Corso di Laurea magistrale in
Scienze filosofiche
Tesi di Laurea
Il gusto compassionevole
Relatore
Ch. Prof. Luigi Vero Tarca
Laureando
Andrea Galetti
Matricola 831705
Anno Accademico
2012 / 2013
SOMMARIO
INRODUZIONE
2
I. PARTE PRIMA
DUALISMO ANIMA-CORPO LA SVALUTAZIONE DELLE
MEMBRA
LA CONCEZIONE DUALISTICA
SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO
SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA
7
10
16
II. PARTE SECONDA
LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO
LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA
25
III. PARTE TERZA
IL GUSTO
L’APPARATO GUSTATIVO
LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO
L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA E
TRADIZIONI
IL GUSTO DELL’INFANZIA
L’EDUCAZIONE AL GUSTO
39
44
48
53
57
IV. PARTE QUARTA
IL GUSTO COMPASSIONEVOLE
LA SCELTA VEGETARIANA
IL GALLO CON GLI SPERONI
LO STILE SOMATICO
65
BIBLIOGRAFIA
97
77
85
1 INTRODUZIONE
“Non meno che saper, dubbiar m’aggrada”.
Dante Alighieri
La ricerca svoltasi nelle seguenti pagine è iniziata con la presa di coscienza
della mancanza di una filosofia alimentare, con la constatazione della
necessità di affrontare tale tema attraverso l’osservazione dei suoi possibili
campi d’impiego. L’alimentazione, per sua natura, è necessariamente legata al
corpo, quindi prima di poter affrontare le problematiche legate alla filosofia
alimentare, si devono prendere in considerazione le teorie filosofiche che
concernono il rapporto anima-corpo. La tradizione, nella maggioranza dei
casi, ha misconosciuto e denigrato il corpo con i suoi sensi e ha riconosciuto
2 nella psiche la principale sede di conoscenza e verità. Alla base di questo
pensiero vi è la concezione dualistica; questa cominciò a propagarsi con lo
sviluppo delle religioni persiane. Prese forma con lo Zoroastrismo e con le
tribù sciamaniche che influenzarono inizialmente i circoli orfici e pitagorici,
per poi protrarsi nel tempo fino alla filosofia platonica e neoplatonica.
L’epicentro teorico di tale concezione emerge nella filosofia moderna con
Cartesio e con la famosa divisione della realtà da lui compiuta in res cogitans
e res extensa. La rappresentazione dualistica s’innesta profondamente nella
cultura occidentale così da influenzarne gli aspetti religiosi, culturali e sociali.
Il dualismo ha posto una netta divisione tra anima e corpo e ha emarginato
quest’ultimo, ritenendolo privo d’interesse e poco degno di studio. Con la
filosofia contemporanea si comincia a riconoscere una certa valenza alla
corporeità e al suo rapporto con il mondo. Il corpo non è più la prigione
dell’anima, ma assume una propria identità: è vivente e partecipe, comunica
con e attraverso il mondo. Il corpo e i suoi sensi vengono riconosciuti come
elementi con capacità conoscitive. Nonostante ciò, assistiamo a una forma di
gerarchizzazione dei sensi che tende a squalificare il gusto e l’olfatto: essi
vengono associati all’idea di futilità e di superficialità. Il gusto, in particolar
modo, è stato storicamente riconosciuto come mero strumento pratico, utile
solo alla ricerca e al riconoscimento del cibo per la sopravvivenza. Inoltre, è
stato spesso associato all’idea di peccato: senso legato al piacere carnale,
capace di sibilare all’uomo la possibilità di liberare i suoi istinti animaleschi,
distraendolo dai suoi più alti impegni come la spiritualità o la ricerca della
verità. Molte religioni, forse inconsapevolmente, hanno contribuito a questa
forma di denigrazione, accostando i digiuni e le rinunce carnali alla
purificazione dell’anima.
Questo studio si propone di ridare importanza alle sfere sensoriali
storicamente misconosciute e si concentra in particolar modo sul gusto
alimentare.
3 Vogliamo quindi proporre una rivalutazione filosofica del gusto alimentare
come potenziale elemento creatore di cambiamenti etici nella sfera sociale.
Presentiamo dapprima un’analisi del gusto attraverso differenti punti di vista
che ne illuminino le sue principali caratteristiche: il gusto come apparato
gustativo, quindi le sue forme legate alla sfera prettamente fisica e corporea; il
gusto come facoltà mentale, ovvero come senso portatore e trasmettitore di
vissuti psicologici del soggetto; il gusto come condizione di bisogno primario
dell’uomo, quindi i suoi costituenti aspetti di necessità e di piacere nel
soddisfacimento.
Il gusto non è un carattere marginale dell’esistenza, ma anzi ne influenza
diversi ambiti: la famiglia e il rapporto con la madre (aspetto affettivo),
l’infanzia e i ricordi (memoria ed esperienze), la tradizione culturale e la
socialità (rapporto con l’altro e identificazione di sé). Constatando le varie
influenze che il gusto ha nel soggetto e quindi nell’assetto sociale, proponiamo
una sfida educativa che possa riconoscere, sviluppare e incanalare
positivamente le sue potenzialità. Vogliamo quindi pensare a un’educazione
che abbia una valenza etica e che sia prima di tutto uno strumento di
conoscenza: per questo motivo la chiameremo “educazione esplicativa”.
La valenza etica, in questo caso, sarà data dall’avvicinare il gusto alimentare
al vegetarianismo, una pratica alimentare che insegna a soddisfare il piacere
della nutrizione, senza la necessità di creare dolore o di causare morte. Con
educazione esplicativa s’intende una modalità di formazione che non implichi
alcuna forma di imposizione, ma che offra la maggior conoscenza del reale
senza i vincoli di una scelta predefinita. Spiegare, portare a conoscenza
significa dare informazioni, presentare le possibile scelte, aiutare a
comprendere il valore della scelta e quindi l’importanza e il piacere di portarla
a termine. In questo caso l’educazione esplicativa, che è appunto legata al
vegetarianismo, consisterà, ad esempio, nel dare al bambino tutte le
informazioni sulla provenienza degli alimenti, sull’esistenza delle diverse
4 forme di nutrizione, sugli effetti fisici, morali e sociali di un’alimentazione di
derivazione animale rispetto a una di tipo vegetale. Le spiegazioni e il grado di
conoscenza dovranno essere ovviamente correlati all’età del soggetto educato:
essi possono variare e appartenere a diversi ambiti o avere differenti intensità.
Si possono spiegare l’impatto del cibo sulla salute, la relazione uomoambiente, il concetto di violenza, il funzionamento dei macelli, il diritto alla
vita, i diritti animali, il significato della mistificazione sociale legato ai sistemi
pubblicitari e al marketing.
L’altro punto di forza è quello che chiameremo “gusto compassionevole”, cioè
la valenza etica e morale del gusto dovuta alla scelta di un’alimentazione
vegetariana. Il vegetarianismo ha una doppia valenza etica: la prima, quella
intrinsecamente compassionevole, che si fonda sulla volontà di non voler
creare dolore e nel considerare gli animali esseri viventi con diritto di vita in
egual modo degli uomini; la seconda è costitutiva della filosofia vegetariana
poiché votata alla non violenza. La non violenza nel vegetarianismo consiste
nell’assenza dell’uso della forza e della coercizione, come mezzo o strumento
per raggiungere un fine o per soddisfare un bisogno, che sia esso necessario o
futile.
Questa seconda parte di tesi si focalizza sul rapporto tra la violenza sugli
animali e la violenza tra gli uomini e sulle contraddittorietà legislative legate a
questo ambito all’interno degli stati. Ad esempio, come esista da un lato la
salvaguardia dei diritti animali e contemporaneamente dall’altro la
regolamentazione della loro uccisione o della loro strumentalizzazione. Le
nostre società crescono su questa ambigua struttura legislativa, che fa leva su
una sorta di fittizia morale, dove si diversificano impropriamente test e
sperimentazioni da maltrattamenti e casi di abbandono.
Il rischio all’interno di queste contraddizioni morali è quello di accettare l’uso
della violenza come strumento. Il passo dalla violenza sugli animali a quella
5 tra uomini non è poi così lungo: la violenza non ha etnia, non ha specie e
nemmeno razza. L’uso della violenza deve essere considerato in modo
univoco. Parlare di violenze utili o di violenze accettabili può creare confini
labili, dove, alla fine, l’esercizio della violenza viene gestito dalla
maggioranza o dai poteri forti. La storia ha dimostrato che può essere un
percorso pericoloso e incontrollabile. Per evitare questa escalation si propone
di non utilizzare la violenza come mezzo, in primis per un senso di
autoconservazione: per la salvaguardia del nostro futuro come umanità.
La violenza non può essere considerata o divisa in sottogruppi o
sottocategorie, poiché è sempre e solo violenza. Se non acconsentiamo il suo
uso, non possiamo accettarlo in nessun ambito a partire dai piccoli atti
quotidiani
come
quello
dell’alimentazione.
Il
percorso
del
gusto
compassionevole è un cammino lento, ma costante: la compassione non
riguarderà in modo esclusivo l’ambito alimentare, ma influenzerà le più
svariate sfere delle personalità contribuendo a crearne uno stile. Tale modalità
potrà essere riversata anche nella soddisfazione degli altri bisogni umani. Non
accettando quella violenza, non accetteremo nemmeno l’uso di quel
linguaggio, non lasceremo che il suo “germe” s’insinui e si propaghi nelle
nostre vita, nella nostra personalità, nel nostro mondo.
6 I. PARTE PRIMA
DUALISMO ANIMA-CORPO: LA SVALUTAZIONE DELLE
MEMBRA
“Vorrei trovare un’espressione per la
dualità, vorrei scrivere capitoli e frasi
dove
fossero
sempre
visibili
contemporaneamente
canto
e
controcanto, dove accanto ad ogni
varietà vi fosse l’unità, accanto ad ogni
scherzo la serietà.
Perché solo in questo consiste per me la
vita, nel fluttuare tra due poli,
nell’oscillazione tra i due pilastri
portanti del mondo. Vorrei con gioia far
vedere la beata varietà del mondo ed
anche sempre ricordare che al fondo di
questa verità vi è un’unità”.
H. Hesse
LA CONCEZIONE DUALISTICA
La concezione dualistica ha favorito il sedimentarsi di considerazioni
pressoché negative su ciò che intendiamo con corpo. Questo, infatti, è stato
denigrato e svalutato dalla maggior parte della tradizione filosofica, letteraria e
teologica. Il dualismo vede e concepisce il mondo come separazione
ontologica tra anima e corpo. Tale termine fu introdotto da R. Descartes, che
7 distinse principalmente la realtà in due ambiti: res cogitans (realtà psichica) e
res extensa (realtà fisica). 1 In effetti, R. Descartes non fu il fautore del
dualismo, ma solo uno dei suoi massimi e più conosciuti esponenti.
L’origine del termine può essere ricercata nella filosofia pitagorica e nella
concezione religiosa legata all’orfismo. 2 Secondo lo studioso e storico
Giovanni Reale infatti:
“Nei documenti letterari greci a noi pervenuti compare per la prima volta
in Pindaro una concezione della natura e dei destini dell'uomo pressoché
totalmente sconosciuta ai Greci dell'età precedenti ed espressione di una
credenza per molti aspetti rivoluzionaria, la quale, giustamente, è stata
considerata come elemento di un nuovo schema di civiltà. In effetti, si
comincia a parlare della presenza nell'uomo di qualcosa di "divino" e non
mortale, che proviene dagli Dei ed alberga nel corpo stesso, di natura
antitetica a quella del corpo che dorme o addirittura si appresta a morire,
e dunque, quando allenta i vincoli con esso e lo lascia in libertà. [...] Il
nuovo schema di credenza consiste, dunque, in una concezione
"dualistica" dell'uomo, che contrappone l'anima immortale al corpo
mortale e considera la prima come il vero uomo o, meglio, ciò che
nell'uomo veramente conta e vale. Si tratta di una concezione, come è
stato ben notato, che inserì nella civiltà europea un'interpretazione nuova
dell'esistenza umana. Che questa concezione sia di genesi orfica non
parrebbe cosa dubbia.”3
1
R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia (1641); tr. it. Meditazione metafisiche sulla
filosofia prima, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. I. 2
AA.VV., Enciclopedia garzanti di filosofia, Garzanti, Milano 2003: “Orfismo: movimento religioso
dell’antica Grecia, fondato, secondo la tradizione, dal leggendario poeta tracio Orfeo. […] La
tradizione orfica la cui prima compiuta codificazione scritta è attribuita a Onomacrito, risale almeno
al sec. VI a.C. […] Con le sue purificazione ascetiche, la «vita orfica» si propone di eliminare
nell’anima umana questo elemento titanico e di accedere al divino, evidenziando la dimensione
immortale della natura umana.[…]. Al centro delle speculazioni orfiche e delle sue pratiche catartiche,
che sottolineano il ruolo estatico di nuove dimensioni spirituali come il tempo e la memoria, si
colloca il proposito di una rinuncia all’ordine mondano per conseguire la salvezza integrale
dell’anima, intesa come parte divina dell’uomo”.
3
G. REALE, La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana vol.1, Bompiani,
Milano 2004, pp. 62-63. Il testo a cui fa riferimento e da cui estrae tale considerazione è un
frammento di Pindaro ed è il seguente: “Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente, e poi rimane
ancora vivente un'immagine della vita, poiché solo questa viene dagli dèi: essa dorme mentre le
membra agiscono, ma in molti sogni mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e
sofferenza.” Traduzione di Giorgio Colli in, La sapienza greca vol.1, Adelphi, Milano 2005, p.127.
8 Questa
nuova
4
concezione
dualistica
assieme
alla
considerazione
dell’esistenza di una parte divina insita nell’uomo, furono anche sottolineate
dal grecista Eric R. Dodds:
“Corrisponda o meno al fatto che per un Ateniese del V secolo la parola
psyché avesse o potesse avere in sé un vago sentore di soprannaturale,
certo non aveva nessuna intenzione puritana, né alcuna suggestione
metafisica. L'anima non era prigioniera riluttante del corpo; era la vita, lo
spirito del corpo, nel quale si trovava come a casa propria. Ma ecco che il
nuovo schema di religione portò il suo contributo carico di conseguenze:
attribuendo all'uomo un "io" occulto di origine divina, e contrapponendo
così l'anima al corpo, inserì nella civiltà europea, un'interpretazione che
noi diciamo puritana.”5
Anche nella tradizione giudaico-cristiana si ritrova questa divisione animacorpo, dove l’anima è fonte di vita, animante, guidatrice del corpo. Invece la
carne, le membra sono la parte fragile e possibile fonte di peccato. Nella
Genesi, (capitolo 2, versetto 21) infatti, si legge quanto segue:
“Carne: la carne (basar) è per prima cosa, nell’animale e nell’uomo, la
parte molle, tenera del corpo, i muscoli. […] L’anima o lo spirito,
animano la carne senza aggiungersi ad essa, rendendola vivente. Tuttavia
spesso la “carne” sottolinea ciò che c’è di fragile e di perituro nell’uomo
e a poco a poco si percepirà una certa opposizione tra i due aspetti
dell’uomo. L’ebraico non ha una parola per designare il corpo. Il Nuovo
Testamento supplirà a questa lacuna sviluppando il termine sôma a fianco
di sarx.”6
4
Con “nuova concezione” ci riferiamo alla nascita del dualismo e alle sue influenze sulle teorie
filosofiche nell’antica Grecia.
5
E. R. DODDS, The Greeks and the Irrational (1951); tr. it. I Greci e l'irrazionale, Rizzoli, Milano
2009, p. 18. Inoltre Eric R. Dodds fa risalire questa innovazione al contatto della cultura greca con le
culture sciamaniche intorno al VII secolo a.C. 6
Genesi cap. 2, v. 21 in La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI “editio
princeps” 1971, note e commenti di La Bible de Jerusalem, nuova edizione 1973, Editions du Cerf,
Paris. Per l’edizione italiana, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1974.
9 In molti passi si ritrova questo continuo sottolineare l’importanza dell’anima a
discapito della debolezza del corpo. Nel libro del profeta Geremia (capitolo
17, versetto 5), ad esempio, si sottolinea l’inaffidabilità del corpo-carne e il
suo essere ontologicamente distante dal bene.
“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo
sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore. Egli sarà come un
tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede; dimorerà in
luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può
vivere.”7
Un altro passo fa invece riferimento al corpo come tomba o prigione
dell’anima. La stessa concezione si ritrova nella tradizione greca, anzi più
correttamente in quella socratico-platonica. In questo testo biblico del profeta
Isaia, estratto dal Libro della consolazione di Israele, il dualismo anima-corpo
è riassunto nella metafora del fiore e la sua linfa.
“Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del
campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira
su di essi. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del Signore dura
sempre.”8
SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO
Anche in Platone l’anima viene indicata come un qualcosa di necessariamente
e fondamentalmente separata dal corpo. L’anima è altro, concepita come
7
8
GEREMIA, cit., cap. 17, v. 5.
ISAIA, cit., cap. 40, vv. 6-8.
10 qualcosa di incorporeo e sovrasensibile, essa viene imprigionata nel
“contenitore” corpo (sôma) che le fa da prigione (sêma). Come il filosofo
spiega nel famoso passo del Cratilo:
“Dicono alcuni che il corpo è sêma (segno, tomba) dell’anima, quasi che
ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con
esso l’anima semaínei (significa) ciò che semaíne (significhi), anche per
questo è stato detto giustamente sêma. Però mi sembra assai piú
probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a
dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia
intorno a sé, affinché sózetai (si conservi, si salvi, sia custodita), questa
cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il
nome stesso significa, è sêma (custodia) dell’anima finché essa non abbia
pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c’è bisogno di mutar
niente, neppure una lettera.”9
In questo passo si evidenzia bene come l’anima sia imprigionata nel corpo per
espiare le colpe. Inoltre, come sostiene nel Fedone, finché saremo legati al
corpo non potremo nemmeno giungere alla sapienza; solo quando l’anima sarà
libera dal corpo avremo ciò che desideriamo.
“Se mai vogliamo conoscere qualche cosa nella sua purezza, dobbiamo
separarci dal corpo e guardare le cose in sé con la sola anima. E a quanto
pare, solo allora, cioè dopo la morte e non finché siamo in vita [...]
avremo ciò che desideriamo e di cui ci dichiariamo amanti, cioè la
sapienza. [...] E non è proprio questo che si chiama morte: liberazione e
separazione dell’anima dal corpo? [...] e l’esercizio dei filosofi è proprio
questo: liberazione e separazione dell’anima dal corpo.”10
Molte volte per spiegare situazioni o concetti che trascendono la realtà Socrate
e Platone utilizzavano metafore o racconti mitici. Il carro alato è uno di questi
esempi, dove Socrate spiega come l’anima prima volasse libera e dall’alto
governasse il mondo. Caduta nella terra sarà imprigionata nel corpo e solo
9
PLATONE, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967, pp. 213-214.
PLATONE, Fedone, tr. it. a cura di Giovanni Reale, editrice La scuola, Brescia 1970, 66 d-e; 67 d.
10
11 dopo un periodo di espiazione riuscirà a ritrovare le sue ali e a riprendere il
volo.
“[...] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla
sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe
una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche
lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piú breve.
Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come
la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i
corsieri degli dei e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli
degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini,
l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e
di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di
qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero
difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano
chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò
che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i
luoghi forme sempre differenti. Cosí, quando sia perfetta ed alata,
l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde
le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si
accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per
merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di
corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di
immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci
preformiamo il dio, senza averlo mai visto né pienamente compreso,
come un certo essere immortale completo di anima e di corpo
eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali
questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo a
esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano
dall’anima.”11
Ancora un altro celeberrimo frammento dello stesso testo in cui Platone
ripropone il famoso paradosso della vita e della filosofia come esercizio di
11
PLATONE, Fedro, tr. it. a cura di Roberto Veraldi, Bur, Milano 2006, 246 a-d. 12 morte. L’anima, essendo appunto prigioniera del corpo, avrà come obiettivo
quello di lasciare la terra e di ricongiungersi al Divino.
“ «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi
inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non
quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente
assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di
ciò che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura».
E Simmia, ridendo, disse: «Per Zeus, o Socrate, mi hai fatto ridere, anche
se ora non ne avevo proprio voglia! Io penso che la gente, se sentisse dire
questo, penserebbe che sia davvero ben detto dei filosofi – e lo
riterrebbero in particolar modo i nostri concittadini –, ossia che essi sono
veramente dei moribondi; e direbbe di essersi ben accorta che i filosofi
sono degni di subire la morte!».
«E direbbe la verità, o Simmia! Però non è vero che la gente se ne sia
davvero accorta. Infatti non si è accorta in che senso i veri filosofi siano
dei moribondi e in che senso siano degni di morte, e di quale morte!
Ragioniamo, dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi
che la morte sia qualche cosa?».
«Certo», disse Simmia.
«E riteniamo che sia altro che non una separazione dell’anima dal corpo?
E che essere morto non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo,
separatosi dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi
dal corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcos’altro
e non questo?». «No, questo», disse.”12
Abbiamo visto come, per il filosofo, la morte sia un importante argomento di
studio e come diventi appunto la meta cui giungere. La morte viene
considerata come luogo di divisione tra anima e corpo: la liberazione
dell’anima dalla sua prigione. Nell’esercizio della morte il filosofo non deve
farsi distrarre dai piaceri corporei e dalla tentazioni terrene, ma necessita di
concentrarsi sulla cura della propria anima. Infatti il passo continua nel
seguente modo:
12
Ibidem.
13 “ «Guarda, ora, o carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da
quello che ora diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti
pare che sia degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo,
vale a dire dei cibi e delle bevande?».
«Assolutamente no, o Socrate», disse Simmia.
«E dei piaceri d’amore?».
«Nient’affatto».
«E che ne dici delle altre cure del corpo? Ti pare che il filosofo li tenga in
pregio? Per esempio, il possesso di bei mantelli, di bei calzari e degli altri
ornamenti del corpo, ti pare che egli li abbia in pregio o in dispregio, se
non per quel poco che è costretto a farne uso?».
«Mi pare – rispose – che non li apprezzi, chi è veramente filosofo».”13
Il filosofo, nel non curarsi dei piaceri e delle passioni del corpo,
esercita l’esperienza di morte: essa diventa la liberatrice dell’anima
che permette alla verità di essere svelata. Per questo motivo, il filosofo
deve essere attratto dalla morte e non deve averne paura; occorre
ch’egli si ricordi come la cura del corpo, il suo nutrimento e gli
interessi a esso legati siano tutti ostacoli atti a impedire la vera
conoscenza della cosa in sé, nella sua essenza e purezza.
“ «E dunque non ti pare – disse – che la preoccupazione del filosofo non
sia rivolta al corpo; ma che anzi, per quanto egli può, si ritragga da quello
e si rivolga, invece, all’anima?».
«Mi pare di sì».
«E allora, non è evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente
dagli altri uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerca di
liberare l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?».
«É chiaro».
«E la gente, poi, o Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode
e non partecipa, non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura
dei piaceri che si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star
vicino alla morte?».
«Verissimo quello che dici».
13
Ibidem.
