Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Papa Bonifacio VIII Bonifacio VIII, nato Benedetto Caetani (Anagni, 1230 circa – Roma, 1303), è stato il 193º papa della Chiesa cattolica dal 1294. Era discendente di un ramo della famiglia pisana Caetani (o Gaetani), che poté acquisire ulteriori ricchezze e grandi latifondi sfruttando la sua carica pontificia. Le regole per l'elezione ed il ripristino della Ubi Periculum Contrariamente a quanto avvenuto spesso nel passato, il conclave successivo alla rinuncia di Celestino V fu radunato nella città di Napoli nei dieci giorni seguenti l'inizio della Sede vacante ed ebbe una durata molto breve. Tutto ciò fu dovuto alle disposizioni contenute nella costituzione apostolica Ubi Periculum sull'elezione pontificia, promulgata da papa Gregorio X (il piacentino Tedaldo Visconti). La costituzione Ubi Periculum conteneva disposizioni molto precise, rigide e vincolanti per l'elezione papale, al fine di sottrarla ad ogni ingerenza che non fosse strettamente ecclesiastica. Prescriveva, infatti, l'obbligo del conclave per il Sacro Collegio, che avrebbe dovuto tenersi, obbligatoriamente, entro dieci giorni dall'inizio della Sede vacante, nella stessa città ove era scomparso il papa precedente. Passati i dieci giorni previsti, il Sacro collegio doveva essere segregato in conclave sotto la sorveglianza del Podestà, che diveniva il custode del conclave. Inoltre, se entro tre giorni dall'apertura del conclave stesso il papa non fosse stato ancora eletto, si sarebbero dovute applicare norme gradualmente restrittive sui pasti e sul reddito dei porporati, fino a ridurli a pane ed acqua. Tutte queste disposizioni erano finalizzate non solo ad evitare che l'elezione del papa fosse condizionata dal popolo o dai nobili, ma anche ad impedire che l'elezione stessa si trasformasse in una lunga ed estenuante trattativa basata su operazioni di mercimonio, come frequentemente avveniva in quei tempi. La Ubi Periculum venne peraltro abrogata da papa Giovanni XXI, ma fu ripristinata quasi completamente da papa Celestino V, che voleva evitare le lungaggini ed i problemi che avevano preceduto la sua elezione. Appena dieci giorni dopo l'abdicazione di papa Celestino V i componenti del Sacro Collegio si riunirono in conclave nella città di Napoli. Fu eletto papa il cardinale Caetani e assunse il nome pontificale di Bonifacio VIII. Aveva circa 64 anni. La segregazione e la morte di Celestino V Come primo atto del suo pontificato, dopo aver riportato la sede papale da Napoli a Roma per sottrarre l'istituzione all'influenza di re Carlo II d'Angiò, annullò o sospese tutte le decisioni assunte dal suo predecessore Celestino V, riconoscendo valida soltanto la creazione dei dodici nuovi cardinali. Immediatamente dopo, a causa dell'ostilità dei cardinali francesi, ebbe timore che il suo predecessore, Pietro del Morrone, ritornato semplice frate, potesse essere cooptato dai porporati transalpini come antipapa. Bonifacio VIII quindi lo fece arrestare da Carlo II d'Angiò, lo stesso monarca che pochi mesi prima ne aveva sostenuto l'elezione pontificia, e lo fece rinchiudere nella rocca di Fumone, di proprietà della famiglia Caetani, dove rimase fino alla morte (1294). Poco dopo diede inizio al processo di canonizzazione, che fu accelerato e concluso pochi anni dopo da papa Clemente V su pressione del re di Francia Filippo IV il Bello e dei fedeli. La Sicilia agli Aragonesi A Napoli governava Carlo II d'Angiò detto lo Zoppo, e in Sicilia Federico III d'Aragona (12731337), fratello di re Giacomo II che, a sua volta, era passato nel 1291 al trono d'Aragona. 1 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Nel 1295 Giacomo II sottoscrisse il Trattato di Anagni con il quale rinunciava a tutti i diritti sulla Sicilia in favore del Papa, che, a sua volta, li trasferiva a Carlo lo Zoppo. Il trattato fu fortemente osteggiato dalla nobiltà locale in Sicilia dove la casa angioina era fortemente impopolare; tale risentimento si tradusse in una rivolta popolare a favore del re Federico d'Aragona. Il Papa dovette acconsentire incoronando Federico re di Sicilia nella cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296. L'incoronazione fu sanzionata successivamente e definitivamente mediante la Pace di Caltabellotta (già ricordata nella lezione XIV) L'idea teocratica e la tassazione degli ecclesiastici Bonifacio VIII riteneva infatti, più di suoi predecessori che si erano già orientati in questo senso, come Gregorio VII, Innocenzo III e Gregorio IX, che l'autorità del papa fosse al di sopra del potere dei regnanti, i quali, come battezzati, erano sottoposti come gli altri fedeli alla Chiesa. All'interno di questa si collocava la cosiddetta Christianitas, ossia la comunità socio-politica dei popoli cristiani. Il capo naturale della Chiesa, cioè il Papa, era perciò anche il capo della Cristianità; data la concezione gerarchica del potere nel medioevo, ne derivava che quello spirituale potesse indirizzare e guidare il temporale, in qualunque questione che implicasse il bene delle anime o la prevenzione e la repressione del peccato. È questa la concezione detta generalmente teocrazia pontificia. Avendo espulso dalla sfera sacrale l’imperium degradandolo di fatto ad una istituzione profana (anche se bisognosa della consacrazione religiosa per esercitare il suo potere), ora il Papato aveva come avversario l'autorità regia dei singoli stati sovrani. L'idea bonifaciana non era dunque nuova, ma nuovo era l'ambito di applicazione. Tra i teologi che maggiormente sostennero l’idea teocratica di Bonifacio vi furono i due studiosi agostiniani Egidio Romano e Giacomo da Viterbo: quest'ultimo, in particolare, con il suo trattato De regimine christiano approfondì e sostenne i temi del potere temporale e del papato inteso come teocrazia. Il primo atto della politica teocratica di Bonifacio avvenne con l'emanazione della bolla Clericis laicos, nel 1296, mediante la quale il papa ribadiva la proibizione ai laici, sotto la pena di scomunica, di tassare gli ecclesiastici, ed a questi ultimi di pagare i tributi eventualmente richiesti. Infatti, durante la sede vacante del 1292-1294, tale norma era stata violata in Francia e Inghilterra. Il re di Germania, Adolfo di Nassau - Vilburgo, candidato alla nomina imperiale, non si oppose per motivi di opportunità. Egli, infatti, mirava alla corona imperiale, per cui aveva bisogno dell'incoronazione papale. Anche in Inghilterra re Edoardo I Plantageneto dovette accettare formalmente il rifiuto dei vescovi al pagamento delle imposte. La Francia assunse, invece, una posizione molto diversa. Il re Filippo IV il Bello, non respinse la bolla papale (altrimenti sarebbe incorso nella scomunica), ma emise una serie di editti, nei quali vietava a chiunque, laico od ecclesiastico che fosse, l'esportazione di denaro e preziosi. In questo modo le rendite percepite dalla Santa Sede in Francia, la nazione più ricca dell'Occidente, non sarebbero state consegnate a Roma. La posizione di re Filippo fu talmente astuta che il Papa si vide costretto ad addivenire ad un accordo, autorizzando il re francese a riscuotere le imposte dal clero, in caso di estrema necessità, anche senza la preventiva autorizzazione pontificia. I contrasti con la curia: i Colonna A causa del suo atteggiamento arrogante ed accentratore, il pontefice aveva provocato l'insorgere di uno schieramento a lui ostile, sia nella Curia che nell'aristocrazia romana. Questo schieramento era capeggiato dai cardinali Giacomo Colonna e Pietro Colonna - acerrimi nemica della famiglia dei Caetani - i quali sostennero che la sua elezione era da ritenere illegittima poiché non doveva essere considerata valida l'abdicazione di papa Celestino V. Questa posizione, che poteva preludere ad un possibile scisma, era fortemente appoggiata anche da tutto il movimento dei Francescani spirituali. 