Metamorfosi della relazione Padre/Figlio
I. Siddhartha
Del principe irrequieto
La prima figura che vorrei evocare è quella del principe Siddhartha, il personaggio che diventerà il Buddha quattro secoli prima di Cristo.
Sembra che la storia delle religioni indoeuropee sia attraversata da un paio
di avventi. Due personaggi trasfigurano il proprio nome come segno di un
rito di passaggio. Una soglia interiore viene da quel momento indicata come
accessibile a ogni uomo. Siddhartha divenne il Buddha, e Gesù il Cristo.
Due grandi portatori della possibilità umana di auto-trascendimento.
Dal nome all’aggettivo
Quando Siddhartha compie il percorso che lo porta a diventare il Buddha,
“Buddha” non è un nome ma un aggettivo. Significa “risvegliato” e al culmine di questo percorso lascia agli uomini l’indicazione che la natura di Buddha,
la possibilità del risveglio, risiede nell’interiorità di ogni uomo. Che ogni
essere umano ha la facoltà di accedere a una differente coscienza di sé.
Analogamente per Gesù, il Cristo. Cristo è colui che è “unto”, eletto. Un
atto che può compiersi grazie all’olio aromatico.
Si potrebbe dire che, interpretando questi grandi messaggi religiosi, come
il Buddha abita nell’occhio intuitivo di ogni uomo dopo di lui, il Cristo
Risorto prende rifugio in ogni cuore umano dell’epoca dopo-Cristo.
Questi due individui esemplari si trasfigurano. Affrontano su di sé una
metamorfosi. Si trascendono in modo esemplare. E indicano a ogni uomo
questa possibilità.
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Francesco Pazienza
Siddhartha e la bocca di Krishna
Cominciamo a guardare più da vicino il principino.
Proporrò Siddhartha come l’emblema dell’Adolescente cosmico.
Per misurare tutta la radicalità di questa immagine vorrei prima evocare
sullo sfondo la figura di Krishna.
Se Siddhartha è l’adolescente cosmico, Krishna è il bambino cosmico.
Le immagini di cui disponiamo di Krishna sono riconducibili a una polarità fondamentale: il puer o il senex. Nell’aspetto senex è la quintessenza
della saggezza sublime quando appare come interlocutore di Arjuna nella
Bhagavad Gita.
L’altro aspetto, meno noto agli occidentali, lo troviamo nei Puranas. È
quello della religiosità popolare. Lo riconosciamo qui, ai nostri giorni, grazie
alla stilizzazione del movimento Hare Krishna.
Krishna non è mai adulto. Prima è il puer aeternus. Poi si trasfigura nel
senex della Bhagavad Gita. Ritroviamo il bimbo Krisna nei panni del vecchio
saggio cocchiere-traghettatore verso l’auto-trascendimento. Colui che mostra
la visione cosmica. La scena guardata dall’alto. Da un’altitudine vertiginosa.
Come transitare dal puer al senex senza passare da una normale adultità?
Saltando a piè pari l’adolescenza che ne è l’iniziazione?
Ma tutto questo, come mi accingo a mostrare, aveva ancora a venire.
Adolescenza e adultità sono nozioni relativamente recenti. La loro affermazione costituisce la posta in gioco di questa riflessione.
Guardiamo ora più da vicino il Krishna puer.
Un giorno [Krishna] giocava con Balarama nel cortile e mangiò un poco di
creta; uno dei suoi compagni lo riferì a Yasoda, che accorse con una bacchetta
per batterlo. Ma egli s’era lavata la bocca e negò spudoratamente il fatto.
Malgrado ciò Yasoda insisté per guardargli in bocca: ma, quando egli l’aprì,
quel che ella dentro vi vide era l’intero universo, il triplice mondo. Allora
ella si disse: “Come sono sciocca a pensare che il Signore del triplice mondo
possa essere mio figlio”. Ma Visnu aveva di nuovo velato la sua testa divina
e Yasoda carezzò il bimbo e lo riportò a casa.1
1
S. Nivedita e A. Kumarasvami, Miti dell’India e del Buddhismo, tr. it. Laterza, Bari 1980, p. 183.
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Metamorfosi della relazione Padre/Figlio
La bocca spalancata del bambino diventa la finestra sul cosmo: il cielo
stellato. Nelle tradizioni dell’antico Induismo, così come in molte altre forme
di pensiero immaginativo, il cielo stellato è il cranio di quell’organismo (analogo al microcosmo del corpo umano) che indichiamo come macrocosmo.