14 [...] «Orbene, è necessario» – disse –, in base a queste cose, che nei veri
filosofi si formi un’opinione di questo tipo, di guisa che, ragionando fra
loro, dicano all’incirca quanto segue.
«Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento,
direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il
corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non
raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente
desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli
preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando
ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso
ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di
molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non
ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti,
guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal
corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di
ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa
del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non
troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E
la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un
momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa,
ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e,
dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per
colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro
che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza dobbiamo
staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se
medesime».”14
Anche nel Gorgia, si fa riferimento al corpo come tomba dell’anima e si
evidenzia come passioni e i desideri creino bisogni all’uomo rendendolo
infelice.
“ […] e davvero può darsi che noi, in realtà, siamo morti! Come già ho
sentito dire da alcuni filosofi: noi attualmente, siamo morti e nostra
14
PLATONE, Fedone, cit., 64a-65a; 65b-e.
15 tomba [sêma] è il corpo [sôma] e quella parte dell’anima nella quale
hanno sede le passioni.”15
SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA
All’interno di questo dialogo ci sono, inoltre, alcuni frammenti in cui Socrate,
attraverso un’analogia tra culinaria e retorica, vuole dimostrare come
entrambe non siano da considerarsi un’arte. Infatti la culinaria, che è pratica
legata al corpo, non si basa su fondamenti scientifici, ma solo sull’esperienza.
“POLO Ma cosa allora ti sembra la retorica?
SOCR. Un dato 16 che tu sostieni aver trasformato in arte in un tuo
trattato, del quale ho preso conoscenza da poco.
POLO E cioè?
SOCR. In qual certa esperienza direi.
POLO Ma che tipo di esperienza sarebbe?
SOCR. Quell’esperienza che suscita in noi un qual certo diletto e
piacere.”17
In questo breve estratto di dialogo, Socrate indica alcune importanti nozioni
che risultano caratterizzanti per la comprensione del suo concetto di retorica.
Egli la definisce, appunto, non solo una «certa esperienza», bensì
un’esperienza che suscita nell’uomo «un qual certo piacere e diletto». Nella
filosofia greca antica l’esperienza non era del tutto esclusa dall’ambito della
PLATONE, Gorgia, tr. it. di Francesco Adorno, Laterza, Bari 1997, 493a. In greco πργµα che tradotto è “fatto”, nel significato di fatto accaduto o che accade. La scelta
lessicale di Adorno si può interpretare come una volontà di volere diminuire il significato ontologico
della parola. La parola «dato» infatti è meno carica di valore giudizio e di verità di «fatto accaduto» ed
è anche slegato dallo spazio e dal tempo.
17
PLATONE, Gorgia, cit., 462c-462d.
15
16
16 conoscenza, ma vi partecipava in modo periferico: l’esperienza, troppo
imprecisa e transitoria perché legata ai fenomeni sensibili, veniva piuttosto
considerata come uno stimolo e quindi risultava vana per la ricerca della
verità e della conoscenza.
In un secondo momento, il dialogo prosegue:
“SOCR. Chiedimi, dunque, ora, in che cosa, secondo il mio parere
consiste l’arte del cucinare.
POLO Ecco, ti chiedo: in che consiste l’arte del cucinare?
SOCR. Non è un’arte Polo.”18
Parlando della culinaria, Socrate sottolinea subito come essa non si possa
considerare un’arte, bensì «un’esperienza». In questo contesto, occorre
ricordare che Socrate, quando parla di arte nel suo significato positivo, si
riferisce spesso al concetto di maieutica. Per maieutica s’intende il metodo
socratico attraverso il quale egli conduce il soggetto alla conoscenza: esso si
basa su una particolare forma di dialogo che presuppone l’interlocutore come
il «partoriente» stesso della conoscenza. Attraverso questa forma d’arte, il
filosofo interroga anime e non corpi. Attraverso il parallelismo con la retorica,
Socrate fa procedere il dialogo al fine di definire la culinaria:
“POLO Ma cos’è allora? Parla!
SOCR. Sì e dico che è un qual certa esperienza.19”
Dunque, cucinare è un’esperienza:
“POLO E di che tipo? Dimmi!
SOCR. Un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere, Polo.”20
Cucinare è «un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere», ma non rientra
nell’ambito di ricerca della verità e della conoscenza. L’uomo se ne serve per
divertimento, gode del suo utilizzo. Fin qui essa non si aggrava di
18
Ibidem. PLATONE, Gorgia, cit., 1997, 462e-462d.
20
Ibidem.
19
17 caratterizzazioni che concernano la sfera del positivo o negativo, del giusto o
sbagliato. Certamente l’esperienza del cucinare è relegata alla corporeità ed è
esclusa dalla dimensione dell’anima.
“POLO Culinaria e retorica sono, dunque la stessa cosa?
SOCR No di certo! Sebbene la culinaria sia una parte di una stessa
professione.
POLO Di quale ?
SOCR. Non vorrei fosse troppo scortese dire la verità, e perciò esito a
parlare, per un riguardo a Gorgia: non pensi che io prenda in giro la sua
professione! E poi, neppure so se la retorica di cui parlo sia la retorica
che Gorgia professa, ché dal nostro discorso non è affatto venuto in luce
ciò che davvero egli ne pensi. Senza dubbio, comunque, la retorica di cui
parlo io è parte di una cosa niente affatto bella.”21
Durante il dialogo, continua il parallelismo tra retorica e culinaria e si giunge a
definire quel certo tipo di retorica «una cosa niente affatto bella». Spesso
Socrate accosta al concetto di bello quello di giusto in senso morale;
similmente, in questo caso, si può pensare che quel tipo di retorica sia ritenuta
dal filosofo una cosa non bella, quindi non giusta. Proseguendo con l’analisi
del dialogo si nota che Socrate vuole delineare l’inutilità e la negatività di una
certa retorica e di certe pratiche.
“SOCR. Sì, Gorgia, a me sembra che la retorica sia un’attività estranea
all’arte, pur richiudendo spirito che sa cogliere nel segno, coraggio e una
naturale disposizione nei rapporti umani. Nel nocciolo io chiamo la
retorica "adulazione", e una di queste è l’arte del cucinare. Ha
l’apparenza di un’arte, ma, penso, arte non è, bensì esperienza ed
esercizio.”22
In questo estratto Adorno mantiene la tradizionale traduzione “adulazione” per
il termine κολακεία, ma egli stesso sostiene che nel suo significato originario
esso è arricchito da alcune sfumature che lo avvicinano al concetto di
21
22
Ivi, 462e-463a. Ivi, p. 463 a-b.
18 «seduzione» (ψυχαγωγία)23. Quest’ultimo termine appare effettivamente più
adeguato per ciò che Socrate vuole far capire ai suoi interlocutori.
L’adulazione, come si può notare proseguendo nella lettura del dialogo, è
utilizzata nel suo significato più negativo, infatti la seduzione invita a
considerare maggiormente l’aspetto ingannevole della retorica. L’inganno di
voler presentarsi senza farsi conoscere veramente, impossessandosi di
qualunque tecnica pur di rendersi attraenti. Secondo Socrate la retorica è solo
una pratica di convincimento e di raggiro che allontana l’uomo dal retto
cammino. Anche per il termine tradotto nell’ultima frase con «esercizio»,
Adorno propone l’uso più corretto del sostantivo dispregiativo «praticaccia»24.
Per praticaccia s’intende, per esempio, l’attitudine di quei medici non
scienziati a ultimare la loro conoscenza a forza di esperienza e pratica. La
retorica, così come la culinaria, seduce servendosi del diletto e del piacere al
fine di, socraticamente parlando, voler vendere come pieno un vaso vuoto.
Successivamente Socrate pone rispettivamente la retorica e la culinaria come
copie o spettri della politica e della medicina, con la differenza che
quest’ultime non fanno affidamento a un metodo e a delle regole, ma si
servono dell’esperienza e della pratica, basandosi sulle conseguenti risposte
che da esse ricevono.
“SOCR. Ma riuscirai a capire la mia risposta? La retorica, secondo il mio
pensiero è un idolo di una parte della politica.
POLO Ma che vuoi dire con questo? Intendi dire che è bella o brutta?
SOCR. Brutta, secondo me – brutto io chiamo tutto quello che è male -,
dal momento che ti si deve rispondere come se tu già sapessi quello che
penso.[…]
GORGIA E tu lascia da parte e rispondimi su cosa intendi dire quando
affermi che la retorica è un idolo di parte della politica.”25
23
κολακεία: manteniamo la tradizionale traduzione «adulazione» anche se in greco v’è qualcosa di
più che, forse, meglio potrebbe tradurre “seduzione”. Cfr. Soph. 222e-223° [nota dell’autore].
24
Cfr. Phaedr. 279b. Cfr anche Phil. 55e; Leg. 938° [nota dell’autore]. 25
PLATONE, Gorgia, cit., 463 d-e.
19 Qui e successivamente Socrate sostiene che la retorica e la culinaria sono
"Idoli", nel senso di copie, fantasmi o apparenze che non hanno una vera
consistenza, né un regime di regole da seguire. I cosiddetti "venditori di
fumo". Nel passaggio seguente Socrate divide le arti tra quelle valide per la
cura dell’anima e quelle inerenti alla cura del corpo: per la cura dell’anima
individua la politica nelle sue parti di legislazione e di amministrazione della
giustizia; per la cura del corpo indica la ginnastica e la medicina.
“SOCR. L’adulazione, accortasi di queste quattro arti, così costituite e
volte sempre a curare nella maniera migliore le une il corpo le altre
l’anima – non per via conoscitiva, dico, ma per congettura – si divise essa
stessa in quattro, e, strisciando sotto ciascuna delle quattro parti
corrispondenti, simula d’essere quella certa parte sotto cui si è insinuata
e, senza affatto preoccuparsi del meglio, ma sempre con dilettosi mezzi,
caccia ed inganna l’ignoranza, si da apparire cosa di supremo valore.
Sotto la cucina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i
migliori cibi per il corpo, […].”26
Nel prossimo passo sottolinea nuovamente la negatività dell’adulazione e ne
spiega le varie sfumature significative. Sostanzialmente per Socrate
l’Adulatore è colui che si mostra per quello che non è, colui che sostiene di
essere un medico, ma che in realtà non lo è. Ritorna infatti sulla differenza tra
medico scienziato e medico empirico: chi non usa la ragione e la razionalità
non può definirsi “Medico” perché non ha una vera conoscenza della materia.
Gli adulatori non conoscono realmente la materia di cui parlano proprio
perché posseggono una conoscenza fallace basata sull’esperienza e sulla
pratica.
“ Ecco dunque, dunque quello che io chiamo "adulazione", e la dico una
gran brutta cosa, Polo – è a te che mi rivolgo – perché, senza
preoccuparsi affatto del meglio, è tutta tesa al piacere soltanto; né arte io
la dico, ma esperienza, poiché non ha nessuna comprensione razionale
26
Ivi, 464 c-e.
20 della natura delle cose cui si riferisce, in virtù della qual comprensione
possa appunto, riferirsi: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la
causa. Io, perciò, non chiamo arte un dato che tale resti, un dato cioè
senza ragione. E se ora ha da muovermi obbiezioni su tutto questo, sono
pronto a rendertene ragione.”27
Il corpo e le pratiche che a lui fanno riferimento non hanno capacità
conoscitiva e di giustezza. In questa parte conclusiva Socrate ipotizza
l’inversione di ruoli tra Anima e Corpo. Se il Corpo avesse il compito di
giudicare e di scegliere sarebbe guidato solamente dall’istinto del piacere e
dell’auto-deliziarsi. Per questo, appunto, la cucina sarebbe facilmente
scambiabile con la medicina e tutte le cose, senza distinzione, sarebbero
confuse. Solo attraverso l’anima, portatrice di verità, ogni cosa sarebbe scelta
in modo giusto considerando ciò che sarebbe «migliore» per l’uomo.
“ Sì, perché se l’anima non governasse il corpo, ma fosse il corpo a
governarsi da sé, e non fosse l’anima che esamina e giudica ciò che
compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e
medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne
riceve, ebbene ampio valore avrebbe il principio di Anassagora, amico
Polo – tu di tale dottrina sei esperto -, e cioè “tutte le cose, senza
distinzione , sarebbero insieme confuse”, poiché non vi sarebbe più
possibilità di giudicare ciò che compete alla medicina, all’igiene, alla
culinaria.”28
La denigrazione del corpo, sollevata sia dalla tradizione filosofica che da
quella teologica, è stata largamente studiata, proprio perché la concezione
dualistica ha influenzato gran parte del modo di pensare degli ultimi duemila
anni. Nicola Perullo e Rosalia Cavaliere sono due filosofi contemporanei che
hanno approfondito questi studi con specifico riferimento alla svalutazione dei
sensi. In particolare, hanno notato e sottolineato come il gusto, tra tutti, sia
stato quello più negativizzato e come i sensi cognitivi fossero considerati unici
27
28
Ivi, 465a. Ibidem.
21 delegati alla conoscenza; «diversamente dagli oggetti visivi, più stabili e più
duraturi (e diversamente, anche, dagli oggetti sonori formalizzati in una forma
scritta), i sapori e i profumi sono radicati nell’effimero. Essendo volatili ed
evanescenti passano: una ragione in più per escluderli dall’indagine teoretica e
dal dibattito epistemologico sulla percezione sensoriale».
29
La prima
trattazione del gusto, con concezione scientifica, avviene nel 1825 con J.A.
Brillant-Savarin che scrive Physiologie du goût, ou Méditations de
gastronomie transcendante, saggio con cui si data la nascita della
gastronomia. Tale saggio ha riscosso successo ed è stato scritto perché, come
vedremo anche nel prossimo capitolo, il corpo cominciava a riacquistare
valenza e importanza all’interno della concezione filosofica. Perullo, nel
seguente passo, sostiene l’impossibilità di discutere sul gusto gastronomico
nella Grecia classica e conferma le nostre teorie sopra citate: egli sottolinea
come, nel pensiero filosofico del tempo, la culinaria non potesse essere né
scienza, né arte e come il gusto fosse solo legato al piacere effimero.
“Come è possibile una riflessione filosofica sul gusto e sulla
gastronomia? Non è una domanda retorica. Già Platone – in dialoghi
come il Fedro, il Gorgia e il Fedone – rifiutava di assegnare alla cucina
lo statuto di scienza e quello di arte, condannandone i piaceri. Platone
paragone la cucina alla retorica: un’attività empirica volta al sedurre,
mentre soddisfa solo un bisogno primario; non ha niente a che vedere
con la conoscenza perché non procede da leggi generali e deducibili né
con l’arte perché non soddisfa piaceri intellettuali. I suoi piaceri sono
infatti corporali, effimeri e poco degni dell’uomo razionale: «Ti pare che
un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del
bere?», afferma Socrate nel Fedone.”30
La svalutazione del gusto non è un concetto relativo solo al lontano passato;
ne ritroviamo alcuni esempi, infatti, sia nella filosofia moderna sia in quella
29
R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, Laterza, Bari 2011, p.VI.
N. PERULLO, Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo, Slow Food Editore,
San Mauro Torinese 2012, p. 30.
30
22 contemporanea: essi si riferiscono al gusto sottolineando il suo aspetto
“carnale”, denigrandolo alla sfera della bassa sensualità ed escludendolo da
quella della conoscenza e da quella dell’arte. Rosalia Cavalieri, nel testo
Gusto, L’intelligenza del palato, riporta un passo hegeliano del 1823, dove il
filosofo sancisce l’inferiorità di tali sensi .
“La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al
punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai
sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è
sancita chiaramente da Hegel: «Il sensibile dell’arte si riferisce solo ai
due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal
godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da
fare con la materialità e con le sue qualità immediatamente sensibili».
[…] Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto
hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto.”31
Come vedremo nel prossimo capitolo, la filosofia moderna e contemporanea ha
rivalutato il corpo sia nelle sue funzioni che nel suo rapporto con il mondo,
tendendo a superare, così, la classicistica visione dualistica anima-corpo. Se
nel versante filosofico si giungeva a una conciliazione del corpo con i suoi
sensi, elevando anche il tanto maltrattato gusto alimentare a oggetto di studio,
nel versante gastronomico si scorgevano nascere nuove mode e stili di
concepire la cucina e gli alimenti, pensiamo ad esempio alle mode
rappresentate da Ferràn Adrià e dalla sua cucina molecolare. Queste innovative
concezioni volevano avvicinare arte e scienza e proporre la loro combinazione
proprio attraverso la gastronomia. La cucina di Adrià fu veloce a farsi
conoscere e, per alcuni aspetti, fu apprezzata e premiata, ma riscosse
ugualmente molte critiche. Tra queste, ricordiamo quella di Fernando Savater
che, nell’articolo “L’arte della digestione”, descriveva questa cucina come uno
spazio a misura di ricchi, snob e “intellettuali”, costruito ad arte da
commedianti con un unico fine che si può riassumere con la celebre frase di
31 R.
CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, cit., pp. 5-6. 23 Paul Bocuse: «Niente nel piatto, tutto nel conto». Savater inoltre risollevò le
questioni della differenza tra arte e artigianato e dell’impossibilità della cucina
di uscire dal suo essere una pratica.
“Certo, in senso lato ci sono sicuramente «artisti» dei fornelli, gente che
li usa con destrezza e abilità particolari, che si documenta con cura su
materie prime e condimenti o che ha una speciale inventiva
nell’armonizzare i sapori. Non è cosa da poco e meritano tutto il nostro
apprezzamento. Ma la loro bravura appartiene all’onesto mondo
dell’artigianato, non a quello della creazione artistica, il cui obiettivo non
è soddisfare i sensi, ma risvegliare sentimenti e spingere alla scoperta di
inediti significati. […] L’incoronazione di Ferrán Adriá durante la Fiera
dell’arte di Kassel non aggiunge una virgola alla sua «genialità», ma
rivela quanto siano insulsi i chierici dell’attuale decadenza artistica.”32
Le principali critiche e obiezioni mosse al gusto alimentare e alla culinaria
possono essere raggruppate sotto tre grandi sfere: quella epistemologica,
quella estetica e quella etica. La prima ritiene la culinaria una disciplina non
scientifica perché legata al corpo e ai suoi sensi minori: questi non vengono
considerati elementi adatti a una scienza esatta e non sono portatori di
conoscenza, facoltà appartenente all’intelletto. La seconda delinea come la
culinaria non possa essere considerata un’arte: essa è ritenuta una materia più
vicina all’artigianato, perché costituita da un’esperienza fugace e non
permanente, quindi effimera. La terza relega il gusto all’ambito del piacere
inteso nella sua forma più istintuale e animalesco, quindi la culinaria come
forma potenzialmente più incline al peccato e all’immoralità.33
Prima però di rivalutare il gusto alimentare, affrontandone le critiche ad esso
rivolte, ci soffermeremo sulla considerazione del corpo e dei suoi sensi.
32
33
F. SAVATER, L’arte della digestione, “La Stampa”, 26 settembre 2007.
Cfr. N. PERULLO (2012: 35). 24 II. PARTE SECONDA
LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO
“C’è più ragione nel corpo che nella tua
migliore sapienza.
F. Nietzsche
“Amate le bestie: Dio ha dato loro il
principio e la gioia pacifica. Non
tormentatele, non turbatele, non togliete
loro la gioia, non opponetevi all’intento di
Dio. Uomo, non innalzarti sugli animali”.
F. Dostoevskij
LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA
La riconsiderazione del corpo nella filosofia del Novecento non è solamente
legata al rapporto dualistico di questo con l’anima e non è nemmeno una
banale considerazione della sua importanza. Il corpo, infatti, si appropria di
una nuova considerazione, nei termini di ruolo e soggetto. Non appare più
come corpo-oggetto o come corpo rappresentativo. Esso non è più accessorio
dell’anima ma diviene corpo vissuto, ricettore e creatore di mondo, in rapporto
con esso. Primo strumento – per dirla con Schopenhauer – per trascendere il
velo di Maya.
“Non è tanto la nozione di corpo genericamente inteso a diventare
centrale nella filosofia del Novecento. Sono, più in specifico, le nozioni
di “corpo animato” e di “corpo vissuto” in quanto affermano
25 un’esperienza della corporeità diversa dalla concezione che può
riassumersi
nelle
nozioni
di
“corpo-oggetto”
o
di
“corpo-
rappresentazione”. Quest’ultime esprimono a loro volta la concezione che
ha tradizionalmente sotteso il pensiero dell’Occidente, contribuendo in
modo decisivo a caratterizzarlo in senso metafisico: a caratterizzarlo cioè
quale pensiero che colloca la verità oltre le cose sensibili. Le nozioni di
“corpo-oggetto” o “corpo-rappresentazione” servivano infatti a separare
il corpo dall’anima ponendolo in una posizione subordinata rispetto a
questa. Ciò vale tanto per la caratterizzazione platonica del corpo quale
prigione dell’anima, quanto per quella cartesiana del corpo come res
extensa distinta dalla res cogitans. In ogni caso si trattava di un corpo che
ho, mentre il Novecento è andato piuttosto sottolineando una
caratterizzazione del corpo quale corpo che sono.”34
Ed è proprio Schopenhauer uno dei precursori che, già ai primi dell’Ottocento,
imposta una nuova riflessione sul corpo, considerandolo veicolo attraverso cui
ciascuno di noi può trascendere il mondo rappresentato e raggiungere
l’essenza, la volontà. Nella sua opera Il mondo come volontà e
rappresentazione, egli infatti caratterizza il corpo sì come rappresentazione –
all’interno di una più ampia caratterizzazione del mondo come mia
rappresentazione – poi però si chiede come sia possibile superare il velo di
Maya delle rappresentazioni e giungere a individuare nella volontà l’essenza
stessa del mondo. Ed è qui che il filosofo tedesco inserisce un «passaggio
sotterraneo», da ritrovare proprio nel corpo.
“In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti
come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pure
rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere
oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se
l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto
conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo
le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è
34 Intervista
a M. CARBONE in Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, a cura
di C. Rozzoni e M. Binchetti, “Chora”, anno IV, N. 9, luglio 2004, p. 1. 26 condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione,
avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s’è
mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel
mondo.”35
Non possiamo considerare il corpo e la mente in modo separato, sarebbe come
immaginare di inserire la coscienza all’interno di una macchina, o la coscienza
di una persona in un altro corpo. Mente e corpo sono un tutt’uno e il loro
rapporto e vicendevole, essi si influenzano e si evolvono l’uno rispetto
all’altro e tramite l’altro. Il rapporto che si crea è costituito da un continuo
interscambiarsi d’informazioni e influenze, questo scambio continuo prende
una forma circolare dove non si riesce più a distinguere l’inizio dalla fine.
Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una
rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi
movimenti, le sue azioni, non sono da lui, sotto questo rispetto,
conosciute altrimenti le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e
gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non
gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso
contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza di una
legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni
degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non
comprenderebbe l’influsso dei motivi più di quanto comprenderebbe il
nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva.
All’intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni e
operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza,
qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro.”36
Il gioco che s’instaura tra mente e corpo non è un semplice rapporto causaeffetto, il corpo diviene allo stesso tempo costruttore di mondo e parte di
mondo; è attraverso il corpo che io abito un mondo e ne faccio conoscenza
incontrandomi con esso.
