Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche Tesi di Laurea Il gusto compassionevole Relatore Ch. Prof. Luigi Vero Tarca Laureando Andrea Galetti Matricola 831705 Anno Accademico 2012 / 2013 SOMMARIO INRODUZIONE 2 I. PARTE PRIMA DUALISMO ANIMA-CORPO LA SVALUTAZIONE DELLE MEMBRA LA CONCEZIONE DUALISTICA SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA 7 10 16 II. PARTE SECONDA LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA 25 III. PARTE TERZA IL GUSTO L’APPARATO GUSTATIVO LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA E TRADIZIONI IL GUSTO DELL’INFANZIA L’EDUCAZIONE AL GUSTO 39 44 48 53 57 IV. PARTE QUARTA IL GUSTO COMPASSIONEVOLE LA SCELTA VEGETARIANA IL GALLO CON GLI SPERONI LO STILE SOMATICO 65 BIBLIOGRAFIA 97 77 85 1 INTRODUZIONE “Non meno che saper, dubbiar m’aggrada”. Dante Alighieri La ricerca svoltasi nelle seguenti pagine è iniziata con la presa di coscienza della mancanza di una filosofia alimentare, con la constatazione della necessità di affrontare tale tema attraverso l’osservazione dei suoi possibili campi d’impiego. L’alimentazione, per sua natura, è necessariamente legata al corpo, quindi prima di poter affrontare le problematiche legate alla filosofia alimentare, si devono prendere in considerazione le teorie filosofiche che concernono il rapporto anima-corpo. La tradizione, nella maggioranza dei casi, ha misconosciuto e denigrato il corpo con i suoi sensi e ha riconosciuto 2 nella psiche la principale sede di conoscenza e verità. Alla base di questo pensiero vi è la concezione dualistica; questa cominciò a propagarsi con lo sviluppo delle religioni persiane. Prese forma con lo Zoroastrismo e con le tribù sciamaniche che influenzarono inizialmente i circoli orfici e pitagorici, per poi protrarsi nel tempo fino alla filosofia platonica e neoplatonica. L’epicentro teorico di tale concezione emerge nella filosofia moderna con Cartesio e con la famosa divisione della realtà da lui compiuta in res cogitans e res extensa. La rappresentazione dualistica s’innesta profondamente nella cultura occidentale così da influenzarne gli aspetti religiosi, culturali e sociali. Il dualismo ha posto una netta divisione tra anima e corpo e ha emarginato quest’ultimo, ritenendolo privo d’interesse e poco degno di studio. Con la filosofia contemporanea si comincia a riconoscere una certa valenza alla corporeità e al suo rapporto con il mondo. Il corpo non è più la prigione dell’anima, ma assume una propria identità: è vivente e partecipe, comunica con e attraverso il mondo. Il corpo e i suoi sensi vengono riconosciuti come elementi con capacità conoscitive. Nonostante ciò, assistiamo a una forma di gerarchizzazione dei sensi che tende a squalificare il gusto e l’olfatto: essi vengono associati all’idea di futilità e di superficialità. Il gusto, in particolar modo, è stato storicamente riconosciuto come mero strumento pratico, utile solo alla ricerca e al riconoscimento del cibo per la sopravvivenza. Inoltre, è stato spesso associato all’idea di peccato: senso legato al piacere carnale, capace di sibilare all’uomo la possibilità di liberare i suoi istinti animaleschi, distraendolo dai suoi più alti impegni come la spiritualità o la ricerca della verità. Molte religioni, forse inconsapevolmente, hanno contribuito a questa forma di denigrazione, accostando i digiuni e le rinunce carnali alla purificazione dell’anima. Questo studio si propone di ridare importanza alle sfere sensoriali storicamente misconosciute e si concentra in particolar modo sul gusto alimentare. 3 Vogliamo quindi proporre una rivalutazione filosofica del gusto alimentare come potenziale elemento creatore di cambiamenti etici nella sfera sociale. Presentiamo dapprima un’analisi del gusto attraverso differenti punti di vista che ne illuminino le sue principali caratteristiche: il gusto come apparato gustativo, quindi le sue forme legate alla sfera prettamente fisica e corporea; il gusto come facoltà mentale, ovvero come senso portatore e trasmettitore di vissuti psicologici del soggetto; il gusto come condizione di bisogno primario dell’uomo, quindi i suoi costituenti aspetti di necessità e di piacere nel soddisfacimento. Il gusto non è un carattere marginale dell’esistenza, ma anzi ne influenza diversi ambiti: la famiglia e il rapporto con la madre (aspetto affettivo), l’infanzia e i ricordi (memoria ed esperienze), la tradizione culturale e la socialità (rapporto con l’altro e identificazione di sé). Constatando le varie influenze che il gusto ha nel soggetto e quindi nell’assetto sociale, proponiamo una sfida educativa che possa riconoscere, sviluppare e incanalare positivamente le sue potenzialità. Vogliamo quindi pensare a un’educazione che abbia una valenza etica e che sia prima di tutto uno strumento di conoscenza: per questo motivo la chiameremo “educazione esplicativa”. La valenza etica, in questo caso, sarà data dall’avvicinare il gusto alimentare al vegetarianismo, una pratica alimentare che insegna a soddisfare il piacere della nutrizione, senza la necessità di creare dolore o di causare morte. Con educazione esplicativa s’intende una modalità di formazione che non implichi alcuna forma di imposizione, ma che offra la maggior conoscenza del reale senza i vincoli di una scelta predefinita. Spiegare, portare a conoscenza significa dare informazioni, presentare le possibile scelte, aiutare a comprendere il valore della scelta e quindi l’importanza e il piacere di portarla a termine. In questo caso l’educazione esplicativa, che è appunto legata al vegetarianismo, consisterà, ad esempio, nel dare al bambino tutte le informazioni sulla provenienza degli alimenti, sull’esistenza delle diverse 4 forme di nutrizione, sugli effetti fisici, morali e sociali di un’alimentazione di derivazione animale rispetto a una di tipo vegetale. Le spiegazioni e il grado di conoscenza dovranno essere ovviamente correlati all’età del soggetto educato: essi possono variare e appartenere a diversi ambiti o avere differenti intensità. Si possono spiegare l’impatto del cibo sulla salute, la relazione uomoambiente, il concetto di violenza, il funzionamento dei macelli, il diritto alla vita, i diritti animali, il significato della mistificazione sociale legato ai sistemi pubblicitari e al marketing. L’altro punto di forza è quello che chiameremo “gusto compassionevole”, cioè la valenza etica e morale del gusto dovuta alla scelta di un’alimentazione vegetariana. Il vegetarianismo ha una doppia valenza etica: la prima, quella intrinsecamente compassionevole, che si fonda sulla volontà di non voler creare dolore e nel considerare gli animali esseri viventi con diritto di vita in egual modo degli uomini; la seconda è costitutiva della filosofia vegetariana poiché votata alla non violenza. La non violenza nel vegetarianismo consiste nell’assenza dell’uso della forza e della coercizione, come mezzo o strumento per raggiungere un fine o per soddisfare un bisogno, che sia esso necessario o futile. Questa seconda parte di tesi si focalizza sul rapporto tra la violenza sugli animali e la violenza tra gli uomini e sulle contraddittorietà legislative legate a questo ambito all’interno degli stati. Ad esempio, come esista da un lato la salvaguardia dei diritti animali e contemporaneamente dall’altro la regolamentazione della loro uccisione o della loro strumentalizzazione. Le nostre società crescono su questa ambigua struttura legislativa, che fa leva su una sorta di fittizia morale, dove si diversificano impropriamente test e sperimentazioni da maltrattamenti e casi di abbandono. Il rischio all’interno di queste contraddizioni morali è quello di accettare l’uso della violenza come strumento. Il passo dalla violenza sugli animali a quella 5 tra uomini non è poi così lungo: la violenza non ha etnia, non ha specie e nemmeno razza. L’uso della violenza deve essere considerato in modo univoco. Parlare di violenze utili o di violenze accettabili può creare confini labili, dove, alla fine, l’esercizio della violenza viene gestito dalla maggioranza o dai poteri forti. La storia ha dimostrato che può essere un percorso pericoloso e incontrollabile. Per evitare questa escalation si propone di non utilizzare la violenza come mezzo, in primis per un senso di autoconservazione: per la salvaguardia del nostro futuro come umanità. La violenza non può essere considerata o divisa in sottogruppi o sottocategorie, poiché è sempre e solo violenza. Se non acconsentiamo il suo uso, non possiamo accettarlo in nessun ambito a partire dai piccoli atti quotidiani come quello dell’alimentazione. Il percorso del gusto compassionevole è un cammino lento, ma costante: la compassione non riguarderà in modo esclusivo l’ambito alimentare, ma influenzerà le più svariate sfere delle personalità contribuendo a crearne uno stile. Tale modalità potrà essere riversata anche nella soddisfazione degli altri bisogni umani. Non accettando quella violenza, non accetteremo nemmeno l’uso di quel linguaggio, non lasceremo che il suo “germe” s’insinui e si propaghi nelle nostre vita, nella nostra personalità, nel nostro mondo. 6 I. PARTE PRIMA DUALISMO ANIMA-CORPO: LA SVALUTAZIONE DELLE MEMBRA “Vorrei trovare un’espressione per la dualità, vorrei scrivere capitoli e frasi dove fossero sempre visibili contemporaneamente canto e controcanto, dove accanto ad ogni varietà vi fosse l’unità, accanto ad ogni scherzo la serietà. Perché solo in questo consiste per me la vita, nel fluttuare tra due poli, nell’oscillazione tra i due pilastri portanti del mondo. Vorrei con gioia far vedere la beata varietà del mondo ed anche sempre ricordare che al fondo di questa verità vi è un’unità”. H. Hesse LA CONCEZIONE DUALISTICA La concezione dualistica ha favorito il sedimentarsi di considerazioni pressoché negative su ciò che intendiamo con corpo. Questo, infatti, è stato denigrato e svalutato dalla maggior parte della tradizione filosofica, letteraria e teologica. Il dualismo vede e concepisce il mondo come separazione ontologica tra anima e corpo. Tale termine fu introdotto da R. Descartes, che 7 distinse principalmente la realtà in due ambiti: res cogitans (realtà psichica) e res extensa (realtà fisica). 1 In effetti, R. Descartes non fu il fautore del dualismo, ma solo uno dei suoi massimi e più conosciuti esponenti. L’origine del termine può essere ricercata nella filosofia pitagorica e nella concezione religiosa legata all’orfismo. 2 Secondo lo studioso e storico Giovanni Reale infatti: “Nei documenti letterari greci a noi pervenuti compare per la prima volta in Pindaro una concezione della natura e dei destini dell'uomo pressoché totalmente sconosciuta ai Greci dell'età precedenti ed espressione di una credenza per molti aspetti rivoluzionaria, la quale, giustamente, è stata considerata come elemento di un nuovo schema di civiltà. In effetti, si comincia a parlare della presenza nell'uomo di qualcosa di "divino" e non mortale, che proviene dagli Dei ed alberga nel corpo stesso, di natura antitetica a quella del corpo che dorme o addirittura si appresta a morire, e dunque, quando allenta i vincoli con esso e lo lascia in libertà. [...] Il nuovo schema di credenza consiste, dunque, in una concezione "dualistica" dell'uomo, che contrappone l'anima immortale al corpo mortale e considera la prima come il vero uomo o, meglio, ciò che nell'uomo veramente conta e vale. Si tratta di una concezione, come è stato ben notato, che inserì nella civiltà europea un'interpretazione nuova dell'esistenza umana. Che questa concezione sia di genesi orfica non parrebbe cosa dubbia.”3 1 R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia (1641); tr. it. Meditazione metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. I. 2 AA.VV., Enciclopedia garzanti di filosofia, Garzanti, Milano 2003: “Orfismo: movimento religioso dell’antica Grecia, fondato, secondo la tradizione, dal leggendario poeta tracio Orfeo. […] La tradizione orfica la cui prima compiuta codificazione scritta è attribuita a Onomacrito, risale almeno al sec. VI a.C. […] Con le sue purificazione ascetiche, la «vita orfica» si propone di eliminare nell’anima umana questo elemento titanico e di accedere al divino, evidenziando la dimensione immortale della natura umana.[…]. Al centro delle speculazioni orfiche e delle sue pratiche catartiche, che sottolineano il ruolo estatico di nuove dimensioni spirituali come il tempo e la memoria, si colloca il proposito di una rinuncia all’ordine mondano per conseguire la salvezza integrale dell’anima, intesa come parte divina dell’uomo”. 3 G. REALE, La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana vol.1, Bompiani, Milano 2004, pp. 62-63. Il testo a cui fa riferimento e da cui estrae tale considerazione è un frammento di Pindaro ed è il seguente: “Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente, e poi rimane ancora vivente un'immagine della vita, poiché solo questa viene dagli dèi: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e sofferenza.” Traduzione di Giorgio Colli in, La sapienza greca vol.1, Adelphi, Milano 2005, p.127. 8 Questa nuova 4 concezione dualistica assieme alla considerazione dell’esistenza di una parte divina insita nell’uomo, furono anche sottolineate dal grecista Eric R. Dodds: “Corrisponda o meno al fatto che per un Ateniese del V secolo la parola psyché avesse o potesse avere in sé un vago sentore di soprannaturale, certo non aveva nessuna intenzione puritana, né alcuna suggestione metafisica. L'anima non era prigioniera riluttante del corpo; era la vita, lo spirito del corpo, nel quale si trovava come a casa propria. Ma ecco che il nuovo schema di religione portò il suo contributo carico di conseguenze: attribuendo all'uomo un "io" occulto di origine divina, e contrapponendo così l'anima al corpo, inserì nella civiltà europea, un'interpretazione che noi diciamo puritana.”5 Anche nella tradizione giudaico-cristiana si ritrova questa divisione animacorpo, dove l’anima è fonte di vita, animante, guidatrice del corpo. Invece la carne, le membra sono la parte fragile e possibile fonte di peccato. Nella Genesi, (capitolo 2, versetto 21) infatti, si legge quanto segue: “Carne: la carne (basar) è per prima cosa, nell’animale e nell’uomo, la parte molle, tenera del corpo, i muscoli. […] L’anima o lo spirito, animano la carne senza aggiungersi ad essa, rendendola vivente. Tuttavia spesso la “carne” sottolinea ciò che c’è di fragile e di perituro nell’uomo e a poco a poco si percepirà una certa opposizione tra i due aspetti dell’uomo. L’ebraico non ha una parola per designare il corpo. Il Nuovo Testamento supplirà a questa lacuna sviluppando il termine sôma a fianco di sarx.”6 4 Con “nuova concezione” ci riferiamo alla nascita del dualismo e alle sue influenze sulle teorie filosofiche nell’antica Grecia. 5 E. R. DODDS, The Greeks and the Irrational (1951); tr. it. I Greci e l'irrazionale, Rizzoli, Milano 2009, p. 18. Inoltre Eric R. Dodds fa risalire questa innovazione al contatto della cultura greca con le culture sciamaniche intorno al VII secolo a.C. 6 Genesi cap. 2, v. 21 in La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI “editio princeps” 1971, note e commenti di La Bible de Jerusalem, nuova edizione 1973, Editions du Cerf, Paris. Per l’edizione italiana, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1974. 9 In molti passi si ritrova questo continuo sottolineare l’importanza dell’anima a discapito della debolezza del corpo. Nel libro del profeta Geremia (capitolo 17, versetto 5), ad esempio, si sottolinea l’inaffidabilità del corpo-carne e il suo essere ontologicamente distante dal bene. “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede; dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.”7 Un altro passo fa invece riferimento al corpo come tomba o prigione dell’anima. La stessa concezione si ritrova nella tradizione greca, anzi più correttamente in quella socratico-platonica. In questo testo biblico del profeta Isaia, estratto dal Libro della consolazione di Israele, il dualismo anima-corpo è riassunto nella metafora del fiore e la sua linfa. “Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del Signore dura sempre.”8 SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO Anche in Platone l’anima viene indicata come un qualcosa di necessariamente e fondamentalmente separata dal corpo. L’anima è altro, concepita come 7 8 GEREMIA, cit., cap. 17, v. 5. ISAIA, cit., cap. 40, vv. 6-8. 10 qualcosa di incorporeo e sovrasensibile, essa viene imprigionata nel “contenitore” corpo (sôma) che le fa da prigione (sêma). Come il filosofo spiega nel famoso passo del Cratilo: “Dicono alcuni che il corpo è sêma (segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con esso l’anima semaínei (significa) ciò che semaíne (significhi), anche per questo è stato detto giustamente sêma. Però mi sembra assai piú probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché sózetai (si conservi, si salvi, sia custodita), questa cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il nome stesso significa, è sêma (custodia) dell’anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c’è bisogno di mutar niente, neppure una lettera.”9 In questo passo si evidenzia bene come l’anima sia imprigionata nel corpo per espiare le colpe. Inoltre, come sostiene nel Fedone, finché saremo legati al corpo non potremo nemmeno giungere alla sapienza; solo quando l’anima sarà libera dal corpo avremo ciò che desideriamo. “Se mai vogliamo conoscere qualche cosa nella sua purezza, dobbiamo separarci dal corpo e guardare le cose in sé con la sola anima. E a quanto pare, solo allora, cioè dopo la morte e non finché siamo in vita [...] avremo ciò che desideriamo e di cui ci dichiariamo amanti, cioè la sapienza. [...] E non è proprio questo che si chiama morte: liberazione e separazione dell’anima dal corpo? [...] e l’esercizio dei filosofi è proprio questo: liberazione e separazione dell’anima dal corpo.”10 Molte volte per spiegare situazioni o concetti che trascendono la realtà Socrate e Platone utilizzavano metafore o racconti mitici. Il carro alato è uno di questi esempi, dove Socrate spiega come l’anima prima volasse libera e dall’alto governasse il mondo. Caduta nella terra sarà imprigionata nel corpo e solo 9 PLATONE, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967, pp. 213-214. PLATONE, Fedone, tr. it. a cura di Giovanni Reale, editrice La scuola, Brescia 1970, 66 d-e; 67 d. 10 11 dopo un periodo di espiazione riuscirà a ritrovare le sue ali e a riprendere il volo. “[...] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piú breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dei e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme sempre differenti. Cosí, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, senza averlo mai visto né pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano dall’anima.”11 Ancora un altro celeberrimo frammento dello stesso testo in cui Platone ripropone il famoso paradosso della vita e della filosofia come esercizio di 11 PLATONE, Fedro, tr. it. a cura di Roberto Veraldi, Bur, Milano 2006, 246 a-d. 12 morte. L’anima, essendo appunto prigioniera del corpo, avrà come obiettivo quello di lasciare la terra e di ricongiungersi al Divino. “ «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di ciò che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura». E Simmia, ridendo, disse: «Per Zeus, o Socrate, mi hai fatto ridere, anche se ora non ne avevo proprio voglia! Io penso che la gente, se sentisse dire questo, penserebbe che sia davvero ben detto dei filosofi – e lo riterrebbero in particolar modo i nostri concittadini –, ossia che essi sono veramente dei moribondi; e direbbe di essersi ben accorta che i filosofi sono degni di subire la morte!». «E direbbe la verità, o Simmia! Però non è vero che la gente se ne sia davvero accorta. Infatti non si è accorta in che senso i veri filosofi siano dei moribondi e in che senso siano degni di morte, e di quale morte! Ragioniamo, dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi che la morte sia qualche cosa?». «Certo», disse Simmia. «E riteniamo che sia altro che non una separazione dell’anima dal corpo? E che essere morto non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo, separatosi dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi dal corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcos’altro e non questo?». «No, questo», disse.”12 Abbiamo visto come, per il filosofo, la morte sia un importante argomento di studio e come diventi appunto la meta cui giungere. La morte viene considerata come luogo di divisione tra anima e corpo: la liberazione dell’anima dalla sua prigione. Nell’esercizio della morte il filosofo non deve farsi distrarre dai piaceri corporei e dalla tentazioni terrene, ma necessita di concentrarsi sulla cura della propria anima. Infatti il passo continua nel seguente modo: 12 Ibidem. 13 “ «Guarda, ora, o carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da quello che ora diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti pare che sia degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo, vale a dire dei cibi e delle bevande?». «Assolutamente no, o Socrate», disse Simmia. «E dei piaceri d’amore?». «Nient’affatto». «E che ne dici delle altre cure del corpo? Ti pare che il filosofo li tenga in pregio? Per esempio, il possesso di bei mantelli, di bei calzari e degli altri ornamenti del corpo, ti pare che egli li abbia in pregio o in dispregio, se non per quel poco che è costretto a farne uso?». «Mi pare – rispose – che non li apprezzi, chi è veramente filosofo».”13 Il filosofo, nel non curarsi dei piaceri e delle passioni del corpo, esercita l’esperienza di morte: essa diventa la liberatrice dell’anima che permette alla verità di essere svelata. Per questo motivo, il filosofo deve essere attratto dalla morte e non deve averne paura; occorre ch’egli si ricordi come la cura del corpo, il suo nutrimento e gli interessi a esso legati siano tutti ostacoli atti a impedire la vera conoscenza della cosa in sé, nella sua essenza e purezza. “ «E dunque non ti pare – disse – che la preoccupazione del filosofo non sia rivolta al corpo; ma che anzi, per quanto egli può, si ritragga da quello e si rivolga, invece, all’anima?». «Mi pare di sì». «E allora, non è evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente dagli altri uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerca di liberare l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?». «É chiaro». «E la gente, poi, o Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode e non partecipa, non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura dei piaceri che si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star vicino alla morte?». «Verissimo quello che dici». 13 Ibidem. 