 anni fa per combattere un nemico,
spargendo materiali infetti, probabilmente da virus della peste bovina.
IV
selezione della stampa internazionale
Nessun altro episodio fu in seguito descritto fino al XX
secolo, quando nel corso della prima guerra mondiale
le nazioni belligeranti si attrezzarono con colture batteriche idonee a diffondere malattie, quali il carbonchio
e la morva, fra gli allevamenti dei Paesi che rifornivano
di carni i nemici, cosa che peraltro avvenne con risultati
incerti.
Anche durante la seconda guerra mondiale furono
condotti esperimenti mirati a questo scopo, con vari
agenti infettanti. Non sembra, tuttavia, che le nazioni
belligeranti siano andate oltre le intenzioni, ben espresse in uno scritto di un esponente dell’esercito tedesco,
allorquando scrisse sul Volkszeitung che “per vincere la
guerra, una nazione deve disporre di un patogeno altamente virulento, da poter essere sparso sul nemico e di
un vaccino particolarmente efficace contro di esso”.
Oggi, le moderne tecnologie hanno messo a disposizione di batteriologi, anche di modesta preparazione,
tecniche di produzione di grandi quantità di materiale
patologico da cui allestire bombe biologiche di particolare efficacia distruttiva. Studi recenti hanno messo in
evidenza che le conseguenze dell’uso delle bombe biologiche potrebbero essere non inferiori a quelle derivanti
da una guerra nucleare. Non a caso si parla di “bomba
atomica dei poveri”, considerando l’effetto devastante,
la relativa facilità di produzione e il basso costo di una
bomba biologica, rispetto a una convenzionale.
Di importanza non trascurabile è l’azione sugli animali
degli agenti zoonosici che sono candidati ad una guerra
biologica diretta contro la popolazione umana. Rovistando nei documenti relativi alle guerre, calde o fredde, del passato più recente, emerge l’interessamento di
diversi Stati alla creazione di ordigni bellici in grado di
diffondere aereosol contenenti gli agenti eziologici di
patologie quali il botulismo, la peste, la tularemia, la
febbre Q, la febbre emorragica virale, l’encefalite equina venezuelana, la febbre della Rift Valley, la morva e il
carbonchio. Quest’ultimo è ritenuto oggi l’arma biologica favorita dai bioterroristi. Le spore di Bacillus anthracis sono resistenti al calore, alle basse temperature, ai
disinfettanti, all’essicamento prolungato, fattori che ne
favoriscono la possibilità di essere diffuso nell’ambiente
tramite una bomba biologica, capace di dar luogo al
carbonchio, nelle sue varie forme, sia nell’uomo che
negli animali.
I patogeni sopra elencati possono oggi essere prodotti
in grandi quantità, per moltiplicazione in vivo o in vitro,
da personale non particolarmente specializzato e in
strutture relativamente semplici. Peraltro, le nuove tecniche biotecnologiche permettono la produzione di microrganismi totalmente nuovi, con nuove caratteristiche
di virulenza e con alta capacità di diffondere. Si pensi
alla possibilità, oggi ancora teorica, di produrre un virus
ricombinante influenza-rabbia; si tratterebbe certamente della peggior arma possibile, in grado di produrre
disastri incalcolabli su vasti territori.
I patogeni candidati a bombe biologiche
Lungo è l’elenco dei patogeni che potrebbero essere
usati dai bioterroristi per colpire la salute degli animali
di un dato territorio o più semplicemente per abbassare
o distruggere le produzioni animali, con gravi ripercussioni sull’economia di una nazione.
I candidati a una guerra biologica appartengono, per
lo più, alla c.d. lista A dell’OIE. Sono patogeni in grado
di provocare malattie particolarmente pericolose, trasmissibili, a rapida diffusione e con riflessi negativi rilevanti sull’economia e sulla salute pubblica. Sono l’afta
epizootica, la peste bovina, la peste suina africana, la
peste suina classica, la malattia di Newcastle, l’influenza aviaria, ma anche, secondo lo studio recente di un
gruppo di esperti ad hoc, bluetongue, peste dei piccoli
ruminanti, stomatite vescicolare, pseudorabbia, rabbia,
pleuropolmonite contagiosa bovina.