2 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo La perdita di potere interno aveva, quindi, indotto il Pontefice ad essere più tollerante verso le resistenze di Filippo il Bello. Ai Francescani spirituali si aggregarono, contro Bonifacio, anche i Celestini: l'insieme di questi due gruppi di religiosi prese il nome di Bizochi. La lotta all'interno delle istituzioni ecclesiastiche toccò il suo culmine nei primi giorni del maggio 1297, quando i due Colonna, alcuni loro familiari ed amici e tre Francescani spirituali sottoscrissero un memoriale con il quale il papa veniva dichiarato decaduto, sempre a causa della sua illegittima elezione, con espresso invito ai fedeli a non portargli più obbedienza. La durissima reazione del Pontefice non si fece attendere: i due cardinali furono destituiti e scomunicati ed i beni di famiglia confiscati. Si aprì così una vera e propria guerra tra il papa ed i Colonna, nella quale questi ultimi speravano in un intervento del re di Francia, ma Filippo il Bello non desiderava ulteriori contrasti con Bonifacio in quel particolare momento. A conclusione della contesa con i Colonna, i due porporati dovettero riparare in Francia sotto la protezione di Filippo il Bello, e i loro beni furono confiscati e divisi tra un ramo dei Colonna vicino al papa e la famiglia degli Orsini, anch'essi acerrimi nemici dei Colonna. Il 3 ottobre 1299 Papa Bonifacio accettò dal libero comune di Velletri l'elezione a podestà per una legislatura (6 mesi). L'istituzione del Giubileo Uno dei più importanti successi del pontificato di Bonifacio fu senz'altro l'istituzione del Giubileo. Sul finire del 1299 moltissimi pellegrini si erano radunati a Roma, spinti da un vero e proprio moto popolare spontaneo, che rendeva pieno di grandi aspettative il secolo che stava per iniziare. Prendendo così spunto da questa vasta iniziativa spontanea ed ispirandosi sia alla leggenda dell’Indulgenza dei Cent'anni, risalente almeno a Innocenzo III, che alla Perdonanza, voluta dal suo predecessore Celestino V, Bonifacio istituì l'Anno Santo, nel quale potevano lucrare l'indulgenza plenaria tutti i fedeli che avessero fatto visita alle Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura. Secondo molti storici il giubileo rappresentò per il papa «una breve ma felice parentesi di pace», che gli permise, tra l'altro, di rimpinguare le finanze pontificie; egli infatti temeva il blocco delle "decime", ed istituì il Giubileo anche per motivi economici. In tal senso fu sicuramente piuttosto notevole l'afflusso di denaro, ma il papa non ricevette l'omaggio dei sovrani d'Europa e questo fu per lui motivo di grande delusione. Le assenze dei regnanti volevano in qualche modo significare che la sua aspirazione di riunire nelle sue mani sia il potere spirituale che quello temporale era probabilmente soltanto un'illusione. La questione fiorentina: Bianchi e Neri, Carlo di Valois, Dante In quegli stessi anni esplose con violenza la diatriba fiorentina tra le due parti della città, storicamente e tradizionalmente guelfa, ma divisa tra la famiglia dei Cerchi, di recente ricchezza commerciale e finanziaria, e quella dei Donati, di antica nobiltà oligarchica. I Cerchi furono identificati con i Bianchi, ed i Donati con i Neri. La controversia fra le due parti fu durissima e senza esclusione di colpi: il 18 aprile 1300 tre fiorentini residenti alla corte pontificia furono condannati per alto tradimento: il papa intervenne subito in loro difesa ed inviò in città, anche dopo i gravi disordini di Calendimaggio del 1300, il cardinale Matteo d'Acquasparta, con poteri molto ampi. Peraltro il cardinale non ottenne i risultati sperati dal pontefice e fu, anzi, costretto, dopo un grave attentato alla sua persona, a lasciare Firenze, decretando la scomunica contro i maggiorenti cittadini e l'interdetto contro l'intera città. Bonifacio decise allora di mandare a Firenze Carlo di Valois, già accolto in Italia con grandi onori, che fu nominato, tra l'altro, paciere di Toscana, ed intervenne nella città, con i suoi numerosi armati e con grande determinazione, tra il novembre 1301 e l'aprile 1302, portando alla supremazia della parte Nera (Donati), maggiormente gradita al pontefice. 3 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo In quegli stessi anni Dante Alighieri, che apparteneva alla parte Bianca, e ricopriva importanti incarichi di governo nella città, si trovò più volte in contrasto con il papa: agli inizi del 1302 Dante venne inviato e Roma con un'ambasceria per trovare un accordo con Bonifacio, ma fu trattenuto presso la corte papale -anche con pretesti- per lunghissimo tempo, forse per ordine del pontefice, mentre, in quello stesso periodo, il nuovo Podestà di Firenze, Cante Gabrielli, lo condannava al rogo ed alla perdita delle proprietà. Dante, di fatto esiliato, non rientrò mai più in Firenze e maturò una forte avversione per il pontefice, che riteneva responsabile della sua disgrazia. I nuovi contrasti con Filippo il Bello Vi erano stati, nel frattempo, profondi cambiamenti nella situazione della Germania, ove vi era un nuovo Re dei Romani nella persona di Alberto I d'Asburgo, che aveva affrontato in battaglia Adolfo di Nassau, sconfiggendolo ed uccidendolo. Il nuovo re tedesco aveva incontrato quasi subito Filippo il Bello nei pressi di Vaucouleurs, stringendo un accordo con lui (dicembre 1299). Questa alleanza contrastava con i desideri del Papa che, da un lato, intendeva sottrarre la Chiesa francese al controllo di re Filippo e, dall'altro, temeva fortemente una ripresa delle mire dell'imperatore tedesco sull'Italia, mire che erano cessate con la fine della casa di Svevia nel 1266. La cosa, ovviamente, irritò e preoccupò notevolmente Bonifacio VIII, anche perché Filippo, pochi mesi prima (luglio 1299), aveva accolto presso la sua corte i Colonna. Una vicenda religiosa acuì ulteriormente la crisi tra Bonifacio e Filippo il Bello: nel marzo 1298 il conte Ruggero Bernardo IV di Foix si impadronì dell’abazia di San Antoine – di cui era abate il Saisset- sotto protezione papale; la reazione del pontefice fu energica e rapida: scrisse al re una dura lettera in cui lo rimproverava per la sua inattività nella vicenda, minacciò di scomunica il conte e, finalmente, eresse a diocesi la città di Pamiers, nominandone vescovo proprio il Saisset. Filippo, stimolato anche dal conte di Foix, nell'ottobre 1301 fece arrestare il Saisset con l'accusa di alto tradimento, confiscandogli anche il patrimonio. La risposta di Bonifacio VIII non si fece attendere e giunse il 4 dicembre 1301 con la bolla Salvator Mundi, mediante la quale il papa abolì tutti i privilegi ch'egli aveva concesso a re Filippo allorquando lo aveva autorizzato a riscuotere le imposte agli ecclesiastici. anche senza il consenso papale. Inoltre convocò l'episcopato francese e lo stesso re ad un sinodo, da tenersi a Roma l'anno seguente, al fine di definire una volta e per sempre i rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Questo atteggiamento autoritario del pontefice provocò l'immediata reazione di Filippo IV. Nel corso degli Stati Generali, riuniti a Parigi per la prima volta da Filippo il 10 aprile del 1302, egli ottenne l'approvazione unanime dell'assemblea alla stesura di una lettera indirizzata al Papa, nella quale veniva respinta la posizione del pontefice. Il re inoltre proibì ai vescovi francesi di recarsi a Roma per il sinodo. La Unam Sanctam: le conseguenze Nel corso del sinodo, al quale parteciparono trentanove vescovi francesi nonostante il divieto di Filippo il Bello, il 18 novembre 1302 Bonifacio VIII emanò la celebre bolla Unam Sanctam, nella quale veniva ribadito dogmaticamente il seguente concetto: «…nella potestà della Chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa, quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote [...], la potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale [...], chi si oppone a questa suprema potestà spirituale, esercitata da un uomo ma derivata da Dio, nella promessa di Pietro, si oppone a Dio stesso. È quindi necessario per ogni uomo che desidera la sua salvezza assoggettarsi al vescovo di Roma». In caso di inosservanza di quanto decretato dal papa la pena era la scomunica. 