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Il 18 gennaio 1992 Eluana aveva da poco compiuto
ventuno anni. Era un sabato.
La tragedia ci colse lontani e impreparati. Io e Saturna, la mamma, eravamo in Trentino Alto Adige,
per una settimana bianca. Eluana invece aveva preferito rimanere a casa, a Lecco. Le avevamo lasciato la
nostra auto ed eravamo partiti con la sua piccola utilitaria per la Val Pusteria, destinazione Sesto, in provincia di Bolzano.
Parlammo con lei per l’ultima volta la sera precedente, ci sentimmo per telefono verso le dieci e mezzo: era stanca, già in pigiama, le tapparelle di casa abbassate per la notte. Rientrata un’ora prima dalla palestra che frequentava con l’amica Laura, non aveva
accettato l’invito a cena di Cristina, la seconda delle
sue amiche del cuore. Non aveva alcuna intenzione di
uscire, e così le augurammo una notte di sogni belli
come lei. Ci salutammo come se fosse la fine di un
giorno qualunque.
Ma la sorte virò, disonesta, all’improvviso. Eluana
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fu chiamata da alcuni amici che insistettero affinché
andasse al Kalcherin, uno dei pochi locali di ritrovo
giovanile esistenti al tempo nella nostra zona, dove c’era una festa a cui lei, l’anima della loro compagnia di
ventenni, non poteva assolutamente mancare. Eluana
alla fine cedette, tolse il pigiama, prese la mia Bmw dal
garage e si avviò, sicura e ignara, verso Garlate, a pochi
chilometri da Lecco. Raggiunse la comitiva che era nel
locale e stettero insieme fino a notte tarda. Poiché aveva gelato, l’amico Andrea si offerse di portarla a casa
con la sua auto e di tornare l’indomani a recuperare la
mia macchina. Eluana declinò la proposta e si avviarono a Lecco ognuno sul proprio mezzo, lei davanti, Andrea, solo, dietro.
Alle tre e mezzo, sulla strada provinciale che collega Calco a Lecco, l’auto di Eluana slittò sull’asfalto
ghiacciato, entrò in testacoda e si schiantò contro un
muro e un palo. All’arrivo dei soccorsi, tempestivamente intervenuti perché chiamati da Andrea quasi in
diretta, le sue condizioni apparvero già gravissime: era
in coma, gli arti immobili, i riflessi quasi del tutto assenti.
All’ospedale Circolo di Lecco, in fase acuta, le radiografie dimostrarono «una frattura dell’osso frontale e una frattura-lussazione (cioè una frattura con scivolamento in avanti) della seconda vertebra cervicale»; tramite una Tac dell’encefalo si riscontrò la presenza di un’emorragia nell’emisfero cerebrale sinistro
e lesioni «in diverse sedi del cervello, in particolare
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nella regione fronto-temporale dell’emisfero sinistro e
nei nuclei talamici di ambo i lati».
Eluana fu sottoposta a trazione cervicale, all’intubazione tracheale e alla ventilazione meccanica. In seguito la situazione si aggravò: «Il rigonfiamento degli emisferi cerebrali provocò la compressione del tronco encefalico e la comparsa di un’emorragia nella parte più
alta dello stesso (il mesencefalo)».1 Nei giorni seguenti
il quadro clinico rimase gravissimo sebbene l’ematoma si riassorbì lentamente.
Eluana restò in coma.
Mio fratello Armando telefonò sabato mattina alle nove e mezzo. Ci saremmo dovuti incontrare l’indomani
quando, lasciato l’Alto Adige, Saturna e io avremmo
fatto tappa a Paluzza, vicino a Udine, il mio paese natale, per poi rincasare in serata. Armando, grave, disse che era successo qualcosa a Eluana e che dovevamo
partire subito. «Chiama l’ospedale, Beppino» aggiunse. Solo, in un angolo dell’hotel, contattai telefonicamente il reparto di rianimazione dell’ospedale e la verità mi investì a cuore scoperto. Raggiunsi Saturna in
camera che capì dal mio sguardo, capì ancor prima
che proferissi parola. Comprese come solo ad alcune
madri accade di comprendere, nell’immediato, nella
lontananza e nel silenzio, con l’anima protesa e le lacrime in agguato.