35
A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. Il mondo come volontà e
rappresentazione, Laterza, Bari 1972, pp. 152-154.
36
Ibidem. 27 “Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come
individuo, è data la parola dell’enigma; e questa parola è volontà. Questa,
e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli
manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo
agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la
sua identità con il proprio corpo ci si presenta come individuo, questo
corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione
nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle
leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo,
ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la
parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è
immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli
non può voler davvero l’atto, senza accorgersi che esso appare come
movimento del corpo.”37
Ecco qui esplicitata in modo chiaro l'unità tra corpo e volontà, il loro essere
unità agente nel mondo, il loro essere un tutt'uno che agisce.
L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti
oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro
nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati
in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante
intuizione per intelletto. L’azione del corpo non è altro, che l’atto del
volere oggettivato, ossia penetrato dall’intuizione.”38
Come evidenzia bene Carbone:
“Egli sottolinea infatti che nell’appetito, nelle tensioni, nel desiderio
sessuale noi facciamo un’esperienza del nostro corpo che ci fa andare
oltre la sua caratterizzazione in termini di “rappresentazione”,
rivelandocelo piuttosto un’incarnazione della volontà. Tale rivelazione ci
consente allora di passare al di là della conoscenza del mondo quale
37
38
Ibidem.
Ibidem.
28 rappresentazione, arrivando, infine, a considerare la volontà come il
principio che costituisce, appunto, l’essenza di tutta la realtà.”39
D’altro canto anche Roberto Lolli sottolinea la ritrovata funzione conoscitiva
del corpo e la sua costitutiva istintualità: una «volontà che va oltre la nostra
volontà»:
“Nel tracciare la parabola della concezione filosofica del corpo, assume
grande importanza la svolta introdotta da Schopenhauer che ne Il Mondo
come Volontà e Rappresentazione si distacca dalla gnoseologia
settecentesca e da Kant liquidando la pretesa che la mente possa essere
solo un occhio che puramente guarda la realtà. Non siamo “alate teste
d’angelo”, ma esseri radicati in un corpo e proprio il corpo diventa lo
strumento per un’esplorazione che permette di oltrepassare il limite della
rappresentazione del mondo e di attingere a cosa vi sia di là da quel che
viene denominato “il Velo di Maya”, l’apparenza fenomenica. Il corpo,
con i suoi movimenti spontanei e incontrollabili, coi suoi processi
metabolici, con la sua circolazione cardiovascolare e i suoi infiniti micro
eventi chimico-fisici si presenta come qualcosa di più di un oggetto fra
gli oggetti e ci rivela la presenza di una volontà che va oltre la nostra
volontà, di un istinto che è anteposto a ogni altro impulso che crediamo
di definire "nostro". Si tratta di un passaggio fondamentale, destinato ad
avere un’enorme influenza sul pensiero degli ultimi due secoli. Non si
tratta più, infatti, di riconoscere nel corpo un bel contenente o uno
strumento cognitivo, una specie di antenna di ricezione della mente
orientata verso l’esterno, bensì di distinguervi una specificità ontologica e
gnoseologica, ossia il rango di chiave d’accesso a qualcosa che,
diversamente, resterebbe per sempre celato.”40
Questa riscoperta del corpo coincide anche con l’affermazione della sua
ontologica ambivalenza. Ambivalenza che, però, non passa più attraverso il
dualismo cartesiano dove, ci ricorda Husserl, l’anima, la res cogitans «è il
residuo di un’astrazione preliminare del puro corpo; dopo quest’astrazione
39
M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p. 2.
Il corpo nella filosofia occidentale. La riscoperta del corpo nel XIX e XX secolo Vol. 4,
Treccani il Portale del Sapere, ( consultato il 20 novembre 2013).
40 R. LOLLI,
29 essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro
corpo»41. Il corpo, infatti, come noi lo viviamo, non è solamente un corpooggetto - ridotto e limitato dalla scienza per essere compatibile con i suoi
metodi e le sue ipotesi – ma è innanzitutto un corpo vivente, come dice
Carbone: il corpo che sono. «Tra i corpi di questa natura trovo il mio corpo
nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico
(Körper), ma corpo vivente (Leib)»42. Non possiamo pensare che il corpo
assuma una rilevanza psicologica se continuiamo a considerarlo una «cosa»,
mera estensione fisica, e non gli riconosciamo quella intenzionalità che gli è
data dall’essere corpo vivente. Noi sentiamo, viviamo il nostro corpo in
rapporto non a un’anima distaccata, ma a un mondo. Non più anima-corpo, ma
corpo-mondo.
“Il corpo può infatti attuarsi e rivelarsi in infiniti modi, tempi e luoghi,
per cui noi ad esempio siamo là in carne e ossa fin dove ci trascendiamo,
in quel mondo sociale (Mit-welt) e circostante (Um-welt) dove siamo con
qualcuno o con qualcosa d’altro da noi. Questa è la ragione per cui, fin
dove si estende la presenza, là si estende il mio corpo, perché suo è
quello spazio, come è del danzatore lo spazio di cui si appropria nel
danzare. Ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza è corporea e che
il corpo è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà
carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa
voce non sono le espressioni esteriori di un Io trascendentale e nascosto,
ma sono io, così come il mio volto non è un’immagine di me, ma sono io
stesso. Nel corpo, infatti, c’è perfetta identità tra essere e apparire, e
accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio.”43
Tra intelletto e mondo non c’è distanza, ma correlazione. Luogo di questa
correlazione è il corpo: senza di esso, infatti, non c’è anima o intelletto che
possa intendere qualcosa del mondo. Perché attraverso il mio corpo vivente
41
E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie
(1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, il
Saggiatore, Milano 2002, p. 108.
42
Ivi, p. 107. 43
U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 15-16.
30 (Leib), io faccio esperienza del mondo, sono impegnato in un mondo, agisco
nel mondo.
“L’intenzionalità del corpo non è oggettivante come quella dell’intelletto
che possiede le cose solo distanziandosene, ponendosele di contro a guisa
di oggetti (Ge-gen-stand, ob-jectus); l’intenzionalità del corpo è nel suo
essere destinato a un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso cui
non cessa di dirigersi e di progettarsi. L’intelletto può giudicare le cose
del mondo, può tematizzarle, oggettivarle, solo perché queste cose sono
già esposte ad un corpo che le vede, le sente, le tocca, sono già solidali
con esso, in quell’unità naturale e pre-logica che fa da sfondo ad ogni sua
costruzione logica. Il mondo, infatti, è "già là", offerto al nostro corpo
prima di ogni giudizio e di ogni riflessione, così come il nostro corpo è
già esposto al mondo in quel contatto ingenuo che costituisce la prima e
originaria riflessione.”44
La correlazione tra corpo e mondo si sostituisce, secondo la fenomenologia, al
dualismo cartesiano e fa sì che il corpo sia il veicolo attraverso il quale
facciamo conoscenza del mondo. Tale agire del corpo nel mondo percettivo
però, sia chiaro, può esercitarsi anche nei confronti del nostro stesso corpo: io
posso percepire la mia mano attraverso il mio occhio o attraverso l’altra mano
e così via. Questo significa che io sono Leib sempre sul punto di rovesciarsi in
Körper, da corpo vissuto posso sempre passare a corpo-oggetto. Per questo
possiamo dire che siamo sempre altro da noi stessi, perché possiamo sfuggirci
e oggettivarci a noi stessi in un continuo equilibrio dinamico.
“Così la coscienza del mondo è in un movimento costante; il mondo è
sempre presente alla coscienza attraverso le strutture oggettuali e
nell’evoluzione dei diversi modi di coscienza (intuitivo, non-intuitivo,
determinato,
indeterminato,
ecc.),
ma
anche
nell’evoluzione
dell’affezione e dell’azione; tanto che esiste sempre un ambito
complessivo dell’affezione, e gli oggetti che vi sono compresi e che
producono affezioni sono ora tematici e ora non-tematici. Tra essi anche
44
Ivi, p. 117. 31 noi stessi, che rientriamo sempre, inevitabilmente, nell’ambito delle
affezioni, che siamo sempre fungenti in quanto soggetti di atti, ma che
soltanto occasionalmente diventiamo nematicamente oggettuali in quanto
oggetti delle nostre auto-considerazioni.”45
Questa nuova riconciliazione tra anima e corpo non interessa solo il campo
filosofico, ma influenzerà anche la psicoanalisi, l’antropologia, la sociologia e
la letteratura.
Per quel che riguarda la psicoanalisi freudiana, si assiste a un fenomeno
particolare: se da un lato è possibile vedere ancora una forte eredità cartesiana
per quel che concerne la teorizzazione del metodo, la pratica psicoanalitica
sembra invece seguire le linee nuove dettate dall’approccio fenomenologico al
problema del corpo.
«Nonostante la terminologia impiegata, la teoria di Freud si propone come una
sorta di naturalismo fisico-biologico, dove la psiche è intesa come un
epifenomeno dell’organismo che la sottende»46. L’intento originario di Freud
era quello di far rientrare la psicologia all’interno delle scienze naturali
cercando quindi di costituirla come discorso scientifico attorno al problema
uomo. Questo fece sì che egli mantenesse sempre un atteggiamento causale di
fronte al manifestarsi di ciascun fenomeno da lui analizzato. Trasse dalla fisica
e dalla biologia del suo tempo le basi per costruire il suo sistema teorico e le
applicò poi all’essere umano: concepì la libido e le pulsioni, ad esempio, come
la rappresentazione di forze organiche, secondo modelli quantitativoenergetici.
“Nella teoria psicoanalitica non esitiamo ad affermare che il flusso degli
eventi psichici è regolato automaticamente dal principio di piacere;
riteniamo che il flusso di questi eventi sia sempre stimolato da una
tensione spiacevole, e che prenda una direzione tale che il suo risultato
finale coincide con un abbassamento di questa tensione, e cioè col fatto di
45
46
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 138-139.
U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 124. 32 aver evitato dispiacere o prodotto piacere. Considerando i processi
psichici da noi studiati in relazione a questo flusso, introduciamo nel
nostro lavoro il punto di vista economico. Riteniamo che un’esposizione
che cerchi di valutare anche questo fattore economico, oltre a quello
topico e dinamico, sia la più completa che possiamo attualmente
immaginare,
e
meriti
la
denominazione
di
esposizione
«metapsicologica».”47
Quindi, una volta applicati i principi topologici, dinamico, economico e
meccanico, risulta quasi naturale concepire la nevrosi come un arresto della
corrente energetico-libidinale. Anche i rapporti psico-fisici sono letti in chiave
di equilibri tra corpo e mente, volti a mantenere una stabilità tra le forze
dinamico-energetiche.
“Una volta tradotto in termini fisici l’ordine dei significati psichici, Freud
non può evitare quell’oggettivazione del soggettivo per cui, in armonia
con l’ideale esplicativo delle scienze naturali, il soggetto diventa oggetto
come tutti gli oggetti del mondo. Ciò è particolarmente evidente nel
linguaggio, dove l’uomo non dice di sé: «Io», ma si comprende a partire
da quell’apparato psichico che ha un Io, così come ha un Es e un SuperIo. Siamo alla spersonalizzazione come nella psichiatria classica, e come
è inevitabile che sia in ogni scienza che ex professo si dichiara
naturalistica.”48
Questa oggettivazione non esclude di certo il corpo, che viene descritto
esclusivamente da un punto di vista naturalistico-biologico; non si può qui
parlare quindi di uomo fenomenologicamente inteso. «La psicoanalisi reputa
che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e
proprio psichico»49: identificare lo psichico con il fisiologico quindi.
47 S. FREUD, Jenseits des Lustprinzips (1920); tr. it. Al di là del principio di piacere, Bollati
Boringhieri, Torino 2009, p. 17, (corsivo mio). 48
U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 127.
49
S. FREUD, Abriss der Psychoanalyse (1938); tr. it. Compendio di psicoanalisi, Bollati Boringhieri,
Torino 2007, p. 29.
33 La svolta nel pensiero freudiano arriva, come si è detto, nell’analisi della
prassi terapeutica. Si legge, infatti, nell’Introduzione al narcisismo:
“Evidentemente nozioni come quelle di libido dell’Io, energia delle
pulsioni dell’Io e così via non sono né particolarmente perspicue né
abbastanza ricche di contenuto; una teoria speculativa delle relazioni che
le riguardano dovrebbe essere intesa innanzitutto a darsi un fondamento
concettuale rigorosamente delimitato. È appunto questa, io credo, l’unica
differenza
fra
una
sull’interpretazione
teoria
empirica.
speculativa
e
Quest’ultima
una
non
scienza
fondata
invidierà
alla
speculazione la sua prerogativa di fondarsi su nozioni precise e
logicamente inattaccabili; al contrario si accontenterà di buon grado di
alcuni sfuggenti e nebulosi principi di fondo di cui quasi non si riesce a
farsi un concetto, sperando che essi si chiariscano strada facendo e
ripromettendosi di sostituirli eventualmente con altri. Questi principi non
costituiscono infatti la base della scienza sulla quale poggia tutto il
resto; solo all’osservazione spetta questa funzione. Essi non sono le
fondamenta, ma piuttosto il tetto dell’intera costruzione e si possono
sostituire o asportare senza correre il rischio di danneggiarla. È quello
che sta accadendo anche alla fisica contemporanea, le cui vedute di fondo
relative alla materia, ai centri di forza, all’attrazione e così via, sono poco
meno dubbie delle corrispondenti vedute della dottrina psicoanalitica.”50
Ogni processo scientifico è quindi provvisorio e sempre possibile di modifica.
È fondamentale e necessario, dunque, separare la prassi terapeutica dalla
teoria scientifica. Ed è nella prassi che Freud recupera un’idea di uomo nella
sua interezza, distanziandosi dagli schemi meccanicistici e scientifici. Nel
rapporto antropologico e non biologico tra il terapeuta e il paziente si
riconosce un’apertura fenomenologica ed esperienziale tra corpi che vivono,
non meri oggetti.
“Questo mondo in comune che si crea "in pratica" è un altro elemento
che smentisce l’impianto teorico causalistico della psicoanalisi. Se infatti
50
S. FREUD, Zur Einführung des Narzissmus (1914); tr. it., Introduzione al narcisismo, Bollati
Boringhieri, Torino 1976, pp. 21-22, (corsivo mio). 34 nel trattamento analitico il malato "guarisce" non è certo perché gli si
indicano le “causalità inconsce” che hanno determinato le sue
manifestazioni morbose. Non basta che il paziente sappia, egli deve
vivere con l’analista gli avvenimenti su cui in precedenza ha dato
informazione e ragguaglio.”51
Questa conclusione è possibile solamente se si rinuncia al dualismo cartesiano
e si accede alla visione fenomenologica che esprime una nuova concezione del
corpo e del suo rapporto col mondo.
“Certo, nei primi testi di Freud si parte da una concezione ancora
meccanicistica del corpo, in cui l’istinto risulta una sorta di struttura che,
appunto
meccanicisticamente,
condiziona
l’intera
esistenza
dell’individuo. Successivamente Freud procede però a un progressivo
anche se forse mai completo affrancamento da questa concezione,
descrivendo i rapporti tra sessualità ed esistenza in modo tale da offrire
una caratterizzazione della corporeità convergente con quella prima
indicata con l’espressione «corpo vissuto».”52
Io sono il mio corpo e vivo attraverso esso la mia esistenza. Seguendo questo
ragionamento posso, dire che io sono anche i miei sensi, attraverso cui faccio
esperienza nel rapporto col mondo. Si può quindi parlare di gusto
intendendolo come uno dei modi in cui il mio corpo vivente incontra il
mondo.
Nonostante la rivalutazione del corpo e del suo essere mondo attraverso i
sensi, il gusto e l’olfatto, tra gli altri, risultano ancora elementi percettivi
marginali e inferiori: essi sono legati a concezioni negative e denigrati alla
sfera della superficialità o, al massimo, elevati a strumenti per «la tutela del
nostro benessere».53 Solo con l’arrivo di Feuerbach, il gusto non solo recupera
una valenza conoscitiva, ma si avvale anche di una qualità appagante: il
piacere gustativo. Il gusto non è solo uno strumento di ricerca del cibo atto alla
51 U. GALIMBERTI,
52
Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 142.
M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p.52. 53 R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, cit., pp. 7. 35 sopravvivenza, ma diviene esperienza di piacere sensoriale, infatti Feuerbach
descrive l’uomo come “il superlativo vivente del sensualismo […] il più
sensuale e il piu sensibile di tutti gli esseri del mondo. […] Soltanto in lui la
sensazione da essere relativo, subordinato ai basso scopi della sopravvivenza,
diventa essere assoluto, fine in sé, godimento in se stesso.”54 Con Feuerbach si
entra in una concezione olistica dell’uomo, in una vera e propria “filosofia dei
sensi”55: non troviamo una gerarchia sensuale, poiché tutti i sensi collaborano
all’esperienza e alla vita umana.
“Anche i sensi inferiori, come l’odorato e il gusto, si elevano nell’uomo,
alla dignità di atti spirituali e scientifici, perché diversamente dal
determinismo animale, oltrepassano i vincoli che ligano ai bisogni
fisiologici: libertà e universalità sono, infatti, tratti specifici dell’uomo
preso nella sua totalità.”56
Allo stesso modo Nicola Perullo, parafrasando alcuni passi di Wittgenstein e
Barthes, ricorda come gli aspetti più importanti e significativi per l’essere
umano risiedano nascosti nella sua quotidianità: spesso, l’uomo, si ritrova a
vivere tali atti quotidiani in modo convenzionale, senza attenzione e
consapevolezza57, reputandoli insignificanti e privi di importanza.
54 L. FEUERBACH,
Winder den Dualismus von Leib und Seele, Fleisch und Geist (1846); tr. it. Contro
il dualismo di anima e corpo, di spirito e carne, in A. PACCHI, Materialisti dell'Ottocento, Il Mulino,
Bologna 1978, pp. 105-127, in R.CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, Laterza, Bari 2011, p.14.
55
Cfr. G. MOSCATI, Dalla filosofia della morte alla filosofia della vita, Morlacchi editore, Perugia
2009, p. 59. Leggiamo dunque dal Contro il dualismo di corpo e anima, di carne e spirito: “ La
separazione dell’uomo in corpo e anima, in un essere sensibile, è una separazione soltanto retorica;
nella patica la neghiamo, tanto che quando abbracciamo un essere amato siamo convinti di
abbracciare non i suoi organi o la sua apparizione, ma l’essere stesso” (Feuerbach 1846: 166). Le
parole di Feurbach meritano attenzione: c’è qui, innanzitutto, l’idea della vita che afferma di fatto lo
stretto, vitale direi, legame che unisce lo spirituale al corporeo; di conseguenza c’è poi la
sottolineatura del carattere meramente speculativo della divisione, operata dai dualisti, dell’uomo in
materia e anima; e c’è, ancora, la convinzione per cui è la sensibilità (l’essere amato) a permetterci di
cogliere, direttamente l’essere tout court dell’uomo: l’essere che è al di là delle apparenze e che è in
più rispetto all’elemento organico. Feurbach avrebbe ribadito in piu occasioni che il suo intento è
quello di rivolgersi all’uomo integrale, “ l’intero essere umano, dalla sommità della testa fino al
calcagno” (Feuerbach 1846: 47). 56
L. FEUERBACH, Grundsätze der Philosophie der Zukunft (1843); tr. it. Principi della filosofia
dell’avvenire, Einaudi, Torino 1946, p.137, in R.CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, Laterza, Bari
2011, p.15.
57
Cfr. N. PERULLO, Il gusto come esperienza, saggio di filosofia e estetica del cibo, cit., p. 44:
“Ludwing Wittgestein diceva: «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro
36 “Barthes ribadiva: «Noi non percepiamo il nostro cibo, o, cosa ben
peggiore, lo consideriamo insignificante: anche (o soprattutto?) per lo
studioso, il cibo è argomento futile e colpevolizzato». Impegniamoci
dunque a osservare e a percepire il nostro cibo quotidiano, con pazienza e
fiducia.”58
Per superare questa visione unidirezionale, occorre osservare gli aspetti del
cibo e del gusto alimentare da un'altra prospettiva: il gusto, oltre ad apparato
di soddisfazione del bisogno e del piacere, deve essere considerato uno
strumento conoscitivo, comunicativo e rappresentativo. Attraverso il cibo
dobbiamo imparare a educare, a fare crescere sia fisicamente che
intellettualmente la persona: esso è un possibile mezzo di creazione della
coscienza critica. Il gusto, come vedremo, è pregno di significati che vagano
dalla sfera affettiva a quella etica, culturale e sociale e non riconoscerli vuol
dire ridurre la capacità critica dell’uomo e sminuire il potenziale delle sue
facoltà corporee.
In questo senso abbiamo in Italia uno dei più importanti esempi di utilizzo del
gusto come strumento educativo: il concetto di Slow Food, a cui fa riferimento
Carlo Petrini. La sua idea è che il gusto non serva soltanto allo sostentamento
del corpo, ma che sia piuttosto uno strumento educativo, di convivialità e di
cultura. Attraverso questi elementi si possono insegnare ai bambini e agli
adulti valori come il rispetto della terra, l’educazione al piacere, la
partecipazione responsabile alla società. Rosalia Cavalieri riassume nel Gusto
- L’intelligenza del palato, in poche righe, la storia e i principi di questo noto
movimento:
“La formazione del gusto si rivela dunque tanto un fatto biologico quanto
un fatto culturale. A Slow Food, l ‘associazione internazionale fondata
nel 1989 da petrini, con sedi in tutto il mondo. […] con l’obbiettivo di
promuovere e valorizzare il piacere legato al cibo, e di studiare,
semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere – perché gli abbiamo sempre sotto gli
occhi)».” 58 Ivi, p. 45. 37 difendere e divulgare le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni
parte del mondo – va il merito di aver ideato già da diversi anni un
progetto di educazione al gusto rivolto a bambini e ad adulti, divenuto
l’obbiettivo chiave del movimento. […] La vera cultura sta nello sviluppo
de gusto non nel suo immiserimento, da qui una promozione
di
educazione alimentare e al gusto basata sul presupposto che il cibo non
sia soltanto nutrimento ma soprattutto piacere e sapore, […] coniugati a
cultura e convivialità, un valore quest’ultimo che è sinonimo di dialogo,
di condivisione, di ricerca di affinità e di confronto.”59
59
R. CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, cit., p. 26.
38 III. PARTE TERZA
IL GUSTO
“Detesto l'uomo che manda giù il
suo cibo affettando di non sapere
che cosa mangia. Dubito del suo
gusto in cose più importanti”.
C. Lamb
“Il gusto è, per così dire, il
microscopio del discernimento”.
J.J. Rousseau
L’APPARATO GUSTATIVO
L’ampia rivalutazione del corpo e dei suoi sensi operata dalla filosofia
contemporanea e il loro reinserimento come elementi degni di studio e di
ricerca, danno senso e motivazione all’analisi del funzionamento dell’apparato
gustativo su cui ci soffermeremo ora.