4 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo La reazione di Filippo IV fu estremamente determinata e decisa anche questa volta, ma con scopi definitivi: infatti il suo obiettivo finale era procedere infine alla sua deposizione. In ciò gli furono molto utili le testimonianze dei Colonna, che erano stati scomunicati da papa Bonifacio e si trovavano ancora sotto la protezione del re. La decisione di processare il papa fu adottata da Filippo nel corso di una riunione del Consiglio di Stato da lui convocata al Louvre il 12 marzo 1303. Occorreva però la presenza del pontefice al processo. A tal fine il sovrano incaricò il Consigliere di Stato Guglielmo di Nogaret di catturare il papa e condurlo a Parigi. Il pontefice, venuto a conoscenza delle manovre del re, tentò di guadagnare l'amicizia del re dei Romani, Alberto I d'Asburgo, sottraendolo all'alleanza con il re di Francia. Venuto a conoscenza che Alberto d'Asburgo era stato riconosciuto dal Papa re di Germania e temendo di averne perso l'alleanza, re Filippo cercò di accelerare i tempi per la messa in stato di accusa del Papa. Numerose furono le accuse formulate verso il Caetani quella di aver fatto assassinare il suo predecessore Pietro da Morrone, già papa Celestino V, di negare l'immortalità dell'anima e di aver autorizzato alcuni sacerdoti alla violazione del segreto confessionale, di simonia, di sodomia, di eresia e di molte altre colpe. Sulla base di queste infamanti accuse, il re propose di convocare un Concilio per la destituzione del Pontefice e la sua proposta fu approvata anche dalla quasi totalità del clero francese. Lo schiaffo di Anagni e la morte All'inizio di settembre del 1303 il Nogaret e Sciarra Colonna, entrati indisturbati in Anagni, riuscirono a catturare il papa dopo un assalto al palazzo pontificio e per tre giorni Bonifacio restò nelle mani dei due congiurati, che non risparmiarono ingiurie alla persona del pontefice (l'episodio è noto come lo schiaffo di Anagni, anche se pare che in realtà il papa non sia stato colpito fisicamente ma pesantemente umiliato). Le numerose ingiurie inferte al papa, unitamente al contrasto tra il Nogaret e il Colonna sul destino del Caetani, che li rese dubbiosi ed indecisi (il primo lo voleva infatti prigioniero a Parigi, il secondo lo voleva morto), indussero la città di Anagni a rivoltarsi contro i congiurati e a prendere le difese del papa concittadino. Vi fu pertanto un'inversione di rotta da parte della borghesia di Anagni che mise in fuga i congiurati e liberò il papa, guadagnandosi la sua benedizione ed il suo perdono. Morì l'11 ottobre del 1303 e fu sepolto nella Basilica di San Pietro. Le spoglie del pontefice, invece, furono sistemate nelle Grotte Vaticane, dove si trovano tuttora, nel bel sarcofago funerario realizzato da Arnolfo di Cambio. Il processo post mortem contro Bonifacio VIII e lo spostamento della sede pontificia ad Avignone In una riunione del Consiglio di Stato, tenutasi il 13 e 14 giugno del 1303, il processo venne formalmente istruito con la formulazione delle accuse contro Bonifacio VIII. I capi d'accusa contro il papa furono ben ventotto o addirittura ventinove. Dopo la morte di Bonifacio la situazione cambiò radicalmente, ma il re, anziché fermare il processo, capì che, continuandolo, avrebbe avuto in mano un'arma pesantissima contro il papato; così, qualche tempo dopo, le vicende del processo finirono per intrecciarsi strettamente con le vicende di papa Clemente V, che era stato eletto al soglio pontificio il 5 giugno 1305, al termine del lungo conclave perugino seguito alla morte di papa Benedetto XI, successore per soli otto mesi di Bonifacio VIII. Clemente V, che era francese ed aveva trasferito in Francia la curia pontificia, finì per aderire alle incessanti pressioni di Filippo il Bello e riprese il processo contro Bonifacio tra il 1310 ed il 1313, anno in cui riuscì a concludere il processo stesso senza che il defunto pontefice venisse condannato, pagando peraltro al re francese, per questo compromesso, un pesante tributo in termini 5 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo di concessioni: furono infatti annullate tutte le sentenze di Bonifacio contro Filippo, contro la Francia e contro i Colonna; furono assolti da ogni accusa gli autori dell'oltraggio di Anagni; fu infine proclamato, con il decreto papale «Rex gloriae virtutum», che, nelle azioni contro Bonifacio, il re di Francia era stato mosso da «zelo e giustizia». Filippo otterrà anche da Clemente V la soppressione dell'Ordine dei Templari, dei cui ingentissimi beni il sovrano francese riuscirà ad impadronirsi. Roma Il successore di Bonifacio VIII, Papa Clemente V non mise mai piede a Roma, iniziando la serie di pontefici che ebbero la propria residenza presso la città francese di Avignone. Fu un periodo di forte decadenza per Roma, la cui economia si basava in larga parte sulla presenza della corte papale e sui pellegrinaggi. La rivalità tra gli Orsini e i Colonna non smise di manifestarsi, in particolare in occasione dell'arrivo in città nel 1312 dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo, detto anche Arrigo, il quale dovette aprirsi con le armi la strada verso la Basilica di San Pietro. Papa Giovanni XXII nominò quindi Senatore della città e suo vicario, il re di Napoli Roberto d'Angiò, che governò la città per mezzo di funzionari. Nel 1328 giunse a Roma l'imperatore Ludovico il Bavaro, che venne incoronato da Sciarra Colonna nonostante l'opposizione del papa, causando l'interdetto papale contro la città. Nei successivi disordini l'imperatore fu costretto ad asserragliarsi entro le mura del Vaticano. Dopo la sua partenza Roberto d'Angiò riprese la carica di Senatore, che successivamente passò di nuovo allo stesso pontefice, Benedetto XIII Cola di Rienzo (Roma 1313-1354) Era di umilissime origini. Si mostrò fin da giovanissimo, oltre che di bell'aspetto, di intelligenza assai vivace, e appassionato dell'antichità in mezzo ai cui ruderi viveva. Ottimo oratore, divenne notaio, e in questa veste fu mandato ad Avignone alla corte papale come ambasciatore del governo popolare di Roma, detto dei «Tredici buoni uomini», presso papa Clemente VI. Il papa lo apprezzò molto ed egli colse l'occasione di questa familiarità per lamentare i soprusi dei baroni romani, attirandosi così le ire del cardinale Giovanni Colonna. Tornò tuttavia a Roma nel 1344 con