14 [...] «Orbene, è necessario» – disse –, in base a queste cose, che nei veri filosofi si formi un’opinione di questo tipo, di guisa che, ragionando fra loro, dicano all’incirca quanto segue. «Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime».”14 Anche nel Gorgia, si fa riferimento al corpo come tomba dell’anima e si evidenzia come passioni e i desideri creino bisogni all’uomo rendendolo infelice. “ […] e davvero può darsi che noi, in realtà, siamo morti! Come già ho sentito dire da alcuni filosofi: noi attualmente, siamo morti e nostra 14 PLATONE, Fedone, cit., 64a-65a; 65b-e. 15 tomba [sêma] è il corpo [sôma] e quella parte dell’anima nella quale hanno sede le passioni.”15 SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA All’interno di questo dialogo ci sono, inoltre, alcuni frammenti in cui Socrate, attraverso un’analogia tra culinaria e retorica, vuole dimostrare come entrambe non siano da considerarsi un’arte. Infatti la culinaria, che è pratica legata al corpo, non si basa su fondamenti scientifici, ma solo sull’esperienza. “POLO Ma cosa allora ti sembra la retorica? SOCR. Un dato 16 che tu sostieni aver trasformato in arte in un tuo trattato, del quale ho preso conoscenza da poco. POLO E cioè? SOCR. In qual certa esperienza direi. POLO Ma che tipo di esperienza sarebbe? SOCR. Quell’esperienza che suscita in noi un qual certo diletto e piacere.”17 In questo breve estratto di dialogo, Socrate indica alcune importanti nozioni che risultano caratterizzanti per la comprensione del suo concetto di retorica. Egli la definisce, appunto, non solo una «certa esperienza», bensì un’esperienza che suscita nell’uomo «un qual certo piacere e diletto». Nella filosofia greca antica l’esperienza non era del tutto esclusa dall’ambito della PLATONE, Gorgia, tr. it. di Francesco Adorno, Laterza, Bari 1997, 493a. In greco πργµα che tradotto è “fatto”, nel significato di fatto accaduto o che accade. La scelta lessicale di Adorno si può interpretare come una volontà di volere diminuire il significato ontologico della parola. La parola «dato» infatti è meno carica di valore giudizio e di verità di «fatto accaduto» ed è anche slegato dallo spazio e dal tempo. 17 PLATONE, Gorgia, cit., 462c-462d. 15 16 16 conoscenza, ma vi partecipava in modo periferico: l’esperienza, troppo imprecisa e transitoria perché legata ai fenomeni sensibili, veniva piuttosto considerata come uno stimolo e quindi risultava vana per la ricerca della verità e della conoscenza. In un secondo momento, il dialogo prosegue: “SOCR. Chiedimi, dunque, ora, in che cosa, secondo il mio parere consiste l’arte del cucinare. POLO Ecco, ti chiedo: in che consiste l’arte del cucinare? SOCR. Non è un’arte Polo.”18 Parlando della culinaria, Socrate sottolinea subito come essa non si possa considerare un’arte, bensì «un’esperienza». In questo contesto, occorre ricordare che Socrate, quando parla di arte nel suo significato positivo, si riferisce spesso al concetto di maieutica. Per maieutica s’intende il metodo socratico attraverso il quale egli conduce il soggetto alla conoscenza: esso si basa su una particolare forma di dialogo che presuppone l’interlocutore come il «partoriente» stesso della conoscenza. Attraverso questa forma d’arte, il filosofo interroga anime e non corpi. Attraverso il parallelismo con la retorica, Socrate fa procedere il dialogo al fine di definire la culinaria: “POLO Ma cos’è allora? Parla! SOCR. Sì e dico che è un qual certa esperienza.19” Dunque, cucinare è un’esperienza: “POLO E di che tipo? Dimmi! SOCR. Un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere, Polo.”20 Cucinare è «un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere», ma non rientra nell’ambito di ricerca della verità e della conoscenza. L’uomo se ne serve per divertimento, gode del suo utilizzo. Fin qui essa non si aggrava di 18 Ibidem. PLATONE, Gorgia, cit., 1997, 462e-462d. 20 Ibidem. 19 17 caratterizzazioni che concernano la sfera del positivo o negativo, del giusto o sbagliato. Certamente l’esperienza del cucinare è relegata alla corporeità ed è esclusa dalla dimensione dell’anima. “POLO Culinaria e retorica sono, dunque la stessa cosa? SOCR No di certo! Sebbene la culinaria sia una parte di una stessa professione. POLO Di quale ? SOCR. Non vorrei fosse troppo scortese dire la verità, e perciò esito a parlare, per un riguardo a Gorgia: non pensi che io prenda in giro la sua professione! E poi, neppure so se la retorica di cui parlo sia la retorica che Gorgia professa, ché dal nostro discorso non è affatto venuto in luce ciò che davvero egli ne pensi. Senza dubbio, comunque, la retorica di cui parlo io è parte di una cosa niente affatto bella.”21 Durante il dialogo, continua il parallelismo tra retorica e culinaria e si giunge a definire quel certo tipo di retorica «una cosa niente affatto bella». Spesso Socrate accosta al concetto di bello quello di giusto in senso morale; similmente, in questo caso, si può pensare che quel tipo di retorica sia ritenuta dal filosofo una cosa non bella, quindi non giusta. Proseguendo con l’analisi del dialogo si nota che Socrate vuole delineare l’inutilità e la negatività di una certa retorica e di certe pratiche. “SOCR. Sì, Gorgia, a me sembra che la retorica sia un’attività estranea all’arte, pur richiudendo spirito che sa cogliere nel segno, coraggio e una naturale disposizione nei rapporti umani. Nel nocciolo io chiamo la retorica "adulazione", e una di queste è l’arte del cucinare. Ha l’apparenza di un’arte, ma, penso, arte non è, bensì esperienza ed esercizio.”22 In questo estratto Adorno mantiene la tradizionale traduzione “adulazione” per il termine κολακεία, ma egli stesso sostiene che nel suo significato originario esso è arricchito da alcune sfumature che lo avvicinano al concetto di 21 22 Ivi, 462e-463a. Ivi, p. 463 a-b. 18 «seduzione» (ψυχαγωγία)23. Quest’ultimo termine appare effettivamente più adeguato per ciò che Socrate vuole far capire ai suoi interlocutori. L’adulazione, come si può notare proseguendo nella lettura del dialogo, è utilizzata nel suo significato più negativo, infatti la seduzione invita a considerare maggiormente l’aspetto ingannevole della retorica. L’inganno di voler presentarsi senza farsi conoscere veramente, impossessandosi di qualunque tecnica pur di rendersi attraenti. Secondo Socrate la retorica è solo una pratica di convincimento e di raggiro che allontana l’uomo dal retto cammino. Anche per il termine tradotto nell’ultima frase con «esercizio», Adorno propone l’uso più corretto del sostantivo dispregiativo «praticaccia»24. Per praticaccia s’intende, per esempio, l’attitudine di quei medici non scienziati a ultimare la loro conoscenza a forza di esperienza e pratica. La retorica, così come la culinaria, seduce servendosi del diletto e del piacere al fine di, socraticamente parlando, voler vendere come pieno un vaso vuoto. Successivamente Socrate pone rispettivamente la retorica e la culinaria come copie o spettri della politica e della medicina, con la differenza che quest’ultime non fanno affidamento a un metodo e a delle regole, ma si servono dell’esperienza e della pratica, basandosi sulle conseguenti risposte che da esse ricevono. “SOCR. Ma riuscirai a capire la mia risposta? La retorica, secondo il mio pensiero è un idolo di una parte della politica. POLO Ma che vuoi dire con questo? Intendi dire che è bella o brutta? SOCR. Brutta, secondo me – brutto io chiamo tutto quello che è male -, dal momento che ti si deve rispondere come se tu già sapessi quello che penso.[…] GORGIA E tu lascia da parte e rispondimi su cosa intendi dire quando affermi che la retorica è un idolo di parte della politica.”25 23 κολακεία: manteniamo la tradizionale traduzione «adulazione» anche se in greco v’è qualcosa di più che, forse, meglio potrebbe tradurre “seduzione”. Cfr. Soph. 222e-223° [nota dell’autore]. 24 Cfr. Phaedr. 279b. Cfr anche Phil. 55e; Leg. 938° [nota dell’autore]. 25 PLATONE, Gorgia, cit., 463 d-e. 19 Qui e successivamente Socrate sostiene che la retorica e la culinaria sono "Idoli", nel senso di copie, fantasmi o apparenze che non hanno una vera consistenza, né un regime di regole da seguire. I cosiddetti "venditori di fumo". Nel passaggio seguente Socrate divide le arti tra quelle valide per la cura dell’anima e quelle inerenti alla cura del corpo: per la cura dell’anima individua la politica nelle sue parti di legislazione e di amministrazione della giustizia; per la cura del corpo indica la ginnastica e la medicina. “SOCR. L’adulazione, accortasi di queste quattro arti, così costituite e volte sempre a curare nella maniera migliore le une il corpo le altre l’anima – non per via conoscitiva, dico, ma per congettura – si divise essa stessa in quattro, e, strisciando sotto ciascuna delle quattro parti corrispondenti, simula d’essere quella certa parte sotto cui si è insinuata e, senza affatto preoccuparsi del meglio, ma sempre con dilettosi mezzi, caccia ed inganna l’ignoranza, si da apparire cosa di supremo valore. Sotto la cucina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi per il corpo, […].”26 Nel prossimo passo sottolinea nuovamente la negatività dell’adulazione e ne spiega le varie sfumature significative. Sostanzialmente per Socrate l’Adulatore è colui che si mostra per quello che non è, colui che sostiene di essere un medico, ma che in realtà non lo è. Ritorna infatti sulla differenza tra medico scienziato e medico empirico: chi non usa la ragione e la razionalità non può definirsi “Medico” perché non ha una vera conoscenza della materia. Gli adulatori non conoscono realmente la materia di cui parlano proprio perché posseggono una conoscenza fallace basata sull’esperienza e sulla pratica. “ Ecco dunque, dunque quello che io chiamo "adulazione", e la dico una gran brutta cosa, Polo – è a te che mi rivolgo – perché, senza preoccuparsi affatto del meglio, è tutta tesa al piacere soltanto; né arte io la dico, ma esperienza, poiché non ha nessuna comprensione razionale 26 Ivi, 464 c-e. 20 della natura delle cose cui si riferisce, in virtù della qual comprensione possa appunto, riferirsi: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa. Io, perciò, non chiamo arte un dato che tale resti, un dato cioè senza ragione. E se ora ha da muovermi obbiezioni su tutto questo, sono pronto a rendertene ragione.”27 Il corpo e le pratiche che a lui fanno riferimento non hanno capacità conoscitiva e di giustezza. In questa parte conclusiva Socrate ipotizza l’inversione di ruoli tra Anima e Corpo. Se il Corpo avesse il compito di giudicare e di scegliere sarebbe guidato solamente dall’istinto del piacere e dell’auto-deliziarsi. Per questo, appunto, la cucina sarebbe facilmente scambiabile con la medicina e tutte le cose, senza distinzione, sarebbero confuse. Solo attraverso l’anima, portatrice di verità, ogni cosa sarebbe scelta in modo giusto considerando ciò che sarebbe «migliore» per l’uomo. “ Sì, perché se l’anima non governasse il corpo, ma fosse il corpo a governarsi da sé, e non fosse l’anima che esamina e giudica ciò che compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne riceve, ebbene ampio valore avrebbe il principio di Anassagora, amico Polo – tu di tale dottrina sei esperto -, e cioè “tutte le cose, senza distinzione , sarebbero insieme confuse”, poiché non vi sarebbe più possibilità di giudicare ciò che compete alla medicina, all’igiene, alla culinaria.”28 La denigrazione del corpo, sollevata sia dalla tradizione filosofica che da quella teologica, è stata largamente studiata, proprio perché la concezione dualistica ha influenzato gran parte del modo di pensare degli ultimi duemila anni. Nicola Perullo e Rosalia Cavaliere sono due filosofi contemporanei che hanno approfondito questi studi con specifico riferimento alla svalutazione dei sensi. In particolare, hanno notato e sottolineato come il gusto, tra tutti, sia stato quello più negativizzato e come i sensi cognitivi fossero considerati unici 27 28 Ivi, 465a. Ibidem. 21 delegati alla conoscenza; «diversamente dagli oggetti visivi, più stabili e più duraturi (e diversamente, anche, dagli oggetti sonori formalizzati in una forma scritta), i sapori e i profumi sono radicati nell’effimero. Essendo volatili ed evanescenti passano: una ragione in più per escluderli dall’indagine teoretica e dal dibattito epistemologico sulla percezione sensoriale». 29 La prima trattazione del gusto, con concezione scientifica, avviene nel 1825 con J.A. Brillant-Savarin che scrive Physiologie du goût, ou Méditations de gastronomie transcendante, saggio con cui si data la nascita della gastronomia. Tale saggio ha riscosso successo ed è stato scritto perché, come vedremo anche nel prossimo capitolo, il corpo cominciava a riacquistare valenza e importanza all’interno della concezione filosofica. Perullo, nel seguente passo, sostiene l’impossibilità di discutere sul gusto gastronomico nella Grecia classica e conferma le nostre teorie sopra citate: egli sottolinea come, nel pensiero filosofico del tempo, la culinaria non potesse essere né scienza, né arte e come il gusto fosse solo legato al piacere effimero. “Come è possibile una riflessione filosofica sul gusto e sulla gastronomia? Non è una domanda retorica. Già Platone – in dialoghi come il Fedro, il Gorgia e il Fedone – rifiutava di assegnare alla cucina lo statuto di scienza e quello di arte, condannandone i piaceri. Platone paragone la cucina alla retorica: un’attività empirica volta al sedurre, mentre soddisfa solo un bisogno primario; non ha niente a che vedere con la conoscenza perché non procede da leggi generali e deducibili né con l’arte perché non soddisfa piaceri intellettuali. I suoi piaceri sono infatti corporali, effimeri e poco degni dell’uomo razionale: «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?», afferma Socrate nel Fedone.”30 La svalutazione del gusto non è un concetto relativo solo al lontano passato; ne ritroviamo alcuni esempi, infatti, sia nella filosofia moderna sia in quella 29 R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, Laterza, Bari 2011, p.VI. N. PERULLO, Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo, Slow Food Editore, San Mauro Torinese 2012, p. 30. 30 22 contemporanea: essi si riferiscono al gusto sottolineando il suo aspetto “carnale”, denigrandolo alla sfera della bassa sensualità ed escludendolo da quella della conoscenza e da quella dell’arte. Rosalia Cavalieri, nel testo Gusto, L’intelligenza del palato, riporta un passo hegeliano del 1823, dove il filosofo sancisce l’inferiorità di tali sensi . “La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è sancita chiaramente da Hegel: «Il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da fare con la materialità e con le sue qualità immediatamente sensibili». […] Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto.”31 Come vedremo nel prossimo capitolo, la filosofia moderna e contemporanea ha rivalutato il corpo sia nelle sue funzioni che nel suo rapporto con il mondo, tendendo a superare, così, la classicistica visione dualistica anima-corpo. Se nel versante filosofico si giungeva a una conciliazione del corpo con i suoi sensi, elevando anche il tanto maltrattato gusto alimentare a oggetto di studio, nel versante gastronomico si scorgevano nascere nuove mode e stili di concepire la cucina e gli alimenti, pensiamo ad esempio alle mode rappresentate da Ferràn Adrià e dalla sua cucina molecolare. Queste innovative concezioni volevano avvicinare arte e scienza e proporre la loro combinazione proprio attraverso la gastronomia. La cucina di Adrià fu veloce a farsi conoscere e, per alcuni aspetti, fu apprezzata e premiata, ma riscosse ugualmente molte critiche. Tra queste, ricordiamo quella di Fernando Savater che, nell’articolo “L’arte della digestione”, descriveva questa cucina come uno spazio a misura di ricchi, snob e “intellettuali”, costruito ad arte da commedianti con un unico fine che si può riassumere con la celebre frase di 31 R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, cit., pp. 5-6. 23 Paul Bocuse: «Niente nel piatto, tutto nel conto». Savater inoltre risollevò le questioni della differenza tra arte e artigianato e dell’impossibilità della cucina di uscire dal suo essere una pratica. “Certo, in senso lato ci sono sicuramente «artisti» dei fornelli, gente che li usa con destrezza e abilità particolari, che si documenta con cura su materie prime e condimenti o che ha una speciale inventiva nell’armonizzare i sapori. Non è cosa da poco e meritano tutto il nostro apprezzamento. Ma la loro bravura appartiene all’onesto mondo dell’artigianato, non a quello della creazione artistica, il cui obiettivo non è soddisfare i sensi, ma risvegliare sentimenti e spingere alla scoperta di inediti significati. […] L’incoronazione di Ferrán Adriá durante la Fiera dell’arte di Kassel non aggiunge una virgola alla sua «genialità», ma rivela quanto siano insulsi i chierici dell’attuale decadenza artistica.”32 Le principali critiche e obiezioni mosse al gusto alimentare e alla culinaria possono essere raggruppate sotto tre grandi sfere: quella epistemologica, quella estetica e quella etica. La prima ritiene la culinaria una disciplina non scientifica perché legata al corpo e ai suoi sensi minori: questi non vengono considerati elementi adatti a una scienza esatta e non sono portatori di conoscenza, facoltà appartenente all’intelletto. La seconda delinea come la culinaria non possa essere considerata un’arte: essa è ritenuta una materia più vicina all’artigianato, perché costituita da un’esperienza fugace e non permanente, quindi effimera. La terza relega il gusto all’ambito del piacere inteso nella sua forma più istintuale e animalesco, quindi la culinaria come forma potenzialmente più incline al peccato e all’immoralità.33 Prima però di rivalutare il gusto alimentare, affrontandone le critiche ad esso rivolte, ci soffermeremo sulla considerazione del corpo e dei suoi sensi. 32 33 F. SAVATER, L’arte della digestione, “La Stampa”, 26 settembre 2007. Cfr. N. PERULLO (2012: 35). 24 II. PARTE SECONDA LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO “C’è più ragione nel corpo che nella tua migliore sapienza. F. Nietzsche “Amate le bestie: Dio ha dato loro il principio e la gioia pacifica. Non tormentatele, non turbatele, non togliete loro la gioia, non opponetevi all’intento di Dio. Uomo, non innalzarti sugli animali”. F. Dostoevskij LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA La riconsiderazione del corpo nella filosofia del Novecento non è solamente legata al rapporto dualistico di questo con l’anima e non è nemmeno una banale considerazione della sua importanza. Il corpo, infatti, si appropria di una nuova considerazione, nei termini di ruolo e soggetto. Non appare più come corpo-oggetto o come corpo rappresentativo. Esso non è più accessorio dell’anima ma diviene corpo vissuto, ricettore e creatore di mondo, in rapporto con esso. Primo strumento – per dirla con Schopenhauer – per trascendere il velo di Maya. “Non è tanto la nozione di corpo genericamente inteso a diventare centrale nella filosofia del Novecento. Sono, più in specifico, le nozioni di “corpo animato” e di “corpo vissuto” in quanto affermano 25 un’esperienza della corporeità diversa dalla concezione che può riassumersi nelle nozioni di “corpo-oggetto” o di “corpo- rappresentazione”. Quest’ultime esprimono a loro volta la concezione che ha tradizionalmente sotteso il pensiero dell’Occidente, contribuendo in modo decisivo a caratterizzarlo in senso metafisico: a caratterizzarlo cioè quale pensiero che colloca la verità oltre le cose sensibili. Le nozioni di “corpo-oggetto” o “corpo-rappresentazione” servivano infatti a separare il corpo dall’anima ponendolo in una posizione subordinata rispetto a questa. Ciò vale tanto per la caratterizzazione platonica del corpo quale prigione dell’anima, quanto per quella cartesiana del corpo come res extensa distinta dalla res cogitans. In ogni caso si trattava di un corpo che ho, mentre il Novecento è andato piuttosto sottolineando una caratterizzazione del corpo quale corpo che sono.”34 Ed è proprio Schopenhauer uno dei precursori che, già ai primi dell’Ottocento, imposta una nuova riflessione sul corpo, considerandolo veicolo attraverso cui ciascuno di noi può trascendere il mondo rappresentato e raggiungere l’essenza, la volontà. Nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione, egli infatti caratterizza il corpo sì come rappresentazione – all’interno di una più ampia caratterizzazione del mondo come mia rappresentazione – poi però si chiede come sia possibile superare il velo di Maya delle rappresentazioni e giungere a individuare nella volontà l’essenza stessa del mondo. Ed è qui che il filosofo tedesco inserisce un «passaggio sotterraneo», da ritrovare proprio nel corpo. “In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pure rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è 34 Intervista a M. CARBONE in Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, a cura di C. Rozzoni e M. Binchetti, “Chora”, anno IV, N. 9, luglio 2004, p. 1. 26 condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s’è mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel mondo.”35 Non possiamo considerare il corpo e la mente in modo separato, sarebbe come immaginare di inserire la coscienza all’interno di una macchina, o la coscienza di una persona in un altro corpo. Mente e corpo sono un tutt’uno e il loro rapporto e vicendevole, essi si influenzano e si evolvono l’uno rispetto all’altro e tramite l’altro. Il rapporto che si crea è costituito da un continuo interscambiarsi d’informazioni e influenze, questo scambio continuo prende una forma circolare dove non si riesce più a distinguere l’inizio dalla fine. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni, non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza di una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non comprenderebbe l’influsso dei motivi più di quanto comprenderebbe il nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva. All’intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni e operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro.”36 Il gioco che s’instaura tra mente e corpo non è un semplice rapporto causaeffetto, il corpo diviene allo stesso tempo costruttore di mondo e parte di mondo; è attraverso il corpo che io abito un mondo e ne faccio conoscenza incontrandomi con esso. 35 A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1972, pp. 152-154. 36 Ibidem. 27 “Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell’enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità con il proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l’atto, senza accorgersi che esso appare come movimento del corpo.”37 Ecco qui esplicitata in modo chiaro l'unità tra corpo e volontà, il loro essere unità agente nel mondo, il loro essere un tutt'uno che agisce. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante intuizione per intelletto. L’azione del corpo non è altro, che l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato dall’intuizione.”38 Come evidenzia bene Carbone: “Egli sottolinea infatti che nell’appetito, nelle tensioni, nel desiderio sessuale noi facciamo un’esperienza del nostro corpo che ci fa andare oltre la sua caratterizzazione in termini di “rappresentazione”, rivelandocelo piuttosto un’incarnazione della volontà. Tale rivelazione ci consente allora di passare al di là della conoscenza del mondo quale 37 38 Ibidem. Ibidem. 