La calotta stellare diventa la calotta cranica e viceversa. Il cranio dell’universo. E la bocca spalancata di Krishna ne segna la soglia.
Sarà così anche nell’insegnamento del senex della Bhagavad Gita, ma ciò
che per il bimbo è una commovente magia che genera incanto e stupore,
per il senex è una voragine spaventosa e abissale.
Vedo Te – dalle braccia possenti – con innumerevoli bocche e occhi stellati,
con infinite mani e gambe adorne di piedi di loto. L’immensa voragine della
Tua bocca, con i denti del giorno del giudizio, si spalanca a ingoiare i mondi
intorno che si dissolvono, e lascia in me un puro e gioioso timore reverenziale.
Vedendo la Tua immensità tutti i mondi rimangono esterrefatti, e anch’io!2
Il bambino assorbe la contraddizione senza precipitare nell’angoscia.
Territorio di residenza dell’adolescenza, nella sua forma fin caricaturale.
Basso continuo, tessitura ritmica soggiacente alla coscienza adulta, che impara a contenerla più o meno elegantemente.
E anche noi rimetteremo le armi della critica canticchiando Hare Krisna!
Per concludere, come Yasoda, che siamo stati sciocchi a pensare…
Finché non ci imbatteremo nella figura del principe Siddhartha e del suo
elegante portamento.
E si noti bene: l’adolescente non è mai elegante, è sempre goffo e maldestro! Non è nelle sue corde. Come un bambino non soffre la contraddizione.
Siddhartha è, per questo, l’ideale, il sogno proibito di ogni adolescente.
Compie con eleganza e in maniera efficace ciò che ogni adolescente
vorrebbe compiere, ciò che costitutivamente gli manca.
Dell’adolescente attuale in questa immagine troveremo l’aspirazione spasmodica a lasciare la casa del padre. Al poggiare solo su se stesso. Al cercare
la verità con le sole proprie forze.
Che cosa c’è alle spalle di questo primo adolescente, di questo germoglio di Adolescente cosmico?
2
Arjuna, in Bhagavad Gita, XI, 23.
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Francesco Pazienza
Alle spalle di Siddhartha c’è tutta la sapienzialità del miglior Induismo
antico. Se dovessi esprimerla in una sola frase, direi che è il cielo morale
per cui l’unico vero peccato è l’impazienza.
La sublime irrequietezza
Siddhartha, invece, brilla proprio per la sua sublime impazienza. Esprime
una divina irrequietezza. Il principino, al culmine del suo percorso, arriverà
a vedere che tutto è impermanente. Ma dove sta il problema, per l’antico
Induismo che ci lasciamo alle spalle, se la durata, il tempo vissuto, non è
che illusione? La durata è una esperienza dell’individuo. L’antico Induismo
è vaccinato da sempre dalla contaminazione del virus dell’individualizzazione.
Ma perché poi questo principino era così impaziente di raggiungere
l’Illuminazione se il tempo e lo spazio, in fondo, sono solo illusioni? Basterebbe sollevare il velo di Mahaya?! Perché l’impazienza, se ogni attimo,
per altra via, può avere accesso a una trascendenza nell’eterno che fa svanire la durata dell’apprendistato come una illusione?
Guardando più attentamente la cosa, oggi, non abbiamo difficoltà a ricostruire l’origine di questa irrequietezza.