l'incarico di notaio della Camera Apostolica, istituzione dello Stato pontificio che attraverso i suoi componenti - camerlengo, tesoriere, commissario, chierici di camera ed altri - amministrava le finanze e osservava le competenze legislative e giudiziarie. Ora aveva diritto di parlare pubblicamente nel palazzo senatorio, e cominciò con l'ammonire «li officiali e li rettori che dovessino provvedere allo buono stato della citate». Per farsi capire anche dalla stragrande maggioranza analfabeta dei romani fece dipingere sul Campidoglio un grande affresco dove si vedeva un mare tempestoso: in mezzo c'era Roma, dolente e vestita a lutto, e circondata da altre donne già morte che rappresentavano le antiche città potenti e cadute: Babilonia, Cartagine, Troia, Gerusalemme. A sinistra, su due isolette, l'Italia e le virtù cardinali, tristi e spaventate. A destra, su un'altra isoletta, la Fede cristiana che pregava: «O summo patre, duca e signor mio, se Roma père dove starraio io?». A minacciarla, sullo stesso lato, vari piani di animali: leoni, lupi e orsi a rappresentare i baroni; cani, porci e caprioli a rappresentare i loro clienti; pecoroni, dragoni e volpi a rappresentare i popolari intenti, all'ombra dei precedenti, ai propri affari ingiusti. A beneficio di chi sapeva leggere, tutte le figure avevano il loro cartiglio, a mo' di fumetto moderno. Il popolo, riferisce il cronista, guardava e stupiva. 6 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo In Laterano ritrovò poi, utilizzata come tavola d'altare, la lex de imperio Vespasiani, nella quale il Senato romano investiva Vespasiano del potere imperiale. Cola la pubblicò installandola al centro di un altro affresco che rappresentava il Senato romano e convocando in Laterano una grande assemblea dei potenti di Roma, a cui la lesse, intendendo con ciò sostenere che dovevano essere i romani a conferire il potere all'imperatore. Il successivo exploit iconografico fu un terzo affresco fatto eseguire nella chiesa di Sant'Angelo in Pescheria, dove erano rappresentati sulla sinistra una gran fiamma quasi infernale nella quale ardevano nobili e popolari, e Roma nella figura di una vecchia donna che cercava di scampare al fuoco. Sulla destra, in cima all'altissimo campanile di una chiesa da cui usciva l'Agnello, stavano San Pietro e San Paolo che invocavano salvezza «alla albergatrice nostra». Una colomba portava una corona di mortella e la passava ad un uccellino assai piccolo per mandarla, in segno di salvezza, all'antica donna. L'ascesa al Campidoglio I ragionamenti di Cola sul bisogno di sollevare la città dalla prepotenza dei baroni e dalla miseria che ne nasceva fecero breccia in un gruppo di cittadini e presso lo stesso vicario del papa. Alla fine di aprile del 1347 Cola di Rienzo salì al Campidoglio con un centinaio di uomini di scorta, preceduto da tre gonfaloni che rappresentavano: il primo, rosso a lettere d'oro, Roma seduta tra due leoni con il mondo in una mano e la palma della vittoria nell'altra; il secondo, bianco, rappresentava san Paolo con la corona della giustizia e la spada in mano; il terzo, san Pietro, "con le chiavi della concordia e della pace". Il popolo andò ad ascoltare, e Cola proclamò i suoi ordinamenti dello buono stato. L'obiettivo di Cola era fare anche di Roma, nonostante fosse sede del papa e teoricamente anche dell'imperatore, un Comune dotato di propri ordinamenti e risorse, governato da rappresentanti del popolo di Roma, animato dalla memoria della sua grandezza. Gli ordinamenti prevedevano quindi un sistema di regole finalizzato a: limitare la violenza privata; destinare le risorse pubbliche al sostegno dei cittadini (aiuti ad orfane, vedove, monasteri; granai pubblici ai quali ricorrere in caso di bisogno; divieto di demolizione degli antichi edifici, che dovevano essere conferiti al Comune); stabilire nuovi rapporti politici con i baroni e con le città vicine (che essi tenevano infeudate). Questo programma di governo era l'esatto contrario di quanto concretamente accadeva, ed entusiasmò il popolo, che conferì a Cola la signoria del comune (associandogli tuttavia il rappresentante del papa). Il conflitto con i baroni La prima reazione dei baroni fu rabbiosa: Stefano Colonna, che l'editto di Cola aveva sorpreso a Corneto, tornò precipitosamente a Roma a stracciarlo pubblicamente. Il popolo però, richiamato dalle campane a stormo, intervenne con furore e mise in fuga il Colonna, e anzi, il giorno dopo Cola comandò che i baroni si ritirassero nei loro castelli fuori città abbandonando i ponti che 7 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo occupavano, e così fu fatto. Dopodiché, Cola fece giustizia sommaria dei loro uomini trovati in città e che si erano resi protagonisti di violenza, facendosi poi nominare «Tribuno del popolo romano» (l'altro era il vicario papale). I baroni tentarono allora di organizzare una congiura contro il tribuno ma, rissosi e competitivi com'erano, non riuscirono ad accordarsi neppure contro il nemico comune. Forse preoccupati per la piega presa dalla situazione, ma soprattutto convinti, ognuno, di poter avere personalmente ragione di Cola in danno dei propri pari, vennero invece, uno per volta, ad arrenderglisi, accettando di giurare sul Vangelo fedeltà al Tribuno e ai Romani. La rinascita della città Cominciò allora un breve periodo in cui sembrò che Roma, partendo dalla memoria dell'antica grandezza, potesse sviluppare una civiltà comunale: le classi che allora rappresentavano la modernità e altrove conducevano le città fuori dal Medioevo - giudici, notai, mercanti - vennero a giurare fedeltà al nuovo Comune; in Campidoglio si amministrava una giustizia equa, severa contro i baroni ma anche contro i popolani che avessero approfittato del proprio ufficio; i vessatori fuggivano dalla città. Tutta Roma, compresa la maggior parte dei nobili, mostrava a Cola grande rispetto e attaccamento e pagava al Comune senza protestare i tributi prima prelevati dai signori feudali. Non mancarono guerre, ai pochi che non volevano assoggettarsi come il signore di Viterbo, con i quali Cola, forte della propria armata e della propria fama, concluse una pace equa. Cola intraprese anche una sua politica estera, mandando messi per l'Italia a città e nobili, all'Imperatore e al Papa, ad annunciare la nuova Roma. La caduta Poi l'incantesimo si ruppe: in Cola il sentimento della grandezza, di Roma e sua propria, cominciò a sconfinare nel delirio. Si proclamò cavaliere, nel battistero di San Giovanni, tra grandi festeggiamenti e proclamazioni (che cominciavano a suscitare resistenze e mormorii). Poi, in Campidoglio, fece arrestare i Colonna e gli Orsini che lo avevano sostenuto minacciandoli di esecuzione. Per quella volta fu convinto a soprassedere, ma quelli ripararono nei loro castelli e i Colonna da Marino cominciarono a fare scorrerie contro Roma. Cola prima gli devastò le terre poi li sconfisse nella Battaglia di Porta San Lorenzo (20 novembre 1347), ma intanto la sua mente svaniva: si convertì in tiranno, si abbandonò al lusso e alla gola. Il legato pontificio lo abbandonò, i baroni rialzarono la testa, il popolo non accorse più alle scampanate. Spaventato a morte e dicendosi vittima dell'invidia Cola si rifugiò a Castel Sant'Angelo, mentre il legato lo dichiarava eretico e nominava nuovi senatori. Il ritorno e la morte Cola riuscì a fuggire da Roma, travestito da frate, rifugiandosi prima in Boemia presso il re Carlo IV (1346-1378), dove riprese la vita di studioso