28 rappresentazione, arrivando, infine, a considerare la volontà come il principio che costituisce, appunto, l’essenza di tutta la realtà.”39 D’altro canto anche Roberto Lolli sottolinea la ritrovata funzione conoscitiva del corpo e la sua costitutiva istintualità: una «volontà che va oltre la nostra volontà»: “Nel tracciare la parabola della concezione filosofica del corpo, assume grande importanza la svolta introdotta da Schopenhauer che ne Il Mondo come Volontà e Rappresentazione si distacca dalla gnoseologia settecentesca e da Kant liquidando la pretesa che la mente possa essere solo un occhio che puramente guarda la realtà. Non siamo “alate teste d’angelo”, ma esseri radicati in un corpo e proprio il corpo diventa lo strumento per un’esplorazione che permette di oltrepassare il limite della rappresentazione del mondo e di attingere a cosa vi sia di là da quel che viene denominato “il Velo di Maya”, l’apparenza fenomenica. Il corpo, con i suoi movimenti spontanei e incontrollabili, coi suoi processi metabolici, con la sua circolazione cardiovascolare e i suoi infiniti micro eventi chimico-fisici si presenta come qualcosa di più di un oggetto fra gli oggetti e ci rivela la presenza di una volontà che va oltre la nostra volontà, di un istinto che è anteposto a ogni altro impulso che crediamo di definire "nostro". Si tratta di un passaggio fondamentale, destinato ad avere un’enorme influenza sul pensiero degli ultimi due secoli. Non si tratta più, infatti, di riconoscere nel corpo un bel contenente o uno strumento cognitivo, una specie di antenna di ricezione della mente orientata verso l’esterno, bensì di distinguervi una specificità ontologica e gnoseologica, ossia il rango di chiave d’accesso a qualcosa che, diversamente, resterebbe per sempre celato.”40 Questa riscoperta del corpo coincide anche con l’affermazione della sua ontologica ambivalenza. Ambivalenza che, però, non passa più attraverso il dualismo cartesiano dove, ci ricorda Husserl, l’anima, la res cogitans «è il residuo di un’astrazione preliminare del puro corpo; dopo quest’astrazione 39 M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p. 2. Il corpo nella filosofia occidentale. La riscoperta del corpo nel XIX e XX secolo Vol. 4, Treccani il Portale del Sapere, ( consultato il 20 novembre 2013). 40 R. LOLLI, 29 essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro corpo»41. Il corpo, infatti, come noi lo viviamo, non è solamente un corpooggetto - ridotto e limitato dalla scienza per essere compatibile con i suoi metodi e le sue ipotesi – ma è innanzitutto un corpo vivente, come dice Carbone: il corpo che sono. «Tra i corpi di questa natura trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Körper), ma corpo vivente (Leib)»42. Non possiamo pensare che il corpo assuma una rilevanza psicologica se continuiamo a considerarlo una «cosa», mera estensione fisica, e non gli riconosciamo quella intenzionalità che gli è data dall’essere corpo vivente. Noi sentiamo, viviamo il nostro corpo in rapporto non a un’anima distaccata, ma a un mondo. Non più anima-corpo, ma corpo-mondo. “Il corpo può infatti attuarsi e rivelarsi in infiniti modi, tempi e luoghi, per cui noi ad esempio siamo là in carne e ossa fin dove ci trascendiamo, in quel mondo sociale (Mit-welt) e circostante (Um-welt) dove siamo con qualcuno o con qualcosa d’altro da noi. Questa è la ragione per cui, fin dove si estende la presenza, là si estende il mio corpo, perché suo è quello spazio, come è del danzatore lo spazio di cui si appropria nel danzare. Ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza è corporea e che il corpo è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce non sono le espressioni esteriori di un Io trascendentale e nascosto, ma sono io, così come il mio volto non è un’immagine di me, ma sono io stesso. Nel corpo, infatti, c’è perfetta identità tra essere e apparire, e accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio.”43 Tra intelletto e mondo non c’è distanza, ma correlazione. Luogo di questa correlazione è il corpo: senza di esso, infatti, non c’è anima o intelletto che possa intendere qualcosa del mondo. Perché attraverso il mio corpo vivente 41 E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2002, p. 108. 42 Ivi, p. 107. 43 U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 15-16. 30 (Leib), io faccio esperienza del mondo, sono impegnato in un mondo, agisco nel mondo. “L’intenzionalità del corpo non è oggettivante come quella dell’intelletto che possiede le cose solo distanziandosene, ponendosele di contro a guisa di oggetti (Ge-gen-stand, ob-jectus); l’intenzionalità del corpo è nel suo essere destinato a un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso cui non cessa di dirigersi e di progettarsi. L’intelletto può giudicare le cose del mondo, può tematizzarle, oggettivarle, solo perché queste cose sono già esposte ad un corpo che le vede, le sente, le tocca, sono già solidali con esso, in quell’unità naturale e pre-logica che fa da sfondo ad ogni sua costruzione logica. Il mondo, infatti, è "già là", offerto al nostro corpo prima di ogni giudizio e di ogni riflessione, così come il nostro corpo è già esposto al mondo in quel contatto ingenuo che costituisce la prima e originaria riflessione.”44 La correlazione tra corpo e mondo si sostituisce, secondo la fenomenologia, al dualismo cartesiano e fa sì che il corpo sia il veicolo attraverso il quale facciamo conoscenza del mondo. Tale agire del corpo nel mondo percettivo però, sia chiaro, può esercitarsi anche nei confronti del nostro stesso corpo: io posso percepire la mia mano attraverso il mio occhio o attraverso l’altra mano e così via. Questo significa che io sono Leib sempre sul punto di rovesciarsi in Körper, da corpo vissuto posso sempre passare a corpo-oggetto. Per questo possiamo dire che siamo sempre altro da noi stessi, perché possiamo sfuggirci e oggettivarci a noi stessi in un continuo equilibrio dinamico. “Così la coscienza del mondo è in un movimento costante; il mondo è sempre presente alla coscienza attraverso le strutture oggettuali e nell’evoluzione dei diversi modi di coscienza (intuitivo, non-intuitivo, determinato, indeterminato, ecc.), ma anche nell’evoluzione dell’affezione e dell’azione; tanto che esiste sempre un ambito complessivo dell’affezione, e gli oggetti che vi sono compresi e che producono affezioni sono ora tematici e ora non-tematici. Tra essi anche 44 Ivi, p. 117. 31 noi stessi, che rientriamo sempre, inevitabilmente, nell’ambito delle affezioni, che siamo sempre fungenti in quanto soggetti di atti, ma che soltanto occasionalmente diventiamo nematicamente oggettuali in quanto oggetti delle nostre auto-considerazioni.”45 Questa nuova riconciliazione tra anima e corpo non interessa solo il campo filosofico, ma influenzerà anche la psicoanalisi, l’antropologia, la sociologia e la letteratura. Per quel che riguarda la psicoanalisi freudiana, si assiste a un fenomeno particolare: se da un lato è possibile vedere ancora una forte eredità cartesiana per quel che concerne la teorizzazione del metodo, la pratica psicoanalitica sembra invece seguire le linee nuove dettate dall’approccio fenomenologico al problema del corpo. «Nonostante la terminologia impiegata, la teoria di Freud si propone come una sorta di naturalismo fisico-biologico, dove la psiche è intesa come un epifenomeno dell’organismo che la sottende»46. L’intento originario di Freud era quello di far rientrare la psicologia all’interno delle scienze naturali cercando quindi di costituirla come discorso scientifico attorno al problema uomo. Questo fece sì che egli mantenesse sempre un atteggiamento causale di fronte al manifestarsi di ciascun fenomeno da lui analizzato. Trasse dalla fisica e dalla biologia del suo tempo le basi per costruire il suo sistema teorico e le applicò poi all’essere umano: concepì la libido e le pulsioni, ad esempio, come la rappresentazione di forze organiche, secondo modelli quantitativoenergetici. “Nella teoria psicoanalitica non esitiamo ad affermare che il flusso degli eventi psichici è regolato automaticamente dal principio di piacere; riteniamo che il flusso di questi eventi sia sempre stimolato da una tensione spiacevole, e che prenda una direzione tale che il suo risultato finale coincide con un abbassamento di questa tensione, e cioè col fatto di 45 46 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 138-139. U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 124. 32 aver evitato dispiacere o prodotto piacere. Considerando i processi psichici da noi studiati in relazione a questo flusso, introduciamo nel nostro lavoro il punto di vista economico. Riteniamo che un’esposizione che cerchi di valutare anche questo fattore economico, oltre a quello topico e dinamico, sia la più completa che possiamo attualmente immaginare, e meriti la denominazione di esposizione «metapsicologica».”47 Quindi, una volta applicati i principi topologici, dinamico, economico e meccanico, risulta quasi naturale concepire la nevrosi come un arresto della corrente energetico-libidinale. Anche i rapporti psico-fisici sono letti in chiave di equilibri tra corpo e mente, volti a mantenere una stabilità tra le forze dinamico-energetiche. “Una volta tradotto in termini fisici l’ordine dei significati psichici, Freud non può evitare quell’oggettivazione del soggettivo per cui, in armonia con l’ideale esplicativo delle scienze naturali, il soggetto diventa oggetto come tutti gli oggetti del mondo. Ciò è particolarmente evidente nel linguaggio, dove l’uomo non dice di sé: «Io», ma si comprende a partire da quell’apparato psichico che ha un Io, così come ha un Es e un SuperIo. Siamo alla spersonalizzazione come nella psichiatria classica, e come è inevitabile che sia in ogni scienza che ex professo si dichiara naturalistica.”48 Questa oggettivazione non esclude di certo il corpo, che viene descritto esclusivamente da un punto di vista naturalistico-biologico; non si può qui parlare quindi di uomo fenomenologicamente inteso. «La psicoanalisi reputa che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e proprio psichico»49: identificare lo psichico con il fisiologico quindi. 47 S. FREUD, Jenseits des Lustprinzips (1920); tr. it. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 17, (corsivo mio). 48 U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 127. 49 S. FREUD, Abriss der Psychoanalyse (1938); tr. it. Compendio di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 29. 33 La svolta nel pensiero freudiano arriva, come si è detto, nell’analisi della prassi terapeutica. Si legge, infatti, nell’Introduzione al narcisismo: “Evidentemente nozioni come quelle di libido dell’Io, energia delle pulsioni dell’Io e così via non sono né particolarmente perspicue né abbastanza ricche di contenuto; una teoria speculativa delle relazioni che le riguardano dovrebbe essere intesa innanzitutto a darsi un fondamento concettuale rigorosamente delimitato. È appunto questa, io credo, l’unica differenza fra una sull’interpretazione teoria empirica. speculativa e Quest’ultima una non scienza fondata invidierà alla speculazione la sua prerogativa di fondarsi su nozioni precise e logicamente inattaccabili; al contrario si accontenterà di buon grado di alcuni sfuggenti e nebulosi principi di fondo di cui quasi non si riesce a farsi un concetto, sperando che essi si chiariscano strada facendo e ripromettendosi di sostituirli eventualmente con altri. Questi principi non costituiscono infatti la base della scienza sulla quale poggia tutto il resto; solo all’osservazione spetta questa funzione. Essi non sono le fondamenta, ma piuttosto il tetto dell’intera costruzione e si possono sostituire o asportare senza correre il rischio di danneggiarla. È quello che sta accadendo anche alla fisica contemporanea, le cui vedute di fondo relative alla materia, ai centri di forza, all’attrazione e così via, sono poco meno dubbie delle corrispondenti vedute della dottrina psicoanalitica.”50 Ogni processo scientifico è quindi provvisorio e sempre possibile di modifica. È fondamentale e necessario, dunque, separare la prassi terapeutica dalla teoria scientifica. Ed è nella prassi che Freud recupera un’idea di uomo nella sua interezza, distanziandosi dagli schemi meccanicistici e scientifici. Nel rapporto antropologico e non biologico tra il terapeuta e il paziente si riconosce un’apertura fenomenologica ed esperienziale tra corpi che vivono, non meri oggetti. “Questo mondo in comune che si crea "in pratica" è un altro elemento che smentisce l’impianto teorico causalistico della psicoanalisi. Se infatti 50 S. FREUD, Zur Einführung des Narzissmus (1914); tr. it., Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 21-22, (corsivo mio). 34 nel trattamento analitico il malato "guarisce" non è certo perché gli si indicano le “causalità inconsce” che hanno determinato le sue manifestazioni morbose. Non basta che il paziente sappia, egli deve vivere con l’analista gli avvenimenti su cui in precedenza ha dato informazione e ragguaglio.”51 Questa conclusione è possibile solamente se si rinuncia al dualismo cartesiano e si accede alla visione fenomenologica che esprime una nuova concezione del corpo e del suo rapporto col mondo. “Certo, nei primi testi di Freud si parte da una concezione ancora meccanicistica del corpo, in cui l’istinto risulta una sorta di struttura che, appunto meccanicisticamente, condiziona l’intera esistenza dell’individuo. Successivamente Freud procede però a un progressivo anche se forse mai completo affrancamento da questa concezione, descrivendo i rapporti tra sessualità ed esistenza in modo tale da offrire una caratterizzazione della corporeità convergente con quella prima indicata con l’espressione «corpo vissuto».”52 Io sono il mio corpo e vivo attraverso esso la mia esistenza. Seguendo questo ragionamento posso, dire che io sono anche i miei sensi, attraverso cui faccio esperienza nel rapporto col mondo. Si può quindi parlare di gusto intendendolo come uno dei modi in cui il mio corpo vivente incontra il mondo. Nonostante la rivalutazione del corpo e del suo essere mondo attraverso i sensi, il gusto e l’olfatto, tra gli altri, risultano ancora elementi percettivi marginali e inferiori: essi sono legati a concezioni negative e denigrati alla sfera della superficialità o, al massimo, elevati a strumenti per «la tutela del nostro benessere».53 Solo con l’arrivo di Feuerbach, il gusto non solo recupera una valenza conoscitiva, ma si avvale anche di una qualità appagante: il piacere gustativo. Il gusto non è solo uno strumento di ricerca del cibo atto alla 51 U. GALIMBERTI, 52 Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 142. M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p.52. 53 R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, cit., pp. 7. 35 sopravvivenza, ma diviene esperienza di piacere sensoriale, infatti Feuerbach descrive l’uomo come “il superlativo vivente del sensualismo […] il più sensuale e il piu sensibile di tutti gli esseri del mondo. […] Soltanto in lui la sensazione da essere relativo, subordinato ai basso scopi della sopravvivenza, diventa essere assoluto, fine in sé, godimento in se stesso.”54 Con Feuerbach si entra in una concezione olistica dell’uomo, in una vera e propria “filosofia dei sensi”55: non troviamo una gerarchia sensuale, poiché tutti i sensi collaborano all’esperienza e alla vita umana. “Anche i sensi inferiori, come l’odorato e il gusto, si elevano nell’uomo, alla dignità di atti spirituali e scientifici, perché diversamente dal determinismo animale, oltrepassano i vincoli che ligano ai bisogni fisiologici: libertà e universalità sono, infatti, tratti specifici dell’uomo preso nella sua totalità.”56 Allo stesso modo Nicola Perullo, parafrasando alcuni passi di Wittgenstein e Barthes, ricorda come gli aspetti più importanti e significativi per l’essere umano risiedano nascosti nella sua quotidianità: spesso, l’uomo, si ritrova a vivere tali atti quotidiani in modo convenzionale, senza attenzione e consapevolezza57, reputandoli insignificanti e privi di importanza. 54 L. FEUERBACH, Winder den Dualismus von Leib und Seele, Fleisch und Geist (1846); tr. it. Contro il dualismo di anima e corpo, di spirito e carne, in A. PACCHI, Materialisti dell'Ottocento, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 105-127, in R.CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, Laterza, Bari 2011, p.14. 55 Cfr. G. MOSCATI, Dalla filosofia della morte alla filosofia della vita, Morlacchi editore, Perugia 2009, p. 59. Leggiamo dunque dal Contro il dualismo di corpo e anima, di carne e spirito: “ La separazione dell’uomo in corpo e anima, in un essere sensibile, è una separazione soltanto retorica; nella patica la neghiamo, tanto che quando abbracciamo un essere amato siamo convinti di abbracciare non i suoi organi o la sua apparizione, ma l’essere stesso” (Feuerbach 1846: 166). Le parole di Feurbach meritano attenzione: c’è qui, innanzitutto, l’idea della vita che afferma di fatto lo stretto, vitale direi, legame che unisce lo spirituale al corporeo; di conseguenza c’è poi la sottolineatura del carattere meramente speculativo della divisione, operata dai dualisti, dell’uomo in materia e anima; e c’è, ancora, la convinzione per cui è la sensibilità (l’essere amato) a permetterci di cogliere, direttamente l’essere tout court dell’uomo: l’essere che è al di là delle apparenze e che è in più rispetto all’elemento organico. Feurbach avrebbe ribadito in piu occasioni che il suo intento è quello di rivolgersi all’uomo integrale, “ l’intero essere umano, dalla sommità della testa fino al calcagno” (Feuerbach 1846: 47). 56 L. FEUERBACH, Grundsätze der Philosophie der Zukunft (1843); tr. it. Principi della filosofia dell’avvenire, Einaudi, Torino 1946, p.137, in R.CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, Laterza, Bari 2011, p.15. 57 Cfr. N. PERULLO, Il gusto come esperienza, saggio di filosofia e estetica del cibo, cit., p. 44: “Ludwing Wittgestein diceva: «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro 36 “Barthes ribadiva: «Noi non percepiamo il nostro cibo, o, cosa ben peggiore, lo consideriamo insignificante: anche (o soprattutto?) per lo studioso, il cibo è argomento futile e colpevolizzato». Impegniamoci dunque a osservare e a percepire il nostro cibo quotidiano, con pazienza e fiducia.”58 Per superare questa visione unidirezionale, occorre osservare gli aspetti del cibo e del gusto alimentare da un'altra prospettiva: il gusto, oltre ad apparato di soddisfazione del bisogno e del piacere, deve essere considerato uno strumento conoscitivo, comunicativo e rappresentativo. Attraverso il cibo dobbiamo imparare a educare, a fare crescere sia fisicamente che intellettualmente la persona: esso è un possibile mezzo di creazione della coscienza critica. Il gusto, come vedremo, è pregno di significati che vagano dalla sfera affettiva a quella etica, culturale e sociale e non riconoscerli vuol dire ridurre la capacità critica dell’uomo e sminuire il potenziale delle sue facoltà corporee. In questo senso abbiamo in Italia uno dei più importanti esempi di utilizzo del gusto come strumento educativo: il concetto di Slow Food, a cui fa riferimento Carlo Petrini. La sua idea è che il gusto non serva soltanto allo sostentamento del corpo, ma che sia piuttosto uno strumento educativo, di convivialità e di cultura. Attraverso questi elementi si possono insegnare ai bambini e agli adulti valori come il rispetto della terra, l’educazione al piacere, la partecipazione responsabile alla società. Rosalia Cavalieri riassume nel Gusto - L’intelligenza del palato, in poche righe, la storia e i principi di questo noto movimento: “La formazione del gusto si rivela dunque tanto un fatto biologico quanto un fatto culturale. A Slow Food, l ‘associazione internazionale fondata nel 1989 da petrini, con sedi in tutto il mondo. […] con l’obbiettivo di promuovere e valorizzare il piacere legato al cibo, e di studiare, semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere – perché gli abbiamo sempre sotto gli occhi)».” 58 Ivi, p. 45. 37 difendere e divulgare le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni parte del mondo – va il merito di aver ideato già da diversi anni un progetto di educazione al gusto rivolto a bambini e ad adulti, divenuto l’obbiettivo chiave del movimento. […] La vera cultura sta nello sviluppo de gusto non nel suo immiserimento, da qui una promozione di educazione alimentare e al gusto basata sul presupposto che il cibo non sia soltanto nutrimento ma soprattutto piacere e sapore, […] coniugati a cultura e convivialità, un valore quest’ultimo che è sinonimo di dialogo, di condivisione, di ricerca di affinità e di confronto.”59 59 R. CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, cit., p. 26. 38 III. PARTE TERZA IL GUSTO “Detesto l'uomo che manda giù il suo cibo affettando di non sapere che cosa mangia. Dubito del suo gusto in cose più importanti”. C. Lamb “Il gusto è, per così dire, il microscopio del discernimento”. J.J. Rousseau L’APPARATO GUSTATIVO L’ampia rivalutazione del corpo e dei suoi sensi operata dalla filosofia contemporanea e il loro reinserimento come elementi degni di studio e di ricerca, danno senso e motivazione all’analisi del funzionamento dell’apparato gustativo su cui ci soffermeremo ora. La spiegazione di tale apparato interessa questo studio per dimostrare come il sistema gustativo nell’ambito scientifico sia ritenuto comune a tutti gli esseri umani. In un secondo momento vedremo come, nel determinare il gusto personale di ogni soggetto, entrino in gioco l’esperienza, il vissuto e l’educazione particolare dell’individuo. Da ciò determineremo come il 39 giudizio di gusto sia un giuoco60 tra corpo e mente, un sistema che per sua costituzione trascende il tradizionale dualismo psyché-sôma. Non più una visione conflittuale tra corpo e mente o la classica concezione di separazione, ma una collaborazione, un tutt’uno che lavora per lo stesso fine: la percezione e la vita umana. Il sistema gustativo funziona nel seguente modo: “Forma di sensibilità a contatto che risponde a sostanze in soluzione agenti a livello dei recettori che si trovano sulle papille gustative dei margini e della parte posteriore della lingua. Ogni papilla gustativa contiene dalle 10 alle 15 cellule gustative che si riproducono continuamente a un ritmo che permette il rinnovamento completo ogni sette giorni. Il numero delle papille gustative decresce con l’età per cui i vecchi sono meno sensibili ai sapori rispetto ai bambini. Gli impulsi delle fibre nervose che originano dalle cellule gustative vengono trasmessi, attraverso vari nervi cranici e collegamenti sinaptici, con neuroni del tronco dell’encefalo, sino al talamo da cui proseguono verso la corteccia dove nell’area sensitivo-somatica trovano la rappresentazione della lingua e della faringe. Si riconoscono nel gusto quattro qualità primarie: il dolce, il salato, l’amaro e l’acido, a cui sarebbero deputati recettori diversi collocati per il dolce sulla punta della lingua, per l’amaro sulla parte posteriore, per l’acido sui lati, mentre la sensibilità al salato sarebbe diffusa. Il senso del gusto dà luogo a sensazioni immediate che, a differenza dei suoni e delle immagini, non sono riproducibili mentalmente, ma restano come gli odori, associati agli elementi presenti nella situazione in cui sono prodotti.”61 Il sistema gustativo quindi si esplica principalmente in tre fasi: la percezione tramite il poro gustativo e le sinapsi, la trasmissione del dato attraverso le fibre nervose e la ricezione sino al talamo e alla corteccia. Suddetto apparato sarà quindi universale per tutti gli esseri umani, potrà variare d’intensità e di sensibilità62, ma un cibo acido sarà percepito dalle mucose della lingua come 60 Cfr. I. KANT, Kritik der Urteilskraft (1790); tr. it. Critica del giudizio, Laterza, Bari 1997. 