La madre muore sette giorni dopo il parto e il padre riceve la profezia
sul destino di suo figlio e vi si oppone con tutte le sue forze. La profezia
indica un destino grandioso che lo allontana dalle sue origini, o come asceta
o come monarca universale. Il padre vede il trono vacante, vede l’angoscia
che il figlio gli avrebbe arrecato… Lo reclude in un giardino di delizie nascondendogli tutte le brutture della vita. La vicenda è nota…
Si può riconoscere in questo giardino il campo di una gigantesca rimozione operata dal padre per non perdere il figlio.
Ma sappiamo bene che la rimozione ha le gambe corte ed esiste qualcosa
che la psicanalisi definisce ritorno del rimosso. La prima volta che il principino, iperprotetto ma irrequieto, esce dal palazzo, è giocoforza che incontri
un vecchio, la seconda un malato, la terza un morto. Incontra i limiti della
condizione umana che si era cercato di occultargli.
Così il nostro principe costituisce il primo grande archetipo dell’adolescente perché da quel palazzo scappa. Fugge per cercare la verità con le sue
sole forze. Non sa che farsene di una verità o di una felicità calate dall’alto.
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Metamorfosi della relazione Padre/Figlio
Non hanno smesso di provarci ancora i nostri ragazzi. Magari con minore
fortuna. Sicuramente con poca eleganza.
Questo è lo sfondo su cui si staglieranno sia Siddhartha, portatore di un
germoglio di individualità, sia Gesù che diverrà il Cristo, portatore del fiore
interamente sbocciato dell’individualità umana. Profeti e pionieri di questo
processo misterioso. Entrambi trasformeranno gli antichi ordini, portatori di
modelli di una individualità collettiva: rispettivamente la casta indiana e il
popolo eletto ebraico. Di entrambi osserveremo lo sviluppo nell’età giovanile,
una età intermedia appunto tra il puer e il senex.
Ascoltiamo ora nel suggestivo racconto di Hermann Hesse come per la
prima volta un giovane trovi il passo per un cammino autonomo. Si tratta
della prima fogliolina di una pianta di cui studieremo la metamorfosi. Studiando questa pianta, ripercorreremo insieme la storia della libertà umana.
A sera, dopo l’ora dell’osservazione, Siddhartha comunicò a Govinda: “Domani
mattina per tempo, amico mio, Siddhartha andrà dai Samana. Diventerà un
Samana anche lui”
A queste parole Govinda impallidì, e nel volto immobile dell’amico lesse la
decisione, inarrestabile come la saetta, scagliata dall’arco. Subito, al primo
sguardo, Govinda si rese conto: ora comincia, ora trova Siddhartha la sua
via, ora comincia il suo destino a germogliare, e con il suo il mio. E divenne
pallido, come una buccia di banana secca.
“O Siddhartha,” esclamò “te lo permetterà tuo padre?”.
Siddhartha sollevò lo sguardo, come uno che si ridesta. Fulmineamente lesse
nell’anima di Govinda: vi lesse la paura, vi lesse la dedizione.
“O Govinda,” rispose sommessamente “è inutile sprecar parole. Domani all’alba comincerò la vita del Samana. Non parliamone più”.
Siddhartha entrò nella camera dove suo padre sedeva sopra una stuoia di
corteccia, s’avanzò alle sue spalle e rimase là, fermo, finche suo padre s’accorse che c’era qualcuno dietro di lui. Disse il Brahmino: “Sei tu, Siddhartha?
Allora di’ quel che sei venuto per dire”.
Parlò Siddhartha: “Col tuo permesso, padre mio. Sono venuto ad annunciarti
che desidero abbandonare la casa domani mattina e recarmi fra gli asceti.
Diventare un Samana, questo è il mio desiderio, voglia il cielo che mio padre
non si opponga”.
Tacque il Brahmino: tacque così a lungo che, nella piccola finestra le stelle
si spostarono e il loro aspetto mutò, prima che venisse rotto il silenzio nella
camera. Muto e immobile stava ritto il figlio con le braccia conserte, muto e
immobile sedeva il padre sulla stuoia, e le stelle passavano in cielo. Finalmente
parlò il padre: “Non s’addice a un Brahmino pronunciare parole violente e
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Francesco Pazienza
colleriche. Ma l’irritazione agita il mio cuore. Ch’io non senta questa preghiera una seconda volta dalla tua bocca”.