ed ebbe grandi onori, poi, contro l'opinione generale, decise di andare a presentarsi al papa in Avignone. Il papa era allora Innocenzo VI, che prima imprigionò blandamente Cola, poi lo esaminò, riconobbe che non era eretico e si convinse a revocare il suo processo e a rimandarlo a Roma, con il cardinale di Spagna Egidio Albornoz suo legato. Era il 24 settembre 1353. Durante il viaggio verso Roma fu fatto segno a grandi manifestazioni di meraviglia per essere scampato e, almeno a parole, di consenso politico. Ma il potere chiede denaro. A Perugia il legato non sborsò uno scudo, ma nominò Cola senatore e lo autorizzò a rientrare a Roma. Cola riuscì con 8 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo qualche fatica a farsi finanziare il viaggio e una compagnia di qualche centinaio di armati, fra mercenari tedeschi e cittadini di Perugia, da Arimbaldo de Narba, perugino, che aveva convinto di poter diventare, con lui, signore di Roma. Arrivato a Roma, il popolo gli uscì incontro con grande cordialità e lo accompagnò festoso dalla porta di Castello fino a Campidoglio, ascoltò entusiasta il suo discorso. Presto però si vide che l'uomo, pur mantenendo la sua grande abilità oratoria, era diventato un grasso ubriacone incline a straparlare, assetato di vendetta contro chi lo aveva scacciato da Roma, traditore per giunta, giacché fece condannare i suoi sostenitori perugini per confiscarne i beni, e, costretto com'era a procurarsi denaro per mantenere i suoi soldati, anche esoso. Le nuove gabelle che infliggeva lo resero presto inviso. L'8 ottobre 1354, un suo capitano che aveva destituito sollevò il popolo e lo condusse a Campidoglio. Là Cola, abbandonato da tutti i suoi, tentò per l'ultima volta di arringare i romani, che risposero dando fuoco alle porte. Cola allora cercò di scampare travestendosi da popolano pezzente, alterando anche la voce. Ma fu riconosciuto dai braccialetti d’oro che non si era tolto, smascherato e condotto in una sala per essere giudicato. «Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo uomo era ardito toccarelo», finché un popolano «impuinao mano ad uno stocco e deoli nello ventre.» Gli altri seguirono, ad infierire, ma Cola era già morto. Il cadavere fu trascinato fino a San Marcello in via Lata, di fronte alle case dei Colonna, e lì lasciato appeso per due giorni e una notte. Il terzo giorno fu trascinato a Ripetta, presso il Mausoleo di Augusto, che era sempre un territorio dei Colonna, lì bruciato (commenta l'Anonimo: «Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri»), e le ceneri disperse. La memoria Benché non fosse mai stato anticlericale, ma anzi avesse sempre accuratamente coltivato il sostegno papale alle proprie imprese, la figura di Cola di Rienzo fu assai cara all'immaginario risorgimentale e massone, che ne fece l'eroe antesignano di un risorgimento di Roma rimasto incompiuto. A lui furono dedicate nel 1872 una lapide nei pressi della casa di nascita a san Bartolomeo dei Vaccinari, e nel 1887 la statua ai piedi del Campidoglio, il cui basamento, formato da un insieme di frammenti architettonici di epoca romana e importante almeno quanto la figura, rappresenta appunto il sogno di Cola di ripristino dell'antica gloria di Roma. Gli fu inoltre intitolato il principale rettifilo del nuovo rione Prati, destinato a ospitare le prestigiose abitazioni dei funzionari dello Stato umbertino. La “cattività avignonese” dei papi (1309-1377) Un altro degli aspetti della crisi del Trecento è quello che tocca il Papato. La nuova realtà degli stati nazionali (la Francia di Filippo il Bello, nella fattispecie) fosse sempre più arrogante e insofferente nei confronti della Chiesa e del Papato. Si giunge infatti al trasferimento della sede papale da Roma, ad Avignone, città formalmente di sovranità pontificia, ma circondata dal regno di Francia. Per quasi settant'anni, dal 1309 al 1377, i Papi, sette in tutto, eletti da un collegio di cardinali in cui i francesi avevano la prevalenza, risiedettero ad Avignone. Si è soliti definire quel periodo di storia del Papato come l'esilio o la "cattività" avignonese, istituendo una analogia col periodo che il popolo eletto dovette trascorrere, in condizioni di analoga non-libertà, a Babilonia. In effetti i Papi di Avignone furono, se non prigionieri del Re di Francia, almeno fortemente condizionati dal trovarsi in un territorio di fatto francese. Uno dei maggiori storici della Chiesa, il Lortz, definisce quel periodo come "un terribile colpo inferto sia alla forza interna, che al prestigio del Papato". La massima autorità della Chiesa, in modo incomprensibile alla stragrande 9 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo maggioranza dei fedeli, sposta la sua sede abituale per trasferirsi in una città del Mezzogiorno di Francia, che non aveva niente di significativo per la fede. Ciò facendo i Papi cedono alle pressioni del Re di Francia e finiscono per essere condizionati assumendo spesso iniziative concrete che riducevano il loro prestigio e la loro credibilità. La curia papale di Avignone infatti si dedica in modo eccessivo a questioni di carattere fiscale e finanziario, trascurando altri compiti. Tale fiscalismo esoso era funzionale al mantenimento di una vita di corte "sfarzosa". Inoltre troppo spesso il Papa ricorreva all'interdetto e alla scomunica, per motivazioni non proporzionate a tali, eccezionali, misure punitive. Un tale abuso finì col rendere quelle misure inefficaci, in quanto l'arma dell'interdetto, ove applicata fedelmente, comportava l'isolamento dalla vita sacramentale, anche per la durata di anni, per un elevato numero di fedeli. Non a caso è in quel contesto che fioriscono discussioni sulla possibilità che un Papa sia eretico. Di fatto le accuse in tal senso contro Bonifacio VIII erano state evidentemente strumentali. Nel Papa in effetti si vede sempre più un sovrano politico accanto ad altri. È però giusto ricordare come, in tale periodo stesso, la maggiore responsabilità diretta della mondanizzazione della Chiesa va attribuita piuttosto alla curia pontificia, divenuta un pesante e potente apparato, che ai singoli Papi i quali in realtà cercarono di porre un freno agli abusi curiali. Gregorio XI (1370-1378) venne sollecitato da molte parti a ritornare a Roma: in quest'opera di convincimento fu molto attiva Santa Caterina da Siena. Il Pontefice si rendeva conto che i motivi che avevano determinato, decenni prima, il trasferimento ad Avignone erano ormai superati: la Francia era assorbita dalla Guerra dei cent'anni (1337-1453) e la situazione di Roma sembrava volgere al meglio. Non si poteva ulteriormente rimandare senza il rischio di vedere il tracollo del concetto stesso di Santa "Romana" Chiesa. Il 27 gennaio 1377 il Papa fece solenne rientro a Roma. Lo scisma d’Occidente (1378-1417) L'origine dello scisma è da ricercare nel trasferimento della sede apostolica da Avignone a Roma, voluta da papa Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort) nel 1377 dopo circa settant'anni di permanenza nella cittadina provenzale. Morto Gregorio l'anno successivo, il collegio cardinalizio, dominato da prelati francesi, si apprestò ad eleggere un nuovo papa transalpino. I romani si sollevarono con l'obiettivo di scongiurare tale evento, poiché temevano che un nuovo papa francese avrebbe potuto disporre il ritorno ad Avignone. Il popolo reclamò a gran voce la scelta di un papa gradito, gridando nelle piazze: "Romano lo vogliamo o, almeno, italiano". L'8 aprile 1378, i