61 AA. VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 2003, p. 489. La diversa sensibilità può dipendere da alcuni fattori: la costituzione propria del soggetto; l’età biologica; la nascita di alcune patologie (come l’augesia, ovvero il deterioramento o l’assenza di 62 40 acido dalla maggioranza63 dei soggetti. In questa sede, ciò che riteniamo di particolare interesse è il giudizio di gusto personale di ogni soggetto. Ad esempio, il gusto amaro sarà definibile amaro per la maggioranza, ma solamente ad alcune persone piacerà, per altre, invece, sarà detestabile. Abbiamo però appena visto che la percezione dell’amaro, la sua trasmissione e la sua recezione nella corteccia, è uguale in tutti i soggetti. La domanda che ci poniamo, a cui proveremo a dare risposta con questo studio, è la seguente: cosa entra in gioco nel dare differenti pareri di piacevolezza e non? Come vedremo, la possibilità di gustare il cibo in modo diverso non dipende solo dal sistema gustativo, ma anche da quello visivo, olfattivo e tattile. Non solo, andremo soprattutto a mettere in evidenza quanto siano importanti, nel contesto dello sviluppo del gusto, i fattori come l’esperienza, il vissuto personale, l’educazione e le tradizioni. Pensiamo ad esempio ai ricordi legati alle proprie emozioni: assaporare una pietanza che rimanda alla memoria di una persona affettivamente importante, come il piatto creato grazie alla “ricetta della nonna”, può dare l’effetto di tornare per un istante al mondo emotivo infantile. Il gustare, a una prima analisi, può sembrare un atto semplice e istintivo (questo piace e quest’altro no), ma occorre precisare che, proprio attraverso queste semplici asserzioni, creiamo la nostra personalità, le nostre abitudini, il nostro stile di vita: in una parola, il nostro Gusto. Esso non può quindi essere ridotto a un mero atto meccanico, ma bisogna rivalutarlo come uno dei sensi più complessi, un momento che comprende molti aspetti e funzioni dell’essere umano. Possiamo trovare una considerazione simile leggendo l’articolo di Mariangela Lopopolo che offre alcuni passi e nomi di autori interessanti per la prosecuzione della presente ricerca: gusto, imputabile a lesioni cerebrali o a difetti nello sviluppo degli organi di senso); lo scatenarsi di forme psicogene (come l’isteria o la depressione). 63 Il gusto acido sarà recepito acido dai soggetti non colpiti da malattie legate all’apparato gustativo o da malattie che incidono sulla percezione degli odori e dei gusti. L’età del soggetto incide molto sulla sensibilità e quindi sulla percezione del gusto; tra gli altri fattori che alterano la percezione troviamo l’uso di medicinali, il tabagismo e l’acolismo. 41 “Il senso comune potrà senz’altro confermare che il cibo è un’esperienza di gusto ed un piacere per chiunque. Anche se mangiamo per fame, ossia in risposta alla «voce del corpo» che ci richiama alla necessità fisiologica di alimentarci, mangiamo di gusto e con piacere. Beninteso, con piacere positivo (“mi piace”) oppure negativo (“non mi piace”). Quello che siamo soliti chiamare “gusto” risulta, in realtà, dal concorso di vari sensi che si incontrano nella percezione dei sapori. Esso è originato dalle papille gustative, dai recettori tattili e termici della lingua, dalla mucosa olfattiva stimolata dagli odori del cibo, dal presentarsi del cibo stesso alla vista, ma anche dalle sollecitazioni dell’udito, quest’ultimo in gioco quando cogliamo la consistenza di un alimento (si pensi al croccante). Dalla poli-sensorialità del gusto allo stato edonico, il passo è breve: il sapore del cibo fornisce un accesso diretto al piacere (al dispiacere, se quanto mangiamo non ci piace).”64 L’apparato gustativo, oltre a quello che abbiamo visto finora, presenta, come proprio elemento costitutivo, un metro di giudizio che diversifica ciò che è buono da ciò che è cattivo e ciò che è commestibile da ciò che non lo è. Possiamo definirlo un sistema difensivo atto a riconoscere ciò che è dannoso per il corpo da ciò che gli è salutare: “L'importanza della sensibilità gustativa è collegata soprattutto alla nutrizione e all'assunzione di liquidi. Il sapore di un cibo o di una bevanda è infatti fondamentale nel determinarne la commestibilità e l'appetibilità; il rifiuto di un cibo a causa del suo sapore sgradevole è importante per la sopravvivenza di molte specie animali. Schematicamente, si possono associare ai 4 sapori fondamentali funzioni diverse: assicurare le riserve energetiche (dolce), mantenere l'equilibrio elettrolitico (salato), monitorare il pH (acido, amaro), evitare sostanze tossiche (amaro). Di norma, le sostanze dolci provocano una sensazione piacevole e l'innesco di riflessi di salivazione, di deglutizione e di preparazione del tubo digerente alla digestione e all'assorbimento. Invece, il sapore amaro provoca sovente il rifiuto del cibo o della bevanda e, se 64 M. LOPOPOLO, Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma Mater Studiorum, Bologna 2012, (consultato il 16 settembre 2013). 42 molto intenso, stimola il riflesso del vomito: questo è presumibilmente in relazione al fatto che la maggior parte delle sostanze tossiche presenti in natura ha sapore amaro. Il grado di piacevolezza di un sapore è tuttavia soggettivo e può essere influenzato dall'esperienza e dalle necessità nutrizionali. Sia l'animale che l'uomo tendono a rifiutare un cibo dal quale in passato siano stati intossicati. In base alle informazioni gustative e olfattive si ha la capacità di operare una scelta tra diversi cibi e preferire quello che fornisce l'apporto nutritivo più consono alle esigenze dell'organismo.”65 La parte istintuale e biologica dell’apparato gustativo crea rimandi di tipo emozionale nella persona. Questi stati emotivi possono essere positivi o negativi rispettivamente all’assunzione da parte del soggetto di alimenti salutari o dannosi. Infatti, la Lupton, dopo alcune interviste e ricerche, afferma: “Dai racconti di alcune persone è anche palese che il percepire il cibo come "sano" o "malsano" serve a farle sentire in determinati modi quando mangiano. Dunque introdurre nel proprio corpo certi alimenti ha un effetto emotivo, poiché influenza la soggettività: «Ci si sente molto meglio quando si mangia la cosa migliore».”66 Invero, un soggetto sottoposto a diverse ricerche empiriche e statistiche così descrive il cibo salutare durante un’intervista proposta dalla stessa dottoressa: “Non necessariamente il cibo mi fa sentire bene a livello mentale. Secondo me il cibo dovrebbe essere qualcosa che aumenta le mie energie ed è facile da digerire, non mi dà alcun problema, non mi dà disturbi di stomaco, né problemi di indigestione […] Io lo mangio e so che fa bene al mio corpo – mi fa sentire bene perché so che fa bene al mio corpo.”67 65 P. BATTAGLINI, Appunti di fisiologia dell’apparato stomatognatico, Università degli studi di Trieste, Trieste 2011, (consultato il 17 settembre 2013). 66 D. LUPTON, Food, the Body and the Self (1996); tr. it. L’anima nel piatto, il Mulino, Bologna 1999, p. 138. 67 Ivi, p. 139. 43 Analizzato il sistema gustativo dal punto di vista biologico, prenderemo in considerazione gli altri input che vanno a formare e modificare le preferenze alimentari. Il gusto, in ognuno di noi, è influenzato e formato dai ricordi personali, dalle emozioni e dal piacere, così come dall’ambiente sociale e dal confronto con l’alterità. Inoltre, un peso particolare sulla formazione del Gusto è dato dall’educazione e dal contesto familiare, in particolare dal rapporto figlio-genitori. LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO Come abbiamo visto, il sistema gustativo di base è universale per tutti gli esseri umani: esso può essere differenziato qualitativamente, nel senso che ci sono soggetti più o meno sensibili (si pensi al cosiddetto palato fine), ma come struttura, funzioni di base e costituzione, rimane un apparato comune e uguale per tutti. In questo contesto, la parte più rilevante di tale sistema non è quella prettamente biologica, ma quella mentale, che viene formata dalla cultura, dalla società, dall’educazione, così come dai vissuti e dai ricordi. In questo caso andremo ad argomentare come il gusto abbia un forte legame con i ricordi, ovvero come, ad esempio, attraverso un aroma o un profumo, la memoria sia in grado di farci fare salti spazio-temporali portandoci così a rivivere le emozioni piacevoli ormai dimenticate, legate all’infanzia o a un remoto passato. “C’è un nesso potente tra il ricordo e la dimensione emotiva del cibo. Dato che il cibo è un elemento del mondo materiale che incarna e organizza le nostre relazioni con il passato, secondo modalità socialmente 44 significative, la relazione tra preferenze alimentari e ricordi può essere considerata simbiotica. I ricordi sono concretizzati, spesso rievocati, tramite il gusto e l’odorato. Gli effetti dei ricordi sono impressi sul corpo, nella postura, nel modo di camminare, nei gesti e nell’appetito per alcuni cibi. Il sapore, l’odore, la consistenza di un cibo possono perciò servire ad innescare ricordi di avvenimenti ed esperienze alimentari precedenti, mentre il ricordo può servire a delimitare le preferenze alimentari e le scelte basate sull’esperienza.”68 Posiamo notare, quindi, che non si crea solo il ricordo, non si forma un legame unilaterale tra alimento e ricordo, ma bilaterale anche dal ricordo verso l’alimento. Il ricordo sarà quindi strumento e motivazione nella creazione del nostro gusto personale e motore agente delle nostre scelte. I ricordi, anche se spesso idealizzati, sono sempre portatori e fonti di emozioni. Non possiamo non ricordare il famoso episodio narrato nell’opera di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, dove il protagonista si ritrova trasportato nella sua infanzia assaggiando delle briciole del "dolce Madeleine": “Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita...non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? […] Sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi... All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, 68 Ivi, p. 57. 45 zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.”69 Il legame tra alimentazione, emozioni e ricordi è così strutturale e forte che è stato spesso usato anche in vere e proprie strategie di marketing e di vendita, influenzando inoltre scelte stilistiche di molti chef e ristoranti lussuosi [Cfr. Lupton 1999: 58]. Le famose frasi popolari che spesso si sentono dire, come “mi ricordano quelli che faceva la nonna” oppure “ha lo stesso profumo della minestra della mamma”, non sono casualità o mere coincidenze, ma sono studiate strategie che mirano a vendere quel determinato prodotto facendo leva sui ricordi, sugli affetti e sulle forti emozioni che scaturiscono dall’immaginario legato all’infanzia. “La forza del legame tra cibo, ricordo ed emozione è tale che sono stati creati profumi mirati proprio a incanalare le nostre risposte emotive verso i sapori e gli odori del cibo. Tra i profumi, attualmente è molto in voga la vaniglia, perché ha un effetto calmante e rassicurante, evoca ricordi infantili legati a piaceri semplici, come le torte fatte in casa, ed emozioni di conforto, familiarità e sicurezza. […] Secondo i ricercatori, l’odore dei biscotti al cioccolato riduce l’aggressività; infatti, un esperto ha dichiarato che le note "raffinate" dei profumi di successo sono «tutte legate a ricordi di vacanze e dell’infanzia».”70 Lopopolo, oltre a confermare quanto detto sopra, riporta altri punti di interesse per la spiegazione del gusto e del bisogno alimentare. Alimentarsi è un bisogno primario dettato dall’autoconservazione del soggetto e della specie e, nell’essere soddisfatto, procura piacere.71 Il gusto quindi fornisce “un accesso diretto al piacere” come molte altre situazioni, comportamenti e ambienti. Una particolarità del piacere sta nell’essere sempre accompagnato dalle emozioni, 69 M. PROUST, A’ la recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann (1913); tr. it. Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, Mondadori, Milano 2005, pp. 47-54. 70 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., il Mulino, Bologna 1999, p. 58. 71 Come tutti i bisogni primari e di conservazione nell’essere soddisfatti procurano piacere al soggetto agente. Il soggetto o la specie sono attratti da questi bisogni e nel soddisfarli si conservano. 46 anche se possono essere di diversa intensità o origine.72 Le emozioni saranno molto importanti per questo studio perché giocano il ruolo di collante tra varie situazioni di cui proporremo l’analisi in seguito. “Il piacere del cibo resta un piacere nell’esperienza di tutti. Ora, come osserva Damasio, noto neuro-scienziato, il piacere è sia l’innesco, sia la qualità costitutiva di molte emozioni. Esistono emozioni primarie (gioia, tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disgusto), secondarie (imbarazzo, gelosia, colpa, orgoglio), di base (benessere, malessere, calma, tensione). Non è detto che le proviamo solo in concomitanza con uno stato di piacere, ma per ogni stato edonico è certo che ci emozioniamo. Dunque il cibo, attraverso il gusto ed il piacere che ci provoca, comporta l’emozione. […] Sorgendo nell’interiorità privata del soggetto, 73 l’emozione si pone nell’interfaccia tra corpo e mente, nonché sulla soglia tra l’individuale e il sociale. Come indica la parola stessa, l’emozione è connessa al movimento, in particolare, può essere definita «movimento delle carni». In effetti, i fenomeni emotivi producono, in un primo momento, le concrete manifestazioni corporee caratteristiche dell’individuo emozionato: si pensi alle modificazioni facciali dovute al sapore di un cibo che ci piace o no, e a tutti i vari cambi posturali, comportamentali emozioniamo.” e nell’andamento vocale assunti quando ci 74 L’alimentarsi produce piacere, quest’ultimo è portatore di emozioni. Come appena visto, le emozioni sono anche manifestazioni corporee e il tramite di espressioni facciali, vocali e fisiche. Attraverso le emozioni e il loro rappresentarsi ci relazioniamo con gli altri e con la società a noi circostante. 72 Cfr. P. DUMOUCHEL, Le corps et la coordination sociale ou les émotions (2000); tr. it. Emozioni. Saggio sul corpo e il sociale, Medusa, Milano 2008. 73 Cfr. B. RIMÉ, Le partage social des émotions (2005); tr. it. La dimensione sociale delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2008. 74 M. LOPOPOLO, Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma Mater Studiorum, Bologna 2012, (consultato il 16 settembre 2013). 47 L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA E TRADIZIONI Il confronto con l’altro, la cultura, le tradizioni, la religione, l’ambiente sociale in cui il soggetto nasce e vive hanno forti interazioni con l’identificazione del sé e con la personificazione. Il linguaggio, le abitudini, gli stili, il modo di vestirsi, sono molti gli ambiti che creano unità e identificazione all’interno di una società. Tra questi ci sono anche le abitudini alimentari. Possiamo anzi spingerci ad affermare che l’abitudine alimentare è una delle modalità con più influenze, essendo anche la prima. Infatti sia il linguaggio, sia la cultura, sia le scelte legate alla religione avvengono in età adulta; invece, le abitudini alimentari sono il primo modo di integrarsi nella società. “Le preferenze alimentari sono strettamente connesse con meccanismi di autoidentificazione sociale; in tale senso ogni nuovo alimento va incorporato nel sistema alimentare vigente, va fatto proprio, attraverso un processo di autenticazione che lo renda autoctono, locale, "genuino", così come avviene quando un neologismo o un vocabolo straniero viene "accolto" in una lingua. Solo attraverso il riconoscimento dell’origine in seno a quella comunità il nuovo nato acquistava un ruolo e uno status nel gruppo sociale, un’identità accettata in quanto negoziata e condivisa.”75 L’alimentazione e il cibo, quindi, non sono soltanto utili per l’autosostentamento, il nutrimento e il piacere che deriva dal consumare i pasti a noi graditi. La scelta alimentare, le modalità con cui viene consumato il cibo e la sua condivisione sono “fondamentali” per la costruzione della personalità di ogni soggetto, delle sue abitudini e del suo carattere . “Le abitudini e le preferenze alimentari non riguardano solo il "rifornimento" dell’organismo, la necessità di lenire i morsi della fame o 75 A. GUIGONI, L'alimentazione mediterranea tra locale e globale, tra passato e presente, in A. GUIGONI - R. BEN AMARA, Saperi e Sapori del Mediterraneo, AM&D edizioni, Cagliari 2006, p. 1. 48 il piacere offerto dalle sensazioni gustative. Il cibo e l’alimentazione sono fondamentali per la soggettività, il senso del sé e la personificazione o il modo decisamente soggettivo con cui "occupiamo" il nostro corpo e sopravviviamo. Da questo punto di vista, dunque, le abitudini alimentari e i significati o i discorsi connessi al cibo sono degni di analisi culturali e interpretazioni dettagliate.”76 Quindi, sia in ambito sociologico che in quello psico-fisiologico, il nutrimento ha una grande valenza. Il corpo ha bisogno di nutrirsi per sopravvivere e tale necessità è sempre stata considerata come essenzialmente biologica, ma non bisogna dimenticare la sua valenza socio-culturale, ambientale e simbolica. “In qualsiasi società le pratiche alimentari sono oggetto di discussione e interpretazione culturale; il cibo è infatti lo strumento simbolico per eccellenza.”77 Le abitudini alimentari, pur strettamente correlate con le necessità corporee, sono essenziali per il delineamento sociale. Definiscono infatti cultura, tradizioni, regioni geografiche, religioni, riti, abitudini, momenti del giorno e modalità educative. “Il cibo è uno snodo centrale nella costruzione dell’identità, sia individuale, sia di gruppo, etnica. Nelle società tradizionali è al centro di cure, preoccupazioni ed ansie che coinvolgono l’intera comunità; per questi motivi il cibo si carica di valore etico-sociale, religioso, simbolico, esistenziale che va oltre la sfera economicistica, e che impegna l’intero sistema etico-religioso.”78 Momento di condivisione e di socializzazione in tutte le culture, il cibo diviene il tramite nel rapporto con l’altro. Attraverso di esso ci sentiamo parte di un gruppo, di un’etnia, creiamo la nostra identità sia personale che sociale. 76 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 7. Sociologia, cibo, alimentazione: alcuni punti, Polo tecnologico NETTUNO Milano-Bicocca, Milano 2012, (consultato il 23 ottobre 2013). 78 A. GUIGONI, L'alimentazione mediterranea tra locale e globale, tra passato e presente, in A. GUIGONI - R. BEN AMARA, Saperi e Sapori del Mediterraneo, cit., p. 1. 77 S. TOSI, 49 Il cibo è rapporto con l’altro: nell’uso e nel consumo di esso sono insite la socialità, la condivisione e la convivialità: “La convivialità si esplica soprattutto a tavola quando le persone si incontrano e dialogano fra loro. In essa c’è l’espressione più completa della vita relazionale, della condivisione, della solidarietà. A tavola dialoga la famiglia, si incontrano gli uomini d’affari e i politici, si festeggia qualcuno. È il momento della solidarietà e della condivisione. Anche in questa relazione possono subentrare la finzione e l’inganno. Convivialità rimane comunque il condividere fra gli uomini i beni della terra.”79 Non possiamo dimenticare i più famosi esempi di tutta la storia dove il cibo diventa momento di condivisione e simbolo di salvezza: “L’ultima cena” di Gesù con i dodici Apostoli e la celeberrima moltiplicazione dei pani e dei pesci. Tutti gli evangelisti riportano questi due eventi. Gesù, con il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, educa i propri discepoli alla solidarietà e alla condivisione e, per fare questo, coglie proprio il momento del pasto. “Al loro ritorno gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora egli li prese con sé e si ritirò in un luogo solitario, verso una città chiamata Betsaida. Ma la gente, appena lo seppe, lo seguì; ed egli l'accolse e prese a parlare del regno di Dio e a guarire quelli che ne avevano bisogno. Il giorno cominciava a declinare, e i dodici gli si avvicinarono e gli dissero: Congeda la moltitudine, perché vadano nelle borgate dintorno e nelle campagne per alloggiare e per mangiare, perché qui siamo in un luogo deserto. Ed egli rispose loro: Date voi loro da mangiare. Ma essi soggiunsero: Noi non abbiamo che cinque pani e due pesci; a meno che non andiamo a comperare dei viveri per tutta questa gente. In realtà erano circa cinquemila uomini. Gesù disse ai suoi discepoli: Fateli sedere a gruppi di cinquanta. Così fecero disponendoli tutti a sedere. Ed egli, presi i cinque pani e i due pesci, alzò lo sguardo al 79 G. DAL FERRO, La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, in “Rezzara notizie”, Vicenza 2012, p.1, (consultato il 27 novembre 2013). 50 cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla gente. E mangiarono e si saziarono tutti; e dei pezzi loro avanzati ne portarono via dodici panieri.”80 La tavola, anche per Gesù, è il luogo dell’intimità, delle confidenze e della relazione. “Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E preso un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”. Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”. “Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”. Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.”81 Nella narrazione evangelica della vita e della missione di Gesù Cristo, l’esperienza del banchetto, dello stare a tavola ritorna ancora numerosissime volte. Si può dire che Gesù, proprio a tavola, esprime molto di sé e del suo messaggio: a tavola, compie miracoli per rallegrare gli sposi rimasti senza vino (Gv 2,1-11), è ospite di pubblicani e peccatori (Levi, Zaccheo) per poter vivere con loro l’emozione della conversione e del perdono. La tavola, per Gesù, è il luogo dell’intimità e dell’ospitalità, delle confidenze e della relazione, della cura di sé e dell’attenzione all’altro. È dunque il luogo degli insegnamenti, ma talvolta anche della denuncia. 80 81 Per la moltiplicazione dei pani e dei pesci cfr. Mt 14, 13-21; Mc 6, 39-44; Lc 9, 10-17; Gv 8, 5-14. Per l’ultima cena cfr. Mt 26, 19-29; Mc 14, 12-25; Lc 22, 7-13. 51 Il cibo e il suo uso, oltre ad essere momento di socializzazione, è anche strumento e metro di giudizio, soprattutto nelle società contemporanee perché “determina il modo in cui un individuo viene considerato nella nostra cultura.” 82 Attraverso l’assunzione del cibo e la scelta qualitativa del medesimo, modelliamo il nostro corpo con il quale ci presentiamo agli altri. L’alimentazione e il cibo, quindi, sono utili anche come strumento per l’accrescimento dell’autostima e la modificazione caratteriale. “Le abitudini dietetiche vengono utilizzate per stabilire e rappresentare il controllo sul corpo. Il cibo può essere classificato in numerose categorie dicotomiche: buono o cattivo, maschile o femminile, forte o debole, vivo o morto, sano o malsano, consolante o punitivo, raffinato o volgare, peccaminoso o virtuoso, animale o vegetale, crudo o cotto, riferito a sé o all’altro. Ciascuna di queste opposizioni binarie ha in sé il potere di modellare le credenze e le preferenze alimentari nella vita quotidiana, di incoraggiare alcune scelte dietetiche e opporle alle altre e di contribuire alla costituzione della soggettività e della personificazione.”83 Cibo e preferenze alimentari delineano quindi i confini delle società con la stessa cultura e le stesse tradizioni84. Fin dall’antichità è stato uno strumento simbolico di comunicazione, utilizzato per creare metafore, miti, storie e parabole attraverso cui tramandare la cultura e gli insegnamenti. Il momento del pasto è momento di ritrovo e confronto, l’atto quotidiano per eccellenza che crea e unisce quel nucleo che noi chiamiamo famiglia, prima forma di società a noi conosciuta dove l’alimentazione e il Gusto giocano un ruolo fondamentale. Quest’ultimi sono, infatti, il primo strumento di comunicazione tra madre e figlio, primo sistema educativo sia istintuale che culturale. 