Il Brahmino si alzò lentamente; Siddhartha restava in piedi, muto, con le
braccia conserte.
“Che aspetti?”, chiese il padre.
Disse Siddhartha: “Tu lo sai”
Irritato uscì il padre dalla stanza, irritato cercò il suo giaciglio e si coricò.
Dopo un’ora, poiché il sonno tardava, il Brahmino si alzò, passeggiò in su e
in giù, uscì di casa. Guardò attraverso la piccola finestra della stanza, e vide
Siddhartha in piedi, con le braccia conserte: non s’era mosso. Come un pallido
bagliore emanava dal suo mantello bianco. Col cuore pieno d’inquietudine, il
padre ritornò al suo giaciglio.
E venne di nuovo dopo un’ora, venne dopo due ore, guardò attraverso la
piccola finestra, vide Siddhartha in piedi, nel chiaro di luna, al bagliore delle
stelle, nelle tenebre. E ritornò ogni ora, in silenzio, guardò nella camera,
vide quel ragazzo in piedi, immobile, e il suo cuore si riempì di collera, il
suo cuore si riempì di disagio, il suo cuore si riempì d’incertezza, il suo
cuore si riempì di compassione. Ritornò nell’ultima ora della notte, prima
che il giorno spuntasse, entrò nella stanza, vide il giovane in piedi, e gli parve
grande, quasi straniero. “Siddhartha”, chiese “che attendi?”.
“Tu lo sai”.
“Starai sempre così ad aspettare che venga giorno, mezzogiorno e sera?“.
“Starò ad aspettare”.
“Ti stancherai, Siddhartha”.
“Mi stancherò”.
“Ti addormenterai, Siddhartha”.
“Non mi addormenterò”.
“Morirai, Siddhartha”.
“Morirò”.
“E preferisci morire, piuttosto che obbedire a tuo padre?”.
“Siddhartha ha sempre obbedito a suo padre”.
“Allora rinunci al tuo proposito?”.
“Siddhartha farà ciò che suo padre gli dirà di fare”.
Le prime luci del giorno entravano nella stanza. Il Brahmino vide che Siddhartha tremava leggermente sulle ginocchia. Nel volto di Siddhartha, invece,
non si vedeva alcun tremito: gli occhi guardavano lontano. Allora il padre
s’accorse che Siddhartha non abitava già più con lui in quella casa: Siddhartha
l’aveva già abbandonato.
Il padre posò la mano sulla spalla di Siddhartha. “Andrai nella foresta,” disse
“e diverrai un Samana. Se nella foresta troverai la beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione, ritorna: riprenderemo insieme
a sacrificare agli dèi. Ora va’ a baciare tua madre, dille dove vai. Ma per me
è tempo d’andare al fiume e di compiere la prima abluzione”.
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Metamorfosi della relazione Padre/Figlio
Tolse la mano dalla spalla di suo figlio, e uscì. Siddhartha barcollò, quando
provò a muoversi. Ma fece forza alle sue membra, s’inchinò davanti al padre
e andò dalla mamma, per fare come suo padre aveva prescritto.
Quando alle prime luci del giorno, lentamente, con le gambe indolenzite,
lasciò la città ancora silenziosa, un’ombra, ch’era accucciata presso l’ultima
capanna, si levò e s’unì al pellegrino: Govinda.
“Sei venuto”, disse Siddhartha, e sorrise.
“Sono venuto”, disse Govinda.3
Possiamo pensare a una sfera in cui abiti la volontà del padre e la volontà
del figlio non distinguibili e non distinte?
L’integrità di questa sfera è protetta da tutto ciò che riconosce sacralità
all’obbedienza dell’individuo al genitore, alla casta, all’anima di popolo,
alla tradizione, a un Io non individualizzato.
Abbiamo contemplato nelle parole di Hermann Hesse la prima memorabile frattura in questa sfera perfetta, sacra e inviolabile fino a quel momento.