Precauzioni
La prima precauzione sta nel promuovere accordi nazionali e internazionali, allo scopo di raggiungere un
consenso sul non-sviluppo o sulla non-proliferazione di
armi biologiche. Nel 1975, 141 Paesi hanno ratificato
una convenzione (Biological and Toxin Weapons Convention) mirata alla riduzione del potenziale di armi
biologiche, impegnandosi a periodici incontri tesi al
miglioramento dell’accordo.
Una seconda misura consiste nella creazione di una
rete di specialisti in grado di approfondire di continuo
le conoscenze sull’argomento e di tenere sotto speciale
sorveglianza, tramite le Nazioni Unite, gli impianti o i
gruppi sospetti di produrre armi biologiche.
Blancou J., Pearson J. E. (2003) Bioterrorism and infectious animal diseases. Comp. Immunol. Microbiol. Infect. Dis. 26, 431-443
V
selezione della stampa internazionale
Valutazione dell’analgesia nei gatti
P
oco si sa circa l’uso degli analgesici nei gatti. Carenti
sono le indicazioni relative al loro miglior dosaggio
e spesso, nella pratica clinica, il trattamento del dolore
nei gatti risulta inadeguato. Allorquando si ricorra ad
una analgesia, spesso il dosaggio è empirico o basato
sull’estrapolazione di dati derivati da altre specie, che
possono essere inappropriati sia in termini di farmacocinetica che di farmocodinamica. La paura poi di reazioni
indesiderate porta spesso al non ricorso a trattamenti
antidolore, dopo traumi chirurgici.
Al fine di portare un contributo all’argomento, fu condotto uno studio degli effetti analgesici di tre sostanze
oppioidi, su otto gatti domestici adulti. Questi furono
inoculati con morfina (0,2 mg/kg), buprenorfina (0,01
mg/kg) e butorfanolo (0,2 mg/kg) e l’effetto analgesico
fu valutato rilevando la reattività degli animali ad un
blando e transitorio stimolo termico, capace di indurre
dolore, trasmesso all’animale tramite un speciale sonda
termica fissata sulla cute. I gatti furono testati dopo 5, 30,
45 e 60 minuti e 2, 4, 6, 12 e 24 ore dall’inoculazione
intramuscolare dell’analgesico.
Tutte le sostanze testate aumentarono la soglia termica
in modo significativo. Marcate differenze si registrarono
soprattutto nel tempo di comparsa dell’effetto analgesico
e nella sua durata.
L’effetto analgesico comparve: con il butorfanolo dopo 5
minuti, con la morfina tra 4 e 6 ore, con la buprenorfina
tra 4 e 12 ore. Sintomi di blanda sedazione e di marcata
euforia, perdurarono per 30 minuti nei gatti trattati con
butorfanolo, per 2-3 ore in quelli trattati con morfina e
per oltre 24 ore in alcuni di quelli che avevano ricevuto
buprenorfina. Nessun animale presentò disforia. Midriasi
persistente per alcune ore fu osservata con le tre sostanze. Tutti i gatti che ricevettero morfina vomitarono nel giro
di 10 minuti.
I risultati di questa sperimentazione indicano che la durata dell’analgesia indotta dai tre oppiacei, testati alle
dosi indicate, risulta come la più breve quella indotta
dal butorfanolo, seguita dalla morfina e quindi dalla buprenorfina. Si tratta di risultati in accordo con quanto si
rileva all’osservazione clinica: il butorfanolo deve essere
somministrato ripetutamente per ottenere un’adeguata
analgesia postoperatoria; la buprenorfina induce una migliore analgesia postoperatoria rispetto alla morfina, una
differenza che può essere messa in relazione alla maggiore durata dell’azione analgesica della buprenorfina.
L’ampia variabilità nelle risposte dei singoli gatti può mascherare le differenze esistenti tra l’intensità degli effetti
analgesici delle sostanze oppioidi. Da qui la necessità di
disporre di metodiche sempre più raffinate che rendano
possibile la misurazione di tali differenze.