82 Cfr. D. CURTIN, Food/body/person, in D. CURTIN – L. HELDKE, Cooking, Eating, Thinking: Trasformative Philosophies of Food, Bloomington, IN, Indiana University Press, pp. 3-22, in D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 32. 83 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 54. 84 Con l’avvento della globalizzazione molte abitudini alimentari si sono mescolate, ma è anche vero che lo “scheletro” della tradizione è rimasto sempre uguale. Mantenendo la metafora dello scheletro possiamo dire che il corpo è cresciuto e la carne ha avuto le sue modificazioni, ma la struttura portante è rimasta sempre la stessa: ci sono stati scambi, influenze e contaminazioni tra culture e, quindi, innovazioni nei gusti alimentari, ma la base delle preferenze alimentari su cui poggiano le innovazioni rimane atemporale e immutabile. 52 IL GUSTO DELL’INFANZIA Il gusto alimentare si forma sin dalla primissima infanzia con ricordi e sensazioni che si rifanno a quando il soggetto stava ancora nel grembo della madre ed era alimentato tramite il cordone ombelicale. Infatti, alcuni studi dimostrano come il gusto inizi già a formarsi prima della nascita. Il bambino si ciba attraverso il liquido amniotico della madre che, come dimostrato, cambia sapore in base a ciò che la madre ingerisce. Si potrà quindi constatare la predisposizione del gusto del bambino prima della nascita: “Nell’utero il feto si nutre già attraverso la circolazione placentale […]. Come hanno rilevato gli studi, il suo sapore non è costante, ma varia secondo ciò che mangia la madre. Si è scoperto che il piccolo ancora nella pancia ha già i suoi gusti: infatti se lei mangia qualcosa di dolce, anche il suo liquido amniotico si addolcisce, e il feto sembra gradire, perché la frequenza e la durata delle sue fasi di deglutizione aumentano.”85 Inoltre, ingerendo alcuni cibi, il feto comincerà a riconoscerne i gusti e, una volta nato, sarà portato a ricercarli nel mondo esterno: “Cosi c’è da presumere che gli alimenti assunti possano dare al liquido amniotico tutta la gamma dei sapori. E il bambino si abitua, già prima di nascere a quei sapori, andandoli così a ricercare (e a ritrovare) dopo la nascita, nel latte materno prima, ed in seguito nel cibo solido.”86 La predisposizione fisica del bambino all’assunzione del cibo tradizionale viene dimostrata anche attraverso gli studi sulle abitudini alimentari in uso nelle diverse etnie: “Gli stili alimentari umani variano infinitamente da un luogo all’altro del globo terrestre, eppure grazie a questo meccanismo semplice ma 85 86 E. BARBERO - A. SAGONE, La cucina Etica, Sonda, Casale Monferrato 2010, p. 15. Ibidem. 53 efficiente il neonato nasce già pronto a inserissi nei menù abituali della sua famiglia.”87 Quindi il primo rapporto bambino-gusto avverrà attraverso la figura materna e poi attraverso quella genitoriale. Nei primi anni di vita i genitori, con le loro scelte alimentari, trasmettono al bambino quelle che diventeranno le sue abitudini e, in parte, i suoi gusti: “Non ci sorprende che proprio attraverso l’alimentazione si possano predisporre alcune basi psicologiche per l’avvio della costruzione dell’identità e della personalità del bambino. Il sé ha già degli antecedenti. Il cibo acquista, quindi, valore nelle prime fasi della vita nell’ambito del rapporto madre-neonato, rapporto che può condizionare il modo di nutrirsi del soggetto nel corso dell’intera esistenza e di percepire la propria dimensione corporea. Cibo e alimentazione non favoriscono l’unica condizione e necessità oggettiva per la sopravvivenza, ma contribuiscono molto fortemente al soggettivismo con cui contattare il mondo esterno che si appresta a incontrare. Il cibo e il gusto rappresentano una manifestazione del contesto socio-culturale in cui l’individuo s’inserisce.”88 In aggiunta, all’interno dell’ambito familiare, il cibo diviene il tramite dell’amore e dell’affetto di questo nucleo: l’amore nel vedere riunita la famiglia e l’amore della madre nel regalare piacere soddisfacendo il palato di ognuno: “Le credenze e i comportamenti alimentari si sviluppano dalla prima infanzia e sono strettamente legati al nucleo familiare. Essi sono una dimensione integrante della prima relazione che un neonato ha con chi si prende cura di lui e dell’acculturazione dei bambini nella società adulta. La famiglia è anche diventata il luogo più importante del coinvolgimento emotivo, tant’è che ci si aspetta che le relazioni familiari forniscano un sostegno emotivo duraturo e continuo. Un’emozione fondamentale 87 Ibidem. PANI – S. SAGLIASCHI, Gusto alimentare: rigida ostinazione o educare all’apertura al mondo, Bologna 2011, (consultato il 21 dicembre 2013). 88 R. 54 costantemente legata al cibo è l’amore, in particolare l’amore materno, l’amore romantico… Nella pubblicità dei prodotti alimentari e nelle considerazioni popolari sul cibo, queste emozioni vengono frequentemente accostate. Le riviste femminili e gli slogan pubblicitari hanno, per decenni, abitudinariamente costruito l’immagine della madre come di colei che dimostra il suo affetto e la sua premura disinteressata per i figli tramite il cibo che serve loro a casa.”89 Da qui nasce il famoso detto “cucinato con amore”, quell’amore che si sente durante i pranzi quotidiani, le feste, le ricorrenze religiose. Attraverso lo stare a tavola si definiscono i limiti personali e si instaurano relazioni con cariche affettive che andranno a costituire ricordi e modi d’essere. “A tavola, abbiamo detto, si realizza la convivialità perché la relazione diviene condivisione. Se è vero che l’uomo è tale nella misura in cui si relaziona con gli altri, il sedersi a tavola insieme è espressione di una relazione profonda. Le persone si trovano una di fronte all’altra con la propria individualità, con il proprio volto, ed insieme condividono i beni della terra e la propria vita. Non pretendono di essere uguali, come in altri momenti della vita, ma si accettano come diversi però uniti da una motivazione comune e da un condiviso interesse. “Convivialità - scrive Antonio Nanni - dice certamente più di interdipendenza, più della solidarietà, più della convivenza democratica. Convivialità è coabitazione e coesistenza pacifica, con-divisione piena dei beni della terra, nel faccia a faccia dei commensali”. È una “inclusività senza imposizione”. Per questo gli uomini celebrano i loro rapporti più significativi a tavola e risolvono i loro conflitti con il mangiare insieme, quale segno di riappacificazione.”90 Quindi l’alimentarsi, le preferenze alimentari, il gusto e tutti gli atti che a questi fanno riferimento sono essenziali per la costruzione "dell’Io" e per avere esperienza “dell’Altro”. Proprio attraverso l’Altro si comprende il nostro essere Altro (Io, Sé), l’essere differenti: 89 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 66. G. DAL FERRO, La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, “Rezzara notizie”, Vicenza 2012, p. 1. 90 55 “In tale rapporto si riesce ad accettare la diversità, anzi la si assume come stile di vita, strumento di maturazione personale: «O la provocazione dell’alterità disgrega quel cumulo e mette in moto la sua predisposizione a trascendermi per cogliere nell’altro un nuovo connotato della mia identità di uomo, o quel cumulo resiste con rigidità, come un nocciolo duro, assumendosi come misura unica di autenticità umana, e allora in nome dell’uomo respingo l’uomo» (Balducci). Dalla convivialità nasce la reciprocità di cui parla Paul Ricoeur, paradigma fondamentale della relazione basata sul valore della differenza. Una relazione è autentica quando realizza lo scambio, il dare-avere, l’interazione, la reciprocità: «è l’aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in situazioni giuste».”91 Come sostiene anche Emmanuel Lévinas, nel momento di "prossimità" con l‘altro si possono costruire relazioni autentiche: “Il primo passo rappresentato dalla convivialità, secondo Emmanuel Lévinas, è la "prossimità". Nell’incontro non è possibile possedere l’altro: «Viviamo sempre nella tentazione di voler inglobare l’altro nel nostro orizzonte di significato, di ridurlo a parte di noi stessi, di esorcizzare la sua estremità». Nasce così l’esigenza di uscire da noi stessi: «Il volto dell’altro, in quanto epifania della sua differenza da me, infrange la mia sicurezza, mette in questione la tranquilla identità dell’io». Nasce così la consapevolezza di condividere con l’altro i beni della terra e la vita, superando ogni sopraffazione. Si matura così una relazione autentica.”92 L’amore che trasmette la famiglia, le relazioni autentiche che si costruiscono attraverso il cibo e l’insieme di questi momenti di socialità instaureranno sui ricordi e sulla persona quella carica emotiva su cui l’educazione e la memoria involontaria andranno a fare presa. 91 92 Ibidem. Ibidem. 56 L’EDUCAZIONE AL GUSTO La parte soggettiva del gusto, che per semplicità definiamo "criterio di Gusto" (gusto personale, gusto mentale, gusto psichico) è di rilevante interesse per questo studio, perché diviene l’unica parte passibile di modificazione e di educazione non invasiva. Quindi, la parte soggettiva-emozionale, congiunta alle preferenze alimentari, è strettamente connessa all’identità del soggetto e alle sue modalità comportamentali all’interno della società. La teoria di questo elaborato è quella che un piccolo, ma significativo cambiamento nel soggetto porti a un possibile e importante cambiamento a livello sociale. La teoria, che è supportata da argomentazioni e tesi ottenute in vari campi, sia scientifici che filosofici (per questo si vedano la bibliografia e le molte citazioni), sostiene l’educazione al Gusto, educazione che noi chiameremo “esplicativa” con finalità compassionevole. Ciò significa educare il soggetto a un gusto e a delle preferenze alimentari che non comportino l’uccisione, lo sfruttamento e l’allevamento brutale di altri esseri viventi, in modo da insinuare una lieve, ma cosciente traccia di non violenza nella vita delle persone. Tale traccia andrà così a influenzare il suo abito sociale, il suo stile, il suo modo di vedere e comprendere il mondo, al fine di determinare cambiamenti significativi (parziali o totali) nella società. Possiamo chiederci quale sia la motivazione che sta alla base di questa particolare scelta: perché l’alimentazione sarebbe un fenomeno così importante e complesso e perché sarebbe così opportuno educare gli esseri viventi al "gusto compassionevole" e al vegetarianismo. Gli studi e le ricerche compiute, assieme alla tesi qui presentata, individuano nel gusto alimentare uno dei primi identificatori sociali, creatore di abitudini, strumento di formazione dell’identità del soggetto uomo. 57 Inoltre, come spesso dimostra lo svolgersi della storia umana, sono i cambiamenti più lenti, più capillari e individuali che si dimostrano duraturi e realmente significativi: dalla coscienza dei singoli soggetti prendono vita movimenti e abitudini sociali che determinano svolte culturali ed epocali (si pensi ad esempio al femminismo, al diritto di voto, alle leggi che hanno regolamentato il divorzio o l’aborto). Il cambiamento che qui proponiamo, inoltre, non è invasivo e ogni soggetto può scegliere o meno se applicarlo alla propria vita; d’altro canto, il gusto alimentare inizia a formarsi fin dal grembo materno rafforzandosi via via con l’età tramite l’educazione, l’esperienza, le abitudini e il vissuto di ognuno (confronto sociale e alterità). Il bisogno di nutrirsi è una realtà costitutiva dell’essere umano, dunque questa necessità è, allo stesso tempo, una risorsa insita nell’uomo che, attraverso un atto quotidiano, può essere educata al fine di sviluppare tutte le sue potenzialità socialmente positive. Il gusto, come dice l’etimologia93, è portatore di piacere e, di conseguenza, carico di emozioni, quindi, avrà molto impatto sul soggetto. Una volta provato un piacere l’uomo, come gli animali, va alla ricerca nuovamente del modo attraverso cui soddisfarlo al fine di ottenere la sensazione di godimento. Il cibo, sia durante la gravidanza, sia dopo la nascita del feto, è il mezzo attraverso il quale si creano forti legami affettivi con la madre. L’allattamento materno, inoltre, è la prima forma di contatto che l’infante ha con un altro corpo. Il corpo della madre, entrando in contatto con il bambino, assume una doppia valenza: da un lato funge come corpo "contenitore" che nutre e protegge l’infante trasmettendogli amore e comprensione; dall’altro lato è la prima figurazione del limite io-mondo 93 Lat. GǗS-TUS, che secondo il Curtis e il Bopp trae dalla radice GUŚ che è pure nel sscr. (sanscrito o antico indiano) g’ùsè trovo buono, ho di buon grado, sono contento, soddisfatto, GUŚ-TIS (ted. GUNST) favore, soddisfazione, in O. PIANIGANI, Vocabolario della lingua Italiana, Società editrice Dante Alighieri, Roma 1907, digitalizzato 11 feb. 2008, (consultato 12 novembre 2013). 58 che pone il bambino a individuarsi come Altro rispetto alla madre e lentamente come Altro rispetto al mondo. “La relazione del neonato con il corpo materno – fonte di conforto e nutrimento - è fondamentale per lo sviluppo della soggettività. Oliver sottolinea che «il primo alimento che la maggior parte di noi riceve, proviene dai corpi delle nostre madri […]. La nostra prima relazione con un’altra persona è fondata su una relazione fisica nella quale un corpo ne nutre un altro». Il neonato ricava piacere non solo dal ricevere nutrimento e dal piacere di placare i morsi della fame, ma dal contatto fisico con il corpo materno e dal ricevere amore. Tale esperienza è intensamente carica di voluttà: il contatto con la pelle, l’odore e il calore del corpo della madre, il sapore del latte, forniscono conforto e piacere al neonato.”94 Il modo relazionale che il bambino vive con la madre non è di tipo esclusivo e, durante lo sviluppo, lo spazio di confronto/individuazione coinvolge tutto il nucleo familiare. Questi legami affettivi, se sereni, sono cruciali per la formazione di ricordi a cui il soggetto, una volta cresciuto, farà riferimento per elaborare un suo equilibrio e per costruire una sua dimensione affettiva ed emozionale. Il ricordo dell’alimentazione, se legato a momenti di tensione o di scontro all’interno della famiglia, può sviluppare dinamiche relazionali poco sane, legate a sentimenti di potere e frustrazione: “Questi ricordi lasciano trasparire come, nel contesto della famiglia, il cibo e l’alimentazione non siano associati solo alle emozioni positive – come felicità, piacere e sicurezza – e al legame familiare. Le pratiche alimentari all’interno della famiglia sono caratterizzate anche da lotte per il potere e dalle frustrazioni connesse – come infelicità e ostilità – sia da parte dei genitori che dei figli. Gli intervistati ricordano nitidamente i sentimenti di dispiacere, rabbia, risentimento e fastidio che 94 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 76. 59 accompagnavano le esperienze alimentari all’interno del nucleo familiare. In situazioni nelle quali sono costretti a mangiare cibi sgraditi, spesso i bambini si sentono impotenti, e le emozioni negative associate a queste esperienze possono avere un’influenza e proseguire nell’età adulta.”95 L’intento è di insegnare un certo tipo di educazione alimentare e che tale educazione vada a influenzare gli altri aspetti della vita, come le scelte ambientali, la modalità caratteriale, la considerazione e il confronto con l’altro. Se il ricordo dell’oggetto-cibo è legato a qualche forma di conflitto emozionale vissuto dal soggetto, questi può sviluppare dinamiche di rifiuto e di opposizione rispetto allo stesso oggetto-cibo. Il cibo e l’alimentazione sono spesso usati come forme di dimostrazione d’alterità e di ribellione da parte dell’adolescente. Dunque, notando la forte influenza che l’alimentazione ha negli aspetti della vita, dalla formazione dell’identità del soggetto fino ai meccanismi di relazione con l’Altro, dobbiamo considerare il pericolo che una legittima presa di posizione del soggetto al fine, per esempio, di rendere evidente la sua contrarietà verso i genitori, possa degenerare fino a trasformarsi in una vera e propria patologia. “Il conflitto che ha luogo nell’ambiente familiare può essere ricordato non solo a causa delle dispute sul cibo in sé, ma anche per le discussioni o le azioni malvagie messe in atto dagli adulti in risposta al comportamento dei loro figli. Spesso le discussioni scaturiscono da argomenti come le buone maniere a tavola o il parlare fuori turno durante i pasti. […] Preparare pasti diversi rispetto a quelli offerti dai genitori hanno rappresentato vere e proprie strategie di ribellione.” loro 96 Invece nel caso più grave: “Alcuni studiosi hanno sostenuto che l’anoressia rappresenta un tentativo analogo, sebbene più estremo, di ribellarsi al potere genitoriale ed esercitare l’autonomia tramite il rifiuto del cibo preparato in casa. 95 96 Ivi, p. 94. Ivi, pp. 95-97. 60 Attraverso il rifiuto del cibo, quella che una volta era la figlia ubbidiente e accondiscendente diventa una ribelle ostinata, che dimostra autonomia sia evitando di assumere cibo, sia attraverso l’espressione fisica del suo rifiuto, il dimagrimento.”97 Inoltre l’educazione impartita, che in questo caso sarà quella legata alla non violenza e quindi al vegetarianismo, dovrà essere un’educazione "esplicativa", condivisa con il soggetto e mai a lui imposta. Se vogliamo che l’educazione faccia presa e che il soggetto la porti con sé durante la sua crescita, deve essere un’educazione consapevole. L’imposizione è già di per sé una violenza, non possiamo quindi pretendere di spiegare la nonviolenza attraverso la violenza. L’educazione deve essere una spiegazione libera, poi sarà il soggetto, una volta appresa la conoscenza, a decidere se scegliere o meno quel tipo di percorso. La violenza e il dolore che stanno alla base di una nutrizione carnivora non vengono mai delineati nella loro complessità, ma nascosti. In questo contesto la nostra sfida risulta ardua perché dobbiamo combattere contro una società che mistifica questi fatti, omettendo la vera e crudele realtà dei macelli e del trattamento animale. Dobbiamo, inoltre, risvegliare nella coscienza umana la consapevolezza di come l’allevamento intensivo degli animali porti, oltre al dolore e alla morte, anche al disuso e alla perdita delle proprietà del terreno. Lo stesso terreno, se utilizzato per la coltivazione, avrebbe più possibilità di mantenere le proprie intrinseche proprietà (grazie, per esempio, alla forma di coltivazione a rotazione) e, anche se ciò potrebbe essere meno proficuo a livello economico, darebbe un notevole contributo alla risoluzione del problema della fame nel mondo. Quindi, per poter spiegare e dare la possibilità al soggetto di crearsi una coscienza critica, bisognerà portarlo a conoscenza del valore degli animali, delle loro sensibilità e capacità di essere in empatia sia con gli umani sia 97 Ivi, p. 99. 61 con gli animali della loro specie e non. Nel fare ciò si potrebbe mettere a contatto il soggetto con animali vivi, fargli conoscere e capire la loro modalità di relazionarsi, l’importanza della vita. Inoltre spiegargli il funzionamento degli allevamenti e dei macelli e il sopruso della condanna a morte. Queste immagini possono sembrare troppo forti e cruente per un bambino, ma, rappresentando purtroppo la verità dei fatti, sono significative al fine di fornirgli una conoscenza completa e complessa: occorre dare al fanciullo, in primo luogo, la possibilità di conoscere e, in secondo luogo, di decidere liberamente. Da un altro punto di vista, si potrebbe affermare che omettendo queste conoscenze, ci troveremo di fronte a un’imposizione nei confronti del bambino: quella di essere costretto a subire indirettamente una nostra scelta. Lo stiamo involontariamente costringendo ad accettare sia l’uso della violenza sugli animali, sia la libertà di poter scegliere diversamente o comunque personalmente. Purtroppo, a volte, imponiamo una scelta al fine di distogliere il nostro pensiero da queste situazioni, o meglio, neghiamo alla nostra volontà di pensarci, di porsi il problema, così esso, un po’ alla volta, finisce con il non esistere. Un’altra problematica, che tra poco affronteremo, sarà quella legata alla relazione transitiva tra violenza sugli animali e violenza sugli uomini. Se noi accettiamo la violenza sugli animali, infatti, stiamo comunque accettando, in parte, la violenza come modalità di relazione: la prepotenza nella sua forma generale, il suo uso per l’ottenimento di qualcosa, quindi, la violenza come strumento. Questo tipo di accettazione insinua in noi la giustificazione e ci conduce a ritenere la violenza qualcosa di normale e quotidiano, che esiste e che fa parte del mondo, non come un atto terribile, inumano e inaccettabile. L’accettazione è il primo segno di giustificazione dell’utilizzo della forza come strumento verso il più debole, verso 62 l’indifeso, verso ciò che è diverso. Germoglia la possibilità di porre l’uomo contro l’uomo, l’opportunità di pensare al significato della vita e del mondo attraverso la lente della guerra. Una volta accettata la violenza, essa si riserverà nei vari ambiti della nostra vita: nella società, nel linguaggio, nel confronto relazionale, nella sfera sessuale, ovvero in ogni ambito che riguarda l’umanità, quindi nell’uomo. Ciò che abbiamo sin qui evidenziato è quello che intendiamo per educazione esplicativa: spiegare la complessità dei fatti, porre a conoscenza, dare una visione delle cose ad ampio raggio, al fine di aiutare il soggetto a formarsi una coscienza critica. La coscienza critica può permettere la scelta, l’educazione deve fornire gli strumenti attraverso i quali il soggetto possa decidere e prendere la propria strada in piena coscienza. Non ritrovarsi per inganno, mistificazione o ignoranza a perdere la possibilità di scegliere autonomamente, cioè la possibilità di riconoscere uno tra gli aspetti più significativi della dignità umana. Questi temi non sono in realtà nuovi e nemmeno contemporanei o moderni: già i Pitagorici ne discutevano, Teofrasto, ad esempio, ne fece uno scritto che diventò il Della pietà. Inoltre molti sono gli esempi che si possono trarre dall’ambito letterario, da quello psicologico o economico. Quindi attraverso l’educazione al gusto alimentare possiamo educare al Gusto, nel senso di stile di vita, di abitudine e di carattere. Queste argomentazioni sovra citate supportano la tesi secondo la quale il Gusto e l’alimentazione non definiscono solo le nostre preferenze alimentari, ma sono fondamentali e incisivi per l’edificazione della personalità, del carattere, dello stile di vita, dell’habitus. L’educazione al gusto alimentare e la sua valenza etica influenzano, quindi, tutte le sfere private e sociali del soggetto in crescita. Dopo aver constatato questo, andremo ad analizzare il motivo della scelta vegetariana, il suo collegamento con la non violenza e la sua ascendenza 63 sul carattere del soggetto e, quindi, in ultimo, le influenze che essa comporta a livello sociale. 