La spiegazione di tale apparato interessa questo studio per dimostrare come il
sistema gustativo nell’ambito scientifico sia ritenuto comune a tutti gli esseri
umani. In un secondo momento vedremo come, nel determinare il gusto
personale di ogni soggetto, entrino in gioco l’esperienza, il vissuto e
l’educazione particolare dell’individuo. Da ciò determineremo come il
39 giudizio di gusto sia un giuoco60 tra corpo e mente, un sistema che per sua
costituzione trascende il tradizionale dualismo psyché-sôma. Non più una
visione conflittuale tra corpo e mente o la classica concezione di separazione,
ma una collaborazione, un tutt’uno che lavora per lo stesso fine: la percezione
e la vita umana. Il sistema gustativo funziona nel seguente modo:
“Forma di sensibilità a contatto che risponde a sostanze in soluzione
agenti a livello dei recettori che si trovano sulle papille gustative dei
margini e della parte posteriore della lingua. Ogni papilla gustativa
contiene dalle 10 alle 15 cellule gustative che si riproducono
continuamente a un ritmo che permette il rinnovamento completo ogni
sette giorni. Il numero delle papille gustative decresce con l’età per cui i
vecchi sono meno sensibili ai sapori rispetto ai bambini. Gli impulsi delle
fibre nervose che originano dalle cellule gustative vengono trasmessi,
attraverso vari nervi cranici e collegamenti sinaptici, con neuroni del
tronco dell’encefalo, sino al talamo da cui proseguono verso la corteccia
dove nell’area sensitivo-somatica trovano la rappresentazione della
lingua e della faringe. Si riconoscono nel gusto quattro qualità primarie:
il dolce, il salato, l’amaro e l’acido, a cui sarebbero deputati recettori
diversi collocati per il dolce sulla punta della lingua, per l’amaro sulla
parte posteriore, per l’acido sui lati, mentre la sensibilità al salato sarebbe
diffusa. Il senso del gusto dà luogo a sensazioni immediate che, a
differenza dei suoni e delle immagini, non sono riproducibili
mentalmente, ma restano come gli odori, associati agli elementi presenti
nella situazione in cui sono prodotti.”61
Il sistema gustativo quindi si esplica principalmente in tre fasi: la percezione
tramite il poro gustativo e le sinapsi, la trasmissione del dato attraverso le fibre
nervose e la ricezione sino al talamo e alla corteccia. Suddetto apparato sarà
quindi universale per tutti gli esseri umani, potrà variare d’intensità e di
sensibilità62, ma un cibo acido sarà percepito dalle mucose della lingua come
60
Cfr. I. KANT, Kritik der Urteilskraft (1790); tr. it. Critica del giudizio, Laterza, Bari 1997.
61
AA. VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 2003, p. 489.
La diversa sensibilità può dipendere da alcuni fattori: la costituzione propria del soggetto; l’età
biologica; la nascita di alcune patologie (come l’augesia, ovvero il deterioramento o l’assenza di
62
40 acido dalla maggioranza63 dei soggetti. In questa sede, ciò che riteniamo di
particolare interesse è il giudizio di gusto personale di ogni soggetto. Ad
esempio, il gusto amaro sarà definibile amaro per la maggioranza, ma
solamente ad alcune persone piacerà, per altre, invece, sarà detestabile.
Abbiamo però appena visto che la percezione dell’amaro, la sua trasmissione e
la sua recezione nella corteccia, è uguale in tutti i soggetti. La domanda che ci
poniamo, a cui proveremo a dare risposta con questo studio, è la seguente:
cosa entra in gioco nel dare differenti pareri di piacevolezza e non?
Come vedremo, la possibilità di gustare il cibo in modo diverso non dipende
solo dal sistema gustativo, ma anche da quello visivo, olfattivo e tattile. Non
solo, andremo soprattutto a mettere in evidenza quanto siano importanti, nel
contesto dello sviluppo del gusto, i fattori come l’esperienza, il vissuto
personale, l’educazione e le tradizioni. Pensiamo ad esempio ai ricordi legati
alle proprie emozioni: assaporare una pietanza che rimanda alla memoria di
una persona affettivamente importante, come il piatto creato grazie alla
“ricetta della nonna”, può dare l’effetto di tornare per un istante al mondo
emotivo infantile. Il gustare, a una prima analisi, può sembrare un atto
semplice e istintivo (questo piace e quest’altro no), ma occorre precisare che,
proprio attraverso queste semplici asserzioni, creiamo la nostra personalità, le
nostre abitudini, il nostro stile di vita: in una parola, il nostro Gusto. Esso non
può quindi essere ridotto a un mero atto meccanico, ma bisogna rivalutarlo
come uno dei sensi più complessi, un momento che comprende molti aspetti e
funzioni dell’essere umano. Possiamo trovare una considerazione simile
leggendo l’articolo di Mariangela Lopopolo che offre alcuni passi e nomi di
autori interessanti per la prosecuzione della presente ricerca:
gusto, imputabile a lesioni cerebrali o a difetti nello sviluppo degli organi di senso); lo scatenarsi di
forme psicogene (come l’isteria o la depressione).
63
Il gusto acido sarà recepito acido dai soggetti non colpiti da malattie legate all’apparato gustativo o
da malattie che incidono sulla percezione degli odori e dei gusti. L’età del soggetto incide molto sulla
sensibilità e quindi sulla percezione del gusto; tra gli altri fattori che alterano la percezione troviamo
l’uso di medicinali, il tabagismo e l’acolismo. 41 “Il senso comune potrà senz’altro confermare che il cibo è un’esperienza
di gusto ed un piacere per chiunque. Anche se mangiamo per fame, ossia
in risposta alla «voce del corpo» che ci richiama alla necessità fisiologica
di alimentarci, mangiamo di gusto e con piacere. Beninteso, con piacere
positivo (“mi piace”) oppure negativo (“non mi piace”). Quello che
siamo soliti chiamare “gusto” risulta, in realtà, dal concorso di vari sensi
che si incontrano nella percezione dei sapori. Esso è originato dalle
papille gustative, dai recettori tattili e termici della lingua, dalla mucosa
olfattiva stimolata dagli odori del cibo, dal presentarsi del cibo stesso alla
vista, ma anche dalle sollecitazioni dell’udito, quest’ultimo in gioco
quando cogliamo la consistenza di un alimento (si pensi al croccante).
Dalla poli-sensorialità del gusto allo stato edonico, il passo è breve: il
sapore del cibo fornisce un accesso diretto al piacere (al dispiacere, se
quanto mangiamo non ci piace).”64
L’apparato gustativo, oltre a quello che abbiamo visto finora, presenta, come
proprio elemento costitutivo, un metro di giudizio che diversifica ciò che è
buono da ciò che è cattivo e ciò che è commestibile da ciò che non lo è.
Possiamo definirlo un sistema difensivo atto a riconoscere ciò che è dannoso
per il corpo da ciò che gli è salutare:
“L'importanza della sensibilità gustativa è collegata soprattutto alla
nutrizione e all'assunzione di liquidi. Il sapore di un cibo o di una
bevanda è infatti fondamentale nel determinarne la commestibilità e
l'appetibilità; il rifiuto di un cibo a causa del suo sapore sgradevole è
importante
per
la
sopravvivenza
di
molte
specie
animali.
Schematicamente, si possono associare ai 4 sapori fondamentali funzioni
diverse: assicurare le riserve energetiche (dolce), mantenere l'equilibrio
elettrolitico (salato), monitorare il pH (acido, amaro), evitare sostanze
tossiche (amaro). Di norma, le sostanze dolci provocano una sensazione
piacevole e l'innesco di riflessi di salivazione, di deglutizione e di
preparazione del tubo digerente alla digestione e all'assorbimento. Invece,
il sapore amaro provoca sovente il rifiuto del cibo o della bevanda e, se
64
M. LOPOPOLO, Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma
Mater Studiorum, Bologna 2012, (consultato il 16 settembre 2013).
42 molto intenso, stimola il riflesso del vomito: questo è presumibilmente in
relazione al fatto che la maggior parte delle sostanze tossiche presenti in
natura ha sapore amaro. Il grado di piacevolezza di un sapore è tuttavia
soggettivo e può essere influenzato dall'esperienza e dalle necessità
nutrizionali. Sia l'animale che l'uomo tendono a rifiutare un cibo dal
quale in passato siano stati intossicati. In base alle informazioni gustative
e olfattive si ha la capacità di operare una scelta tra diversi cibi e preferire
quello che fornisce l'apporto nutritivo più consono alle esigenze
dell'organismo.”65
La parte istintuale e biologica dell’apparato gustativo crea rimandi di tipo
emozionale nella persona. Questi stati emotivi possono essere positivi o
negativi rispettivamente all’assunzione da parte del soggetto di alimenti
salutari o dannosi. Infatti, la Lupton, dopo alcune interviste e ricerche,
afferma:
“Dai racconti di alcune persone è anche palese che il percepire il cibo
come "sano" o "malsano" serve a farle sentire in determinati modi quando
mangiano. Dunque introdurre nel proprio corpo certi alimenti ha un
effetto emotivo, poiché influenza la soggettività: «Ci si sente molto
meglio quando si mangia la cosa migliore».”66
Invero, un soggetto sottoposto a diverse ricerche empiriche e statistiche così
descrive il cibo salutare durante un’intervista proposta dalla stessa dottoressa:
“Non necessariamente il cibo mi fa sentire bene a livello mentale.
Secondo me il cibo dovrebbe essere qualcosa che aumenta le mie energie
ed è facile da digerire, non mi dà alcun problema, non mi dà disturbi di
stomaco, né problemi di indigestione […] Io lo mangio e so che fa bene
al mio corpo – mi fa sentire bene perché so che fa bene al mio corpo.”67
65
P. BATTAGLINI, Appunti di fisiologia dell’apparato stomatognatico, Università degli studi di
Trieste, Trieste 2011, (consultato il 17 settembre 2013).
66
D. LUPTON, Food, the Body and the Self (1996); tr. it. L’anima nel piatto, il Mulino, Bologna 1999,
p. 138.
67
Ivi, p. 139. 43 Analizzato il sistema gustativo dal punto di vista biologico, prenderemo in
considerazione gli altri input che vanno a formare e modificare le preferenze
alimentari. Il gusto, in ognuno di noi, è influenzato e formato dai ricordi
personali, dalle emozioni e dal piacere, così come dall’ambiente sociale e dal
confronto con l’alterità. Inoltre, un peso particolare sulla formazione del Gusto
è dato dall’educazione e dal contesto familiare, in particolare dal rapporto
figlio-genitori.
LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO
Come abbiamo visto, il sistema gustativo di base è universale per tutti gli
esseri umani: esso può essere differenziato qualitativamente, nel senso che ci
sono soggetti più o meno sensibili (si pensi al cosiddetto palato fine), ma come
struttura, funzioni di base e costituzione, rimane un apparato comune e uguale
per tutti. In questo contesto, la parte più rilevante di tale sistema non è quella
prettamente biologica, ma quella mentale, che viene formata dalla cultura,
dalla società, dall’educazione, così come dai vissuti e dai ricordi. In questo
caso andremo ad argomentare come il gusto abbia un forte legame con i
ricordi, ovvero come, ad esempio, attraverso un aroma o un profumo, la
memoria sia in grado di farci fare salti spazio-temporali portandoci così a
rivivere le emozioni piacevoli ormai dimenticate, legate all’infanzia o a un
remoto passato.
“C’è un nesso potente tra il ricordo e la dimensione emotiva del cibo.
Dato che il cibo è un elemento del mondo materiale che incarna e
organizza le nostre relazioni con il passato, secondo modalità socialmente
44 significative, la relazione tra preferenze alimentari e ricordi può essere
considerata simbiotica. I ricordi sono concretizzati, spesso rievocati,
tramite il gusto e l’odorato. Gli effetti dei ricordi sono impressi sul corpo,
nella postura, nel modo di camminare, nei gesti e nell’appetito per alcuni
cibi. Il sapore, l’odore, la consistenza di un cibo possono perciò servire
ad innescare ricordi di avvenimenti ed esperienze alimentari precedenti,
mentre il ricordo può servire a delimitare le preferenze alimentari e le
scelte basate sull’esperienza.”68
Posiamo notare, quindi, che non si crea solo il ricordo, non si forma un legame
unilaterale tra alimento e ricordo, ma bilaterale anche dal ricordo verso
l’alimento. Il ricordo sarà quindi strumento e motivazione nella creazione del
nostro gusto personale e motore agente delle nostre scelte. I ricordi, anche se
spesso idealizzati, sono sempre portatori e fonti di emozioni. Non possiamo
non ricordare il famoso episodio narrato nell’opera di Marcel Proust, Alla
ricerca del tempo perduto, dove il protagonista si ritrova trasportato nella sua
infanzia assaggiando delle briciole del "dolce Madeleine":
“Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio
palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me.
Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E
subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci,
illusoria la brevità della vita...non mi sentivo più mediocre, contingente,
mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che
era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava
infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva?
Che senso aveva? […] Sento in me il trasalimento di qualcosa che si
sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande
profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e
odo il rumore degli spazi percorsi... All’improvviso il ricordo è davanti a
me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la
domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua,
68
Ivi, p. 57.
45 zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di
tiglio.”69
Il legame tra alimentazione, emozioni e ricordi è così strutturale e forte che è
stato spesso usato anche in vere e proprie strategie di marketing e di vendita,
influenzando inoltre scelte stilistiche di molti chef e ristoranti lussuosi [Cfr.
Lupton 1999: 58]. Le famose frasi popolari che spesso si sentono dire, come
“mi ricordano quelli che faceva la nonna” oppure “ha lo stesso profumo della
minestra della mamma”, non sono casualità o mere coincidenze, ma sono
studiate strategie che mirano a vendere quel determinato prodotto facendo leva
sui
ricordi,
sugli
affetti
e
sulle
forti
emozioni
che
scaturiscono
dall’immaginario legato all’infanzia.
“La forza del legame tra cibo, ricordo ed emozione è tale che sono stati
creati profumi mirati proprio a incanalare le nostre risposte emotive verso
i sapori e gli odori del cibo. Tra i profumi, attualmente è molto in voga la
vaniglia, perché ha un effetto calmante e rassicurante, evoca ricordi
infantili legati a piaceri semplici, come le torte fatte in casa, ed emozioni
di conforto, familiarità e sicurezza. […] Secondo i ricercatori, l’odore dei
biscotti al cioccolato riduce l’aggressività; infatti, un esperto ha
dichiarato che le note "raffinate" dei profumi di successo sono «tutte
legate a ricordi di vacanze e dell’infanzia».”70
Lopopolo, oltre a confermare quanto detto sopra, riporta altri punti di interesse
per la spiegazione del gusto e del bisogno alimentare. Alimentarsi è un
bisogno primario dettato dall’autoconservazione del soggetto e della specie e,
nell’essere soddisfatto, procura piacere.71 Il gusto quindi fornisce “un accesso
diretto al piacere” come molte altre situazioni, comportamenti e ambienti. Una
particolarità del piacere sta nell’essere sempre accompagnato dalle emozioni,
69 M. PROUST,
A’ la recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann (1913); tr. it. Alla ricerca del
tempo perduto. Dalla parte di Swann, Mondadori, Milano 2005, pp. 47-54.
70
D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., il Mulino, Bologna 1999, p. 58.
71
Come tutti i bisogni primari e di conservazione nell’essere soddisfatti procurano piacere al soggetto
agente. Il soggetto o la specie sono attratti da questi bisogni e nel soddisfarli si conservano.
46 anche se possono essere di diversa intensità o origine.72 Le emozioni saranno
molto importanti per questo studio perché giocano il ruolo di collante tra varie
situazioni di cui proporremo l’analisi in seguito.
“Il piacere del cibo resta un piacere nell’esperienza di tutti. Ora, come
osserva Damasio, noto neuro-scienziato, il piacere è sia l’innesco, sia la
qualità costitutiva di molte emozioni. Esistono emozioni primarie (gioia,
tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disgusto), secondarie (imbarazzo,
gelosia, colpa, orgoglio), di base (benessere, malessere, calma, tensione).
Non è detto che le proviamo solo in concomitanza con uno stato di
piacere, ma per ogni stato edonico è certo che ci emozioniamo. Dunque il
cibo, attraverso il gusto ed il piacere che ci provoca, comporta
l’emozione.
[…]
Sorgendo
nell’interiorità
privata
del
soggetto,
73
l’emozione si pone nell’interfaccia tra corpo e mente, nonché sulla
soglia tra l’individuale e il sociale. Come indica la parola stessa,
l’emozione è connessa al movimento, in particolare, può essere definita
«movimento delle carni». In effetti, i fenomeni emotivi producono, in un
primo momento, le concrete manifestazioni corporee caratteristiche
dell’individuo emozionato: si pensi alle modificazioni facciali dovute al
sapore di un cibo che ci piace o no, e a tutti i vari cambi posturali,
comportamentali
emozioniamo.”
e
nell’andamento
vocale
assunti
quando
ci
74
L’alimentarsi produce piacere, quest’ultimo è portatore di emozioni. Come
appena visto, le emozioni sono anche manifestazioni corporee e il tramite di
espressioni facciali, vocali e fisiche. Attraverso le emozioni e il loro
rappresentarsi ci relazioniamo con gli altri e con la società a noi circostante.
72
Cfr. P. DUMOUCHEL, Le corps et la coordination sociale ou les émotions (2000); tr. it. Emozioni.
Saggio sul corpo e il sociale, Medusa, Milano 2008. 73
Cfr. B. RIMÉ, Le partage social des émotions (2005); tr. it. La dimensione sociale delle emozioni, Il
Mulino, Bologna 2008.
74
M. LOPOPOLO, Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma
Mater Studiorum, Bologna 2012, (consultato il 16 settembre 2013). 47 L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA
E TRADIZIONI
Il confronto con l’altro, la cultura, le tradizioni, la religione, l’ambiente sociale
in cui il soggetto nasce e vive hanno forti interazioni con l’identificazione del
sé e con la personificazione. Il linguaggio, le abitudini, gli stili, il modo di
vestirsi, sono molti gli ambiti che creano unità e identificazione all’interno di
una società. Tra questi ci sono anche le abitudini alimentari. Possiamo anzi
spingerci ad affermare che l’abitudine alimentare è una delle modalità con più
influenze, essendo anche la prima. Infatti sia il linguaggio, sia la cultura, sia le
scelte legate alla religione avvengono in età adulta; invece, le abitudini
alimentari sono il primo modo di integrarsi nella società.
“Le preferenze alimentari sono strettamente connesse con meccanismi di
autoidentificazione sociale; in tale senso ogni nuovo alimento va
incorporato nel sistema alimentare vigente, va fatto proprio, attraverso un
processo di autenticazione che lo renda autoctono, locale, "genuino", così
come avviene quando un neologismo o un vocabolo straniero viene
"accolto" in una lingua. Solo attraverso il riconoscimento dell’origine in
seno a quella comunità il nuovo nato acquistava un ruolo e uno status nel
gruppo sociale, un’identità accettata in quanto negoziata e condivisa.”75
L’alimentazione e il cibo, quindi, non sono soltanto utili per l’autosostentamento, il nutrimento e il piacere che deriva dal consumare i pasti a noi
graditi. La scelta alimentare, le modalità con cui viene consumato il cibo e la
sua condivisione sono “fondamentali” per la costruzione della personalità di
ogni soggetto, delle sue abitudini e del suo carattere .
“Le abitudini e le preferenze alimentari non riguardano solo il
"rifornimento" dell’organismo, la necessità di lenire i morsi della fame o
75
A. GUIGONI, L'alimentazione mediterranea tra locale e globale, tra passato e presente, in A.
GUIGONI - R. BEN AMARA, Saperi e Sapori del Mediterraneo, AM&D edizioni, Cagliari 2006, p. 1.
48 il piacere offerto dalle sensazioni gustative. Il cibo e l’alimentazione sono
fondamentali per la soggettività, il senso del sé e la personificazione o il
modo decisamente soggettivo con cui "occupiamo" il nostro corpo e
sopravviviamo. Da questo punto di vista, dunque, le abitudini alimentari
e i significati o i discorsi connessi al cibo sono degni di analisi culturali e
interpretazioni dettagliate.”76
Quindi, sia in ambito sociologico che in quello psico-fisiologico, il nutrimento
ha una grande valenza. Il corpo ha bisogno di nutrirsi per sopravvivere e tale
necessità è sempre stata considerata come essenzialmente biologica, ma non
bisogna dimenticare la sua valenza socio-culturale, ambientale e simbolica.
“In qualsiasi società le pratiche alimentari sono oggetto di discussione e
interpretazione culturale; il cibo è infatti lo strumento simbolico per
eccellenza.”77
Le abitudini alimentari, pur strettamente correlate con le necessità corporee,
sono essenziali per il delineamento sociale. Definiscono infatti cultura,
tradizioni, regioni geografiche, religioni, riti, abitudini, momenti del giorno e
modalità educative.
“Il cibo è uno snodo centrale nella costruzione dell’identità, sia
individuale, sia di gruppo, etnica. Nelle società tradizionali è al centro di
cure, preoccupazioni ed ansie che coinvolgono l’intera comunità; per
questi motivi il cibo si carica di valore etico-sociale, religioso, simbolico,
esistenziale che va oltre la sfera economicistica, e che impegna l’intero
sistema etico-religioso.”78
Momento di condivisione e di socializzazione in tutte le culture, il cibo
diviene il tramite nel rapporto con l’altro. Attraverso di esso ci sentiamo parte
di un gruppo, di un’etnia, creiamo la nostra identità sia personale che sociale.
76
D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 7.
Sociologia, cibo, alimentazione: alcuni punti, Polo tecnologico NETTUNO Milano-Bicocca,
Milano 2012, (consultato il 23 ottobre 2013). 78
A. GUIGONI, L'alimentazione mediterranea tra locale e globale, tra passato e presente, in A.
GUIGONI - R. BEN AMARA, Saperi e Sapori del Mediterraneo, cit., p. 1.
77 S. TOSI,
49 Il cibo è rapporto con l’altro: nell’uso e nel consumo di esso sono insite la
socialità, la condivisione e la convivialità:
“La convivialità si esplica soprattutto a tavola quando le persone si
incontrano e dialogano fra loro. In essa c’è l’espressione più completa
della vita relazionale, della condivisione, della solidarietà. A tavola
dialoga la famiglia, si incontrano gli uomini d’affari e i politici, si
festeggia qualcuno. È il momento della solidarietà e della condivisione.
Anche in questa relazione possono subentrare la finzione e l’inganno.
Convivialità rimane comunque il condividere fra gli uomini i beni della
terra.”79
Non possiamo dimenticare i più famosi esempi di tutta la storia dove il cibo
diventa momento di condivisione e simbolo di salvezza: “L’ultima cena” di
Gesù con i dodici Apostoli e la celeberrima moltiplicazione dei pani e dei
pesci. Tutti gli evangelisti riportano questi due eventi. Gesù, con il miracolo
della moltiplicazione dei pani e dei pesci, educa i propri discepoli alla
solidarietà e alla condivisione e, per fare questo, coglie proprio il momento del
pasto.