Se ho scelto la narrazione di Hesse e non le fonti sapienziali è per un
motivo preciso che per ora posso solo indicare. Nel corso dello sviluppo del
discorso apparirà sempre più chiaro. Perché in qualche modo dal Siddhartha
di Herman Hesse stiamo partendo e qui ritorneremo nel finale.
Il racconto di Hesse nasce nell’atmosfera particolarissima dell’Europa
del dopo-prima-guerra-mondiale. Elementi della vita del Buddha vengono
trasfigurati secondo una angolazione particolare.
Il Siddhartha di Herman Hesse non è il Buddha “storico”, che infatti nel
romanzo viene rappresentato come altro e che dal protagonista, il Siddhartha
di Hesse, non viene seguito. Vedremo che qui è Govinda che diviene discepolo del Buddha. Non Siddhartha che riconosce il Buddha storico ma segue
solo il proprio sentiero.
Quello che oggi definiremmo il suo cammino di individuazione.
La stessa evoluzione del Buddhismo nei secoli a venire concepisce, nella
sua forma Zen, l’esortazione: “Se incontri il Buddha per strada, uccidilo!”.
È proprio il gesto che, con sublime eleganza, compie il Siddhartha del
racconto di Herman Hesse.
3
H. Hesse, Siddhartha (1969), tr. it. Adelphi, Milano 1973, pp. 39-43.
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Francesco Pazienza
Di una eleganza sublime
La scena evocata del distacco del figlio dal padre ci colpisce per la sua
eleganza. Vale la pena di soffermarcisi, di portare nell’anima una simile
immagine di grazia e di forza, di rispetto della tradizione ma di ferma determinazione a incontrare il nuovo.
Quando i nostri figli hanno cercato di affermare la propria volontà con
un proprio progetto o quando noi lo abbiamo fatto dinanzi ai nostri genitori
non siamo stati così impeccabili. E non lo sarà nemmeno il fanciullo Gesù
dodicenne che andremo a incontrare nel passo ulteriore del nostro cammino.
Troveremo il segno visibile, misterioso, di una lacerazione: un ragazzo si
perde, si sottrae allo sguardo dei genitori per tre giorni, c’è ansia intorno a
lui, i dottori del Tempio sono increduli. Siddhartha non era mai scomparso
dai nostri sguardi, immobile dinanzi al padre, proiettato, nella sua verticalità, contro il cielo stellato.
Più “umano” ma molto precoce! Importante notare che quello che diventerà il Buddha lascia la casa del padre all’età di ventotto anni, mentre la
scena che andremo a visitare ci presenta il fanciullo Gesù a dodici anni.
Curioso che io abbia scelto un ventottenne, che adolescente non è più, e
un pre-adolescente per indicare i nodi della questione adolescenziale.
Indubbiamente il principe, a ventott’anni, è un po’ attempato come adolescente… Ho già detto però che costituisce il sogno proibito di ogni adolescente. Di ogni giovane. Ma terminerei indicando qualcosa in più. Qualcosa
che mi appare significativo e toccante in una epoca invece in cui questa età
costituisce qualcosa di diverso.
La “dis-eleganza discreta”4 dei nostri decenni e la caduta
dei prìncipi troppo irrequieti
Lasciamo pure da parte che tra i ventotto e i ventinove anni e mezzo si
collochi il ritmo di Saturno; chi studia le tradizioni o ha competenze minime, non dico astrologiche ma semplicemente astronomiche, lo sa.
Saturno è il grande vecchio che con sguardo gelido affronta il giovane e
gli chiede conto della compiutezza della sua esperienza.
4
Il riferimento è al testo poetico della nota canzone Sampa del cantautore Caetano Veloso.
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Metamorfosi della relazione Padre/Figlio
È l’incontro che segna la fine della giovinezza ma che immette nel frutto
di una sintesi individuale di cui il principino abbiamo visto essere l’emblema.
In questi ultimi decenni abbiamo assistito impotenti alla definizione di un
teorema tragico.