Il viaggio del ritorno fu tristezza cupa e dolore sen11
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za voce. Arrivammo in ospedale nelle prime ore del
pomeriggio. Durante la nostra assenza, i conoscenti,
più o meno stretti, si prodigarono per lei: Andrea, non
trovandoci, avvertì Francesca, la terza delle amiche
più care, che giunse al pronto soccorso alle otto, quattro ore e mezzo dopo l’incidente. I medici le riferirono che la situazione era gravissima: «Non sappiamo se
si riprenderà; ma se dovesse farlo rimarrà paralizzata». Chiamò i genitori di Cristina perché era a conoscenza del legame tra le due famiglie, i quali si precipitarono da Eluana e fecero contattare Armando, che
poteva sapere come avvisarci. E così fu. La rete della
solidarietà rispose, puntuale e sollecita.
Arrivati in ospedale parlammo con la dottoressa
dell’unità operativa di rianimazione Giovanna Mottura e con un collega. Ci spiegarono chiaramente la
condizione in cui versava Eluana: la situazione era
drammatica per le diverse implicazioni del trauma
cranio-encefalico provocato dallo schianto automobilistico, ma non era ancora possibile fornire una diagnosi certa del quadro clinico; si potevano solo attendere le quarantotto ore successive, determinanti per
le possibili evoluzioni, di vita o di morte.
A me e Saturna balenarono subito alla mente, così
come era accaduto a Francesca qualche ora prima, i
discorsi precisi e accorati di Eluana riguardo la rianimazione, la sua paura di diventare una marionetta priva di coscienza, il suo terrore di poter sopravvivere
senza più autonomia, pensieri e relazioni. Eluana co12
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nosceva quali possono essere, a volte, i risultati degli
interventi rianimatori su pazienti che hanno subìto
gravi lesioni cerebrali. Essi, pensava, vengono sì strappati alla morte, ma la vita che viene loro restituita risulta ridotta a brandelli: dipendenza totale dagli altri,
sopruso continuo di mani altrui, incoscienza, impossibilità di compiere movimenti volontari. Eluana ci disse di non voler sopravvivere in quelle condizioni neanche un minuto, che se quello era il prezzo da pagare
per rimanere in vita era di gran lunga preferibile morire. Il suo non era il pensiero fugace di un giorno di malinconia, non era una parola buttata in giro dopo le forti impressioni di un momento. No. Le sue riflessioni
erano il frutto dei valori profondi che aveva preso a
guida e sostegno della propria vita, qualcosa forte come una volontà di ferro e auspicato come il desiderio
più intimo. Eluana, ahimè, sulle questioni di libertà, di
vita e di morte non parlava a vanvera. E pretendeva rispetto, pretendeva patti a suggellare impegni reciproci
di mutuo intervento: come spiegherò in seguito, ci ha
chiesto la parola, mia e di Saturna, che avremmo vegliato su di lei e mai avremmo permesso quello scempio di sé, quella pazzia. «Non a me, ricordatelo» ci diceva.
Le ore di attesa divennero giorni, settimane, mesi e
anni, prima di poter stabilire l’irreversibilità delle condizioni cliniche di Eluana. In tutto questo tempo il suo
stato rimase pressoché immutato.
La diversità propria della nostra mentalità, del nostro
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modo di vivere e intendere la vita, si è manifestata, terribile, fin dalle prime battute della nostra tragedia familiare.
In quei primi giorni, in quell’assaggio dell’inferno a
venire, furono tremendi gli incontri con la dottoressa
Mottura, che abitava – e tuttora abita – nel nostro stesso condominio. Tra i professionisti sanitari lei fu la
prima con cui affrontai la questione prioritaria – l’unica questione importante: la volontà di Eluana non
era quella di tentare tutte le vie possibili per riceverne
in cambio una vita dalle condizioni di totale indegnità. La dottoressa mi parlò di protocolli rianimativi e
percorsi prestabiliti per i quali vige esclusivamente la
ricerca spasmodica della stabilità dei parametri vitali.