64 IV. PARTE QUARTA IL GUSTO COMPASSIONEVOLE “Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”. M. Gandhi “Verrà un tempo in cui considereremo l'uccisione di un animale con lo stesso biasimo con cui consideriamo oggi quella di un uomo”. L. Da Vinci LA SCELTA VEGETARIANA Sin dall’antichità si sostiene che è sbagliato mangiare carne per molteplici motivi che ora andremo a elencare, spiegare e argomentare. L’unico motivo che non affronteremo, poiché non risulta di diretto interesse per il nostro studio, è il legame tra l’assunzione di carne e le conseguenti ripercussioni sulla salute; però, per correttezza, lo accenneremo brevemente. Molti medici nutrizionisti affermano che l’assunzione di carne98 ha impatti negativi di vario genere e sostengono, invece, le influenze positive che derivano dalla scelta di una nutrizione vegetariana. Sono molti, infatti, i grandi intellettuali nella storia che aderirono a questa scelta: Alexander Pope, Benjamin Franklin, Thomas Tryon, Gassendi, Samuel Richardson, Cartesio (vegetariano solo per salute, ma promotore della vivisezione), Voltaire (assiduo sostenitore del vegetarismo 98 Cfr. U. VERONESI, Verso la scelta vegetariana, Giunti, Milano 2011. 65 e contrario alla vivisezione, che definisce un “atto di crudeltà verso gli animali”). Un’argomentazione che affronteremo e che ha origini antiche è quella che dimostra la comunanza degli affetti tra esseri umani e animali con particolare riferimento al sentimento della sofferenza: la capacità dell’animale di provare dolore, paura, panico è simile a quella umana. L’animale, posto di fronte alla propria uccisione, prova le stesse sensazioni di un uomo che capisce di essere prossimo alla propria morte. La differenza tra animale e uomo in quell’attimo terribile, in cui la possibilità di vivere la propria esistenza viene a mancare per scelta altrui, sta nel fatto che l’essere umano ha la capacità di comunicare e di ascoltare. L’uomo che sta per morire chiede aiuto, implora pietà, si spiega attraverso la parola e il linguaggio; l’animale, invece, purtroppo no: rimane lì, terrorizzato, può solo guardare per implorare di essere lasciato in vita e, con lo sguardo indifeso, muove la sua richiesta di aiuto silenziosa che non viene mai ascoltata. Quella forma di preghiera, che dice: “Lasciami vivere”, è lasciata cadere nel vuoto. Com’è arrivato l’uomo a decidere di arrogarsi tale diritto e di sentirsi anche nel giusto a farlo? La tradizione del pensiero filosofico ha cercato di rispondere a queste domande: troveremo chi era a sostegno di un’alimentazione carnivora e considerava gli animali esseri inferiori e utili al soddisfacimento dei propri bisogni e chi riteneva, invece, che essi fossero esseri viventi degni di vita al pari degli uomini. Infatti, la cosa interessante è che i filosofi sostenitori del “diritto animale” affermavano come il maltrattamento e l’uccisione animale portassero l’uomo sulla strada della violenza e della guerra tra gli uomini stessi. Fin dai testi più antichi si cerca di esprimere e descrivere lo stretto rapporto tra mondo animale e mondo umano, tra violenza animale e violenza umana; ora 66 faremo un excursus per riassumere alcune opinioni della storia che serviranno come supporto alla nostra tesi. Nel testo Avestä, dove sono contenuti i brani che tramandano la storia e la filosofia di Zarathustra, vengono descritte, sotto forma di dialogo, quali sono le migliori azioni per onorare dio e la terra. “Qual è l’uomo che colma la terra della gioia più grande? Rispose Ahura Mazdâ: «È colui che maggiormente semina frumenti e pascoli e piante fruttifere o Spitama Zarathustra; che porta l’acqua ad una terra che ne è priva procurandosela là dove essa abbonda e bonifica le paludi». Colui che coltiva frumento, coltiva la fede, accresce la Legge Mazdeana di cento residenze, di mille dimore, di diecimila preghiere Yaçna. Quando venne creato il grano, i daêva trasalirono; quando crebbe, i daêva perdettero coraggio; quando spuntò la spiga, i daêva fuggirono come bruciati in bocca da un ferro rovente. Chi semina il grano semina la giustizia. Sono da lodare tanto le anime degli animali selvaggi quanto quelle degli animali domestici.”99 Il testo ci invita a una riflessione sul rispetto per le anime animali e per la terra, infatti, secondo l’Avestä e lo Zoroastrismo, il cibo utile all’uomo dev’essere raccolto da ciò che la terra, curata e nutrita, offre e l’uomo, nell’atto d’impossessarsene, non deve creare dolore. Viene anche spiegato, potremo dire in senso logico, come sia insensato cibarsi della carne. Uccidere un animale per cibarsi delle sue membra è molto meno produttivo che usare questo animale per coltivare; per esempio, il bue: sarà molto più produttivo un bue vivo, che può essere di aiuto a tirare l’aratro in agricoltura e che attraverso le sue feci rende fertile il terreno, piuttosto di un bue morto che viene utilizzato per cibarsi della sua carne. Lo stesso esempio si può applicare alla 99 AA. VV., I filosofi e gli animali, tr. it. di Giorgio Celi, a cura di GINO DITADI, Isonomia, Este 1994, vol. I, p. 258. 67 gallina per le uova o ad altri animali che producono latte. Qui viene data una spiegazione meramente economica, che tratteremo ampiamente più avanti, senza tenere in considerazione le ripercussioni morali ed etiche rispetto al consumo di carne. “I demoni (daêva) disprezzano la vita animale e gli uomini malvagi deificano il Furore con sacrifici animali. La difesa degli animali è il punto di partenza dell’azione e del pensiero etico e sociale di Zarathustra, impegnato nella sua lotta contro l’ingiustizia nel mondo umano. La sua predicazione è chiaramente contraria ai preti ariani e ai potenti dell’epoca. Iconoclasta, abbatte tutte le rappresentazioni antropomorfe e zoomorfe, sostituendovi un’etica universale nella quale l’unico culto del signore è il sacrificio dei nostri cattivi pensieri. La condanna contro chi uccide gli animali è violenta. Chi uccide il bue, uccide il motore dell’agricoltura, il produttore di fertilizzante, l’animale benefico. Non i corpi degli animali, ma ciò che la terra ci dà senza procurare dolore ad alcun vivente deve essere nostro cibo. «Chi semina il grano – afferma l’ Avestä – semina la giustizia». Il ciclo è completo. La terra dona spontaneamente l’erba, il bue se ne nutre, fertilizza i campi, fatica e lavora con l’uomo che semina il grano, ossia la pace, la giustizia. Esaminando il problema di fondo posto da Zarathustra dal punto di vista meramente pratico, notiamo come egli si fosse reso conto che allevare animali per macellarli significa distruggerne il valore in quanto forze di trazione, produttori di fibre, fornitori di fertilizzanti. Da più specie domestiche si poteva ricavare una quantità costante di proteine animali nella forma di latte e latticini. Insomma erano più utili da vivi che da morti.”100 Un ultimo, ma significativo esempio, che ci fa capire la volontà di alcune religioni, più di altre, di essere ambigue e di lasciare spazio a fraintendimenti è il famoso passo che descrive il peccato originale che ritroviamo sia nell’Antico Testamento, sia nella tradizione dello Zoroastrismo, ma con alcune significative differenze: 100 Ivi, pp. 8-9. 68 “Il peccato originale, consiste per Zarathustra non nel consumo di un frutto, sia pure simbolico, ma nel consumo di carne. Yima, discendente di Gayomart (il primo uomo), uccise un bue e ne consumò le carni divenendo così, da buon pastore, assassino. Il bestiame è stato creato per rendere fertili i campi. L’ Avestä vede nell’agricoltura una vittoria contro il Male: «Qual è l’uomo che colma la terra della gioia più grande? Ahura Mazdâ rispose: - È colui che semina più grano, piante e alberi da frutta».”101 Invece nell’Antico Testamento : “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti». […] Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato dell’albero di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io l’ho mangiata».”102 Come si nota da una prima lettura, nella concezione Zoroastrista, il peccato originale è legato all’uccisione dell’animale e all’uso della violenza nei confronti dell’essere indifeso. Facendo un’analisi anche solo metaforica si capirà come nello Zoroastrismo si voglia far capire come l’uso della violenza e della forza sia sbagliato, anche se utilizzato per l’ottenimento della conoscenza divina. Il fine, quindi, non giustifica i mezzi, nonostante si sappia come, nella concezione della tradizione, la verità risieda nella conoscenza divina. Se il raggiungimento della conoscenza prevede l’uso della violenza o, ancor peggio, la violazione della vita, esso diviene un atto inaccettabile. Questo passaggio è molto importante perché valorizza maggiormente la concezione sulla non violenza rispetto alla meta, ideale o meno, da 101 102 Ivi, p. 9. Genesi cap. 2 vv. 16-17, cap. 3 vv. 11-13, in La Bibbia di Gerusalemme, cit. 69 raggiungere: se tale posizione fosse stata presente nelle legislazioni sociali e nelle religioni, molte “guerre Sante”, atrocità e barbarie sarebbero state evitate. Intorno al 590 a.C. nasce Pitagora che, come abbiamo precedentemente delineato nel primo capitolo di questo testo, si rifaceva alle credenze degli orfici, i sostenitori e gli adoratori di Orfeo. Essi, nonostante fossero tra i primi fautori del dualismo anima-corpo, professavano i principi della non violenza, nel rispetto di uomini e animali. Pitagora fu uno dei primi a credere e a seguire quello che noi chiamiamo vegetarianismo e a rifiutare i sacrifici violenti che si servivano dell’animale come capro espiatorio. “A coloro che tra i filosofi erano più dotati di capacità speculativa ed erano pervenuti alle vette supreme della contemplazione, proibiva assolutamente i cibi superflui e ingiustificati, raccomandando di non mangiare mai animali né di bere assolutamente vino né mai di immolare agli dei animali né di arrecare a questi il minimo danno e di rispettare col massimo scrupolo le norme della giustizia anche nei loro riguardi. Ed egli stesso visse in modo conforme, astenendosi dalla carne degli animali e adorando solo gli altari incruenti e adoperandosi perché neanche gli altri uccidessero gli animali affini a noi per natura, e correggendo ed educando le bestie selvatiche con le parole e gli atti piuttosto che offendendole con i castighi.”103 Vogliamo citare altri due brevi esempi che raffigurano ed esplicano il comportamento e l’animo di Pitagora, ovvero di come egli considerasse la violenza contro gli animali e quella contro gli uomini un atto così ignobile da rendere disumano chi lo compiva (non degno di essere frequentato, contagioso nel suo essere male). Un primo esempio: 103 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 263. 70 “Tanto aborriva da uccisioni e uccisori, che non solo si asteneva da mangiare esseri viventi, ma neppure si accostava a macellai e cacciatori.”104 Un secondo esempio: “Afferma di lui Senofane: «Dicono che egli passando accanto a in cagnolino che veniva percosso ne abbia avuto pietà e abbia detto a chi lo percuoteva così: - Cessa, non percuoterlo, poiché di un uomo amico è l’animo che io riconobbi, udendo la sua voce».[…] Era Pitagora un saggio tale che egli le carni non toccava, dicendo che era cosa empia, ma agli altri consentiva di cibarsene. Ammiro il saggio: egli diceva di non voler essere empio, ma ammetteva che gli altri fossero empi.”105 Teofrasto, invece, sostiene la comunanza tra uomini e animali per la costituzione corporea delle carni, ma soprattutto per la loro capacità di provare gli stessi affetti. “I bambini provenienti dalle stesse origini ossia dallo stesso padre e dalla stessa madre sono, diciamo, apparentati per natura gli uni agli altri; inoltre diciamo che i discendenti degli stessi nonni sono apparentati gli uni agli altri proprio come i cittadini di una stessa città lo sono per la comunanza della terra e delle loro mutue relazioni […]. E così, penso, che noi diciamo egualmente di un Greco di fronte ad un altro Greco, di un Barbaro di fronte a un altro Barbaro, di tutti gli uomini, gli uni di fronte agli altri, che sono parenti, parte della stessa razza per una di queste due ragioni: sia per avere gli stessi avi, sia per avere in comune il nutrimento, i costumi e la stessa razza. Similmente riteniamo che tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa razza, perché i princìpi dei loro corpi sono per natura gli stessi (parlando così non mi riferisco ai primi elementi dai quali provengono le piante, ma penso alla pelle, alle carni, a quel genere di umori inerenti gli animali), e ancor più perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni. Ma, come per i corpi, certi animali hanno l’anima perfetta 104 105 Ivi, p. 261. Ivi, p. 265. 71 mentre in altri lo è di meno; tuttavia per tutti i principi sono per natura gli stessi. Anche la parentela delle affezioni lo mostra. Se ciò che si dice dell’origine dei costumi è vero, tutte le specie sono intelligenti, ma differiscono per l’educazione e per la composizione del miscuglio dei primi elementi. Sotto tutti i rapporti, dunque, la razza degli altri animali ci è apparentata ed è la stessa della nostra; poiché i mezzi di sussistenza sono gli stessi per tutti come l’aria che respirano, secondo Euripide, e un sangue rosso scorre in tutti gli animali e tutti mostrano d’avere in comune per padre il cielo e per madre la terra.”106 Come noi proviamo dolore, anche loro provano dolore, rabbia, paura; quindi, arrogarsi il diritto di togliere loro la vita è un’ingiustizia. Così Teofrasto: “Sacrificando esseri viventi, si commette contro di loro un’ingiustizia, perché si fa rapina della loro vita”. 107 Teofrasto, inoltre, vede nelle cause delle catastrofi e delle maledizioni che colpiscono l’umanità, la conseguenza di quei riti e sacrifici di sangue commessi da molti uomini nel nome degli dei. Anche in Plutarco si ritrovano echi della concezione di Zarathustra, così come nei Pitagorici e negli Orfici. Plutarco, infatti, non riuscì a concepire chi fu il primo uomo che ebbe il coraggio di mangiare carne e di sporcarsi del suo sangue; come afferma nel testo Del mangiar carne: “Ardì il primo fra gli uomini insanguinarsi la bocca, appressarsi alle labbra la carne del moro animale, ponendosi avanti i serviti, le vivande e il cibo dei corpi uccisi […] le membra che poco avanti belavano, mugghiavano, andavano e vedevano? Come poterono soffrire gli occhi di scorgere l’uccisione degli animali scannati, scorticati, smembrati?.”108 Plutarco fa risalire questa scelta a un tempo in cui l’uomo viveva nella fame e nel pieno abbandono, ma oggigiorno la società è cambiata e quindi questa modalità dev’essere combattuta e dismessa. Inoltre, sostiene che l’uomo non è per sua costituzione carnivoro, non ha né denti, né mandibola da carnivoro e nemmeno la sua delicata percezione dei sapori può essere accostata a quella 106 Ivi, p. 297. B. DE MORI, Che cos’è la bioetica animale, Carocci , Roma 2007, p. 64. 108 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 63. 107 72 dei carnivori. Tale teoria, come riporta Gino Ditadi, è stata ampiamente dimostrata: «Plutarco intuì ciò che oggi è acquisito e scientificamente accertato: l’uomo è stato per millenni vegetariano».109 Come sosteniamo in questo studio, Plutarco vede nell’inizio dell’uccisione animale ciò che permise il cominciamento dell’uso della violenza in genere (da uomo versus animale a uomo versus uomo): «Fino ad uccidere il bue, nostro operaio, la pecora che ci veste, il gallo guardiano della nostra casa, e così appoco appoco, cresciuta l’insaziabile cupidigia si pervenne al sangue, agli omicidi, alle guerre».110 Ora accenneremo brevemente ad altri filosofi che supportavano e credevano in tale filosofia. Le argomentazioni differiscono le une dalle altre, infatti, ad esempio, Democrito sostiene che l’uomo sia stato discepolo delle bestie e se ne sia servito finché ne ebbe bisogno, «noi siamo stati discepoli delle bestie nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine nel costruire le case, degli uccelli canterini del cigno e dell’usignolo nel canto, con l’imitazione». 111 Roario, invece, paragona le affinità, le abitudini e i sentimenti simili tra uomo e animale con le modalità nella cura dei figli o degli anziani: “Non esiste alcun animale per quanto debole che, deposto ogni timore, non affronti la morte per i propri cuccioli. Questa carità è naturale e necessaria […] senza di essa non potrebbe esserci vita animale. L’amore dei figli per i genitori si chiama pietas ed è ben presente negli animali. I ghiri nutrono con somma pietas i loro genitori ormai vecchi. […] Le cicogne nutrono gli inabili per l’età avanzata. C’è, per così dire, una sorta di venerazione verso i più anziani anche tra gli animali.”112 Anche Erasmo da Rotterdam sostiene come, attraverso la scelta di uccidere e cibarsi di animali, l’uomo abbia colto la facilità dell’atto di uccidere e come, di questo passo, sia giunto a considerare di facile portata anche l’omicidio tra 109 Ivi, p. 64. Ibidem. 111 Ivi, p. 90. 112 Ivi, pp. 96-97. 110 73 uomini. È seguendo questa strada che si arriva alla considerazione della guerra come presenza inevitabile nella storia, guerra che, oggi, è divenuta permanente.113 “Non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non si imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte. […] a forza di sterminare animali, s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un grande sforzo […] da quella frase siamo arrivati a tal grado di frenesia, che tutta la nostra vita è dominata dalla guerra.”114 Inoltre è interessante vedere quanto la concezione dualistica abbia contribuito a rafforzare e giustificare l’idea che la soppressione animale sia utile per l’alimentazione o per la sperimentazione da laboratorio. Come sosteneva Jean Meslier, il dualismo cartesiano spostava l’attenzione sul concetto e sulle funzioni dell’anima degradando il corpo a semplice macchina e strumento. Difatti, per Cartesio, non sussisteva alcuna differenza tra il decostruire una macchina per capirne il funzionamento e il vivisezionare un animale per farne strumento di studi in laboratorio. “È una crudeltà, una barbarie uccidere, accoppare, sgozzare animali che non fanno niente di male, essi sono sensibili al male e al dolore come noi, malgrado ciò che dicono vanamente, falsamente e ridicolamente i nostri nuovi cartesiani che guardano a loro come pure macchine senz’anima e senza alcun sentimento e che per questa ragione – e su un vano ragionamento che fanno sulla natura del pensiero di cui pretendono l’incapacità a produrlo da parte della materia – li dicono interamente privi di ogni conoscenza e di ogni sentimento di piacere e di dolore. Ridicola opinione, massimamente perniciosa, detestabile dottrina che tende manifestamente a soffocare nel cuore degli uomini tutti i sentimenti di bontà, di dolcezza e di umanità che potrebbero avere per questi poveri animali.”115 113 Cfr. G. ORWELL, 1984 (1949); tr. it. di Stefano Manfredotti, Mondadori, Milano 2003. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 91. Ivi, p. 141. 114 AA. 115 74 Molti altri si scagliarono contro la concezione meccanicistica cartesiana; ad esempio, Voltaire, sulla famosa “Correspondance”, attacca duramente e pubblicamente Cartesio, in difesa del mondo animale. Egli sosteneva che fosse un’assurdità considerare gli animali come delle macchine per il semplice fatto, ad esempio, che essi non si sapessero esprimere attraverso il linguaggio. Infatti, dice Voltaire, come risulta intuibile capire se un uomo è inquieto, arrabbiato o gioioso anche senza che ciò venga dimostrato verbalmente, così è chiaro e palese capire cosa possa provare un animale tramite la considerazione delle sue movenze e delle sue proprie modalità di espressione. Vediamo ora il passo sovra citato: “Che vergogna, che miseria aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e sentimento, che fanno sempre tutto ciò che fanno nella stessa maniera, che non imparano niente, non si perfezionano ecc.! Come? Quell’uccello che fa il suo nido a semicerchio quando lo attacca a un muro, che lo fa a quarto di cerchio se lo mette in un angolo, e a cerchio intero intorno a un ramo, quell’uccello compie sempre i suoi atti allo stesso modo? Quel cane da caccia che tu hai allevato per tre mesi non ne sa forse di più dopo quel tempo, di quanto ne sapesse prima delle tue lezioni? Quel canarino a cui tu insegni un’aria la ripete forse immediatamente? Non è forse vero che ci mette un certo tempo a impararla; e non hai osservato che talvolta egli sbaglia e si corregge? Forse è perché io ti parlo, che tu giudichi ch’io abbia sentimento, la memoria, delle idee? Ebbene! Non ti parlerò più: tu mi vedrai rincasare con aria afflitta, cercare una carta con inquietudine, aprire l’armadio dove mi ricordo d’averla rinchiusa, trovarla, leggerla con gioia. E tu ne deduci che io ho provato il sentimento dell’afflizione e quello del piacere, che ho memoria e conoscenza. Giudica allora allo stesso modo questo cane, che non trova più il suo padrone, che lo ha cercato per tutte le vie con grida dolorose, che rincasa inquieto e agitato, sale, scende, va di stanza in stanza, trova infine nello studio il padrone che egli ama, e gli testimonia la propria gioia con la dolcezza del suo mugolio, coi salti e le carezze. I barbari uomini prendono questo cane che suol vincerli così facilmente 75 nell’amicizia: lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per mostrarti le vene mesenteriche. Tu scopri in lui gli stessi organi di sentimento che sono in te. Rispondimi, o meccanicista, la natura ha dunque combinato in lui tutte le molle del sentimento affinché egli non senta? Il cane ha dei nervi per essere impassibile? Non fare più di queste balorde supposizioni.”116 Applicando tale concezione agli esseri umani e considerando che il dualismo cartesiano valorizza maggiormente l’anima rispetto al corpo, tramite la nota asserzione del «cogito ergo sum», si giunge a capire come il corpo, per Cartesio, non fosse altro che una “macchina”, se pur ben strutturata. Ora, seguendo questo tipo di pensiero, risulta più semplice ammettere e giustificare la violenza sul corpo, essendo appunto l’anima l’essenza della vita. Sarà quindi anche più facile accettare l’uso delle torture per l’estirpazione del male così come l’efficacia delle “guerre Sante” per la causa divina. Si giustificheranno i metodi dell’Inquisizione perché “mirati” alla purificazione, si tollererà la lapidazione assieme a tutte quelle forme di violenza che, nel corso della storia, sono state strumentalizzate al fine di promuovere la salvezza eterna dell’anima (il corpo muore ma l’anima si salva). Ulteriormente, se l’uomo usa cotanta violenza verso il suo simile, possiamo considerare a quale livello di bassezza morale giunga nei confronti di un essere che ritiene a lui inferiore. 