cardinali si riunirono in conclave ed elessero al Soglio di Pietro il napoletano Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, che assunse il nome di Urbano VI. Già valente e rispettato amministratore della Cancelleria Apostolica ad Avignone, Urbano, da papa, si dimostrò severo e esigente. Alcuni cardinali, in particolare quelli francesi, che si erano riuniti ad Anagni per congiurare contro il papa (qualcuno di essi propose anche la cattura e sostituzione del nuovo pontefice), abbandonarono Roma e si riunirono in una città situata oltre il confine dello Stato, Fondi, sotto la protezione del conte Onorato Caetani. Il 20 settembre di quello stesso anno, dopo appena cinque mesi, i cardinali "scismatici" elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. La decisione di eleggere un nuovo papa era motivata dal fatto che taluni cardinali avrebbero preferito un altro pontefice più vicino alle loro idee politiche. Tentarono quindi di far passare come invalida l'elezione di Urbano VI, sostenendo la dipendenza del conclave da pressioni esterne. Dopo qualche tempo, l'antipapa Clemente VII ristabilì la propria corte ad Avignone, in opposizione alla sede romana di Urbano VI. Con due pontefici in carica, la Chiesa occidentale fu spezzata in due corpi autocefali e la stessa comunità dei fedeli risultò divisa fra "obbedienza romana" e "obbedienza avignonese". 10 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Rispetto ai conflitti tra pontefici rivali del passato, che pure avevano dilaniato più volte la Chiesa, la rottura del 1378 presentava aspetti molto più gravi e preoccupanti. Non si trattava di papi e antipapi nominati da fazioni rivali, ma di pontefici eletti in apparente legittimità da coloro che soli ne avevano il potere: i cardinali. Successori dello scisma Da questione puramente ecclesiastica, il conflitto si trasformò ben presto in una crisi politica di dimensioni continentali, tale da orientare alleanze e scelte diplomatiche in virtù del riconoscimento che i sovrani europei tributarono all'uno o all'altro pontefice. All'obbedienza avignonese si allinearono i regni di Francia, Aragona, Castiglia, Cipro, Borgogna, Napoli, Scozia, Sicilia e il Ducato di Savoia; restarono invece fedeli a Roma i regni d'Inghilterra, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Svezia, Polonia, Ungheria, l'Irlanda, gli Stati italiani e le Fiandre. Nei domini imperiali e nei territori dell'Ordine teutonico, ufficialmente obbedienti a Roma, si registrarono oscillazioni a livello locale. Il dilemma provocato dallo scisma coinvolse anche grandi personalità religiose, quali i futuri santi Caterina da Siena, schierata dalla parte di Urbano VI, e Vicente Ferrer, sostenitore di Clemente VII. Mappa che mostra lo Scisma d'Occidente Le curie papali di Roma e Avignone continuarono ad agire con pretesa di legittimità anche oltre i pontificati dei due primi contendenti, eleggendone i successori e perpetuando così lo scisma. Nel 1389, alla morte di Urbano VI, i cardinali romani elevarono al soglio pontificio Pietro Tomacelli, 11 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo che assunse il nome di Bonifacio IX, mentre ad Avignone, scomparso Clemente, fu eletto nel 1394 Pedro Martìnez de Luna, papa Benedetto XIII. Uno spiraglio sembrò aprirsi nel 1404, quando alla morte di Bonifacio IX i cardinali del conclave si dissero disposti ad astenersi dall'eleggere un successore qualora Benedetto avesse accettato di dimettersi. Di fronte al rifiuto del papa avignonese, i cardinali romani procedettero all'elezione e la scelta cadde su Cosimo de' Migliorati, papa col nome di Innocenzo VII. Due anni dopo, nel 1406, gli successe il cardinale Angelo Correr (Gregorio XII). Nel frattempo, negli ambienti colti dell'Europa cattolica, teologi ed eruditi cominciarono a ipotizzare soluzioni adeguate al problema, che rischiava ormai di delegittimare la funzione stessa del papato e gettare la cristianità occidentale nel caos. Il rimedio più ovvio apparve la convocazione di un concilio ecumenico che ricomponesse lo scisma e mettesse fine alla controversia, ma i due rivali si opposero energicamente, non potendo accettare che si attribuisse a un concilio un potere superiore a quello del papa. Il Concilio di Pisa (1409) Apparentemente impraticabile per l'opposizione dei contendenti, la soluzione conciliare fu ripresa nel 1409, quando la maggior parte dei cardinali di entrambe le parti si riunì a Pisa per tentare la via del compromesso. Il concilio stabilì la deposizione di Benedetto XIII e Gregorio XII, dichiarati eretici e scismatici, e l'elezione di un nuovo pontefice, che salì al trono papale col nome di Alessandro V. Quello che avrebbe dovuto essere l'atto finale di uno scisma che da trent'anni lacerava la comunità cattolica finì invece col complicare ulteriormente la situazione: Benedetto e Gregorio, sostenuti da larghi strati del mondo ecclesiastico, dichiararono illegittimo il concilio e si rifiutarono di deporre la carica, cosicché da due i papi contendenti divennero tre. Il Concilio di Costanza (1414 - 1417) La soluzione della crisi fu possibile soltanto qualche anno dopo, grazie all'iniziativa di Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437, futuro imperatore dal 1433 al 1437) e del nuovo pontefice pisano Giovanni XXIII, succeduto nel frattempo ad Alessandro V. Convocato a Costanza, in Germania, nel 1414, il nuovo concilio chiuse i lavori soltanto nel 1417, quando tutte le questioni che minacciavano la stabilità della Chiesa furono adeguatamente discusse e superate. Affermata l'autorità del concilio, i padri conciliari dichiararono antipapi Giovanni XXIII e Benedetto XIII. Il papa Gregorio XII, per il bene della Chiesa e accettando l'autorità del concilio, preferì dimettersi spontaneamente. Nel corso di un breve conclave i padri elessero pontefice il cardinale Oddone Colonna, che assunse il nome di Martino V. Il concilio di Costanza non negò l'autorità papale e fu profondamente cosciente dell'importanza vitale del supremo pontefice per la Chiesa. Jan Hus Riformatore religioso boemo (Husinec, Boemia Merid., probabilmente 1369 - Costanza 1415). Ordinato prete, divenne predicatore a Praga, dando prova di vasta cultura filosofico-teologica. Suoi argomenti principali erano l'accusa della corruzione del clero e la necessità di una riforma della vita morale di laici ed ecclesiastici. Si fece anche sempre più chiara la sua ammirazione per Wycliffe, che seguì nella dottrina della predestinazione e più tardi difese. Un nuovo conflitto con Roma scoppiò per la violenta opposizione di Hus alla promulgazione delle indulgenze da parte di Giovanni XXIII. Sosteneva altresì le tesi degli utraquisti Fu scomunicato nel 1410 e fu costretto ad abbandonare Praga; condannato dal concilio come eretico per le tesi sostenute nel De ecclesia, nel 12 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo 1415 fu arso sul rogo nonostante il salvacondotto imperiale. Le dottrine di Hus furono riprese dal movimento nazionale ceco, che si chiamò appunto hussitismo. Firenze 1378: la rivolta dei Ciompi Premesse: la guerra degli 8 santi Nel 1375 i legati pontifici stavano ri-assoggettando i territori dello Stato della Chiesa in vista di un imminente ritorno del papa a Roma da Avignone. L'Italia non si era ancora ripresa dallo choc della peste nera del 1348 e ancora ne subiva ciclicamente le conseguenze con ondate residue di epidemia, carestia e stagnazione economica dovuta alla mancanza di manodopera. I legati