Robertson S.A., Taylor P.M., Lascelles B.D.X., Dixon M.J. (2003) Changes in thermal threshold response
in eight cats after administration of buprenorphine, butorphanolo and morphine. Vet. Rec. 153, 462-465
Ipocolesterolemia in cani aggressivi
I
n medicina umana, molti studi riferiscono una correlazione importante tra sierolipidi e stati psicopatologici
quali la schizofrenia, la depressione e l’aggressività. Lo
stesso è stato osservato nei primati. Va ricordato al proposito che il colesterolo è particolarmente abbondante
nel sistema nervoso, dove riveste una certa importanza
a livello sia di struttura che di funzione cellulare. Esso influisce sulla fluidità e sulla permeabilità delle membrane
cellulari, nonchè sui processi di scambio.
Al fine di accertare se anche nel cane esiste una correlazione plausibile tra livello di sierolipidi e aggressività, è
stata condotta una ricerca su campioni di siero prelevati
da 20 cani con problemi comportamentali, di differente
peso, razza, sesso ed età. Il grado di aggresività venne
stabilito sulla base di un questionario compilato dai
proprietari degli animali, comprendente 30 diverse
situazioni in cui il cane poteva aver manifestato aggressività. I valori di sierolipidi ottenuti vennero paragonati
a quelli rilevati in un gruppo di cani di controllo ritenuti
non-aggressivi.
L’indagine portò alla valutazione di: colesterolo totale
(TC), trigliceridi, lipoproteine alta densità (HDL-C), lipoproteine bassa densità (LDL-C), rapporto TC/HDL.
I risultati ottenuti da “cani aggressivi/cani non aggressivi”
furono i seguenti:
- TC (mmol/l): 2,58/4,26
VI
selezione della stampa internazionale
- Trigliceridi (mmol/l): 0,32/0,5
- HDL-C (mmol/l): 1,66/3,12
- LDL-C (mmol/l): 1;15/0,89
- TC/HDL-C: 2,332/1,372
I valori riportati, elaborati statisticamente, permisero di
concludere che il livello serico di TC era significativamente
più basso nei cani aggressivi, rispetto a quello dei cani non
aggressivi. Lo stesso può dirsi dei trigliceridi e di HDL-C.
Penturk S., Yalcin E. (2003) Hypocholesterolaemia in dogs with dominance aggression. J. Vet. Med. 50, 339-342
Decontaminazione degli attrezzi personali
usati per la lavorazione delle carcasse bovine
N
egli impianti di macellazione, la pulizia di attrezzi
personali come guanti, grembiuli, coltelli, acciaini, utilizzati nel corso della preparazione delle carni, è
lasciata alla discrezione dei singoli addetti. Si tratta di
attrezzature che spesso non vengono sufficientemente
lavate e che possono essere fonte di contaminazione
batterica dei prodotti carnei lavorati.
Partendo da questa considerazione, è stato condotto uno
studio mirato a determinare le condizioni microbiologiche delle attrezzature personali dei lavoratori addetti alla
macellazione e alla preparazione delle carni bovine.
L’indagine è stata condotta in uno stabilimento che lavorava circa 280 bovini per ora e dove usualmente, alla
fine di ogni giornata lavorativa, il personale addetto lavava gli attrezzi personali semplicemente con acqua corrente o spray. Gli stessi attrezzi non venivano ulteriormente
lavati all’inizio del lavoro del giorno seguente. Ai fini
dell’indagine, nello stabilimento furono raccolti, a caso,
campioni di: grembiuli di rete d’acciaio, grembiuli di
gomma, guanti di rete d’acciaio, foderi, coltelli, acciaini
e ganci. I campioni prelevati vennero sottoposti ad esame
batteriologico alla fine del giorno lavorativo, ma anche
dopo immersione, per tempi diversi, in un tank contenente acqua calda, mantenuta a diverse temperature.