“Al loro ritorno gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano
fatto. Allora egli li prese con sé e si ritirò in un luogo solitario, verso una
città chiamata Betsaida. Ma la gente, appena lo seppe, lo seguì; ed egli
l'accolse e prese a parlare del regno di Dio e a guarire quelli che ne
avevano bisogno. Il giorno cominciava a declinare, e i dodici gli si
avvicinarono e gli dissero: Congeda la moltitudine, perché vadano nelle
borgate dintorno e nelle campagne per alloggiare e per mangiare, perché
qui siamo in un luogo deserto. Ed egli rispose loro: Date voi loro da
mangiare. Ma essi soggiunsero: Noi non abbiamo che cinque pani e due
pesci; a meno che non andiamo a comperare dei viveri per tutta questa
gente. In realtà erano circa cinquemila uomini. Gesù disse ai suoi
discepoli: Fateli sedere a gruppi di cinquanta. Così fecero disponendoli
tutti a sedere. Ed egli, presi i cinque pani e i due pesci, alzò lo sguardo al
79
G. DAL FERRO, La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, in “Rezzara notizie”,
Vicenza 2012, p.1, (consultato il 27 novembre 2013).
50 cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero
alla gente. E mangiarono e si saziarono tutti; e dei pezzi loro avanzati ne
portarono via dodici panieri.”80
La tavola, anche per Gesù, è il luogo dell’intimità, delle confidenze e
della relazione.
“Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: “Ho
desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della
mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si
compia nel regno di Dio”. E preso un calice, rese grazie e disse:
“Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento
non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”. Poi,
preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il
mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso
modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova
alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”. “Ma ecco, la mano di
chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va,
secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”.
Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto
ciò.”81
Nella narrazione evangelica della vita e della missione di Gesù Cristo,
l’esperienza del banchetto, dello stare a tavola ritorna ancora numerosissime
volte. Si può dire che Gesù, proprio a tavola, esprime molto di sé e del suo
messaggio: a tavola, compie miracoli per rallegrare gli sposi rimasti senza
vino (Gv 2,1-11), è ospite di pubblicani e peccatori (Levi, Zaccheo) per poter
vivere con loro l’emozione della conversione e del perdono. La tavola, per
Gesù, è il luogo dell’intimità e dell’ospitalità, delle confidenze e della
relazione, della cura di sé e dell’attenzione all’altro. È dunque il luogo degli
insegnamenti, ma talvolta anche della denuncia.
80
81
Per la moltiplicazione dei pani e dei pesci cfr. Mt 14, 13-21; Mc 6, 39-44; Lc 9, 10-17; Gv 8, 5-14.
Per l’ultima cena cfr. Mt 26, 19-29; Mc 14, 12-25; Lc 22, 7-13. 51 Il cibo e il suo uso, oltre ad essere momento di socializzazione, è anche
strumento e metro di giudizio, soprattutto nelle società contemporanee perché
“determina il modo in cui un individuo viene considerato nella nostra cultura.”
82
Attraverso l’assunzione del cibo e la scelta qualitativa del medesimo,
modelliamo il nostro corpo con il quale ci presentiamo agli altri.
L’alimentazione e il cibo, quindi, sono utili anche come strumento per
l’accrescimento dell’autostima e la modificazione caratteriale.
“Le abitudini dietetiche vengono utilizzate per stabilire e rappresentare il
controllo sul corpo. Il cibo può essere classificato in numerose categorie
dicotomiche: buono o cattivo, maschile o femminile, forte o debole, vivo
o morto, sano o malsano, consolante o punitivo, raffinato o volgare,
peccaminoso o virtuoso, animale o vegetale, crudo o cotto, riferito a sé o
all’altro. Ciascuna di queste opposizioni binarie ha in sé il potere di
modellare le credenze e le preferenze alimentari nella vita quotidiana, di
incoraggiare alcune scelte dietetiche e opporle alle altre e di contribuire
alla costituzione della soggettività e della personificazione.”83
Cibo e preferenze alimentari delineano quindi i confini delle società con la
stessa cultura e le stesse tradizioni84. Fin dall’antichità è stato uno strumento
simbolico di comunicazione, utilizzato per creare metafore, miti, storie e
parabole attraverso cui tramandare la cultura e gli insegnamenti. Il momento
del pasto è momento di ritrovo e confronto, l’atto quotidiano per eccellenza
che crea e unisce quel nucleo che noi chiamiamo famiglia, prima forma di
società a noi conosciuta dove l’alimentazione e il Gusto giocano un ruolo
fondamentale. Quest’ultimi sono, infatti, il primo strumento di comunicazione
tra madre e figlio, primo sistema educativo sia istintuale che culturale.
82 Cfr.
D. CURTIN, Food/body/person, in D. CURTIN – L. HELDKE, Cooking, Eating, Thinking:
Trasformative Philosophies of Food, Bloomington, IN, Indiana University Press, pp. 3-22, in D.
LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 32. 83 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 54.
84
Con l’avvento della globalizzazione molte abitudini alimentari si sono mescolate, ma è anche vero
che lo “scheletro” della tradizione è rimasto sempre uguale. Mantenendo la metafora dello scheletro
possiamo dire che il corpo è cresciuto e la carne ha avuto le sue modificazioni, ma la struttura portante
è rimasta sempre la stessa: ci sono stati scambi, influenze e contaminazioni tra culture e, quindi,
innovazioni nei gusti alimentari, ma la base delle preferenze alimentari su cui poggiano le innovazioni
rimane atemporale e immutabile. 52 IL GUSTO DELL’INFANZIA
Il gusto alimentare si forma sin dalla primissima infanzia con ricordi e
sensazioni che si rifanno a quando il soggetto stava ancora nel grembo della
madre ed era alimentato tramite il cordone ombelicale. Infatti, alcuni studi
dimostrano come il gusto inizi già a formarsi prima della nascita. Il bambino si
ciba attraverso il liquido amniotico della madre che, come dimostrato, cambia
sapore in base a ciò che la madre ingerisce. Si potrà quindi constatare la
predisposizione del gusto del bambino prima della nascita:
“Nell’utero il feto si nutre già attraverso la circolazione placentale […].
Come hanno rilevato gli studi, il suo sapore non è costante, ma varia
secondo ciò che mangia la madre. Si è scoperto che il piccolo ancora
nella pancia ha già i suoi gusti: infatti se lei mangia qualcosa di dolce,
anche il suo liquido amniotico si addolcisce, e il feto sembra gradire,
perché la frequenza e la durata delle sue fasi di deglutizione
aumentano.”85
Inoltre, ingerendo alcuni cibi, il feto comincerà a riconoscerne i gusti e, una
volta nato, sarà portato a ricercarli nel mondo esterno:
“Cosi c’è da presumere che gli alimenti assunti possano dare al liquido
amniotico tutta la gamma dei sapori. E il bambino si abitua, già prima di
nascere a quei sapori, andandoli così a ricercare (e a ritrovare) dopo la
nascita, nel latte materno prima, ed in seguito nel cibo solido.”86
La predisposizione fisica del bambino all’assunzione del cibo tradizionale
viene dimostrata anche attraverso gli studi sulle abitudini alimentari in uso
nelle diverse etnie:
“Gli stili alimentari umani variano infinitamente da un luogo all’altro del
globo terrestre, eppure grazie a questo meccanismo semplice ma
85
86
E. BARBERO - A. SAGONE, La cucina Etica, Sonda, Casale Monferrato 2010, p. 15.
Ibidem.
53 efficiente il neonato nasce già pronto a inserissi nei menù abituali della
sua famiglia.”87
Quindi il primo rapporto bambino-gusto avverrà attraverso la figura materna e
poi attraverso quella genitoriale. Nei primi anni di vita i genitori, con le loro
scelte alimentari, trasmettono al bambino quelle che diventeranno le sue
abitudini e, in parte, i suoi gusti:
“Non ci sorprende che proprio attraverso l’alimentazione si possano
predisporre alcune basi psicologiche per l’avvio della costruzione
dell’identità e della personalità del bambino. Il sé ha già degli
antecedenti. Il cibo acquista, quindi, valore nelle prime fasi della vita
nell’ambito del rapporto madre-neonato, rapporto che può condizionare il
modo di nutrirsi del soggetto nel corso dell’intera esistenza e di percepire
la propria dimensione corporea. Cibo e alimentazione non favoriscono
l’unica condizione e necessità oggettiva per la sopravvivenza, ma
contribuiscono molto fortemente al soggettivismo con cui contattare il
mondo esterno che si appresta a incontrare. Il cibo e il gusto
rappresentano una manifestazione del contesto socio-culturale in cui
l’individuo s’inserisce.”88
In aggiunta, all’interno dell’ambito familiare, il cibo diviene il tramite
dell’amore e dell’affetto di questo nucleo: l’amore nel vedere riunita la
famiglia e l’amore della madre nel regalare piacere soddisfacendo il palato di
ognuno:
“Le credenze e i comportamenti alimentari si sviluppano dalla prima
infanzia e sono strettamente legati al nucleo familiare. Essi sono una
dimensione integrante della prima relazione che un neonato ha con chi si
prende cura di lui e dell’acculturazione dei bambini nella società adulta.
La famiglia è anche diventata il luogo più importante del coinvolgimento
emotivo, tant’è che ci si aspetta che le relazioni familiari forniscano un
sostegno emotivo duraturo e continuo. Un’emozione fondamentale
87
Ibidem.
PANI – S. SAGLIASCHI, Gusto alimentare: rigida ostinazione o educare all’apertura al mondo,
Bologna 2011, (consultato il 21 dicembre 2013). 88 R.
54 costantemente legata al cibo è l’amore, in particolare l’amore materno,
l’amore romantico… Nella pubblicità dei prodotti alimentari e nelle
considerazioni
popolari
sul
cibo,
queste
emozioni
vengono
frequentemente accostate. Le riviste femminili e gli slogan pubblicitari
hanno, per decenni, abitudinariamente costruito l’immagine della madre
come di colei che dimostra il suo affetto e la sua premura disinteressata
per i figli tramite il cibo che serve loro a casa.”89
Da qui nasce il famoso detto “cucinato con amore”, quell’amore che si sente
durante i pranzi quotidiani, le feste, le ricorrenze religiose. Attraverso lo stare
a tavola si definiscono i limiti personali e si instaurano relazioni con cariche
affettive che andranno a costituire ricordi e modi d’essere.
“A tavola, abbiamo detto, si realizza la convivialità perché la relazione
diviene condivisione. Se è vero che l’uomo è tale nella misura in cui si
relaziona con gli altri, il sedersi a tavola insieme è espressione di una
relazione profonda. Le persone si trovano una di fronte all’altra con la
propria individualità, con il proprio volto, ed insieme condividono i beni
della terra e la propria vita. Non pretendono di essere uguali, come in altri
momenti della vita, ma si accettano come diversi però uniti da una
motivazione comune e da un condiviso interesse. “Convivialità - scrive
Antonio Nanni - dice certamente più di interdipendenza, più della
solidarietà, più della convivenza democratica. Convivialità è coabitazione
e coesistenza pacifica, con-divisione piena dei beni della terra, nel faccia
a faccia dei commensali”. È una “inclusività senza imposizione”. Per
questo gli uomini celebrano i loro rapporti più significativi a tavola e
risolvono i loro conflitti con il mangiare insieme, quale segno di
riappacificazione.”90
Quindi l’alimentarsi, le preferenze alimentari, il gusto e tutti gli atti che a
questi fanno riferimento sono essenziali per la costruzione "dell’Io" e per
avere esperienza “dell’Altro”. Proprio attraverso l’Altro si comprende il nostro
essere Altro (Io, Sé), l’essere differenti:
89 D. LUPTON,
L’anima nel piatto, cit., p. 66. G. DAL FERRO, La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, “Rezzara notizie”,
Vicenza 2012, p. 1. 90
55 “In tale rapporto si riesce ad accettare la diversità, anzi la si assume come
stile di vita, strumento di maturazione personale: «O la provocazione
dell’alterità disgrega quel cumulo e mette in moto la sua predisposizione
a trascendermi per cogliere nell’altro un nuovo connotato della mia
identità di uomo, o quel cumulo resiste con rigidità, come un nocciolo
duro, assumendosi come misura unica di autenticità umana, e allora in
nome dell’uomo respingo l’uomo» (Balducci). Dalla convivialità nasce la
reciprocità di cui parla Paul Ricoeur, paradigma fondamentale della
relazione basata sul valore della differenza. Una relazione è autentica
quando realizza lo scambio, il dare-avere, l’interazione, la reciprocità: «è
l’aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in situazioni giuste».”91
Come sostiene anche Emmanuel Lévinas, nel momento di "prossimità" con
l‘altro si possono costruire relazioni autentiche:
“Il primo passo rappresentato dalla convivialità, secondo Emmanuel
Lévinas, è la "prossimità". Nell’incontro non è possibile possedere
l’altro: «Viviamo sempre nella tentazione di voler inglobare l’altro nel
nostro orizzonte di significato, di ridurlo a parte di noi stessi, di
esorcizzare la sua estremità». Nasce così l’esigenza di uscire da noi
stessi: «Il volto dell’altro, in quanto epifania della sua differenza da me,
infrange la mia sicurezza, mette in questione la tranquilla identità
dell’io». Nasce così la consapevolezza di condividere con l’altro i beni
della terra e la vita, superando ogni sopraffazione. Si matura così una
relazione autentica.”92
L’amore che trasmette la famiglia, le relazioni autentiche che si costruiscono
attraverso il cibo e l’insieme di questi momenti di socialità instaureranno sui
ricordi e sulla persona quella carica emotiva su cui l’educazione e la memoria
involontaria andranno a fare presa.
91
92
Ibidem.
Ibidem. 56 L’EDUCAZIONE AL GUSTO
La parte soggettiva del gusto, che per semplicità definiamo "criterio di Gusto"
(gusto personale, gusto mentale, gusto psichico) è di rilevante interesse per
questo studio, perché diviene l’unica parte passibile di modificazione e di
educazione non invasiva. Quindi, la parte soggettiva-emozionale, congiunta
alle preferenze alimentari, è strettamente connessa all’identità del soggetto e
alle sue modalità comportamentali all’interno della società.
La teoria di questo elaborato è quella che un piccolo, ma significativo
cambiamento nel soggetto porti a un possibile e importante cambiamento a
livello sociale. La teoria, che è supportata da argomentazioni e tesi ottenute in
vari campi, sia scientifici che filosofici (per questo si vedano la bibliografia e
le molte citazioni), sostiene l’educazione al Gusto, educazione che noi
chiameremo “esplicativa” con finalità compassionevole. Ciò significa educare
il soggetto a un gusto e a delle preferenze alimentari che non comportino
l’uccisione, lo sfruttamento e l’allevamento brutale di altri esseri viventi, in
modo da insinuare una lieve, ma cosciente traccia di non violenza nella vita
delle persone. Tale traccia andrà così a influenzare il suo abito sociale, il suo
stile, il suo modo di vedere e comprendere il mondo, al fine di determinare
cambiamenti significativi (parziali o totali) nella società.
Possiamo chiederci quale sia la motivazione che sta alla base di questa
particolare scelta: perché l’alimentazione sarebbe un fenomeno così
importante e complesso e perché sarebbe così opportuno educare gli esseri
viventi al "gusto compassionevole" e al vegetarianismo.
Gli studi e le ricerche compiute, assieme alla tesi qui presentata, individuano
nel gusto alimentare uno dei primi identificatori sociali, creatore di abitudini,
strumento di formazione dell’identità del soggetto uomo.
57 Inoltre, come spesso dimostra lo svolgersi della storia umana, sono i
cambiamenti più lenti, più capillari e individuali che si dimostrano duraturi e
realmente significativi: dalla coscienza dei singoli soggetti prendono vita
movimenti e abitudini sociali che determinano svolte culturali ed epocali (si
pensi ad esempio al femminismo, al diritto di voto, alle leggi che hanno
regolamentato il divorzio o l’aborto).
Il cambiamento che qui proponiamo, inoltre, non è invasivo e ogni soggetto
può scegliere o meno se applicarlo alla propria vita; d’altro canto, il gusto
alimentare inizia a formarsi fin dal grembo materno rafforzandosi via via con
l’età tramite l’educazione, l’esperienza, le abitudini e il vissuto di ognuno
(confronto sociale e alterità). Il bisogno di nutrirsi è una realtà costitutiva
dell’essere umano, dunque questa necessità è, allo stesso tempo, una risorsa
insita nell’uomo che, attraverso un atto quotidiano, può essere educata al fine
di sviluppare tutte le sue potenzialità socialmente positive.
Il gusto, come dice l’etimologia93, è portatore di piacere e, di conseguenza,
carico di emozioni, quindi, avrà molto impatto sul soggetto. Una volta provato
un piacere l’uomo, come gli animali, va alla ricerca nuovamente del modo
attraverso cui soddisfarlo al fine di ottenere la sensazione di godimento.
Il cibo, sia durante la gravidanza, sia dopo la nascita del feto, è il mezzo
attraverso il quale si creano forti legami affettivi con la madre.
L’allattamento materno, inoltre, è la prima forma di contatto che l’infante
ha con un altro corpo. Il corpo della madre, entrando in contatto con il
bambino, assume una doppia valenza: da un lato funge come corpo
"contenitore" che nutre e protegge l’infante trasmettendogli amore e
comprensione; dall’altro lato è la prima figurazione del limite io-mondo
93
Lat. GǗS-TUS, che secondo il Curtis e il Bopp trae dalla radice GUŚ che è pure nel sscr. (sanscrito o
antico indiano) g’ùsè trovo buono, ho di buon grado, sono contento, soddisfatto, GUŚ-TIS (ted. GUNST)
favore, soddisfazione, in O. PIANIGANI, Vocabolario della lingua Italiana, Società editrice Dante
Alighieri, Roma 1907, digitalizzato 11 feb. 2008, (consultato 12 novembre 2013).
58 che pone il bambino a individuarsi come Altro rispetto alla madre e
lentamente come Altro rispetto al mondo.
“La relazione del neonato con il corpo materno – fonte di conforto e
nutrimento - è fondamentale per lo sviluppo della soggettività. Oliver
sottolinea che «il primo alimento che la maggior parte di noi riceve,
proviene dai corpi delle nostre madri […]. La nostra prima relazione con
un’altra persona è fondata su una relazione fisica nella quale un corpo ne
nutre un altro». Il neonato ricava piacere non solo dal ricevere nutrimento
e dal piacere di placare i morsi della fame, ma dal contatto fisico con il
corpo materno e dal ricevere amore. Tale esperienza è intensamente
carica di voluttà: il contatto con la pelle, l’odore e il calore del corpo
della madre, il sapore del latte, forniscono conforto e piacere al
neonato.”94
Il modo relazionale che il bambino vive con la madre non è di tipo
esclusivo e, durante lo sviluppo, lo spazio di confronto/individuazione
coinvolge tutto il nucleo familiare.
Questi legami affettivi, se sereni, sono cruciali per la formazione di ricordi
a cui il soggetto, una volta cresciuto, farà riferimento per elaborare un suo
equilibrio e per costruire una sua dimensione affettiva ed emozionale. Il
ricordo dell’alimentazione, se legato a momenti di tensione o di scontro
all’interno della famiglia, può sviluppare dinamiche relazionali poco sane,
legate a sentimenti di potere e frustrazione:
“Questi ricordi lasciano trasparire come, nel contesto della famiglia, il
cibo e l’alimentazione non siano associati solo alle emozioni positive –
come felicità, piacere e sicurezza – e al legame familiare. Le pratiche
alimentari all’interno della famiglia sono caratterizzate anche da lotte per
il potere e dalle frustrazioni connesse – come infelicità e ostilità – sia da
parte dei genitori che dei figli. Gli intervistati ricordano nitidamente i
sentimenti
di
dispiacere,
rabbia,
risentimento
e
fastidio
che
94
D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 76.
59 accompagnavano le esperienze alimentari all’interno del nucleo familiare.
In situazioni nelle quali sono costretti a mangiare cibi sgraditi, spesso i
bambini si sentono impotenti, e le emozioni negative associate a queste
esperienze possono avere un’influenza e proseguire nell’età adulta.”95
L’intento è di insegnare un certo tipo di educazione alimentare e che tale
educazione vada a influenzare gli altri aspetti della vita, come le scelte
ambientali, la modalità caratteriale, la considerazione e il confronto con
l’altro. Se il ricordo dell’oggetto-cibo è legato a qualche forma di conflitto
emozionale vissuto dal soggetto, questi può sviluppare dinamiche di rifiuto
e di opposizione rispetto allo stesso oggetto-cibo. Il cibo e l’alimentazione
sono spesso usati come forme di dimostrazione d’alterità e di ribellione da
parte
dell’adolescente.
Dunque,
notando
la
forte
influenza
che
l’alimentazione ha negli aspetti della vita, dalla formazione dell’identità del
soggetto fino ai meccanismi di relazione con l’Altro, dobbiamo considerare
il pericolo che una legittima presa di posizione del soggetto al fine, per
esempio, di rendere evidente la sua contrarietà verso i genitori, possa
degenerare fino a trasformarsi in una vera e propria patologia.
“Il conflitto che ha luogo nell’ambiente familiare può essere ricordato
non solo a causa delle dispute sul cibo in sé, ma anche per le discussioni
o le azioni malvagie messe in atto dagli adulti in risposta al
comportamento dei loro figli. Spesso le discussioni scaturiscono da
argomenti come le buone maniere a tavola o il parlare fuori turno durante
i pasti. […] Preparare pasti diversi rispetto a quelli offerti dai
genitori hanno rappresentato vere e proprie strategie di ribellione.”
loro
96
Invece nel caso più grave:
“Alcuni studiosi hanno sostenuto che l’anoressia rappresenta un tentativo
analogo, sebbene più estremo, di ribellarsi al potere genitoriale ed
esercitare l’autonomia tramite il rifiuto del cibo preparato in casa.
95
96
Ivi, p. 94.
Ivi, pp. 95-97. 60 Attraverso il rifiuto del cibo, quella che una volta era la figlia ubbidiente
e accondiscendente diventa una ribelle ostinata, che dimostra autonomia
sia evitando di assumere cibo, sia attraverso l’espressione fisica del suo
rifiuto, il dimagrimento.”97
Inoltre l’educazione impartita, che in questo caso sarà quella legata alla non
violenza e quindi al vegetarianismo, dovrà essere un’educazione
"esplicativa", condivisa con il soggetto e mai a lui imposta. Se vogliamo
che l’educazione faccia presa e che il soggetto la porti con sé durante la sua
crescita, deve essere un’educazione consapevole. L’imposizione è già di
per sé una violenza, non possiamo quindi pretendere di spiegare la nonviolenza attraverso la violenza. L’educazione deve essere una spiegazione
libera, poi sarà il soggetto, una volta appresa la conoscenza, a decidere se
scegliere o meno quel tipo di percorso. La violenza e il dolore che stanno
alla base di una nutrizione carnivora non vengono mai delineati nella loro
complessità, ma nascosti. In questo contesto la nostra sfida risulta ardua
perché dobbiamo combattere contro una società che mistifica questi fatti,
omettendo la vera e crudele realtà dei macelli e del trattamento animale.
Dobbiamo, inoltre, risvegliare nella coscienza umana la consapevolezza di
come l’allevamento intensivo degli animali porti, oltre al dolore e alla
morte, anche al disuso e alla perdita delle proprietà del terreno. Lo stesso
terreno, se utilizzato per la coltivazione, avrebbe più possibilità di
mantenere le proprie intrinseche proprietà (grazie, per esempio, alla forma
di coltivazione a rotazione) e, anche se ciò potrebbe essere meno proficuo a
livello economico, darebbe un notevole contributo alla risoluzione del
problema della fame nel mondo.