Mi spiegò cos’era lo «stato di necessità», un lasso temporale nel quale, data la gravità delle condizioni, si innescavano meccanismi tali da escludere la pratica del
«consenso informato»2 sia del paziente sia di chi ne
esercitava le veci. I medici erano autorizzati a compiere ogni manovra volta alla sopravvivenza della persona indipendentemente dalla volontà di chicchessia.
Le porte della ritirata erano sbarrate, la vita di
Eluana sotto il dominio dei protocolli rianimativi.
Cinque giorni dopo l’incidente ebbi un chiaro esempio della prassi che la dottoressa Mottura aveva cercato di descrivermi. I medici decisero di praticare a Eluana, già intubata dall’arrivo al pronto soccorso, una tracheotomia, un foro nella trachea per facilitare la ventilazione e permettere una maggiore igiene orale.
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Il primario del reparto di rianimazione, Riccardo
Massei, mi informò della pratica che presto sarebbe
stata avviata sul corpo di Eluana. Risposi che non avevo alcuna intenzione di firmare l’autorizzazione per
quel trattamento invasivo e il primario, con altrettanta
chiarezza, mi spiegò che non aveva bisogno di ottenere alcun tipo di consenso da parte di nessuno. Se l’équipe medica riteneva doveroso per la salvaguardia dei
parametri vitali della paziente praticarle una tracheotomia, l’avrebbe attuata nel pieno rispetto dei Codici
Civile, Penale e Deontologico. La loro consuetudine di
avvicinare i parenti prima di effettuare l’intervento sul
paziente non era motivata dalla ricerca del consenso
informato, da fornire al posto dell’interessato inconsapevole – consenso del quale non avevano alcuna necessità –, quanto da un’attenzione nei confronti dei parenti che avrebbero altrimenti potuto subire lo shock
di rivedere all’improvviso il loro caro con uno stoma
nella gola, attaccato a un macchinario che, tramite una
cannula, gli infonde aria nei polmoni.
Eluana fu dunque tracheostomizzata.
In seguito riprese a respirare da sola e il trattamento di respirazione artificiale venne definitivamente sospeso.
A poco più di un mese dall’incidente Eluana uscì dal
coma e riaprì gli occhi.
A questo evento non seguì però il ripristino della
coscienza. Eluana era sì vigile, intendendo con questa
espressione che nelle ore diurne apriva gli occhi: era
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presente in lei uno spontaneo ciclo sonno-veglia, ma
era totalmente scollegata rispetto all’ambiente circostante. Eluana non guardava, non rispondeva, non dava alcun segno di sé; era entrata in una fase transitoria
detta «stato vegetativo».
Come si spiega l’approdo a questa poco conosciuta condizione clinica? Cos’era successo nella scatola
cranica di Eluana, da giustificare un tale esito?
Una delle esperienze che accomuna chi vive accanto a una persona colpita da un grande male è l’iniziazione a un nuovo alfabeto – sconosciuto fino a poco
prima –, un linguaggio tecnico nel mio caso, con il
tempo divenuto dolorosamente familiare:
Con ogni verosimiglianza il trauma è all’origine sia
dell’emorragia nell’emisfero sinistro – che di per sé
non giustificherebbe uno SVP [stato vegetativo permanente] – sia e soprattutto di un danno diffuso delle fibre nervose della sostanza bianca degli emisferi (il cosiddetto danno assonale diffuso). Si può presumere
che siano stati interrotti almeno in gran parte i collegamenti, in entrata e in uscita, fra la corteccia cerebrale e i centri nervosi sottostanti. Il tronco cerebrale, invece, non risulta danneggiato completamente dal trauma, come dimostra la ripresa della respirazione spontanea e dell’alternanza sonno-veglia.3
Per comprendere il legame «causa-effetto» tra le lesioni cerebrali subìte nell’urto e i sintomi evidenziati
occorre far attenzione ad alcuni termini.
Sintetizzando grossolanamente, l’encefalo, l’intero
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contenuto della scatola cranica, comprende il cervello, il tronco encefalico e il cervelletto, che si prolunga
fuori, nel midollo spinale.