pontifici, tutti di origine francese e mal visti dalla popolazione locale, erano alle prese con altri problemi a Bologna, quando giunse da Firenze la richiesta di grano che il cardinale nella città emiliana Guglielmo di Noellet declinò seccamente. L'azione venne interpretata come un tentativo di indebolire Firenze prima di provare a conquistarla, aggravata dall'ingresso delle truppe di Giovanni Acuto, un mercenario inglese, nel territorio fiorentino (sebbene il legato si affrettasse a smentire che il condottiero inglese fosse ancora al soldo della Chiesa). Per rivalsa, incitati soprattutto nei ceti subalterni dai semiereticali "fraticelli" nemici della ricchezza della corte avignonese, i fiorentini entrarono in lotta contro il Papa, fomentando la rivolta anche in altre città Milano, Lucca, Siena, Pisa, alle quali si aggiunsero poi Arezzo, Viterbo, Perugia, Città di Castello, Montefiascone, Foligno, Spoleto, Gubbio, Terni, Narni, Todi, Assisi, Chiusi, Orvieto, Orte, Toscanella, Radicofani, Sarteano, Camerino, Fermo, Ascoli e molte altre. A Firenze venne creata una magistratura apposita degli Otto di Guerra. Nel 1376 si unì alla lega Bologna, fortemente sovvenzionata da Firenze a ribellarsi: a scopo dimostrativo Giovanni Acuto compiva pochi giorni dopo l'eccidio di Forlì. Fu allora (31 marzo 1376) che papa Gregorio XI decise di scomunicare i fiorentini dichiarando decaduto qualsiasi credito verso di loro ed iniziando con lo scacciare seicento di loro da Avignone confiscando tutti i loro beni. La contromossa dei fiorentini fu quella di iniziare a chiamare gli otto magistrati della guerra "Otto santi", a sottolineare la legittimità morale delle loro rivendicazioni. Quando Caterina da Siena, grande mediatrice tra gli interessi opposti dei fiorentini e del papato, ottenne il rientro del papa in Italia si aprì un nuovo tavolo di trattative da Roma. La diplomazia però non ebbe esito. Con la tregua stipulata da Bologna, i fiorentini decisero di arruolare Giovanni Acuto dalla loro parte (aprile 1377), mentre il clero fiorentino veniva pesantemente tassato ed obbligato a riaprire le chiese e celebrare le funzioni. L'intransigenza degli Otto (la cui mancata deposizione era ormai l'unico motivo di attrito col pontefice) venne mediata dall'intervento di Bernabò Visconti, che convocò una conferenza di trattative a Sarzana, nella riviera di levante ligure, (12 marzo 1378) interrotta pochi giorni dopo (il 27) per la morte di Gregorio XI. Il successore Urbano VI riuscì a far firmare un trattato di pace poco dopo (28 luglio) a Tivoli. I fiorentini si impegnarono a pagare, in cambio della cancellazione dell'interdizione, la somma di 350.000 fiorini. Vennero pagati solo in parte. I Ciompi Col termine Ciompi, d'incerta origine,si designavano nel '300 a Firenze i salariati sottoposti alle varie Arti o i professanti le più umili mansioni al di fuori di qualunque Arte, ma soprattutto i lavoratori dipendenti dall'Arte della lana e ascendenti per numero a molte migliaia. 13 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Questi ultimi - unici forse nella gran massa della plebe fiorentina - si trovavano in condizione di semplici salariati alla mercè degli imprenditori, che concedevano il lavoro, senza riconoscere all'operaio il diritto di stabilire il prezzo della mano d'opera. Pagati giorno per giorno ad arbitrio delle Arti con salari di fame, chiusi come condannati, durante tutta la giornata, in locali malsani, vivevano in stato di vera servitù. Molto difficilmente potevano abbandonare la bottega cui erano addetti e cercarsi altro padrone, sia perché l'Arte impediva a tutti i consociati di assumerli come operai, sia perché indebitati quasi sempre con i padroni erano tenuti a servirli, finché col loro lavoro non avessero saldato il debito. In caso di mancanze o di controversie non erano giudicati dal tribunale dell'Arte, ma da un ufficiale forestiero, specie di bargello, eletto e pagato dall'Arte, che poteva sottoporli alla tortura o a pene corporali. Non godevano dei diritti di cittadinanza e quindi non partecipavano alla cosa pubblica; era loro impedito di riunirsi in leghe che potessero renderli pericolosi per la forza del numero. Nel 1345, un Ciuto Brandini eccitò i Ciompi di Lana a formare un'associazione, con consoli e capi, per resistere alle angherie padronali. È il primo tentativo di un vero e proprio sindacato di lavoratori in odio ai datori di lavoro, che la storia ricordi; e l'arresto di Ciuto portò a uno dei primissimi scioperi di protesta. Ciuto fu decapitato e i Ciompi nulla ottennero. La rivolta Le enormi spese sostenute per la guerra degli otto santi e il suo sostanziale fallimento avevano fortemente impoverito la città di Firenze e gettato un grave discredito sull'oligarchia guelfa al governo della città. Le corporazioni artigiane organizzarono un forte tumulto per protestare contro i banchieri e i mercanti che detenevano il potere cittadino Il 24 giugno 1378 i Ciompi occuparono il Palazzo dei Priori, chiedendo il diritto di associazione e la partecipazione alla vita pubblica. Grazie all'effetto sorpresa la loro protesta ebbe buon esito. Riuscirono infatti a eleggere come gonfaloniere di giustizia (la più alta carica esecutiva della Repubblica fiorentina, seppure con un mandato di durata molto breve) il loro leader Michele di Lando, e ottennero la creazione di tre nuove Arti che rappresentassero i ceti più bassi (da allora chiamato enfaticamente il "popolo di Dio"), quella dei Ciompi, appunto, quella dei Farsettai (i sarti) e quella dei Tintori. Essi inoltre ottennero, per queste tre nuove corporazioni, il diritto di eleggere un terzo delle magistrature della città. Ma delle tre nuove Arti, una sola comprendeva i veri e proprî salariati, i Ciompi; le altre due riunivano artigiani, sia pur modesti, ma con botteghe proprie che gestivano opifici sussidiarî delle Arti della Lana, della Seta, di Calimala e che fino ad allora erano stati costretti a consociarsi con esse in condizioni d'inferiorità. Erano dunque queste 2 arti veri e propri datori di lavoro, i cui interessi non collimavano con quelli dei Ciompi. Michele di Lando non fu un abile uomo politico. Trovatosi improvvisamente a gestire un grande potere, fu continuamente bersagliato da richieste sempre maggiori dal popolo magro e venne messo in cattiva luce per l'alleanza con alcuni membri del più ricco popolo grasso (tra i quali soprattutto Salvestro de' Medici). Già in discredito verso gli operai che rappresentava, fu costretto a prendere misure di repressione contro l'ondata di violenza che essi andavano scatenando, con ritorsioni contro la nobiltà. Il malcontento contro la sua figura aumentò in poche settimane, soprattutto quando venne chiesta e non concessa la cancellazione del debito verso i datori di lavoro. Fu allora che i rappresentanti della vecchia oligarchia fecero cerchio per isolare la fazione dei Ciompi, ormai disgregata internamente. L’Arte della Lana, la più importante bloccò le lavorazioni tessili e tutta l’attività economica della città si fermò. Il "popolo grasso" si alleò con quello minuto (la piccola borghesia). 