Quindi, per poter spiegare e dare la possibilità al soggetto di crearsi una
coscienza critica, bisognerà portarlo a conoscenza del valore degli animali,
delle loro sensibilità e capacità di essere in empatia sia con gli umani sia
97
Ivi, p. 99.
61 con gli animali della loro specie e non. Nel fare ciò si potrebbe mettere a
contatto il soggetto con animali vivi, fargli conoscere e capire la loro
modalità di relazionarsi, l’importanza della vita. Inoltre spiegargli il
funzionamento degli allevamenti e dei macelli e il sopruso della condanna a
morte. Queste immagini possono sembrare troppo forti e cruente per un
bambino, ma, rappresentando purtroppo la verità dei fatti, sono
significative al fine di fornirgli una conoscenza completa e complessa:
occorre dare al fanciullo, in primo luogo, la possibilità di conoscere e, in
secondo luogo, di decidere liberamente. Da un altro punto di vista, si
potrebbe affermare che omettendo queste conoscenze, ci troveremo di
fronte a un’imposizione nei confronti del bambino: quella di essere
costretto
a
subire
indirettamente
una
nostra
scelta.
Lo
stiamo
involontariamente costringendo ad accettare sia l’uso della violenza sugli
animali, sia la libertà di poter scegliere diversamente o comunque
personalmente. Purtroppo, a volte, imponiamo una scelta al fine di
distogliere il nostro pensiero da queste situazioni, o meglio, neghiamo alla
nostra volontà di pensarci, di porsi il problema, così esso, un po’ alla volta,
finisce con il non esistere.
Un’altra problematica, che tra poco affronteremo, sarà quella legata alla
relazione transitiva tra violenza sugli animali e violenza sugli uomini. Se
noi accettiamo la violenza sugli animali, infatti, stiamo comunque
accettando, in parte, la violenza come modalità di relazione: la prepotenza
nella sua forma generale, il suo uso per l’ottenimento di qualcosa, quindi, la
violenza come strumento. Questo tipo di accettazione insinua in noi la
giustificazione e ci conduce a ritenere la violenza qualcosa di normale e
quotidiano, che esiste e che fa parte del mondo, non come un atto terribile,
inumano e inaccettabile. L’accettazione è il primo segno di giustificazione
dell’utilizzo della forza come strumento verso il più debole, verso
62 l’indifeso, verso ciò che è diverso. Germoglia la possibilità di porre l’uomo
contro l’uomo, l’opportunità di pensare al significato della vita e del mondo
attraverso la lente della guerra. Una volta accettata la violenza, essa si
riserverà nei vari ambiti della nostra vita: nella società, nel linguaggio, nel
confronto relazionale, nella sfera sessuale, ovvero in ogni ambito che
riguarda l’umanità, quindi nell’uomo. Ciò che abbiamo sin qui evidenziato
è quello che intendiamo per educazione esplicativa: spiegare la complessità
dei fatti, porre a conoscenza, dare una visione delle cose ad ampio raggio,
al fine di aiutare il soggetto a formarsi una coscienza critica. La coscienza
critica può permettere la scelta, l’educazione deve fornire gli strumenti
attraverso i quali il soggetto possa decidere e prendere la propria strada in
piena coscienza. Non ritrovarsi per inganno, mistificazione o ignoranza a
perdere la possibilità di scegliere autonomamente, cioè la possibilità di
riconoscere uno tra gli aspetti più significativi della dignità umana.
Questi temi non sono in realtà nuovi e nemmeno contemporanei o moderni:
già i Pitagorici ne discutevano, Teofrasto, ad esempio, ne fece uno scritto
che diventò il Della pietà. Inoltre molti sono gli esempi che si possono
trarre dall’ambito letterario, da quello psicologico o economico. Quindi
attraverso l’educazione al gusto alimentare possiamo educare al Gusto, nel
senso di stile di vita, di abitudine e di carattere. Queste argomentazioni
sovra citate supportano la tesi secondo la quale il Gusto e l’alimentazione
non definiscono solo le nostre preferenze alimentari, ma sono fondamentali
e incisivi per l’edificazione della personalità, del carattere, dello stile di
vita, dell’habitus. L’educazione al gusto alimentare e la sua valenza etica
influenzano, quindi, tutte le sfere private e sociali del soggetto in crescita.
Dopo aver constatato questo, andremo ad analizzare il motivo della scelta
vegetariana, il suo collegamento con la non violenza e la sua ascendenza
63 sul carattere del soggetto e, quindi, in ultimo, le influenze che essa
comporta a livello sociale.
64 IV. PARTE QUARTA
IL GUSTO COMPASSIONEVOLE
“Sii il cambiamento che vuoi
vedere avvenire nel mondo”.
M. Gandhi
“Verrà
un
tempo
in
cui
considereremo l'uccisione di un
animale con lo stesso biasimo con
cui consideriamo oggi quella di un
uomo”.
L. Da Vinci
LA SCELTA VEGETARIANA
Sin dall’antichità si sostiene che è sbagliato mangiare carne per molteplici
motivi che ora andremo a elencare, spiegare e argomentare. L’unico motivo
che non affronteremo, poiché non risulta di diretto interesse per il nostro
studio, è il legame tra l’assunzione di carne e le conseguenti ripercussioni sulla
salute; però, per correttezza, lo accenneremo brevemente. Molti medici
nutrizionisti affermano che l’assunzione di carne98 ha impatti negativi di vario
genere e sostengono, invece, le influenze positive che derivano dalla scelta di
una nutrizione vegetariana. Sono molti, infatti, i grandi intellettuali nella storia
che aderirono a questa scelta: Alexander Pope, Benjamin Franklin, Thomas
Tryon, Gassendi, Samuel Richardson, Cartesio (vegetariano solo per salute,
ma promotore della vivisezione), Voltaire (assiduo sostenitore del vegetarismo
98
Cfr. U. VERONESI, Verso la scelta vegetariana, Giunti, Milano 2011.
65 e contrario alla vivisezione, che definisce un “atto di crudeltà verso gli
animali”).
Un’argomentazione che affronteremo e che ha origini antiche è quella che
dimostra la comunanza degli affetti tra esseri umani e animali con particolare
riferimento al sentimento della sofferenza: la capacità dell’animale di provare
dolore, paura, panico è simile a quella umana. L’animale, posto di fronte alla
propria uccisione, prova le stesse sensazioni di un uomo che capisce di essere
prossimo alla propria morte. La differenza tra animale e uomo in quell’attimo
terribile, in cui la possibilità di vivere la propria esistenza viene a mancare per
scelta altrui, sta nel fatto che l’essere umano ha la capacità di comunicare e di
ascoltare.
L’uomo che sta per morire chiede aiuto, implora pietà, si spiega attraverso la
parola e il linguaggio; l’animale, invece, purtroppo no: rimane lì, terrorizzato,
può solo guardare per implorare di essere lasciato in vita e, con lo sguardo
indifeso, muove la sua richiesta di aiuto silenziosa che non viene mai
ascoltata. Quella forma di preghiera, che dice: “Lasciami vivere”, è lasciata
cadere nel vuoto. Com’è arrivato l’uomo a decidere di arrogarsi tale diritto e
di sentirsi anche nel giusto a farlo? La tradizione del pensiero filosofico ha
cercato di rispondere a queste domande: troveremo chi era a sostegno di
un’alimentazione carnivora e considerava gli animali esseri inferiori e utili al
soddisfacimento dei propri bisogni e chi riteneva, invece, che essi fossero
esseri viventi degni di vita al pari degli uomini. Infatti, la cosa interessante è
che i filosofi sostenitori del “diritto animale” affermavano come il
maltrattamento e l’uccisione animale portassero l’uomo sulla strada della
violenza e della guerra tra gli uomini stessi.
Fin dai testi più antichi si cerca di esprimere e descrivere lo stretto rapporto tra
mondo animale e mondo umano, tra violenza animale e violenza umana; ora
66 faremo un excursus per riassumere alcune opinioni della storia che serviranno
come supporto alla nostra tesi.
Nel testo Avestä, dove sono contenuti i brani che tramandano la storia e la
filosofia di Zarathustra, vengono descritte, sotto forma di dialogo, quali sono
le migliori azioni per onorare dio e la terra.
“Qual è l’uomo che colma la terra della gioia più grande? Rispose Ahura
Mazdâ: «È colui che maggiormente semina frumenti e pascoli e piante
fruttifere o Spitama Zarathustra; che porta l’acqua ad una terra che ne è
priva procurandosela là dove essa abbonda e bonifica le paludi».
Colui che coltiva frumento, coltiva la fede, accresce la Legge Mazdeana
di cento residenze, di mille dimore, di diecimila preghiere Yaçna.
Quando venne creato il grano, i daêva trasalirono; quando crebbe, i daêva
perdettero coraggio; quando spuntò la spiga, i daêva fuggirono come
bruciati in bocca da un ferro rovente.
Chi semina il grano semina la giustizia.
Sono da lodare tanto le anime degli animali selvaggi quanto quelle degli
animali domestici.”99
Il testo ci invita a una riflessione sul rispetto per le anime animali e per la
terra, infatti, secondo l’Avestä e lo Zoroastrismo, il cibo utile all’uomo
dev’essere raccolto da ciò che la terra, curata e nutrita, offre e l’uomo,
nell’atto d’impossessarsene, non deve creare dolore. Viene anche spiegato,
potremo dire in senso logico, come sia insensato cibarsi della carne. Uccidere
un animale per cibarsi delle sue membra è molto meno produttivo che usare
questo animale per coltivare; per esempio, il bue: sarà molto più produttivo un
bue vivo, che può essere di aiuto a tirare l’aratro in agricoltura e che attraverso
le sue feci rende fertile il terreno, piuttosto di un bue morto che viene
utilizzato per cibarsi della sua carne. Lo stesso esempio si può applicare alla
99 AA.
VV., I filosofi e gli animali, tr. it. di Giorgio Celi, a cura di GINO DITADI, Isonomia, Este 1994,
vol. I, p. 258.
67 gallina per le uova o ad altri animali che producono latte. Qui viene data una
spiegazione meramente economica, che tratteremo ampiamente più avanti,
senza tenere in considerazione le ripercussioni morali ed etiche rispetto al
consumo di carne.
“I demoni (daêva) disprezzano la vita animale e gli uomini malvagi
deificano il Furore con sacrifici animali. La difesa degli animali è il punto
di partenza dell’azione e del pensiero etico e sociale di Zarathustra,
impegnato nella sua lotta contro l’ingiustizia nel mondo umano. La sua
predicazione è chiaramente contraria ai preti ariani e ai potenti
dell’epoca. Iconoclasta, abbatte tutte le rappresentazioni antropomorfe e
zoomorfe, sostituendovi un’etica universale nella quale l’unico culto del
signore è il sacrificio dei nostri cattivi pensieri. La condanna contro chi
uccide gli animali è violenta. Chi uccide il bue, uccide il motore
dell’agricoltura, il produttore di fertilizzante, l’animale benefico. Non i
corpi degli animali, ma ciò che la terra ci dà senza procurare dolore ad
alcun vivente deve essere nostro cibo. «Chi semina il grano – afferma l’
Avestä – semina la giustizia». Il ciclo è completo. La terra dona
spontaneamente l’erba, il bue se ne nutre, fertilizza i campi, fatica e
lavora con l’uomo che semina il grano, ossia la pace, la giustizia.
Esaminando il problema di fondo posto da Zarathustra dal punto di vista
meramente pratico, notiamo come egli si fosse reso conto che allevare
animali per macellarli significa distruggerne il valore in quanto forze di
trazione, produttori di fibre, fornitori di fertilizzanti. Da più specie
domestiche si poteva ricavare una quantità costante di proteine animali
nella forma di latte e latticini. Insomma erano più utili da vivi che da
morti.”100
Un ultimo, ma significativo esempio, che ci fa capire la volontà di alcune
religioni, più di altre, di essere ambigue e di lasciare spazio a fraintendimenti è
il famoso passo che descrive il peccato originale che ritroviamo sia
nell’Antico Testamento, sia nella tradizione dello Zoroastrismo, ma con
alcune significative differenze:
100
Ivi, pp. 8-9.
68 “Il peccato originale, consiste per Zarathustra non nel consumo di un
frutto, sia pure simbolico, ma nel consumo di carne. Yima, discendente di
Gayomart (il primo uomo), uccise un bue e ne consumò le carni
divenendo così, da buon pastore, assassino. Il bestiame è stato creato per
rendere fertili i campi. L’ Avestä vede nell’agricoltura una vittoria contro
il Male: «Qual è l’uomo che colma la terra della gioia più grande? Ahura
Mazdâ rispose: - È colui che semina più grano, piante e alberi da
frutta».”101
Invece nell’Antico Testamento :
“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di
tutti gli alberi del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e
del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente
moriresti». […] Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse
mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato dell’albero di non
mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi
ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna:
«Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io l’ho
mangiata».”102
Come si nota da una prima lettura, nella concezione Zoroastrista, il peccato
originale è legato all’uccisione dell’animale e all’uso della violenza nei
confronti dell’essere indifeso. Facendo un’analisi anche solo metaforica si
capirà come nello Zoroastrismo si voglia far capire come l’uso della violenza
e della forza sia sbagliato, anche se utilizzato per l’ottenimento della
conoscenza divina. Il fine, quindi, non giustifica i mezzi, nonostante si sappia
come, nella concezione della tradizione, la verità risieda nella conoscenza
divina. Se il raggiungimento della conoscenza prevede l’uso della violenza o,
ancor peggio, la violazione della vita, esso diviene un atto inaccettabile.
Questo passaggio è molto importante perché valorizza maggiormente la
concezione sulla non violenza rispetto alla meta, ideale o meno, da
101
102
Ivi, p. 9.
Genesi cap. 2 vv. 16-17, cap. 3 vv. 11-13, in La Bibbia di Gerusalemme, cit.
69 raggiungere: se tale posizione fosse stata presente nelle legislazioni sociali e
nelle religioni, molte “guerre Sante”, atrocità e barbarie sarebbero state
evitate.
Intorno al 590 a.C. nasce Pitagora che, come abbiamo precedentemente
delineato nel primo capitolo di questo testo, si rifaceva alle credenze degli
orfici, i sostenitori e gli adoratori di Orfeo. Essi, nonostante fossero tra i primi
fautori del dualismo anima-corpo, professavano i principi della non violenza,
nel rispetto di uomini e animali. Pitagora fu uno dei primi a credere e a seguire
quello che noi chiamiamo vegetarianismo e a rifiutare i sacrifici violenti che si
servivano dell’animale come capro espiatorio.
“A coloro che tra i filosofi erano più dotati di capacità speculativa ed
erano pervenuti alle vette supreme della contemplazione, proibiva
assolutamente i cibi superflui e ingiustificati, raccomandando di non
mangiare mai animali né di bere assolutamente vino né mai di immolare
agli dei animali né di arrecare a questi il minimo danno e di rispettare col
massimo scrupolo le norme della giustizia anche nei loro riguardi. Ed egli
stesso visse in modo conforme, astenendosi dalla carne degli animali e
adorando solo gli altari incruenti e adoperandosi perché neanche gli altri
uccidessero gli animali affini a noi per natura, e correggendo ed educando
le bestie selvatiche con le parole e gli atti piuttosto che offendendole con
i castighi.”103
Vogliamo citare altri due brevi esempi che raffigurano ed esplicano il
comportamento e l’animo di Pitagora, ovvero di come egli considerasse la
violenza contro gli animali e quella contro gli uomini un atto così ignobile da
rendere disumano chi lo compiva (non degno di essere frequentato, contagioso
nel suo essere male). Un primo esempio:
103
AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 263.
70 “Tanto aborriva da uccisioni e uccisori, che non solo si asteneva da
mangiare esseri viventi, ma neppure si accostava a macellai e
cacciatori.”104
Un secondo esempio:
“Afferma di lui Senofane: «Dicono che egli passando accanto a in
cagnolino che veniva percosso ne abbia avuto pietà e abbia detto a chi lo
percuoteva così: - Cessa, non percuoterlo, poiché di un uomo amico è
l’animo che io riconobbi, udendo la sua voce».[…] Era Pitagora un
saggio tale che egli le carni non toccava, dicendo che era cosa empia, ma
agli altri consentiva di cibarsene. Ammiro il saggio: egli diceva di non
voler essere empio, ma ammetteva che gli altri fossero empi.”105
Teofrasto, invece, sostiene la comunanza tra uomini e animali per la
costituzione corporea delle carni, ma soprattutto per la loro capacità di provare
gli stessi affetti.
“I bambini provenienti dalle stesse origini ossia dallo stesso padre e dalla
stessa madre sono, diciamo, apparentati per natura gli uni agli altri;
inoltre diciamo che i discendenti degli stessi nonni sono apparentati gli
uni agli altri proprio come i cittadini di una stessa città lo sono per la
comunanza della terra e delle loro mutue relazioni […]. E così, penso,
che noi diciamo egualmente di un Greco di fronte ad un altro Greco, di
un Barbaro di fronte a un altro Barbaro, di tutti gli uomini, gli uni di
fronte agli altri, che sono parenti, parte della stessa razza per una di
queste due ragioni: sia per avere gli stessi avi, sia per avere in comune il
nutrimento, i costumi e la stessa razza. Similmente riteniamo che tutti gli
uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa razza, perché i
princìpi dei loro corpi sono per natura gli stessi (parlando così non mi
riferisco ai primi elementi dai quali provengono le piante, ma penso alla
pelle, alle carni, a quel genere di umori inerenti gli animali), e ancor più
perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli
appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle
sensazioni. Ma, come per i corpi, certi animali hanno l’anima perfetta
104
105
Ivi, p. 261.
Ivi, p. 265.
71 mentre in altri lo è di meno; tuttavia per tutti i principi sono per natura gli
stessi. Anche la parentela delle affezioni lo mostra. Se ciò che si dice
dell’origine dei costumi è vero, tutte le specie sono intelligenti, ma
differiscono per l’educazione e per la composizione del miscuglio dei
primi elementi. Sotto tutti i rapporti, dunque, la razza degli altri animali
ci è apparentata ed è la stessa della nostra; poiché i mezzi di sussistenza
sono gli stessi per tutti come l’aria che respirano, secondo Euripide, e un
sangue rosso scorre in tutti gli animali e tutti mostrano d’avere in comune
per padre il cielo e per madre la terra.”106
Come noi proviamo dolore, anche loro provano dolore, rabbia, paura; quindi,
arrogarsi il diritto di togliere loro la vita è un’ingiustizia. Così Teofrasto:
“Sacrificando esseri viventi, si commette contro di loro un’ingiustizia, perché
si fa rapina della loro vita”. 107 Teofrasto, inoltre, vede nelle cause delle
catastrofi e delle maledizioni che colpiscono l’umanità, la conseguenza di quei
riti e sacrifici di sangue commessi da molti uomini nel nome degli dei. Anche
in Plutarco si ritrovano echi della concezione di Zarathustra, così come nei
Pitagorici e negli Orfici. Plutarco, infatti, non riuscì a concepire chi fu il primo
uomo che ebbe il coraggio di mangiare carne e di sporcarsi del suo sangue;
come afferma nel testo Del mangiar carne:
“Ardì il primo fra gli uomini insanguinarsi la bocca, appressarsi alle
labbra la carne del moro animale, ponendosi avanti i serviti, le vivande e
il cibo dei corpi uccisi […] le membra che poco avanti belavano,
mugghiavano, andavano e vedevano? Come poterono soffrire gli occhi di
scorgere l’uccisione degli animali scannati, scorticati, smembrati?.”108
Plutarco fa risalire questa scelta a un tempo in cui l’uomo viveva nella fame e
nel pieno abbandono, ma oggigiorno la società è cambiata e quindi questa
modalità dev’essere combattuta e dismessa. Inoltre, sostiene che l’uomo non è
per sua costituzione carnivoro, non ha né denti, né mandibola da carnivoro e
nemmeno la sua delicata percezione dei sapori può essere accostata a quella
106
Ivi, p. 297.
B. DE MORI, Che cos’è la bioetica animale, Carocci , Roma 2007, p. 64.
108
AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 63.
107
72 dei carnivori. Tale teoria, come riporta Gino Ditadi, è stata ampiamente
dimostrata: «Plutarco intuì ciò che oggi è acquisito e scientificamente
accertato: l’uomo è stato per millenni vegetariano».109 Come sosteniamo in
questo studio, Plutarco vede nell’inizio dell’uccisione animale ciò che permise
il cominciamento dell’uso della violenza in genere (da uomo versus animale a
uomo versus uomo): «Fino ad uccidere il bue, nostro operaio, la pecora che ci
veste, il gallo guardiano della nostra casa, e così appoco appoco, cresciuta
l’insaziabile cupidigia si pervenne al sangue, agli omicidi, alle guerre».110
Ora accenneremo brevemente ad altri filosofi che supportavano e credevano in
tale filosofia. Le argomentazioni differiscono le une dalle altre, infatti, ad
esempio, Democrito sostiene che l’uomo sia stato discepolo delle bestie e se
ne sia servito finché ne ebbe bisogno, «noi siamo stati discepoli delle bestie
nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine
nel costruire le case, degli uccelli canterini del cigno e dell’usignolo nel canto,
con l’imitazione». 111 Roario, invece, paragona le affinità, le abitudini e i
sentimenti simili tra uomo e animale con le modalità nella cura dei figli o
degli anziani:
“Non esiste alcun animale per quanto debole che, deposto ogni timore,
non affronti la morte per i propri cuccioli. Questa carità è naturale e
necessaria […] senza di essa non potrebbe esserci vita animale. L’amore
dei figli per i genitori si chiama pietas ed è ben presente negli animali. I
ghiri nutrono con somma pietas i loro genitori ormai vecchi. […] Le
cicogne nutrono gli inabili per l’età avanzata. C’è, per così dire, una sorta
di venerazione verso i più anziani anche tra gli animali.”112
Anche Erasmo da Rotterdam sostiene come, attraverso la scelta di uccidere e
cibarsi di animali, l’uomo abbia colto la facilità dell’atto di uccidere e come,
di questo passo, sia giunto a considerare di facile portata anche l’omicidio tra
109
Ivi, p. 64.
Ibidem.
111
Ivi, p. 90.
112
Ivi, pp. 96-97.
110
73 uomini. È seguendo questa strada che si arriva alla considerazione della guerra
come presenza inevitabile nella storia, guerra che, oggi, è divenuta
permanente.113
“Non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non si
imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte. […] a forza di sterminare
animali, s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un
grande sforzo […] da quella frase siamo arrivati a tal grado di frenesia,
che tutta la nostra vita è dominata dalla guerra.”114
Inoltre è interessante vedere quanto la concezione dualistica abbia contribuito
a rafforzare e giustificare l’idea che la soppressione animale sia utile per
l’alimentazione o per la sperimentazione da laboratorio. Come sosteneva Jean
Meslier, il dualismo cartesiano spostava l’attenzione sul concetto e sulle
funzioni dell’anima degradando il corpo a semplice macchina e strumento.
Difatti, per Cartesio, non sussisteva alcuna differenza tra il decostruire una
macchina per capirne il funzionamento e il vivisezionare un animale per farne
strumento di studi in laboratorio.