Gli esami colturali eseguiti sugli attrezzi dopo l’usuale lavaggio da parte del personale, misero in evidenza la presenza di microrganismi nella maggior parte dei campioni. La carica batterica risultò: aerobi fino a oltre 1 milione
di colonie per attrezzo; coliformi e Escherichia coli fino a
10.000 e 1000 colonie per attrezzo, rispettivamente.
Dopo trattamento degli attrezzi mediante immersione per
60 secondi in acqua riscaldata a 83° C il numero di aerobi risultò di molto inferiore rispetto al numero rilevato su-
gli stessi attrezzi lavati, ma non trattati con acqua calda.
Tuttavia, coliformi ed E. coli, seppur in numero ridotto,
furono evidenziati su alcuni attrezzi.
Da quanto sopra si deduce che le procedure di lavaggio normalmente utilizzate per pulire gli attrezzi
personali sono insufficienti per rimuovere i batteri. Si
impone pertanto un trattamento di decontaminazione,
che tuttavia non è così facile da mettersi in atto nelle
condizioni della pratica. Infatti, esso dovrebbe comportare la raccolta di tutti gli attrezzi personali alla fine di
una lavorazione e la restituzione degli stessi agli addetti
dopo il trattamento. La cosa non sembra trovare il gradimento degli operatori data la difficoltà di ritornare ad
ognuno esattamente i loro personali attrezzi e ciò per
andare incontro al desiderio degli operatori stessi che
lamentano difficoltà ad adattarsi a nuove attrezzature.
Bisogna pertanto fornire agli operatori la possibilità di
applicare essi stessi, sul posto e all’inizio e alla fine di
un giorno lavorativo, un semplice processo di decontaminazione, tale da non rallentare i processi di macellazione e lavorazione delle carcasse.
Dai risultati sopra esposti emerge che con un trattamento consistente nell’immersione degli attrezzi personali in
acqua riscaldata a 83° C circa, applicato di routine per
pochi secondi durante i processi di lavorazione delle
carni, è possibile ridurre di molto il numero di batteri
presenti e controllare così la contaminazione dei prodotti
lavorati. Tuttavia, la persistenza di un numero, seppur
basso, di coliformi e di E.coli, riscontrata su certi attrezzi
personali, sta ad indicare che trattamenti ben più energici
sarebbero necessari per realizzare una completa decontaminazione.
Gill C.O., McGinnis J.C. ( 2003)
Decontamination of cleaned personal equipment used during beef carcass processing. Food Prot. Trends 23 (6), 474-479
VII
selezione della stampa internazionale
Gli ultrasuoni nell’industria alimentare
L
e tecniche più comunemente utilizzate per inattivare
i microrganismi nei prodotti alimentari sono la pasteurizzazione e la sterilizzazione termica. Tuttavia, esiste
una crescente domanda di metodiche che abbiano un
ridotto impatto sui componenti nutrizionali e sulla qualità
dell’alimento in genere. Negli anni recenti, l’industria
alimentare ha scoperto che gli ultrasuoni possono avere
una varietà di applicazioni nella lavorazione dei prodotti
alimentari, con vantaggi non trascurabili nei riguardi
della qualità.
Gli ultrasuoni sono suoni con frequenza superiore a 20
kHz (frequenza limite dei suoni udibili nell’uomo, ndr). La
loro potenziale capacità ad inattivare i microrganismi si
propose negli anni ‘60 allorquando si notò che le onde
sonore usate dai sommergibili per scopi bellici uccidevano i pesci. Quando durante il processo di sonicazione
un’onda sonora incontra un mezzo liquido, si creano
regioni in cui si alternano compressione ed espansione.
Questi cambiamenti di pressione causano cavitazione,
con formazione di bolle di gas nel mezzo liquido. Da qui
deriva l’effetto battericida degli ultrasuoni, il cui meccanismo consiste prevalentemente in un assottigliamento
delle membrane cellulari, in un riscaldamento localizzato
e nella produzione di radicali liberi.