Molti personaggi che hanno costituito una icona, un oggetto di frequente
“diffusione di personalità” per i giovani, molte rock-star, giusto a quell’età,
non riuscendo, evidentemente, a cavalcare la trasformazione, gettano tragicamente la spugna…
Ha cominciato Luigi Tenco, nel 1967, a morire a ventinove anni…
Segue una fitta schiera che allinea artisti di prima grandezza accomunati
da una tragica fine: Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin,
Kurt Cobain dei Nirvana e, più recentemente Amy Winehouse. Sicuramente
dimentico qualcuno.
Di questi, il personaggio per me più toccante risulta Brian Jones: l’anima
più sensibile e creativa dei Rolling Stones. Un ragazzo fragile che ben incarna il ruolo del principe dell’irrequietezza. Fin dalla più tenera età polistrumentista di talento sorprendente. Spazierà dalla musica classica al jazz e
sarà pioniere per l’inserimento nella musica rock di accenti celtici ed elisabettiani. Imprimerà presto questa tendenza tuttora attuale. Porterà nel gruppo
tutto quanto di pregevole e musicalmente creativo possiamo trovare nella
prima produzione degli Stones. Suoi gli arrangiamenti musicalmente più
sofisticati. Ma era un ragazzo fragile e non è riuscito a varcare la soglia che
abbiamo indicato.
I Rolling Stones, dopo la sua drammatica scomparsa, non faranno che
reiterare la stessa musica senza il contributo di Brian e, occorre riconoscere,
risultano comunque abili ed efficaci. Ma talvolta appaiono non tanto la caricatura di se stessi quanto la caricatura dell’immagine della gioventù di cui
non riescono a liberarsi. Questa questione è piuttosto cruciale nella analisi
biografica di ciascuno e ne vediamo infinite implicazioni. Ogni essere umano
che transiti fuori dalla gioventù con tutto questo deve venire a patti. Almeno
di non rendersi parodia di Peter Pan.
Ci resta però un’altra indicazione infinitamente preziosa e toccante e ci
viene dalla biografia di coloro che per molti hanno costituito la contro-parte
polare agli Stones. I quattro scarafaggi di Liverpool: i Beatles. Come Brian
hanno perseguito nella loro breve e fulminante carriera una ricerca incessante
23
Francesco Pazienza
che li ha portati in generi e stili musicali sempre differenti. Ostinatamente
creativi. Fino alla soglia dell’incontro col severo Saturno. Sublime anch’egli,
a modo suo, che viene a ripulire la personalità del giovane e ne lascia cadere
le scorie. Prepara l’individuo a ciò che oggi chiamiamo “adultità”.
Questo nodo i Beatles lo dissolvono poeticamente senza tragici contraccolpi. Semplicemente sciogliendo e liberando al cielo il loro canto.
La mattina del 30 gennaio 1969 trasportano i loro strumenti sul terrazzo
della sede dei loro studi di registrazione. Siamo in Abbey Road, nel cuore
della cittadella finanziaria londinese. Questo evento prende il nome di rooftop concert e sarà ripreso con diverse varianti in vari angoli del mondo
come un singolare ritualismo.
Da quel terrazzo offrono per l’ultima volta agli impiegati in pausa della
city la loro musica. E scioglieranno la loro formazione. Inscenando così il
canto del cigno.
Verrebbe da pensare che, grazie a questa suggestiva trovata, si porranno
in salvo e verranno ai giusti patti con Saturno. Proseguiranno il loro cammino
individuale “da adulti”, ma il ragazzo più irrequieto tra loro, il principe
Lennon, non riuscirà a evitare una decina d’anni dopo una morte violenta.
Sarà assassinato a New York con un colpo di pistola a opera di un lettore compulsivo del romanzo Il giovane Holden.5 Più avanti ritroveremo
qui anche lui, il principino Holden Caulfield.
Fa parte anche lui di questa cordata. Questa traversata che forse ci
aiuterà a decifrare un mistero. Di misteri cerco di essere un cultore.
Per ora riposate in pace, prìncipi irrequieti.
Grazie di aver giocato con noi!
5
J. D. Salinger, Il giovane Holden (1951), tr. it. Einaudi, Torino 1961.
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