Il cervello è formato da due emisferi, destro e sinistro, connessi tra loro da una formazione mediana, il
corpo calloso, ed è suddiviso nei lobi frontale, parietale, occipitale e temporale. Ogni emisfero è formato da:
– la corteccia cerebrale (o materia grigia), lo strato
esterno che ricopre gli emisferi, sede, o perlomeno implicata nei processi, di: sensazione, percezione cosciente, analisi dei dati e attività connesse alle funzioni superiori (la memoria, il comportamento, il linguaggio).
Collegata ai centri sottocorticali, da essa partono,
inoltre, i comandi per l’esecuzione dei movimenti
volontari, che arrivano ai muscoli scheletrici. Se essa
risulta lesionata, l’impulso nervoso non raggiunge la
sede finale e dunque non si possono avere le sensazioni;
– la sostanza bianca, più profonda, sottostante la corteccia cerebrale, ricca di fibre nervose mieliniche che
connettono i neuroni della corteccia ai centri sottocorticali e al midollo spinale.
Il midollo spinale ha la funzione di innervare il corpo
umano con fibre che, dal corpo, tornano al midollo
cariche di informazioni sensitive e motorie (relative ai
movimenti dei muscoli); se esso viene lesionato si perdono tali funzionalità.
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Il tronco encefalico connette invece cervello e midollo spinale. In esso risiedono il centro per la regolazione vaso-motoria, il centro respiratorio, i nuclei di
origine dei nervi cranici e vi transitano tutte le vie afferenti (sensibilità somatica ma non la vista e il tatto)
ed efferenti (gli impulsi nervosi con cui gli emisferi
controllano la motilità). È sede inoltre del sistema reticolare attivatore ascendente, una rete di fibre che attiva i neuroni corticali, ponendoli in condizione di
funzionare. Il suo incarico è assicurare, insieme all’attività mediatrice del talamo, lo stato di vigilanza con il
continuo bombardamento della corteccia. Serve dunque a mantenerci svegli.
Eluana ha riportato lesioni sia alla corteccia cerebrale
sia alle aree sottostanti, la sostanza bianca e i centri sottocorticali, che hanno così interrotto il collegamento
tra cervello e corpo, e annullato la capacità ricettiva
agli stimoli della corteccia stessa. L’impulso che non arriva più alla corteccia raggiunge invece le aree sottocorticali, nelle parti rimaste integre, e ciò spiega perché
viene mantenuta una reattività agli stimoli esterni,
un’attività riflessa, automatica, non modificata dall’apprendimento. Anche il midollo spinale è rimasto fortemente lesionato a seguito della rottura dell’epistrofeo,
la seconda vertebra cervicale. Il tronco encefalico, pur
traumatizzato, continua invece ad assolvere al suo
compito di regolatore delle funzioni vegetative: per18
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mette la respirazione spontanea, il ciclo sonno-veglia,
mantiene costante la temperatura corporea, la produzione di ormoni e il livello di pressione del sangue.
Quindi perché non è riemersa la coscienza o la consapevolezza di sé e del mondo esterno? Perché questa
è data dalla complicata interazione di corteccia, talamo, e tronco,4 e nel caso di Eluana, questa possibilità
è venuta meno, secondo la documentazione clinica sul
caso, in modo irreversibile.
Con l’approdo allo stato vegetativo persistente (per
definizione, vedremo, si dice tale uno stato vegetativo che si protrae per più di un mese) la condizione
clinica di Eluana si fece stabile e cominciò l’assistenza quotidiana con le terapie necessarie – allora come
adesso – per mantenerla in vita: la nutrizione e idratazione artificiale, un presidio medico in grado di
nutrire il paziente impossibilitato a farlo da sé, i farmaci contro l’epilessia, le vitamine e un insieme di
cure riabilitative atte a impedire la formazione di
piaghe da decubito e l’atrofizzazione degli arti.
Iniziò così la seconda fase del decorso clinico di
Eluana: un percorso riabilitativo intenso che potesse
coadiuvare una qualche forma di ripresa della vita cognitiva e di relazione.
Era la fine del febbraio 1992.