L’efficacia del trattamento con ultrasuoni dipende dal
tipo di batterio trattato. I microrganismi (specialmente
le spore) sono relativamente resistenti e in tal caso per
rendere un prodotto innocuo sono necessari periodi di
ultrasonicazione prolungati. Nella pratica risulta conveniente associare agli ultrasuoni altri trattamenti, quali la
pressione (manosonicazione), il calore (termosonicazione) o ambedue (manotermosonicazione). Altri fattori che
possono influenzare l’efficienza dell’inattivazione microbica nell’industria alimentare sono l’ampiezza delle onde
ultrasoniche, il tempo di esposizione/contatto, il volume
di alimento da trattare, la composizione dell’alimento e
la temperatura di trattamento.
Come sopra accennato, il successo degli ultrasuoni
nell’inattivazione dei microrganismi dipende, in parte,
dall’organismo da trattare. Ad oggi, ricerche sono state condotte con Listeria monocitogenes, diversi ceppi di
Salmonella spp., Escherichia coli, Staphylococcus aureus,
Bacillus subtilis e pochi altri microrganismi.
- Listeria monocitogenes. Prove sperimentali hanno evidenziato che l’inattivazione avviene soltanto combinando gli
ultrasuoni con altri trattamenti. Per esempio, con temperature fino a 50° C non si ha un’efficiente effetto inattivante,
che si manifesta invece andando oltre questo valore.
- Salmonella spp. Esperimenti condotti su frammenti di
pelle di pollo come mezzo hanno dimostrato una scarsa
efficienza della sonicazione, forse perché questo trattamento crea una maggiore disponibilità per i microrganismi di sostanze nutrienti estratte con la sonicazione
stessa. L’associazione del cloro con la sonicazione è risultata particolarmente efficiente nel ridurre la popolazione
batterica, rispetto al trattamento con uno solo degli stessi
trattamenti. Si può concludere che la sonicazione potenzia
l’effetto sterilizzante di una soluzione di cloro. Un effetto
riducente la flora batterica si è osservato anche trattando
il latte scremato e le uova. In queste ultime risulta maggiore la resistenza dei microrganismi, probabilmente per
un effetto protettivo verso la cavitazione, conferito dalla
maggiore viscosità del mezzo.
- E. coli. In mezzo acquoso, l’effetto degli ultrasuoni risulta particolarmente efficace. L’inattivazione non è tanto
funzione dell’intensità degli ultrasuoni, quanto del tempo
di trattamento. Effetti benefici sono stati ottenuti sia nel
trattamento degli alimenti che dell’acqua. In quest’ultima, l’effetto battericida risulta potenziato dall’aggiunta
di particelle solide (granuli di ceramica, particelle metalliche, carbone attivato) che aumentano la cavitazione
durante la sonicazione.
- B. subtilis. Un effettiva azione antimicrobica è stata
osservata in numerosi studi, che hanno preso in considerazione diversi mezzi (acqua distillata, latte, glicerolo).
L’effetto della termosonicazione con acqua come mezzo
ha portato ad una riduzione della resistenza al calore
delle spore pari al 70-99,9% a 70-95° C. Ricorrendo alla
manotermosonicazione la resistenza al calore delle spore
fu ridotta a 1/10 rispetto al solo trattamento con calore.
Per concludere, la tecnologia degli ultrasuoni potrebbe
trovare notevoli applicazioni nel futuro dell’industria
alimentare. Al momento attuale, i soli ultrasuoni non
sembrano idonei alla distruzione totale dei batteri presenti in una preparazione alimentare, ma certamente
promettente si prospetta il loro uso in combinazione con
la pressione e/o il calore. Proprio l’associazione con il
calore potrebbe accelerare la velocità di sterilizzazione di
un alimento, riducendo così sia la durata che l’intensità
del trattamento termico e dei danni ad esso conseguenti.
In aggiunta, si prospettano altri vantaggi, quali una riduzione della perdita di sapore, una più elevata omogeneità del prodotto e un significativo risparmio di energia.
Piyasena P., Mohareb E., McKellar R.C. (2003)
Inactivation of microbes using ultrasound: a review. Int. J. Food Microbiol. 87, 207-216
VIII