116 VOLTAIRE, Correspondance, Génève 1953-1965, vol.IV, p.193, in I filosofi e gli animali, tr. it. di Giorgio Celi a cura di GINO DITADI, Isonomia, Este 1994, vol. I. 76 IL GALLO CON GLI SPERONI In questo paragrafo affronteremo l’arduo problema dei diritti degli animali, la morale condivisa e l’uso giustificativo del non sapere e del non informarsi per comodità o paura. Dimostreremo come, nelle società odierne, sia già punita la violenza contro gli animali, ma solo per alcuni casi e come invece, per altri, sia legale. Noteremo quindi come la regolamentazione sui diritti degli animali sia fittizia, ovvero come essa mascheri il bisogno umano di una coscienza pulita e quindi non partecipe ad atti crudeli e violenti. Infatti, sotto la protezione della favola-legge, scarichiamo la responsabilità di scelte votate all’impiego della violenza sulla legislazione, permettendo così, quotidianamente, l’uso della forza e dell’uccisione. Inoltre porteremo alla luce alcuni esempi atti a rendere noto come non esistano violenze minori accettabili, poiché la violenza è una, uguale a se stessa e non accettabile. Anzi, cercheremo di portare alla consapevolezza di come, in realtà, già nessun uomo di per sé accetti la violenza, ma come si ritrovi senza saperlo ad accettarla e ad appoggiarla o, nei casi peggiori, a fingere di non sapere. Vedremo, inoltre, come la scarsa informazione e la mistificazione della realtà partecipino largamente al processo che conduce al consenso sulla violenza. Ora, il concetto sembra un gomitolo aggrovigliato, ma affrontando un passo logico alla volta, esso apparirà presto con chiarezza ed evidenza. Per addentrarci nel discorso proponiamo un passaggio di Tom Regan, nel quale egli afferma come possa oggi sembrare ridicolo e far sorridere il parlare di diritti degli animali, ricordando però come potesse sembrar ridicolo, in passato, il parlare di diritti da attribuire alle donne o ai “negri”: ciò sembrava, infatti, totalmente assurdo agli occhi della popolazione maschile e a quelli dei cosiddetti “bianchi”. 77 “Ora, a molti l’idea di diritti animali parrà ridicola, simile, quanto a serietà, alla proposta, avanzata qualche anno fa da un personaggio rimasto anonimo, di far indossare agli animali in pubblico dei vestiti, in quanto altrimenti essi violerebbero una consolidata legislazione antinudismo. L’obiettivo di cambiare la testa agli spiritosi, ammesso che sia un assoluto realizzabile, non lo sarà facilmente. La cosa da capire, tuttavia, è che quanto troviamo comico a volte ci dice, di noi stessi e della nostra epoca, più di quanto potremmo supporre. Inganneremmo noi stessi se pensassimo che razzisti e sessisti non trovano ridicola l’idea di diritti attribuiti ai negri o alle donne. Dobbiamo guardarci dal nostro riso, per timore di assumerlo come segno rivelatore della verità o della ragionevolezza del pregiudizio che talvolta esso esprime. Così, benché qualcuno possa mettersi a ridere, questo non surroga di certo una dimostrazione. Ed è proprio una dimostrazione che manca.”117 Questo discorso, quindi, può sembrare incomprensibile a quelle persone che non sono abituate a porre in discussione le proprie idee, le proprie usanze e i propri costumi: oggi sembra inaccettabile che i diritti delle persone possano essere legati al colore della pelle o alla sessualità, ma tutto può cambiare se cambia la prospettiva da cui guardiamo le cose. Per poter cambiare prospettiva, però, bisogna essere disposti a conoscere, sapere, ascoltare, informarsi. Questa disposizione d’animo riguarda gli adulti, per i bambini, invece, necessitiamo di un tipo d’educazione particolare. L’orientamento interiore alla conoscenza si concreta attraverso un particolare tipo di ascolto, libero da preconcetti o sistemi di giudizio prestabiliti. Per rendere l’idea usiamo la seguente immagine: pensiamo a un bambino che si fa raccontare una fiaba. Per quanto possa già averla udita, il piccolo si porrà in ascolto con lo stupore e la curiosità tipiche di chi la sente per la prima volta e non si permetterà mai di creare un’interruzione tra il “C’era una volta...” e il “...E vissero felice a contenti”. Dunque, per comprendere la complessità del reale 117 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit., vol. II, p. 929. 78 che ogni giorno si arricchisce di sfumature e movimenti, occorre allenare l’anima a una certa flessibilità di ascolto e avere, soprattutto, la pazienza di ascoltare tutto, fino alla fine. Per poter comprendere bisogna saper ascoltare in completezza. Questo è quello che siamo oggi chiamati a fare, ricordando quegli uomini che hanno permesso i cambiamenti più significativi della storia dei diritti umani. Ora, in questo contesto, dobbiamo prima di tutto cominciare a pensarci come abitanti di questo pianeta assieme ad altri abitanti che sono gli animali. Noi ci siamo arrogati il diritto di dominare gli animali solo perché siamo in grado di farlo, per superiorità di capacità mentali e talvolta fisiche, ma la questione è come giustifichiamo il diritto di farlo o comunque perché ci ritroviamo a farlo. In sintesi, possiamo affermare che essendo più potenti abbiamo usato il nostro potere con violenza sul mondo animale, ma senza ritenere opportuno avere un motivo per fare questo. Parliamo di moralità e giustizia nelle nostre società moderne e allora ci chiediamo: “È giusto permettere questa violenza? Essa rientra nella morale umana? È la stessa morale che tanto ci innalza dagli altri animali e ci rende appunto umani?”. Cercheremo ora di rispondere in parte a queste domande, cominciando a capire come giungiamo alla giustificazione della violenza sugli animali. Il motivo principale che giustifica queste nostre azioni è quello utilitaristico, che, come abbiamo visto anche nei capitoli precedenti, trae le sue origini da concezioni antiche: prima di tutto quella del dualismo anima-corpo. Il corpo, nella tradizione filosofica occidentale, viene svalorizzato rispetto all’anima, viene concepito come una macchina. Proponiamo ancora un breve passo cartesiano, L’homme, che delinea i tratti del corpo-macchina: “Vi prego poi di considerare che tutte le funzioni da me attribuite a questa macchina, digestione dei cibi, battito del cuore [...] recezione della luce, dei suoni [...] impressione delle loro idee nell'organo del senso comune e dell'immaginazione, ritenzione o impronta di tali idee nella 79 memoria; movimenti interni degli appetiti e delle passioni; e infine movimenti esterni di tutte le membra [...] vi prego, dico, di considerare che tutte queste funzioni derivano naturalmente, in questa macchina, dalla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di come i movimenti di un orologio o di un altro automa derivano da quella dei contrappesi e delle ruote; sicché, per spiegarle, non occorre concepire nella macchina alcun'altra anima vegetativa o sensitiva, né altro principio di movimento e di vita oltre al suo sangue e ai suoi spiriti agitati dal calore del fuoco che brucia continuamente nel suo cuore, e che non è di natura diversa da tutti i fuochi che si trovano nei corpi inanimati.”118 Per Cartesio, però, l’uomo ha l’anima che si configura nella parte razionale e nella capacità dell’uso del linguaggio, a differenza degli animali che non sono né in grado di ragionare, quindi non coscienti, né in grado di usare il linguaggio: “Questo non attesta soltanto che le bestie hanno meno ragione degli uomini, ma che esse non ne hanno affatto. Perché si vede che per saper parlare ne basta pochissima. [...] né si deve pensare, come qualche antico [Lucrezio], che le bestie parlino anche se noi non ne intendiamo il linguaggio: se questo fosse vero, poiché sono provviste di parecchi organi che corrispondono ai nostri, potrebbero farsi intendere da noi altrettanto bene quanto dai loro simili.”119 Quindi, per Cartesio, l’animale è solo corpo e non possiede affatto la ragione. Ora, però, sappiamo, come abbiamo largamente visto nel paragrafo precedente, che non possiamo considerare l’animale solo corpo perché gli affetti, le modalità espressive, la pietas dell’animale e molti suoi comportamenti riconducono similmente a quelli umani e, inoltre, non abbiamo le facoltà per dimostrare l’esistenza o la non esistenza dell’anima, sia animale che umana. A questo proposito: 118 R. DESCARTES, L’homme (1664); tr. it. L’uomo, Boringhieri, Torino 1960, p. 120. Discours de la method (1637); tr. it. Il discorso del metodo, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. IVI, p. 58. 119 R. DESCARTES, 80 “Anche Pierre-Louis Moureau de Maupertuis, filosofo e scienziato che nel 1732 introdusse in Francia il newtonianesimo, non accetta le tesi cartesiane. Maupertuis ritiene del tutto inadeguato il meccanicismo per spiegare i fenomeni della vita e della sua riproduzione. Egli aderisce all’ipotesi vitalistica di molecole organiche dotate di un qualche grado di coscienza. La distinzione tra sensazione e pensiero è per Maupertuis frutto di scarsa conoscenza del vivente. Ogni sensazione, ogni percezione è un pensiero. Non ha senso attribuire all’uomo un’anima pensante e alle bestie un’anima sensitiva; come non ha senso – perché è impossibile – dimostrare che le bestie hanno un’anima o provarne che ne sono prive.” 120 Ci soffermiamo, ora, un po’ più dettagliatamente, sull’analisi di alcune concezioni e contraddittorietà insite nella morale attuale e nelle leggi che regolano la nostra ambigua società. Tutto gira attorno all’indefinita concezione che abbiamo degli animali, una concezione che sembra mutare in base alla situazione, all’uso, alla morale vigente, al giudizio che la cultura dà di quel determinato fenomeno. Non sembra esistere un pensiero unico, non sembrano esistere né una morale, né un sistema legislativo coerenti. Prendiamo come esempi l’abbandono degli animali, il maltrattamento, i combattimenti illegali: tutti questi comportamenti violenti sono puniti dalla legge e sono considerati dall’opinione pubblica come moralmente non accettabili. Invece, l’uccisione di animali per scopi alimentari, il loro allevamento costrittivo in gabbie, la realtà dei macelli e la somministrazione di farmaci, sembrano essere una consuetudine quotidiana, accettabile e condivisa dalla morale comune, nonché difesa e regolamentata dalle leggi. Un altro aspetto è quello della vivisezione che, pur essendo una realtà condivisa moralmente da meno persone, è ancora una forma di violenza regolamentata, difesa e permessa all’interno dello Stato. Ci domandiamo allora come possano esistere queste contraddizioni, come sia possibile che la violenza venga 120 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. II, pp. 144-145. 81 diversificata: ciò pare assurdo, e non intendiamo assurdo in senso meramente etico, vogliamo dire che questo è paradossale per logica e per coerenza. Un certo tipo di violenza viene legittimata e condivisa, invece un altro tipo di violenza viene messa al bando e marchiata d’infamia. Il dilemma è come si possa parlare di violenze particolari, di tipi di violenze diverse: violenze giuste o violenze ingiuste. A questo punto le domande sorgono spontaneamente: “È logico questo? Si può parlare di tipi diversi di violenza? Uccidere un animale per mangiarlo è diverso da ucciderlo per testare cosmetici e medicinali? Lasciarlo morire in solitudine, perché si è deciso di non accudirlo o picchiarlo, è da considerare più grave di farlo nascere al fine di rinchiuderlo in gabbie e poi ucciderlo? È corretto? In che modo può crescere un bambino con questi messaggi contradditori? Che tipo di morale e che capacità critica andrà a formarsi finché i messaggi che gli arrivano sono confusi e mescolati con la violenza? Non andrò ora ad approfondire queste domande, ma mi riserverò uno spazio alla fine per cercare di illustrarne le risposte. Cerchiamo di capire se può esistere un’uccisione giustificata e moralmente accettabile e una, invece, immorale e inaccettabile: uccidere è sempre uccidere? Come si può decidere se uccidere una specie animale al posto di un’altra sia giusto o no? Come possiamo affermare che uccidere un maiale, una mucca, un coniglio sia accettabile e normale e invece uccidere un cane o un gatto non lo sia? Per spiegare come la violenza sia sempre violenza e come non esista violenza accettabile o meno, sposteremo la discussione dagli animali agli umani: l’atto in sé e la crudeltà che lo accompagna sono sempre gli stessi. Le affermazioni fatte circa le violenze sugli animali potrebbero presentarsi in modo simile e parallelo per gli uomini: usare la violenza su un uomo che ha commesso un atto ingiusto e inaccettabile, come uccidere, è condiviso o può essere condiviso dalla morale comune (ad esempio, la pena di morte), così come la violenza su una persona indifesa è considerata sbagliata e punibile dalla legge. Quindi si può affermare che nelle nostre società, se la 82 violenza è condivisa e accettata dalla maggioranza, è moralmente giusta e applicabile attraverso la legge. Entrando in questo ambito ci accorgiamo della pericolosità di tali argomentazioni (ad esempio l’inaffidabilità del concetto di maggioranza), infatti, a rigor di logica, seguendo quanto detto, dovremo accettare come moralmente giuste e legali le leggi razziali fasciste e il nazismo, perché all’epoca furono accettate dalla maggioranza. Ovviamente stiamo usando degli esempi volutamente forti e provocatori al fine di indicare come esista solo un tipo di violenza: la Violenza. La Violenza non può essere definita particolare, non può essere legittimata in alcuni casi e in altri no: o la si accetta o la si rifiuta. Non può esistere una violenza utile e una violenza inutile. La violenza porterà sempre all’uso di ulteriore violenza, il più piccolo gesto violento ci porterà lentamente ma quotidianamente, verso grandi tragedie. Il primo gesto violento di cui noi parliamo è proprio la violenza sugli animali. Quindi, tornando a noi, perché la violenza sugli animali in alcuni casi è accettata (esempio: vivisezione) e in altri no (esempio: abbandono di un cane). La giustificazione più usata è l’utilità, cioè se uccidiamo un animale per qualcosa di utile come il cibo allora uccidere l’animale sarà giusto. Ma è veramente utile uccidere un animale per l’alimentazione? Soprattutto, se fossimo a conoscenza di come gli animali vengono uccisi e di cosa provano, vorremmo ancora cibarci dei loro corpi? La produzione di carne non è utile e tantomeno necessaria, come dimostrato da molti studi; in termini di risorse prime è molto più dispendiosa di quella vegetale e, allo stesso tempo, sfama molta meno popolazione. Come sostiene la campagna pubblicitaria dell’Expo 2015 nel prossimo futuro dovremo abituarci all’idea di consumare sempre più verdura e sempre meno alimenti di derivazione animale. “2050: solo frutta e verdura per la popolazione mondiale. Produrre 200 83 grammi di carne rossa comporta l’utilizzo di 3.000 litri di acqua. Ecco perché nel prossimo futuro gli esperti prevedono una dieta vegetariana in grado di ridurre il consumo di acqua e terreni, risorse sempre più rare. […] Dietro ai pasti che consumiamo quotidianamente ci sono enormi quantità di acqua: circa 3.600 litri per un’alimentazione a base di carne e 2.300 litri per una dieta vegetariana». La popolazione aumenta e le risorse diminuiscono. Una dura verità per i cittadini di mezzo mondo che dovranno presto abituarsi a diminuire le dosi di carne consumata, preferendovi abbondanti quantitativi di frutta e di verdura.”121 Allora, perché si continua a consumare carne se è dispendioso per il pianeta? Le risposte sono molteplici; una, ad esempio, riguarda gli interessi economici dei produttori di carne. Questo è dimostrato dalla anche risposta che ha ricevuto lo spot dell’Expo che si è visto chiamare in causa dai produttori e allevatori di carne argentini. Inoltre, dobbiamo pensare a tutte le multinazionali che vivono attorno al mercato della carne: le molte case farmaceutiche, gli addetti ai controlli, le miriadi di fast food. Non dobbiamo dimenticare che il controllo alimentare è una forma di potere. Molti stati del terzo mondo sono tuttora sottomessi dal colonialismo finanziario per problemi legati alla fame. Se questi stati risolvessero il problema dell’emergenza “fame” forse non sarebbero più costretti a svendere le loro preziose risorse, utili spesso solo al mantenimento dello stile di vita dei paesi più sviluppati. Questi argomenti avrebbero bisogno di una lunga trattazione e di un adeguato approfondimento, ma non è questa la sede appropriata per farlo. Ci sembrava ad ogni modo corretto accennare brevemente anche a queste situazioni collegate all’uso di carne nelle nostre tavole. Il nostro studio, più che riferirsi ai problemi legati all’economia e al sociale, vuole concentrarsi sui legami tra alimentazione, cultura ed educazione. 121 EXPO 2015 CONTACT, 2050 solo frutta e verdura per la popolazione mondiale, in FOOD 4 LIFE -Stili di Vita -, (consultato il 18 settembre 2012). 84 LO STILE SOMATICO Abbiamo visto in questi capitoli la grande interazione e l’influenza che esiste tra gusto alimentare e i vari ambiti che vanno a formare il carattere e la personalità: l’ambiente sociale, la cultura, la famiglia, l’identificazione di sé, il rapporto con l’altro e l’educazione. La teoria supportata con il presente studio sussiste nella modificazione del gusto alimentare tramite l’educazione di tipo «esplicativo» e non autoritario. Il punto cruciale fa forza sul concetto che, attraverso l’educazione alimentare, si possano influenzare tutti gli altri aspetti ad essa collegati, o collegati alla formazione dello stile di vita del soggetto. Attraverso l’influenza cosciente del soggetto, influenzeremo le scelte che egli farà all’interno della società e quindi, indirettamente, cambieremo il campo sociale. Più semplicemente la società risentirà delle influenze e dei cambiamenti dello stile di vita del soggetto. La teoria prosegue mirando ad avvicinare il soggetto al vegetarianismo e quindi, anche alla non violenza. Il vegetarianismo è una scelta alimentare che ha già insite in sé delle valenze etiche e dei principi morali di non violenza, quindi ha sostanzialmente un doppio supporto per la nostra tesi. Attraverso un’educazione esplicativa e diretta si daranno al soggetto tutte le conoscenze di cui ha bisogno per comprendere la diversità tra una alimentazione vegetariana e una di derivazione animale. Facendo riferimento a teorie dello sviluppo e di psicosomatica vediamo come le prime esperienze istintuali, in particolare quella dell’alimentazione, servano a organizzare le operazioni psichiche: le buone esperienze di soddisfazione e di gratificazione sono legate alla pulsione libidica. Inoltre cominciano a formarsi le seguenti nozioni: io e non io, i primi ricordi legati 85 all’infanzia, le prime forme di scambio e di relazione con il mondo e con l’altro, tutti eventi che influenzeranno in modo determinante il funzionamento della persona in età adulta. Abbiamo già visto come l’alimentazione sia il primo mezzo di approccio alle emozioni: attraverso il rapporto con la madre, il riconoscimento sociale e il rapporto con l’altro (tradizione, cultura e convivialità), la creazione di ricordi (rapporto con la famiglia e infanzia). Un’ulteriore forza educativa e incisiva del gusto alimentare è data dal suo essere un atto quotidiano, quindi ripetitivo e strutturale. Il gusto alimentare, una volta appreso e condiviso dal soggetto, influenzerà anche altri gusti particolari, ad esempio la scelta di non usare pellicce o quella di non usare prodotti testati sugli animali. Questo è, usualmente, un percorso lento, ma appreso dalla maggior parte delle persone che si avvicinano al vegetarianismo e, di conseguenza, alla non violenza. Lo stile di vita è somatico, soprattutto nel suo venire esteriorizzato, ma anche nella sua costituzione, come ben descrive Richard Shusterman nel testo Stili di vita: “Senza appoggiare la prospettiva di Thoreau sullo stile quale mezzo fisico per scopi mentali (e lasciando sospesa la critica successiva di questo punto di vista negli stessi scritti di Thoreau), possiamo affermare che ha riconosciuto la natura fondamentale somatica dello stile. Se lo stile mentale e di pensiero di qualcuno è in qualche modo corporeo – sia tramite la voce che attraverso la scrittura (come affermano anche questi due famosi trascendentalisti) -, allora sembrerebbe che ogni stile umano sia in qualche modo somatico.”122 Lo stile di vita, oltre a essere un atto corporeo, è anche la nostra rappresentazione mentale, quindi lo potremo meglio definire come “stile di 122 R. DREON – D. GOLDONI – R. SHUSTERMAN, Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, Mimemis, Milano 2012, p. 16. 86 vita psicosomatico”. Shusterman, infatti, lo definisce come espressione creativa di sé attraverso l’uso del corpo e dell’esperienza. “ Studio cruciale e migliorativo dell’esperienza e dell’uso del proprio corpo come luogo di apprezzamento estetico-sensoriale (aisthewsis) e di modellamento creativo di sé avrebbe potuto anche essere formulato in termini di “stilizzazione creativa di sé.””123 Tali teorie sono di pubblico interesse perché non rimangono solo teorie espresse, ma trovano un vero e concreto riscontro nella realtà dei fatti. Effettivamente, la personalità viene spesso espressa tramite lo stile e l’atteggiamento della persona stessa. “La propria personalità è davvero espressa nello stile somatico. Un individuo mite o timido spesso può essere riconosciuto da una postura curva, da uno sguardo basso che non ce la fa a guardare negli occhi, da una camminata esitante e da un movimento gestuale trattenuto o inibito. Wittgenstein sicuramente lo sapeva, poiché affermò non solo che «il corpo umano è la migliore immagine dell’anima umana”, ma anche” che lo stile di uomo è la sua immagine».”124 Lo stile somatico non è un rimando a un’immagine di sé o a una banale rappresentazione, ma è la vera espressione della personalità, conscia e inconscia. «Lo stile somatico, dunque, non è semplicemente un’immagine esterna del carattere, ma una sua espressione o una sua parte integrante, perché il carattere non è meramente un’essenza interna segreta, quanto piuttosto qualcosa che è espresso intrinsecamente o è costituito attraverso il comportamento somatico, il modo di fare, l’atteggiamento».125 Tramite lo stile somatico non si rivelano solamente l’atteggiamento, i modi o gli interessi. Esso diviene piena espressione del «vero carattere»,126 facendo emergere 123 Ivi, p.17. Ivi, p.19. 125 Ivi, p.20. 126 Cfr. G. L. LECLERC DE BUFFON, Le style cèst l’homme même (“Lo stile è l’uomo stesso”), in Discours sur le style (1749); tr. it. Discorso sullo stile, Edizione Studio Tesi, Pordenone 1994. 124 87 anche quelle parti di noi che non vogliamo far trapelare, ma che attraverso la comunicazione non verbale, ad esempio con lo sguardo, esprimiamo. “(Analects 17:9) Perciò il suo discepolo Mencio potè scrivere. “Ogni suo membro porta testimonianza senza parole. Questo ruolo cruciale dello stile somatico nell’istruzione etica è il motivo per cui il Libro Decimo degli Analecta è dedicato a descrivere il comportamento somatico di Confucio (i diversi modi in cui mangiava, vestiva, si inchinava, camminava, e così via, in quanto si accordavano con i differenti contesti in cui l’azione si situava). Il corollario di questa idea è che non si può nascondere il proprio carattere morale, anche se lo si vuole perché si è malvagi. “Come può un uomo” si chiede Mencio, “nascondere il suo vero carattere” quando non solo “le sue parole”, anche le pupille dei suoi occhi lo rivelano (Libro di Mencio IV, A:15).”127 Si potrebbe incorrere nel pericolo di confondere lo stile somatico con l’abbigliamento o con la moda vigente nella società. Non dobbiamo dimenticare, invece, che lo stile somatico comprende vari aspetti della persona come: il modo di parlare (attraverso la scelta lessicale e il tono della voce), l’atteggiamento nel porsi verso l’altro, il modo di camminare, il modo di mangiare e la scelta delle pietanze. “Ma anche togliendo l’abbigliamento dalla nozione di stile somatico, possiamo osservare i modi di camminare, di fare gesti, di mangiare o sedersi e alzarsi dalla propria sedia, che sebbene siano più o meno stilizzati nel senso onorifico, esemplificheranno lo stile nel senso descrittivo. Per esempio, possiamo notare uno stile goffo e non attraente, ma idiosincratico nel mangiare o nel camminare.”128 Lo stile trasmette ed esprime la personalità dell’individuo, la morale, le convinzioni etiche, ma non si ferma solo a questo. Esso è mezzo di aggregazione e di distinzione, ad esempio nell’aderire o meno a un gruppo, a un ceto sociale o a culture e sub-culture. 