“È una crudeltà, una barbarie uccidere, accoppare, sgozzare animali che
non fanno niente di male, essi sono sensibili al male e al dolore come noi,
malgrado ciò che dicono vanamente, falsamente e ridicolamente i nostri
nuovi cartesiani che guardano a loro come pure macchine senz’anima e
senza alcun sentimento e che per questa ragione – e su un vano
ragionamento che fanno sulla natura del pensiero di cui pretendono
l’incapacità a produrlo da parte della materia – li dicono interamente privi
di ogni conoscenza e di ogni sentimento di piacere e di dolore. Ridicola
opinione, massimamente perniciosa, detestabile dottrina che tende
manifestamente a soffocare nel cuore degli uomini tutti i sentimenti di
bontà, di dolcezza e di umanità che potrebbero avere per questi poveri
animali.”115
113
Cfr. G. ORWELL, 1984 (1949); tr. it. di Stefano Manfredotti, Mondadori, Milano 2003. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 91.
Ivi, p. 141.
114 AA.
115
74 Molti altri si scagliarono contro la concezione meccanicistica cartesiana; ad
esempio, Voltaire, sulla famosa “Correspondance”, attacca duramente e
pubblicamente Cartesio, in difesa del mondo animale. Egli sosteneva che fosse
un’assurdità considerare gli animali come delle macchine per il semplice fatto,
ad esempio, che essi non si sapessero esprimere attraverso il linguaggio.
Infatti, dice Voltaire, come risulta intuibile capire se un uomo è inquieto,
arrabbiato o gioioso anche senza che ciò venga dimostrato verbalmente, così è
chiaro e palese capire cosa possa provare un animale tramite la considerazione
delle sue movenze e delle sue proprie modalità di espressione. Vediamo ora il
passo sovra citato:
“Che vergogna, che miseria aver detto che le bestie sono macchine prive
di conoscenza e sentimento, che fanno sempre tutto ciò che fanno nella
stessa maniera, che non imparano niente, non si perfezionano ecc.!
Come? Quell’uccello che fa il suo nido a semicerchio quando lo attacca a
un muro, che lo fa a quarto di cerchio se lo mette in un angolo, e a
cerchio intero intorno a un ramo, quell’uccello compie sempre i suoi atti
allo stesso modo? Quel cane da caccia che tu hai allevato per tre mesi non
ne sa forse di più dopo quel tempo, di quanto ne sapesse prima delle tue
lezioni? Quel canarino a cui tu insegni un’aria la ripete forse
immediatamente? Non è forse vero che ci mette un certo tempo a
impararla; e non hai osservato che talvolta egli sbaglia e si corregge?
Forse è perché io ti parlo, che tu giudichi ch’io abbia sentimento, la
memoria, delle idee? Ebbene! Non ti parlerò più: tu mi vedrai rincasare
con aria afflitta, cercare una carta con inquietudine, aprire l’armadio dove
mi ricordo d’averla rinchiusa, trovarla, leggerla con gioia. E tu ne deduci
che io ho provato il sentimento dell’afflizione e quello del piacere, che ho
memoria e conoscenza. Giudica allora allo stesso modo questo cane, che
non trova più il suo padrone, che lo ha cercato per tutte le vie con grida
dolorose, che rincasa inquieto e agitato, sale, scende, va di stanza in
stanza, trova infine nello studio il padrone che egli ama, e gli testimonia
la propria gioia con la dolcezza del suo mugolio, coi salti e le carezze. I
barbari uomini prendono questo cane che suol vincerli così facilmente
75 nell’amicizia: lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per
mostrarti le vene mesenteriche. Tu scopri in lui gli stessi organi di
sentimento che sono in te. Rispondimi, o meccanicista, la natura ha
dunque combinato in lui tutte le molle del sentimento affinché egli non
senta? Il cane ha dei nervi per essere impassibile? Non fare più di queste
balorde supposizioni.”116
Applicando tale concezione agli esseri umani e considerando che il dualismo
cartesiano valorizza maggiormente l’anima rispetto al corpo, tramite la nota
asserzione del «cogito ergo sum», si giunge a capire come il corpo, per
Cartesio, non fosse altro che una “macchina”, se pur ben strutturata. Ora,
seguendo questo tipo di pensiero, risulta più semplice ammettere e giustificare
la violenza sul corpo, essendo appunto l’anima l’essenza della vita. Sarà
quindi anche più facile accettare l’uso delle torture per l’estirpazione del male
così come l’efficacia delle “guerre Sante” per la causa divina. Si
giustificheranno i metodi dell’Inquisizione perché “mirati” alla purificazione,
si tollererà la lapidazione assieme a tutte quelle forme di violenza che, nel
corso della storia, sono state strumentalizzate al fine di promuovere la
salvezza eterna dell’anima (il corpo muore ma l’anima si salva).
Ulteriormente, se l’uomo usa cotanta violenza verso il suo simile, possiamo
considerare a quale livello di bassezza morale giunga nei confronti di un
essere che ritiene a lui inferiore.
116 VOLTAIRE,
Correspondance, Génève 1953-1965, vol.IV, p.193, in I filosofi e gli animali, tr. it. di
Giorgio Celi a cura di GINO DITADI, Isonomia, Este 1994, vol. I. 76 IL GALLO CON GLI SPERONI
In questo paragrafo affronteremo l’arduo problema dei diritti degli animali, la
morale condivisa e l’uso giustificativo del non sapere e del non informarsi per
comodità o paura. Dimostreremo come, nelle società odierne, sia già punita la
violenza contro gli animali, ma solo per alcuni casi e come invece, per altri,
sia legale. Noteremo quindi come la regolamentazione sui diritti degli animali
sia fittizia, ovvero come essa mascheri il bisogno umano di una coscienza
pulita e quindi non partecipe ad atti crudeli e violenti. Infatti, sotto la
protezione della favola-legge, scarichiamo la responsabilità di scelte votate
all’impiego
della
violenza
sulla
legislazione,
permettendo
così,
quotidianamente, l’uso della forza e dell’uccisione. Inoltre porteremo alla luce
alcuni esempi atti a rendere noto come non esistano violenze minori
accettabili, poiché la violenza è una, uguale a se stessa e non accettabile.
Anzi, cercheremo di portare alla consapevolezza di come, in realtà, già nessun
uomo di per sé accetti la violenza, ma come si ritrovi senza saperlo ad
accettarla e ad appoggiarla o, nei casi peggiori, a fingere di non sapere.
Vedremo, inoltre, come la scarsa informazione e la mistificazione della realtà
partecipino largamente al processo che conduce al consenso sulla violenza.
Ora, il concetto sembra un gomitolo aggrovigliato, ma affrontando un passo
logico alla volta, esso apparirà presto con chiarezza ed evidenza.
Per addentrarci nel discorso proponiamo un passaggio di Tom Regan, nel
quale egli afferma come possa oggi sembrare ridicolo e far sorridere il parlare
di diritti degli animali, ricordando però come potesse sembrar ridicolo, in
passato, il parlare di diritti da attribuire alle donne o ai “negri”: ciò sembrava,
infatti, totalmente assurdo agli occhi della popolazione maschile e a quelli dei
cosiddetti “bianchi”.
77 “Ora, a molti l’idea di diritti animali parrà ridicola, simile, quanto a
serietà, alla proposta, avanzata qualche anno fa da un personaggio
rimasto anonimo, di far indossare agli animali in pubblico dei vestiti, in
quanto altrimenti essi violerebbero una consolidata legislazione
antinudismo. L’obiettivo di cambiare la testa agli spiritosi, ammesso che
sia un assoluto realizzabile, non lo sarà facilmente. La cosa da capire,
tuttavia, è che quanto troviamo comico a volte ci dice, di noi stessi e della
nostra epoca, più di quanto potremmo supporre. Inganneremmo noi stessi
se pensassimo che razzisti e sessisti non trovano ridicola l’idea di diritti
attribuiti ai negri o alle donne. Dobbiamo guardarci dal nostro riso, per
timore di assumerlo come segno rivelatore della verità o della
ragionevolezza del pregiudizio che talvolta esso esprime. Così, benché
qualcuno possa mettersi a ridere, questo non surroga di certo una
dimostrazione. Ed è proprio una dimostrazione che manca.”117
Questo discorso, quindi, può sembrare incomprensibile a quelle persone che
non sono abituate a porre in discussione le proprie idee, le proprie usanze e i
propri costumi: oggi sembra inaccettabile che i diritti delle persone possano
essere legati al colore della pelle o alla sessualità, ma tutto può cambiare se
cambia la prospettiva da cui guardiamo le cose. Per poter cambiare
prospettiva, però, bisogna essere disposti a conoscere, sapere, ascoltare,
informarsi. Questa disposizione d’animo riguarda gli adulti, per i bambini,
invece, necessitiamo di un tipo d’educazione particolare. L’orientamento
interiore alla conoscenza si concreta attraverso un particolare tipo di ascolto,
libero da preconcetti o sistemi di giudizio prestabiliti. Per rendere l’idea
usiamo la seguente immagine: pensiamo a un bambino che si fa raccontare
una fiaba. Per quanto possa già averla udita, il piccolo si porrà in ascolto con
lo stupore e la curiosità tipiche di chi la sente per la prima volta e non si
permetterà mai di creare un’interruzione tra il “C’era una volta...” e il “...E
vissero felice a contenti”. Dunque, per comprendere la complessità del reale
117
AA. VV., I filosofi e gli animali, cit., vol. II, p. 929.
78 che ogni giorno si arricchisce di sfumature e movimenti, occorre allenare
l’anima a una certa flessibilità di ascolto e avere, soprattutto, la pazienza di
ascoltare tutto, fino alla fine. Per poter comprendere bisogna saper ascoltare in
completezza. Questo è quello che siamo oggi chiamati a fare, ricordando
quegli uomini che hanno permesso i cambiamenti più significativi della storia
dei diritti umani.
Ora, in questo contesto, dobbiamo prima di tutto cominciare a pensarci come
abitanti di questo pianeta assieme ad altri abitanti che sono gli animali. Noi ci
siamo arrogati il diritto di dominare gli animali solo perché siamo in grado di
farlo, per superiorità di capacità mentali e talvolta fisiche, ma la questione è
come giustifichiamo il diritto di farlo o comunque perché ci ritroviamo a farlo.
In sintesi, possiamo affermare che essendo più potenti abbiamo usato il nostro
potere con violenza sul mondo animale, ma senza ritenere opportuno avere un
motivo per fare questo. Parliamo di moralità e giustizia nelle nostre società
moderne e allora ci chiediamo: “È giusto permettere questa violenza? Essa
rientra nella morale umana? È la stessa morale che tanto ci innalza dagli altri
animali e ci rende appunto umani?”. Cercheremo ora di rispondere in parte a
queste domande, cominciando a capire come giungiamo alla giustificazione
della violenza sugli animali.
Il motivo principale che giustifica queste nostre azioni è quello utilitaristico,
che, come abbiamo visto anche nei capitoli precedenti, trae le sue origini da
concezioni antiche: prima di tutto quella del dualismo anima-corpo. Il corpo,
nella tradizione filosofica occidentale, viene svalorizzato rispetto all’anima,
viene concepito come una macchina. Proponiamo ancora un breve passo
cartesiano, L’homme, che delinea i tratti del corpo-macchina:
“Vi prego poi di considerare che tutte le funzioni da me attribuite a
questa macchina, digestione dei cibi, battito del cuore [...] recezione della
luce, dei suoni [...] impressione delle loro idee nell'organo del senso
comune e dell'immaginazione, ritenzione o impronta di tali idee nella
79 memoria; movimenti interni degli appetiti e delle passioni; e infine
movimenti esterni di tutte le membra [...] vi prego, dico, di considerare
che tutte queste funzioni derivano naturalmente, in questa macchina,
dalla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di come i
movimenti di un orologio o di un altro automa derivano da quella dei
contrappesi e delle ruote; sicché, per spiegarle, non occorre concepire
nella macchina alcun'altra anima vegetativa o sensitiva, né altro principio
di movimento e di vita oltre al suo sangue e ai suoi spiriti agitati dal
calore del fuoco che brucia continuamente nel suo cuore, e che non è di
natura diversa da tutti i fuochi che si trovano nei corpi inanimati.”118
Per Cartesio, però, l’uomo ha l’anima che si configura nella parte razionale e
nella capacità dell’uso del linguaggio, a differenza degli animali che non sono
né in grado di ragionare, quindi non coscienti, né in grado di usare il
linguaggio:
“Questo non attesta soltanto che le bestie hanno meno ragione degli
uomini, ma che esse non ne hanno affatto. Perché si vede che per saper
parlare ne basta pochissima. [...] né si deve pensare, come qualche antico
[Lucrezio], che le bestie parlino anche se noi non ne intendiamo il
linguaggio: se questo fosse vero, poiché sono provviste di parecchi organi
che corrispondono ai nostri, potrebbero farsi intendere da noi altrettanto
bene quanto dai loro simili.”119
Quindi, per Cartesio, l’animale è solo corpo e non possiede affatto la ragione.
Ora, però, sappiamo, come abbiamo largamente visto nel paragrafo
precedente, che non possiamo considerare l’animale solo corpo perché gli
affetti, le modalità espressive, la pietas dell’animale e molti suoi
comportamenti riconducono similmente a quelli umani e, inoltre, non abbiamo
le facoltà per dimostrare l’esistenza o la non esistenza dell’anima, sia animale
che umana. A questo proposito:
118 R.
DESCARTES, L’homme (1664); tr. it. L’uomo, Boringhieri, Torino 1960, p. 120. Discours de la method (1637); tr. it. Il discorso del metodo, in Opere filosofiche,
Utet, Torino 1981, vol. IVI, p. 58.
119 R. DESCARTES,
80 “Anche Pierre-Louis Moureau de Maupertuis, filosofo e scienziato che
nel 1732 introdusse in Francia il newtonianesimo, non accetta le tesi
cartesiane. Maupertuis ritiene del tutto inadeguato il meccanicismo per
spiegare i fenomeni della vita e della sua riproduzione. Egli aderisce
all’ipotesi vitalistica di molecole organiche dotate di un qualche grado
di coscienza. La distinzione tra sensazione e pensiero è per Maupertuis
frutto di scarsa conoscenza del vivente. Ogni sensazione, ogni
percezione è un pensiero. Non ha senso attribuire all’uomo un’anima
pensante e alle bestie un’anima sensitiva; come non ha senso – perché è
impossibile – dimostrare che le bestie hanno un’anima o provarne che
ne sono prive.”
120
Ci soffermiamo, ora, un po’ più dettagliatamente, sull’analisi di alcune
concezioni e contraddittorietà insite nella morale attuale e nelle leggi che
regolano la nostra ambigua società. Tutto gira attorno all’indefinita
concezione che abbiamo degli animali, una concezione che sembra mutare in
base alla situazione, all’uso, alla morale vigente, al giudizio che la cultura dà
di quel determinato fenomeno. Non sembra esistere un pensiero unico, non
sembrano esistere né una morale, né un sistema legislativo coerenti.
Prendiamo come esempi l’abbandono degli animali, il maltrattamento, i
combattimenti illegali: tutti questi comportamenti violenti sono puniti dalla
legge e sono considerati dall’opinione pubblica come moralmente non
accettabili. Invece, l’uccisione di animali per scopi alimentari, il loro
allevamento costrittivo in gabbie, la realtà dei macelli e la somministrazione di
farmaci, sembrano essere una consuetudine quotidiana, accettabile e condivisa
dalla morale comune, nonché difesa e regolamentata dalle leggi. Un altro
aspetto è quello della vivisezione che, pur essendo una realtà condivisa
moralmente da meno persone, è ancora una forma di violenza regolamentata,
difesa e permessa all’interno dello Stato. Ci domandiamo allora come possano
esistere queste contraddizioni, come sia possibile che la violenza venga
120
AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. II, pp. 144-145.
81 diversificata: ciò pare assurdo, e non intendiamo assurdo in senso meramente
etico, vogliamo dire che questo è paradossale per logica e per coerenza. Un
certo tipo di violenza viene legittimata e condivisa, invece un altro tipo di
violenza viene messa al bando e marchiata d’infamia. Il dilemma è come si
possa parlare di violenze particolari, di tipi di violenze diverse: violenze giuste
o violenze ingiuste. A questo punto le domande sorgono spontaneamente: “È
logico questo? Si può parlare di tipi diversi di violenza? Uccidere un animale
per mangiarlo è diverso da ucciderlo per testare cosmetici e medicinali?
Lasciarlo morire in solitudine, perché si è deciso di non accudirlo o picchiarlo,
è da considerare più grave di farlo nascere al fine di rinchiuderlo in gabbie e
poi ucciderlo? È corretto? In che modo può crescere un bambino con questi
messaggi contradditori? Che tipo di morale e che capacità critica andrà a
formarsi finché i messaggi che gli arrivano sono confusi e mescolati con la
violenza? Non andrò ora ad approfondire queste domande, ma mi riserverò
uno spazio alla fine per cercare di illustrarne le risposte.
Cerchiamo di capire se può esistere un’uccisione giustificata e moralmente
accettabile e una, invece, immorale e inaccettabile: uccidere è sempre
uccidere? Come si può decidere se uccidere una specie animale al posto di
un’altra sia giusto o no? Come possiamo affermare che uccidere un maiale,
una mucca, un coniglio sia accettabile e normale e invece uccidere un cane o
un gatto non lo sia? Per spiegare come la violenza sia sempre violenza e come
non esista violenza accettabile o meno, sposteremo la discussione dagli
animali agli umani: l’atto in sé e la crudeltà che lo accompagna sono sempre
gli stessi. Le affermazioni fatte circa le violenze sugli animali potrebbero
presentarsi in modo simile e parallelo per gli uomini: usare la violenza su un
uomo che ha commesso un atto ingiusto e inaccettabile, come uccidere, è
condiviso o può essere condiviso dalla morale comune (ad esempio, la pena di
morte), così come la violenza su una persona indifesa è considerata sbagliata e
punibile dalla legge. Quindi si può affermare che nelle nostre società, se la
82 violenza è condivisa e accettata dalla maggioranza, è moralmente giusta e
applicabile attraverso la legge. Entrando in questo ambito ci accorgiamo della
pericolosità di tali argomentazioni (ad esempio l’inaffidabilità del concetto di
maggioranza), infatti, a rigor di logica, seguendo quanto detto, dovremo
accettare come moralmente giuste e legali le leggi razziali fasciste e il
nazismo, perché all’epoca furono accettate dalla maggioranza. Ovviamente
stiamo usando degli esempi volutamente forti e provocatori al fine di indicare
come esista solo un tipo di violenza: la Violenza.
La Violenza non può essere definita particolare, non può essere legittimata in
alcuni casi e in altri no: o la si accetta o la si rifiuta. Non può esistere una
violenza utile e una violenza inutile. La violenza porterà sempre all’uso di
ulteriore violenza, il più piccolo gesto violento ci porterà lentamente ma
quotidianamente, verso grandi tragedie.
Il primo gesto violento di cui noi parliamo è proprio la violenza sugli animali.
Quindi, tornando a noi, perché la violenza sugli animali in alcuni casi è
accettata (esempio: vivisezione) e in altri no (esempio: abbandono di un cane).
La giustificazione più usata è l’utilità, cioè se uccidiamo un animale per
qualcosa di utile come il cibo allora uccidere l’animale sarà giusto. Ma è
veramente utile uccidere un animale per l’alimentazione? Soprattutto, se
fossimo a conoscenza di come gli animali vengono uccisi e di cosa provano,
vorremmo ancora cibarci dei loro corpi?
La produzione di carne non è utile e tantomeno necessaria, come dimostrato
da molti studi; in termini di risorse prime è molto più dispendiosa di quella
vegetale e, allo stesso tempo, sfama molta meno popolazione. Come sostiene
la campagna pubblicitaria dell’Expo 2015 nel prossimo futuro dovremo
abituarci all’idea di consumare sempre più verdura e sempre meno alimenti di
derivazione animale.
“2050: solo frutta e verdura per la popolazione mondiale. Produrre 200
83 grammi di carne rossa comporta l’utilizzo di 3.000 litri di acqua. Ecco
perché nel prossimo futuro gli esperti prevedono una dieta vegetariana in
grado di ridurre il consumo di acqua e terreni, risorse sempre più rare.
[…] Dietro ai pasti che consumiamo quotidianamente ci sono enormi
quantità di acqua: circa 3.600 litri per un’alimentazione a base di carne e
2.300 litri per una dieta vegetariana». La popolazione aumenta e le
risorse diminuiscono. Una dura verità per i cittadini di mezzo mondo che
dovranno presto abituarsi a diminuire le dosi di carne consumata,
preferendovi abbondanti quantitativi di frutta e di verdura.”121
Allora, perché si continua a consumare carne se è dispendioso per il pianeta?
Le risposte sono molteplici; una, ad esempio, riguarda gli interessi economici
dei produttori di carne. Questo è dimostrato dalla anche risposta che ha
ricevuto lo spot dell’Expo che si è visto chiamare in causa dai produttori e
allevatori di carne argentini. Inoltre, dobbiamo pensare a tutte le
multinazionali che vivono attorno al mercato della carne: le molte case
farmaceutiche, gli addetti ai controlli, le miriadi di fast food. Non dobbiamo
dimenticare che il controllo alimentare è una forma di potere. Molti stati del
terzo mondo sono tuttora sottomessi dal colonialismo finanziario per problemi
legati alla fame. Se questi stati risolvessero il problema dell’emergenza
“fame” forse non sarebbero più costretti a svendere le loro preziose risorse,
utili spesso solo al mantenimento dello stile di vita dei paesi più sviluppati.
Questi argomenti avrebbero bisogno di una lunga trattazione e di un adeguato
approfondimento, ma non è questa la sede appropriata per farlo. Ci sembrava
ad ogni modo corretto accennare brevemente anche a queste situazioni
collegate all’uso di carne nelle nostre tavole. Il nostro studio, più che riferirsi
ai problemi legati all’economia e al sociale, vuole concentrarsi sui legami tra
alimentazione, cultura ed educazione.
121
EXPO 2015 CONTACT, 2050 solo frutta e verdura per la popolazione mondiale, in FOOD 4
LIFE -Stili di Vita -, (consultato il 18 settembre 2012).
84 LO STILE SOMATICO
Abbiamo visto in questi capitoli la grande interazione e l’influenza che
esiste tra gusto alimentare e i vari ambiti che vanno a formare il carattere e
la personalità: l’ambiente sociale, la cultura, la famiglia, l’identificazione di
sé, il rapporto con l’altro e l’educazione. La teoria supportata con il
presente studio sussiste nella modificazione del gusto alimentare tramite
l’educazione di tipo «esplicativo» e non autoritario. Il punto cruciale fa
forza sul concetto che, attraverso l’educazione alimentare, si possano
influenzare tutti gli altri aspetti ad essa collegati, o collegati alla formazione
dello stile di vita del soggetto. Attraverso l’influenza cosciente del
soggetto, influenzeremo le scelte che egli farà all’interno della società e
quindi, indirettamente, cambieremo il campo sociale. Più semplicemente la
società risentirà delle influenze e dei cambiamenti dello stile di vita del
soggetto.
La teoria prosegue mirando ad avvicinare il soggetto al vegetarianismo e
quindi, anche alla non violenza. Il vegetarianismo è una scelta alimentare
che ha già insite in sé delle valenze etiche e dei principi morali di non
violenza, quindi ha sostanzialmente un doppio supporto per la nostra tesi.