127 128 R. DREON - D. GOLDONI - R. SHUSTERMAN, Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, cit., p. 21. Ivi, p. 23. 88 “Questo desiderio assume tipicamente la forma paradossale di volersi adattare e, tuttavia, di distinguersi. In altre parole, la stilizzazione di sé comporta il conformarsi in qualche modo alle norme del gusto sociale di qualche gruppo (che potrebbe essere una sottocultura che resiste al gusto dominante), non consentendo, tuttavia, a una simile conformità allo stile generale di precludere l’espressione individuale propria di qualcuno.”129 Lo stile, oltre a essere espressione della nostra personalità sia conscia che inconscia, può essere “profondamente condizionato” dall’esterno. Attraverso i mass media, il marketing e le varie forme di comunicazione e di mercato possiamo apprendere inconsciamente modi, espressioni e stili che non ci rappresentano, ma che sono, anzi, espressione della società in cui viviamo e, ancor peggio, soggetti a strumentalizzazione legata all’economia o al potere vigente. Altri condizionamenti o influenze possono compiersi tramite l’educazione, la famiglia, la cultura (per imitazione o per riflesso). “L’individuo assorbe semplicemente una preferenza per certe modalità o per certi modelli somatici dell’ambiente umano circostante (che è già sempre anche un ambiente sociale) e poi esprime irriflessivamente tale preferenza emulandoli spontaneamente nel suo comportamento somatico volontario; come cammina, mangia, si veste, si pettina, e così via.”130 “Così come lo stile somatico può essere acquisito e mostrato irriflessivamente senza scelta cosciente, parimenti può essere acquisito e mostrato in assenza totale di nostre deliberazioni. Questa forma involontaria di stile può risultare, per esempio, dal modo in cui siamo stati allenati a camminare o mangiare o da abiti corporei sviluppati attraverso le nostre occupazioni, […].”131 129 Ivi, p. 25. 130 Ibidem. 131 Ivi, p. 26. 89 Ora è importante capire come modificare il nostro stile di vita e in che modo apprenderlo coscientemente così da renderlo nostro, così che sia la reale espressione della nostra personalità, del nostro carattere e delle nostre convinzioni etiche-morali. “Più interessante è la domanda pratica su come lavorare su se stessi per creare o migliorare il proprio stile. Sebbene la questione sia troppo complessa per essere affrontata adeguatamente in questa sede, sicuramente parte di questo lavoro sul sé è uno sforzo di conoscenza di sé, che include un esame delle nostre forze, debolezze e propensioni. Ma include anche uno studio critico di modelli d’ispirazione, di teorie e di metodi di coltivazione di sé, che ci possono aiutare a trasformarci stilisticamente nei modi che giudichiamo desiderabili. In quello che rimane di questo saggio vorrei soltanto suggerire come il lavoro sulla trasformazione somatica del proprio stile può essere perseguito secondo due direzioni complementari, la cui interazione collaborativa rivela ancora in un altro modo che lo stile somatico trascende la distinzione semplicistica tra un animo interiore, o sostanza, e una forma esteriore, o maniera.”132 Attraverso questo passo, Shusterman dà un considerevole sostegno alla tesi di questo studio. In primo luogo, egli afferma e sostiene la trascendenza del dualismo anima-corpo basandosi sull’univocità del fine e sulla loro duplice funzione correlata. La struttura dello stile e del gusto alimentare fanno essenzialmente perno sulla stessa base: la collaborazione tra anima e corpo. Inoltre, il gusto e lo stile sono a loro modo simultaneamente influenzati e influenzanti, sia nel rapporto soggetto-mondo, sia nella loro costituzione anima-corpo. Questo passaggio si riassume in un breve passo, tratto da Walden133, citato dallo stesso Shusterman nella sua opera: 132 Ivi, p. 37. 133 Cfr. D. HENRY THOREAU, Walden Life in the Woods (1845); tr. it. Walden o vita nei boschi, BUR, Milano 1988. 90 “Ogni uomo è il costruttore di un tempio chiamato corpo, per il dio che venera, secondo uno stile che è puramente suo, né può esentarsi martellando marmo al suo posto. Siamo tutti scultori e pittori, e il nostro materiale è la nostra stessa carne e il sangue e le ossa. Ogni nobiltà comincia col raffinare i tratti di un uomo, ogni grettezza o sensualità con l’imbruttirli.” Questo argomento sembra combinare due diverse direzioni di stilizzazione e di creazione del sé.”134 La prima direzione va quindi verso la cura del corpo in senso prettamente più fisico e viene riassunta nella frase “il corpo è un tempio di dio”; legata a un valore estetico e a una “lavorazione del corpo” (nel senso di “scolpire”), essa si realizza anche attraverso il sacrificio, la rinuncia e la fatica. Noi, parallelamente, facciamo coincidere questa prima fase più corporea con la scelta alimentare vegetariana: l’abbandono dell’uso della carne diviene allo stesso tempo scelta salutare e di cura del corpo, ma anche sacrificio nella rinuncia a un alimento (che piace o è legato a ricordi o abitudini). La seconda direzione, invece, può essere sintetizzata nella frase “scolpire se stessi”. “Piuttosto, i nostri sentimenti e le disposizioni morali sono già somatici, proprio come il nostro stile somatico è già sempre informato dallo spirito e dalle norme etiche del mondo sociale. Il soma in quanto corpo umano vissuto, senziente, intelligente – è fatto intrinsecamente di carattere quanto di globuli; è soggettività interiore quanto forma esteriore. Lavorare al suo esterno può essere un mezzo per lavorare sulle sue virtù e sulle sue disposizioni interne, proprio come lavorare nell’interno (attraverso pratiche meditative) può migliorare il modo in cui appariamo.”135 In questo passo, si nota come le disposizioni interiori si rispecchiano nel e attraverso il corpo, tramite quindi l’espressione del corpo, ma anche tramite la modificazione dello stesso. Il rapporto tra corpo e disposizioni è a doppio 134 135 Ivi, pp. 37-38. Ivi, p. 39. 91 senso: lavorare sul corpo influenzerà “l’animo”, lavorare sull’animo influenzerà il corpo. Tale doppio legame è emerso anche tra gusto alimentare e identità, educazione, società, rapporto con l’altro (alterità), stile di vita e gusto. “Se lo stile somatico rimane un aspetto percepibile della superficie del corpo, esso raggiunge anche fino in fondo le profondità del sé e del carattere. È troppo profondo per essere disprezzato come una materia triviale di gusto, di gran lunga troppo centrale per trascurarne la coltivazione e l’analisi.”136 Lo stile di vita, oltre a esprimere il carattere dell’uomo, guida e rappresenta le sue scelte all’interno della società dando forma ad essa. Il percorso che lega alimentazione, società, educazione e violenza può sembrare complicato e discontinuo, così come può apparire che tali concetti non abbiano evidenti correlazioni tra loro e che, nella pratica, rimangano comunque distanti. L’alimentazione, per esempio, spesso non viene ritenuta un argomento di interesse etico o sociale, ma non possiamo però nascondere la sua assidua presenza nei momenti più significativi di socialità: essa assume un ruolo gestionale nella scansione del tempo quotidiano e talvolta diviene un mezzo di livellamento sociale tra le diverse classi. Negli uomini, la centralità del pensiero, a volte della preoccupazione, del cibarsi è sempre presente e viene ben descritta nel passo tolstoiano che segue: “Guardate la vita dei ricchi, ascoltate le loro conversazioni. Che argomenti elevati! Filosofia, scienza, arte, poesia e la questione dell'equa ripartizione delle ricchezze e l'elevazione del popolo e l'educazione dei giovani. Ma in realtà per i più si tratta di una menzogna. Tutto ciò non li occupa che di passaggio, fra un pasto e l'altro, quando lo stomaco è pieno e non è più possibile continuare a mangiare. L'unico vero interesse di uomini e donne, specie non più giovani, è mangiare. Come mangiare? Che cosa mangiare? Quando? Dove? 136 Ivi, p. 40. 92 Non c'è una solennità, un avvenimento gioioso, una inaugurazione, che trascorra senza un banchetto. Osservate la gente che viaggia, ciò risulta ancor più evidente. «I musei, il parlamento, le biblioteche come sono interessanti!... E dove mangeremo? Dov'è che si mangia meglio?».”137 La ricerca alimentare non ha come scopi solo la soddisfazione della fame e l’auto-sostentamento, ma diviene ricerca del piacere: attraverso il consumo di cibi sempre più raffinati, da mezzo di sopravvivenza si trasforma in strumento di piacere e quindi in risorsa alla base di un eventuale cambiamento sociale. In tali passaggi, la difficoltà concettuale più sentita sta nel riconoscere nell’alimentazione una possibile forma etica di non-violenza e di compassione: l’uomo riesce a provare sentimenti di commozione e di partecipazione emotiva nel momento in cui si appresta a vivere l’atto “banale” del nutrimento? Ci serviamo ancora delle parole del grande Tolstoj che, attraverso una descrizione lucida e cruenta, ci obbliga a visualizzare la realtà così come abitualmente non appare ai nostri occhi: Credevo che, come spesso accade, la realtà dovesse produrre poi in me una impressione meno forte di quanto immaginavo. Ma mi sbagliavo. La volta seguente arrivai al macello in tempo. Era il venerdì prima della Pentecoste, in una calda giornata di giugno, l'odore del sangue era ancora più forte della prima volta, il lavoro era molto. La corte polverosa era piena di animali, ed altri si trovavano in vari recinti. In strada vi erano alcuni carri fermi ai quali erano attaccati buoi, vitelli, vacche. Altri carri pieni di vitellini vivi, le teste legate basse, sopraggiungevano e subito venivano scaricati. Altri carri uscivano dal macello carichi di buoi già uccisi, con le gambe penzoloni, che traballavano secondo i movimenti della vettura, le teste inerti, i polmoni rosei e i fegati brulli allo scoperto. […] Dalla parte opposta a quella dove io mi trovavo, stavano facendo entrare un grosso bue, rosso e grasso, due uomini lo trascinavano per le corna. Il bue aveva appena varcato la soglia, che un macellaio lo colpì alla nuca con un'ascia a manico lungo. Come se gli fossero state tagliate 137 L. TOLSTOJ, Il primo gradino (1891), Il bastoncino Verde, pp.11-12, in H. WILLIAMS, The Ethics of Diet (1883). 93 tutte e quattro le gambe di un sol colpo, il bue cadde pesantemente sul ventre, poi si girò su un fianco e si mise ad agitare convulsamente le gambe e la parte posteriore del corpo. Allora uno dei macellai si precipitò su di lui, badando a non farsi colpire dagli zoccoli, lo prese per le corna e gli abbassò con forza la testa contro il suolo, mentre un altro gli tagliava la gola. Dalla larga ferita un sangue rosso bruno sgorgò a fiotti e venne raccolto in un recipiente di metallo da un ragazzo, tutto intriso di sangue. Durante tutto questo tempo il bue non aveva cessato di girare e scuotere la testa e di agitare convulsamente le gambe nell'aria. Il catino si riempiva rapidamente di sangue, ma il bue era ancora vivo, respirava pesantemente e continuava a scalciare, tanto che i macellai si tenevano a distanza. Appena il catino fu pieno, il ragazzo se l o mise sulla testa e lo portò via alla fabbrica dell'albumina; prese il suo posto un secondo ragazzo con un altro recipiente e anche questo cominciò a riempirsi, mentre il bue continuava ad alzare ed abbassare il ventre nel respiro e a dibattersi disperatamente. Appena il sangue cessò di sgorgare, il macellaio sollevò la testa alla bestia e si mise a scorticarla; l'animale si dibatteva ancora. La testa venne messa a nudo, divenne rossa con le vene bianche e prendeva le posizioni che le dava il macellaio, la pelle pendeva dalle due parti. Il bue non cessava però di scalciare. Un altro macellaio lo afferrò allora per una gamba, la spezzò e gliela tagliò: sul ventre e sulle altre gambe correvano ancora delle convulsioni. Poi gli furono tagliate le gambe rimaste e furono gettate nel mucchio con le altre. Infine l'animale abbattuto fu trascinato verso la carrucola e fu appeso. Allora solamente la bestia non diede più segno di vita.138 In questo terribile, ma realistico, passo vengono descritte la brutalità, l’indifferenza e la morte, così come emergono nell’atto della macellazione. Il lusso del piacere gustativo si scontra in modo evidente con la realtà sopra descritta: la carne, che giunge sulle nostre tavole imbandite per regalare momenti di convivialità, ha una sua storia di derivazione che rasenta il macabro. Il macabro entra con più forza nelle nostre percezioni quando pensiamo allo sforzo animale di voler restare attaccato alla vita o quando ci 138 L. TOLSTOJ, Il primo gradino, cit., p. 17. 94 rendiamo conto che la carne non è un alimento utile e necessario alla crescita umana. Tolstoj prosegue descrivendo come questi atti di violenza animale abbiano ripercussioni negative sulla sfera umana: compiere, accettare o condividere simili atti significa cozzare contro i sentimenti di “simpatia” e di “compassione” che abitano l’animo umano e quindi rischiare di perdere una significativa parte di umanità. L’uomo che fa violenza su un altro essere, anche se animale, fa violenza a se stesso: “Tempo fa parlai con un macellaio militare ed egli pure fu stupito della mia osservazione che è male uccidere. Anche lui rispose che è una abitudine inevitabile, ma finalmente convenne che è male e aggiunse: «Soprattutto quando la bestia è docile, addomesticata, come si avvicina poveretta, tutta fiduciosa. È una gran pena!». È orribile! Orribile, non solo la sofferenza e la morte di questi animali, ma il fatto che l'uomo, senza alcuna necessità, fa tacere in sé il sentimento di simpatia e di compassione verso gli altri esseri viventi e diviene crudele, facendo violenza a se stesso. E quanto è profondo nel cuore umano il divieto di uccidere un altro essere!.”139 Dunque, alla base della perdita dei sentimenti di umanità e compassione sta la mancanza di conoscenza: l’educazione “esplicativa”, proposta in questo studio, vuole supplire a questa deficienza della nostra società. La conoscenza deve mirare alla formazione di una coscienza critica che permetta ai soggetti di scegliere una vita etica, una vita guidata da un gusto compassionevole. Il gusto compassionevole, divenendo parte dello stile di vita del soggetto, non riguarderà esclusivamente l’ambito alimentare, ma giungerà in modo capillare agli altri aspetti del vivere sociale. L’individuo che vive in modo responsabile e consapevole la propria quotidianità sarà portato a relazionarsi con l’altro attraverso il filtro della coscienza critica e vivrà il dovere morale di portare il suo personale contributo alla società a lui circostante. Un cieco, che ha recuperato la vista, non può fingere di vivere ancora come se fosse al buio: 139 Ivi, p. 14. 95 “Non si può far finta di ignorare tutto questo. Non siamo struzzi, né possiamo pensare che se noi non guardiamo quello, che ci rifiutiamo di vedere, non c'è. Soprattutto quando la cosa che non vogliamo vedere è ciò che stiamo mangiando.”140 Concludiamo assieme alle ultime parole che chiudono il testo tolstoiano: l’educazione, la conoscenza e la compassione ci hanno posto inevitabilmente davanti a questo “primo gradino”: “Questo progresso deve rallegrare in modo speciale coloro che cercano di realizzare Il Regno di Dio sulla terra; non solo perché il vegetarismo, di per sé, è già un passo importante verso questo regno, ma perché è la prova che il cammino dell'umanità, verso la perfezione morale, sta procedendo in modo serio ed autentico. Infatti, tale cammino implica una progressione specifica ed invariabile e questa ne è la prima tappa. Dunque non si può che rallegrarsene. Così come si rallegrerebbero quegli uomini, che volendo raggiungere la sommità di un edificio, dopo aver tentato invano e disordinatamente di scalarne da tutte le parti le mura, si accorgono che l'unico modo per salire è passare dalla scalinata e si riuniscono finalmente davanti al suo primo gradino.”141 140 141 Ivi, p. 19. Ivi, p. 21. 96 BIBLIOGRAFIA Volumi, riviste e saggi critici: AA. VV., Cibo, cultura, identità, a cura di F. Neresini, V. Rettore, Carocci, Roma 2008. AA. VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 2003. AA. VV., I filosofi e gli animali,tr. it. di Giorgio Celi a cura di Gino Ditadi, Isonomia, Este 1994, vol. I. AA. VV., I filosofi e gli animali,tr. it. di Giorgio Celi a cura di Gino Ditadi, Isonomia, Este 1994, vol. II. AA. VV., Trattato di biodiritto, a cura di Silvana Castiglione, Luigi Lombardi Vallauri, Giuffrè, Milano 2012. ADLER A., Heilen und Bilden (1913); tr. it. Guarire ed educare. Fondamenti di psicologia individuale per psicoterapeuti e insegnati, a cura di Egidio Ernesto Marasco, Newton, Roma 2007. Avestâ, a cura di Arnaldo Alberti, in Classici delle religioni, Utet, Torino 2004. BARBERO E. - SAGONE A., La cucina Etica, Sonda, Casale Monferrato (AL) 2010. BECCARIA G. L., Misticanze, parole del gusto, linguaggio del cibo, Garzanti, Milano 2009. La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI “editioprinceps” 1971, note e commenti di La Bible de Jerusalem, nuova edizione 1973, EditionsduCerf, Paris. Per l’edizione italiana, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1974. BOURDIEU P., La distinction (1979); tr. it. La Distinzione, critica sociale del gusto, a cura di Marco Santoro, Il Mulino, Bologna 1983. BRILLAT-SAVARIN J.A., Physiologie du gout (1825); tr. it. Fisiologia del gusto, a cura di MichealGuilbert, Sellerio editore, Palermo 1998. 97 BRUGO I. - FERRARO G. - TARTARI M. - SCHIAVON C., Al sangue o ben cotto, miti e riti intorno al cibo, Maltemi, Roma 1998. CAVALIERI P., La Questione Animale. Per una teoria allargata dei diritti umani, Bollati Boringhieri, Torino 1999. CAVALIERI R., Gusto, l’intelligenza del palato, Laterza, Bari 2011. CLEMENTS K., Why Vegan, (1985); tr. it. Perché vegetariani, le ragioni di una scelta non solo alimentare, Red, Como 1991. CONNER M. - ARMITAGE J.C , The Social Psychology of Food (2002); tr. it. La Psicologia a tavola, Il Mulino, Bologna 2008. DARWIN C., On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life (1872); tr. it. L’origine della specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967. -, The Expression of the Emotion in Man and Animals by Paul Ekman (1998); tr. it. Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Bollati Boringhieri, Torino 1999. DELLA VOLPE G., Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1964. DE MORI B., Che cos’è la bioetica animale, Carocci, Roma 2007. DESCARTES R., Discours de la method (1637); tr. it. Il discorso del metodo, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. I. -Meditationes de prima philosophia (1641); tr. it. Meditazione metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. I. -L’homme (1664); tr. it. L’uomo, Boringhieri, Torino 1960. DODDS E. R., The Greeks and the Irrational l’irrazionale, Rizzoli, Milano 2009. (1951); tr. it. I Greci e DREON R. - GOLDONI D. - SHUSTERMAN R., Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, Mimesis, Milano 2012. DUMOUCHEL P., Emozioni. Saggio sul corpo e il sociale, Medusa, Milano 2008. 98 FREUD S., Jenseits des Lustprinzips (1920); tr. it. Al di là del principio di piacere, Boringhieri, Torino 2000. -, Abriss der Psychoanalyse (1938); tr. it. Compendio di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2007. -, Zur Einführung des Narzissmus (1914); tr. it. Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino 1976. GALIMBERTI U., Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 2006. -, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2019. -, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2009. GIAMBLICO, Vita pitagorica, a cura di Luciano Mantoneri, Laterza, Bari 1973. GUIGONI A. - BEN AMARA R., Saperi e Sapori del Mediterraneo, AM&D, Cagliari 2006. LANDOWSKI E. - FIORIN J. L., O Gusto da Gente, o Gusto Dascoisas Abordagemsemotica, (1997), tr. it. Gusti e disgusti, Testo Immagine, Torino 2000. LUPTON D., Food, the Body and the Self (1996); tr. it. L’anima nel piatto, il Mulino, Bologna 1999. HUSSERL E., Die Krisis der Europäischen Wissenschaften und die transzendentle Phänomenologia (1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2002. KANT I., Kritik der Urteilskraft (1790); tr. it. Critica del giudizio, Laterza, Bari 1997. ORWELL G., 1984 (1949); tr. it. di Stefano Manfredotti, Mondadori 2003. OVIDIO, Metamorfosi, in Opere, a cura di Nino Scivoletto, Utet, Torino 2000, Vol. III. PERULLO N., Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo, Slow Food Edition, San Mauro Torinese (TO) 2012. PLATONE, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967. 99 -, Fedone, tr. it. di Giovanni Reale, editrice La scuola, Brescia 1970. -, Fedro, tr. it. di Roberto Veraldi, Bur, Milano 2006. -, Gorgia, tr. it. di Francesco Adorno, Laterza, Bari 1997. -, Simposio, tr. it. di Guido Calogero, Laterza, Bari 2008. POLLAN M., Omnivore’s Dilemma (2006); tr. it. Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano 2008. PROUST M., A’ la recherché du temps perdu. Du côté de chez Swann (1913); tr. it. Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, Mondadori, Milano 2005. RAPPOPORT L., How We Eat (2003); tr. it. Come mangiamo, coltura e psicologia del cibo, Ponte delle Grazie, Milano 2003. REALE G., La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana, Bompiani, Milano 2004, vol.1. -, Introduzione a Aristotele, Laterza, Bari 1977. REGAN T. - SINGER P., Animal Rights and Human Obligations (1976); tr. it. Diritti animali, obblighi umani, traduzione di Paolo Garavelli, Gruppo Abele, Torino 1987. RIMÈ B., Le portage social des émotions (2005); tr. it. La dimensione sociale delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2008. SAVATER F., L’arte della digestione, “La Stampa”, 26 Settembre 2007, disponibile all’indirizzo http://www.vinocon.it/Contributi. SCHOPENHAUER A., Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. It. Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari-Roma 1972. VERONESI U., Verso la scelta vegetariana, Giunti, Milano 2011. 100 SITOGRAFIA BATTAGLINI P., Appunti di fisiologia dell’apparato stomatognatico, Università degli studi di Trieste, Trieste 2011, disponibile all’indirizzo http://sv.units.it/ppb/Odonto/Gusto.html. CARBONE M., Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, a cura di C. Rozzoni e M. Binchetti, “Chora”, anno IV, N. 9, luglio 2004 disponibile all’indirizzo http://www.maurocarbone.org. EXPO 2015 CONTACT, 2050 solo frutta e verdura per la popolazione mondiale, in FOOD 4 LIFE – Stili di Vita -, 18 settembre 2012, disponibile all’indirizzo http://expo2015contact.it/news. LOPOPOLO M., Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma Mater Studiorum, Bologna 2012, disponibile all’indirizzo http://www.griseldaonline.it/camporesi/cibo. PANI R. – SAGLIASCHI S., Gusto alimentare: rigida ostinazione o educare all’apertura al mondo, Bologna 2011, disponibile all’indirizzo http://www.robertopani.com/accademica/articoli. SAVATER F., L’arte della digestione, “La Stampa”, 26 Settembre 2007, disponibile all’indirizzo http://www.vinocon.it/Contributi. TOLSTOJ L., Il primo gradino (1891), Il bastoncino Verde, in WILLIAMS H., The Ethics of Diet (1883); tr. it. Gloria Gazzeri, Amici di Tolstoj, disponibile al sito http://www.libreriadiquartiere.it/ilbastoncinoverde. TOSI S., Sociologia, cibo, alimentazione: alcuni punti, Polo tecnologico NETTUNO Milano-Bicocca, Milano 2012, disponibile all’indirizzo http://www.nettuno.unimib.it. 101