Attraverso un’educazione esplicativa e diretta si daranno al soggetto tutte le
conoscenze di cui ha bisogno per comprendere la diversità tra una
alimentazione vegetariana e una di derivazione animale.
Facendo riferimento a teorie dello sviluppo e di psicosomatica vediamo
come le prime esperienze istintuali, in particolare quella dell’alimentazione,
servano a organizzare le operazioni psichiche: le buone esperienze di
soddisfazione e di gratificazione sono legate alla pulsione libidica. Inoltre
cominciano a formarsi le seguenti nozioni: io e non io, i primi ricordi legati
85 all’infanzia, le prime forme di scambio e di relazione con il mondo e con
l’altro, tutti eventi che influenzeranno in modo determinante il
funzionamento della persona in età adulta. Abbiamo già visto come
l’alimentazione sia il primo mezzo di approccio alle emozioni: attraverso il
rapporto con la madre, il riconoscimento sociale e il rapporto con l’altro
(tradizione, cultura e convivialità), la creazione di ricordi (rapporto con la
famiglia e infanzia). Un’ulteriore forza educativa e incisiva del gusto
alimentare è data dal suo essere un atto quotidiano, quindi ripetitivo e
strutturale.
Il gusto alimentare, una volta appreso e condiviso dal soggetto, influenzerà
anche altri gusti particolari, ad esempio la scelta di non usare pellicce o
quella di non usare prodotti testati sugli animali. Questo è, usualmente, un
percorso lento, ma appreso dalla maggior parte delle persone che si
avvicinano al vegetarianismo e, di conseguenza, alla non violenza.
Lo stile di vita è somatico, soprattutto nel suo venire esteriorizzato, ma
anche nella sua costituzione, come ben descrive Richard Shusterman nel
testo Stili di vita:
“Senza appoggiare la prospettiva di Thoreau sullo stile quale mezzo
fisico per scopi mentali (e lasciando sospesa la critica successiva di
questo punto di vista negli stessi scritti di Thoreau), possiamo affermare
che ha riconosciuto la natura fondamentale somatica dello stile. Se lo
stile mentale e di pensiero di qualcuno è in qualche modo corporeo – sia
tramite la voce che attraverso la scrittura (come affermano anche questi
due famosi trascendentalisti) -, allora sembrerebbe che ogni stile umano
sia in qualche modo somatico.”122
Lo stile di vita, oltre a essere un atto corporeo, è anche la nostra
rappresentazione mentale, quindi lo potremo meglio definire come “stile di
122
R. DREON – D. GOLDONI – R. SHUSTERMAN, Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, Mimemis,
Milano 2012, p. 16.
86 vita psicosomatico”. Shusterman, infatti, lo definisce come espressione
creativa di sé attraverso l’uso del corpo e dell’esperienza.
“ Studio cruciale e migliorativo dell’esperienza e dell’uso del proprio
corpo come luogo di apprezzamento estetico-sensoriale (aisthewsis) e di
modellamento creativo di sé avrebbe potuto anche essere formulato in
termini di “stilizzazione creativa di sé.””123
Tali teorie sono di pubblico interesse perché non rimangono solo teorie
espresse, ma trovano un vero e concreto riscontro nella realtà dei fatti.
Effettivamente, la personalità viene spesso espressa tramite lo stile e
l’atteggiamento della persona stessa.
“La propria personalità è davvero espressa nello stile somatico. Un
individuo mite o timido spesso può essere riconosciuto da una postura
curva, da uno sguardo basso che non ce la fa a guardare negli occhi, da
una camminata esitante e da un movimento gestuale trattenuto o inibito.
Wittgenstein sicuramente lo sapeva, poiché affermò non solo che «il
corpo umano è la migliore immagine dell’anima umana”, ma anche” che
lo stile di uomo è la sua immagine».”124
Lo stile somatico non è un rimando a un’immagine di sé o a una banale
rappresentazione, ma è la vera espressione della personalità, conscia e
inconscia. «Lo stile somatico, dunque, non è semplicemente un’immagine
esterna del carattere, ma una sua espressione o una sua parte integrante, perché
il carattere non è meramente un’essenza interna segreta, quanto piuttosto
qualcosa che è espresso intrinsecamente o è costituito attraverso il
comportamento somatico, il modo di fare, l’atteggiamento».125 Tramite lo stile
somatico non si rivelano solamente l’atteggiamento, i modi o gli interessi.
Esso diviene piena espressione del «vero carattere»,126 facendo emergere
123
Ivi, p.17. Ivi, p.19.
125
Ivi, p.20.
126
Cfr. G. L. LECLERC DE BUFFON, Le style cèst l’homme même (“Lo stile è l’uomo stesso”), in
Discours sur le style (1749); tr. it. Discorso sullo stile, Edizione Studio Tesi, Pordenone 1994.
124
87 anche quelle parti di noi che non vogliamo far trapelare, ma che attraverso
la comunicazione non verbale, ad esempio con lo sguardo, esprimiamo.
“(Analects 17:9) Perciò il suo discepolo Mencio potè scrivere. “Ogni suo
membro porta testimonianza senza parole. Questo ruolo cruciale dello
stile somatico nell’istruzione etica è il motivo per cui il Libro Decimo
degli Analecta è dedicato a descrivere il comportamento somatico di
Confucio (i diversi modi in cui mangiava, vestiva, si inchinava,
camminava, e così via, in quanto si accordavano con i differenti contesti
in cui l’azione si situava). Il corollario di questa idea è che non si può
nascondere il proprio carattere morale, anche se lo si vuole perché si è
malvagi. “Come può un uomo” si chiede Mencio, “nascondere il suo vero
carattere” quando non solo “le sue parole”, anche le pupille dei suoi occhi
lo rivelano (Libro di Mencio IV, A:15).”127
Si potrebbe incorrere nel pericolo di confondere lo stile somatico con
l’abbigliamento o con la moda vigente nella società. Non dobbiamo
dimenticare, invece, che lo stile somatico comprende vari aspetti della
persona come: il modo di parlare (attraverso la scelta lessicale e il tono
della voce), l’atteggiamento nel porsi verso l’altro, il modo di camminare, il
modo di mangiare e la scelta delle pietanze.
“Ma anche togliendo l’abbigliamento dalla nozione di stile somatico,
possiamo osservare i modi di camminare, di fare gesti, di mangiare o
sedersi e alzarsi dalla propria sedia, che sebbene siano più o meno
stilizzati nel senso onorifico, esemplificheranno lo stile nel senso
descrittivo. Per esempio, possiamo notare uno stile goffo e non attraente,
ma idiosincratico nel mangiare o nel camminare.”128
Lo stile trasmette ed esprime la personalità dell’individuo, la morale, le
convinzioni etiche, ma non si ferma solo a questo. Esso è mezzo di
aggregazione e di distinzione, ad esempio nell’aderire o meno a un gruppo,
a un ceto sociale o a culture e sub-culture.
127
128
R. DREON - D. GOLDONI - R. SHUSTERMAN, Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, cit., p. 21.
Ivi, p. 23. 88 “Questo desiderio assume tipicamente la forma paradossale di volersi
adattare e, tuttavia, di distinguersi. In altre parole, la stilizzazione di sé
comporta il conformarsi in qualche modo alle norme del gusto sociale di
qualche gruppo (che potrebbe essere una sottocultura che resiste al gusto
dominante), non consentendo, tuttavia, a una simile conformità allo stile
generale di precludere l’espressione individuale propria di qualcuno.”129
Lo stile, oltre a essere espressione della nostra personalità sia conscia che
inconscia,
può
essere
“profondamente
condizionato”
dall’esterno.
Attraverso i mass media, il marketing e le varie forme di comunicazione e
di mercato possiamo apprendere inconsciamente modi, espressioni e stili
che non ci rappresentano, ma che sono, anzi, espressione della società in
cui viviamo e, ancor peggio, soggetti a strumentalizzazione legata
all’economia o al potere vigente. Altri condizionamenti o influenze
possono compiersi tramite l’educazione, la famiglia, la cultura (per
imitazione o per riflesso).
“L’individuo assorbe semplicemente una preferenza per certe modalità o
per certi modelli somatici dell’ambiente umano circostante (che è già
sempre anche un ambiente sociale) e poi esprime irriflessivamente tale
preferenza emulandoli spontaneamente nel suo comportamento somatico
volontario; come cammina, mangia, si veste, si pettina, e così via.”130
“Così come lo stile somatico può essere acquisito e mostrato
irriflessivamente senza scelta cosciente, parimenti può essere acquisito e
mostrato in assenza totale di nostre deliberazioni. Questa forma
involontaria di stile può risultare, per esempio, dal modo in cui siamo
stati allenati a camminare o mangiare o da abiti corporei sviluppati
attraverso le nostre occupazioni, […].”131
129 Ivi, p. 25. 130 Ibidem. 131 Ivi, p. 26. 89 Ora è importante capire come modificare il nostro stile di vita e in che
modo apprenderlo coscientemente così da renderlo nostro, così che sia la
reale espressione della nostra personalità, del nostro carattere e delle nostre
convinzioni etiche-morali.
“Più interessante è la domanda pratica su come lavorare su se stessi per
creare o migliorare il proprio stile. Sebbene la questione sia troppo
complessa per essere affrontata adeguatamente in questa sede,
sicuramente parte di questo lavoro sul sé è uno sforzo di conoscenza di
sé, che include un esame delle nostre forze, debolezze e propensioni. Ma
include anche uno studio critico di modelli d’ispirazione, di teorie e di
metodi di coltivazione di sé, che ci possono aiutare a trasformarci
stilisticamente nei modi che giudichiamo desiderabili. In quello che
rimane di questo saggio vorrei soltanto suggerire come il lavoro sulla
trasformazione somatica del proprio stile può essere perseguito secondo
due direzioni complementari, la cui interazione collaborativa rivela
ancora in un altro modo che lo stile somatico trascende la distinzione
semplicistica tra un animo interiore, o sostanza, e una forma esteriore, o
maniera.”132
Attraverso questo passo, Shusterman dà un considerevole sostegno alla tesi
di questo studio. In primo luogo, egli afferma e sostiene la trascendenza del
dualismo anima-corpo basandosi sull’univocità del fine e sulla loro duplice
funzione correlata. La struttura dello stile e del gusto alimentare fanno
essenzialmente perno sulla stessa base: la collaborazione tra anima e corpo.
Inoltre, il gusto e lo stile sono a loro modo simultaneamente influenzati e
influenzanti, sia nel rapporto soggetto-mondo, sia nella loro costituzione
anima-corpo. Questo passaggio si riassume in un breve passo, tratto da
Walden133, citato dallo stesso Shusterman nella sua opera:
132 Ivi, p. 37. 133
Cfr. D. HENRY THOREAU, Walden Life in the Woods (1845); tr. it. Walden o vita nei boschi, BUR,
Milano 1988.
90 “Ogni uomo è il costruttore di un tempio chiamato corpo, per il dio che
venera, secondo uno stile che è puramente suo, né può esentarsi
martellando marmo al suo posto. Siamo tutti scultori e pittori, e il nostro
materiale è la nostra stessa carne e il sangue e le ossa. Ogni nobiltà
comincia col raffinare i tratti di un uomo, ogni grettezza o sensualità con
l’imbruttirli.” Questo argomento sembra combinare due diverse direzioni
di stilizzazione e di creazione del sé.”134
La prima direzione va quindi verso la cura del corpo in senso prettamente
più fisico e viene riassunta nella frase “il corpo è un tempio di dio”; legata
a un valore estetico e a una “lavorazione del corpo” (nel senso di
“scolpire”), essa si realizza anche attraverso il sacrificio, la rinuncia e la
fatica. Noi, parallelamente, facciamo coincidere questa prima fase più
corporea con la scelta alimentare vegetariana: l’abbandono dell’uso della
carne diviene allo stesso tempo scelta salutare e di cura del corpo, ma anche
sacrificio nella rinuncia a un alimento (che piace o è legato a ricordi o
abitudini). La seconda direzione, invece, può essere sintetizzata nella frase
“scolpire se stessi”.
“Piuttosto, i nostri sentimenti e le disposizioni morali sono già somatici,
proprio come il nostro stile somatico è già sempre informato dallo spirito
e dalle norme etiche del mondo sociale. Il soma in quanto corpo umano
vissuto, senziente, intelligente – è fatto intrinsecamente di carattere
quanto di globuli; è soggettività interiore quanto forma esteriore.
Lavorare al suo esterno può essere un mezzo per lavorare sulle sue virtù e
sulle sue disposizioni interne, proprio come lavorare nell’interno
(attraverso pratiche meditative) può migliorare il modo in cui
appariamo.”135
In questo passo, si nota come le disposizioni interiori si rispecchiano nel e
attraverso il corpo, tramite quindi l’espressione del corpo, ma anche tramite
la modificazione dello stesso. Il rapporto tra corpo e disposizioni è a doppio
134
135
Ivi, pp. 37-38. Ivi, p. 39.
91 senso: lavorare sul corpo influenzerà “l’animo”, lavorare sull’animo
influenzerà il corpo. Tale doppio legame è emerso anche tra gusto
alimentare e identità, educazione, società, rapporto con l’altro (alterità),
stile di vita e gusto.
“Se lo stile somatico rimane un aspetto percepibile della superficie del
corpo, esso raggiunge anche fino in fondo le profondità del sé e del
carattere. È troppo profondo per essere disprezzato come una materia
triviale di gusto, di gran lunga troppo centrale per trascurarne la
coltivazione e l’analisi.”136
Lo stile di vita, oltre a esprimere il carattere dell’uomo, guida e rappresenta le
sue scelte all’interno della società dando forma ad essa. Il percorso che lega
alimentazione, società, educazione e violenza può sembrare complicato e
discontinuo, così come può apparire che tali concetti non abbiano evidenti
correlazioni tra loro e che, nella pratica, rimangano comunque distanti.
L’alimentazione, per esempio, spesso non viene ritenuta un argomento di
interesse etico o sociale, ma non possiamo però nascondere la sua assidua
presenza nei momenti più significativi di socialità: essa assume un ruolo
gestionale nella scansione del tempo quotidiano e talvolta diviene un mezzo di
livellamento sociale tra le diverse classi. Negli uomini, la centralità del
pensiero, a volte della preoccupazione, del cibarsi è sempre presente e viene
ben descritta nel passo tolstoiano che segue:
“Guardate la vita dei ricchi, ascoltate le loro conversazioni.
Che argomenti elevati! Filosofia, scienza, arte, poesia e la questione
dell'equa ripartizione delle ricchezze e l'elevazione del popolo e
l'educazione dei giovani. Ma in realtà per i più si tratta di una menzogna.
Tutto ciò non li occupa che di passaggio, fra un pasto e l'altro, quando lo
stomaco è pieno e non è più possibile continuare a mangiare.
L'unico vero interesse di uomini e donne, specie non più giovani, è
mangiare. Come mangiare? Che cosa mangiare? Quando? Dove?
136
Ivi, p. 40. 92 Non c'è una solennità, un avvenimento gioioso, una inaugurazione, che
trascorra senza un banchetto. Osservate la gente che viaggia, ciò risulta
ancor più evidente. «I musei, il parlamento, le biblioteche come sono
interessanti!... E dove mangeremo? Dov'è che si mangia meglio?».”137
La ricerca alimentare non ha come scopi solo la soddisfazione della fame e
l’auto-sostentamento, ma diviene ricerca del piacere: attraverso il consumo di
cibi sempre più raffinati, da mezzo di sopravvivenza si trasforma in strumento
di piacere e quindi in risorsa alla base di un eventuale cambiamento sociale. In
tali passaggi, la difficoltà concettuale più sentita sta nel riconoscere
nell’alimentazione una possibile forma etica di non-violenza e di
compassione: l’uomo riesce a provare sentimenti di commozione e di
partecipazione emotiva nel momento in cui si appresta a vivere l’atto “banale”
del nutrimento? Ci serviamo ancora delle parole del grande Tolstoj che,
attraverso una descrizione lucida e cruenta, ci obbliga a visualizzare la realtà
così come abitualmente non appare ai nostri occhi:
Credevo che, come spesso accade, la realtà dovesse produrre poi in me
una impressione meno forte di quanto immaginavo. Ma mi sbagliavo. La
volta seguente arrivai al macello in tempo. Era il venerdì prima della
Pentecoste, in una calda giornata di giugno, l'odore del sangue era ancora
più forte della prima volta, il lavoro era molto. La corte polverosa era
piena di animali, ed altri si trovavano in vari recinti. In strada vi erano
alcuni carri fermi ai quali erano attaccati buoi, vitelli, vacche. Altri carri
pieni di vitellini vivi, le teste legate basse, sopraggiungevano e subito
venivano scaricati. Altri carri uscivano dal macello carichi di buoi già
uccisi, con le gambe penzoloni, che traballavano secondo i movimenti
della vettura, le teste inerti, i polmoni rosei e i fegati brulli allo scoperto.
[…] Dalla parte opposta a quella dove io mi trovavo, stavano facendo
entrare un grosso bue, rosso e grasso, due uomini lo trascinavano per le
corna. Il bue aveva appena varcato la soglia, che un macellaio lo colpì
alla nuca con un'ascia a manico lungo. Come se gli fossero state tagliate
137
L. TOLSTOJ, Il primo gradino (1891), Il bastoncino Verde, pp.11-12, in H. WILLIAMS, The Ethics
of Diet (1883).
93 tutte e quattro le gambe di un sol colpo, il bue cadde pesantemente sul
ventre, poi si girò su un fianco e si mise ad agitare convulsamente le
gambe e la parte posteriore del corpo. Allora uno dei macellai si precipitò
su di lui, badando a non farsi colpire dagli zoccoli, lo prese per le corna e
gli abbassò con forza la testa contro il suolo, mentre un altro gli tagliava
la gola. Dalla larga ferita un sangue rosso bruno sgorgò a fiotti e venne
raccolto in un recipiente di metallo da un ragazzo, tutto intriso di sangue.
Durante tutto questo tempo il bue non aveva cessato di girare e scuotere
la testa e di agitare convulsamente le gambe nell'aria. Il catino si riempiva
rapidamente di sangue, ma il bue era ancora vivo, respirava pesantemente
e continuava a scalciare, tanto che i macellai si tenevano a distanza.
Appena il catino fu pieno, il ragazzo se l o mise sulla testa e lo portò via
alla fabbrica dell'albumina; prese il suo posto un secondo ragazzo con un
altro recipiente e anche questo cominciò a riempirsi, mentre il bue
continuava ad alzare ed abbassare il ventre nel respiro e a dibattersi
disperatamente. Appena il sangue cessò di sgorgare, il macellaio sollevò
la testa alla bestia e si mise a scorticarla; l'animale si dibatteva ancora. La
testa venne messa a nudo, divenne rossa con le vene bianche e prendeva
le posizioni che le dava il macellaio, la pelle pendeva dalle due parti. Il
bue non cessava però di scalciare. Un altro macellaio lo afferrò allora per
una gamba, la spezzò e gliela tagliò: sul ventre e sulle altre gambe
correvano ancora delle convulsioni. Poi gli furono tagliate le gambe
rimaste e furono gettate nel mucchio con le altre. Infine l'animale
abbattuto fu trascinato verso la carrucola e fu appeso. Allora solamente la
bestia non diede più segno di vita.138
In questo terribile, ma realistico, passo vengono descritte la brutalità,
l’indifferenza e la morte, così come emergono nell’atto della macellazione. Il
lusso del piacere gustativo si scontra in modo evidente con la realtà sopra
descritta: la carne, che giunge sulle nostre tavole imbandite per regalare
momenti di convivialità, ha una sua storia di derivazione che rasenta il
macabro. Il macabro entra con più forza nelle nostre percezioni quando
pensiamo allo sforzo animale di voler restare attaccato alla vita o quando ci
138 L.
TOLSTOJ, Il primo gradino, cit., p. 17.
94 rendiamo conto che la carne non è un alimento utile e necessario alla crescita
umana. Tolstoj prosegue descrivendo come questi atti di violenza animale
abbiano ripercussioni negative sulla sfera umana: compiere, accettare o
condividere simili atti significa cozzare contro i sentimenti di “simpatia” e di
“compassione” che abitano l’animo umano e quindi rischiare di perdere una
significativa parte di umanità. L’uomo che fa violenza su un altro essere,
anche se animale, fa violenza a se stesso:
“Tempo fa parlai con un macellaio militare ed egli pure fu stupito della
mia osservazione che è male uccidere. Anche lui rispose che è una
abitudine inevitabile, ma finalmente convenne che è male e aggiunse:
«Soprattutto quando la bestia è docile, addomesticata, come si avvicina
poveretta, tutta fiduciosa. È una gran pena!». È orribile! Orribile, non
solo la sofferenza e la morte di questi animali, ma il fatto che l'uomo,
senza alcuna necessità, fa tacere in sé il sentimento di simpatia e di
compassione verso gli altri esseri viventi e diviene crudele, facendo
violenza a se stesso. E quanto è profondo nel cuore umano il divieto di
uccidere un altro essere!.”139
Dunque, alla base della perdita dei sentimenti di umanità e compassione sta la
mancanza di conoscenza: l’educazione “esplicativa”, proposta in questo
studio, vuole supplire a questa deficienza della nostra società. La conoscenza
deve mirare alla formazione di una coscienza critica che permetta ai soggetti
di scegliere una vita etica, una vita guidata da un gusto compassionevole. Il
gusto compassionevole, divenendo parte dello stile di vita del soggetto, non
riguarderà esclusivamente l’ambito alimentare, ma giungerà in modo capillare
agli altri aspetti del vivere sociale. L’individuo che vive in modo responsabile
e consapevole la propria quotidianità sarà portato a relazionarsi con l’altro
attraverso il filtro della coscienza critica e vivrà il dovere morale di portare il
suo personale contributo alla società a lui circostante. Un cieco, che ha
recuperato la vista, non può fingere di vivere ancora come se fosse al buio:
139
Ivi, p. 14.
95 “Non si può far finta di ignorare tutto questo. Non siamo struzzi, né
possiamo pensare che se noi non guardiamo quello, che ci rifiutiamo di
vedere, non c'è. Soprattutto quando la cosa che non vogliamo vedere è
ciò che stiamo mangiando.”140
Concludiamo assieme alle ultime parole che chiudono il testo tolstoiano:
l’educazione, la conoscenza e la compassione ci hanno posto inevitabilmente
davanti a questo “primo gradino”:
“Questo progresso deve rallegrare in modo speciale coloro che cercano
di realizzare Il Regno di Dio sulla terra; non solo perché il vegetarismo,
di per sé, è già un passo importante verso questo regno, ma perché è la
prova che il cammino dell'umanità, verso la perfezione morale, sta
procedendo in modo serio ed autentico. Infatti, tale cammino implica una
progressione specifica ed invariabile e questa ne è la prima tappa.
Dunque non si può che rallegrarsene. Così come si rallegrerebbero quegli
uomini, che volendo raggiungere la sommità di un edificio, dopo aver
tentato invano e disordinatamente di scalarne da tutte le parti le mura, si
accorgono che l'unico modo per salire è passare dalla scalinata e si
riuniscono finalmente davanti al suo primo gradino.”141
140
141
Ivi, p. 19. Ivi, p. 21.
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