14 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Le Arti maggiori, le Arti minori e le due Arti nuove composte di artigiani indipendenti si accordarono tra loro; lo stesso Michele di Lando, sia indignato dagli eccessi dei suoi antichi compagni, sia corrotto per denaro, si pose a capo della reazione. La sconfitta Il 31 agosto i Ciompi furono assaliti in Piazza della Signoria e costretti a fuggire. Per timore di un loro ritorno, la notte i cittadini armati li assalirono nelle loro contrade e li massacrarono, i più fuggirono di città. L'indomani mattina i cittadini convocati a parlamento, dichiaravano sciolta l'Arte degli operai della Lana, confermando le altre due nuove Arti. Il tentativo dei Ciompi di costituire un'associazione a sé, era caduto per sempre. Dopo la loro caduta, tra il 1378 e il 1382, mentre prevalsero le Arti minori, alcuni Ciompi dai loro esili del contado, di Siena, di Bologna, congiurarono insieme con gli sbanditi appartenenti alle classi più alte della cittadinanza per un ritorno in città con l'appoggio dei loro compagni rimasti a Firenze, ma sempre invano; per quei tre anni è un continuo susseguirsi di processi e di condanne capitali. Nel 1382 un ultimo tentativo compiuto da Lorenzo di Giovanni, uno scardassiere, di rialzare il vessillo dei Ciompi con l'insegna dell'Angelo, con una nuova congiura si conclude tragicamente con il supplizio feroce dello stesso Giovanni. I Carraresi alla guida di Padova L'influenza di Padova sul territorio circostante comprendeva all'inizio del XIV secolo il controllo di importanti città quali Vicenza, Bassano e Rovigo, l'alleanza con il Patriarcato di Aquileia e gli Estensi nonché la collaborazione con Venezia. Una svolta importante per le sorti cittadine fu la calata in Italia del re di Germania Enrico VII di Lussemburgo nel 1310, ansioso di restaurare il potere imperiale in Italia, scemato dopo la morte di Federico II di Svevia nel 1250. Il sovrano iniziò una campagna militare contro le città che si rifiutavano di assoggettarsi; la guelfa Padova non si sottomise ad Enrico VII ma riuscì ad evitare lo scontro; Enrico VII comunque la punì favorendo l'occupazione di Vicenza da parte del ghibellino Cangrande della Scala, signore di Verona. Questi fece deviare le acque del Bacchiglione per indebolire Padova, che preferì evitare lo scontro con Enrico VII, eletto in quel periodo Sacro Romano Imperatore a Roma. Grazie alla diplomazia padovana guidata da Albertino Mussato, la situazione fu ricomposta ma la successiva nomina di Cangrande a vicario imperiale di Vicenza e le mire che questi aveva su Padova fecero precipitare gli avvenimenti: nel 1312 il Consiglio cittadino dichiarò guerra a Verona. Le stragi e le devastazioni che ne seguirono conobbero una tregua nel 1313 con la morte di Enrico VII, che era stato impegnato in un conflitto analogo in Toscana. La guerra con Verona aveva ridato vigore alle lotte tra le varie fazioni padovane e la grave situazione creatasi portò alla istituzione di un Consiglio cittadino straordinario egemonizzato da un'oligarchia delle famiglie arricchitesi con i commerci e l'usura, che aveva poteri maggiori rispetto al normale Consiglio comunale. Nel 1314, il Consiglio degli otto sapienti, nominato dal Consiglio straordinario per governare Padova, decretò l'espulsione di dodici ghibellini legati ai Carraresi. Tale decreto creò oviamente scontento tra la nobiltà; Niccolò da Carrara e Obizzo dei Carraresi Papafava guidarono la rivolta popolare e furono distrutte le famiglie degli usurai dei Ronchi e degli Alticlini, che da anni commettevano ogni sorta di soprusi e che avevano ispirato l'espulsione dei ghibellini. Il giorno successivo un'assemblea cittadina affidò il governo a un nuovo Consiglio formato da diciotto anziani e fu ripresa la guerra con Verona. Fu in questo periodo che, dopo l'ennesima deviazione delle acque del Bacchiglione da parte dei vicentini/veronesi, i padovani costruirono il canale 15 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Brentella, che tuttora immette nell'alveo del Bacchiglione le acque del Brenta. Durante un tentativo di riprendere Vicenza, l'esercito padovano fu messo in fuga e tra i catturati vi furono Marsilio e Giacomo da Carrara e Albertino Mussato. Per negoziare la pace, Cangrande inviò a Padova Giacomo da Carrara (detto anche Jacopo), che convinse il Consiglio comunale ad accettare le condizioni dello Scaligero. La fine delle ostilità vide rifiorire l'economia indebolita dai costi delle guerre, ma i reciproci sospetti tra le città legate ai guelfi e quelle legate ai ghibellini fecero in breve riprendere le guerre. Un nuovo attacco a Vicenza nel 1318 di truppe organizzate dai padovani fu respinto e la reazione scaligera vide la devastazione di molte città della Bassa Padovana. Con l'esercito veronese accampato alle porte della città, Giacomo da Carrara condusse nuovamente i negoziati di pace, con cui Padova si impegnò a cedere agli Scaligeri il controllo di Este, Monselice, Montagnana e Castelbaldo, nonché a permettere il ritorno in città dei ghibellini esiliati. Il Carrarese in tal modo si assicurò i favori dei ghibellini, tra i quali vi erano i suoi parenti Niccolò, Marsilio e Obizzo. A tali eventi seguì un periodo di violenze da parte dei ghibellini rientrati, che si vendicarono dei torti subiti costringendo molti guelfi a lasciare la città e Giacomo da Carrara ad un difficile ruolo di mediatore. Nel caos che regnava, il pisano Obizzo degli Obizzi rinunciò ad assumere la carica di capitano della guerra (dittatore militare). Giacomo I Signore di Padova La situazione era grave al punto che il Consiglio comunale non fu più in grado di gestirla e si decise ad affidare le sorti di governo ad uno solo tra i cittadini più influenti, che fosse in grado di riportare l'armonia tra le fazioni in lotta. La scelta cadde sul ricco guelfo Giacomo da Carrara, che aveva dimostrato eccellenti doti negli affari, in politica, in ambito militare e diplomatico; era inoltre ben accetto dai ghibellini e dal popolo in generale, ed aveva sposato Anna, figlia del potente doge veneziano Pietro Gradenigo. Il discorso del 24 luglio 1318 con cui si rendeva nota la scelta alla cittadinanza fu affidato al celebre giurista Rolando da Piazzola, al termine del quale i padovani acclamarono Giacomo "capitano di governo". Al nuovo signore di Padova venivano affidati pieni poteri e venivano dichiarati suoi subalterni tutti i precedenti governanti, compreso il podestà, i capi delle forze armate e gli addetti all'amministrazione, lasciando alla sua discrezione la loro sostituzione. Padova fu l'ultima delle grandi città del nord Italia a conservare le libertà democratiche proprie dell'epoca comunale ma, a differenza di quanto accadde in molti altri comuni, non le perse per l'affermazione dispotica del nuovo sovrano ma per acclamazione popolare. In seguito, Giacomo I da Carrara sarebbe diventato vicario imperiale con la carica di signore della città. L'elezione di Giacomo non placò l'ambizione di Cangrande, che ben presto riprese i suoi attacchi coadiuvato dagli Estensi e dalle truppe imperiali guidate da Enrico II di Gorizia, che governava Treviso per conto del duca d'Austria e pretendente al trono imperiale Federico I d'Asburgo. Con la città sull'orlo della capitolazione e privata dal supporto degli alleati, Giacomo ne affidò la difesa a Enrico II, facendo atto di sottomissione al duca d'Austria che però inviò come vicario imperiale Ulderico di Valse. Questi giunse a Padova e costrinse Cangrande ad una tregua, ricevendo i poteri ed il gonfalone del popolo da Giacomo. In questa fase diedero manforte ai veronesi i padovani esiliati e si crearono nuove lotte tra le maggiori famiglie padovane. Un nuovo assalto notturno fu sventato dal ghibellino Niccolò da Carrara, che rese inoffensivi i veronesi infiltrati in città. Il successivo assedio fu nuovamente respinto dai padovani con l'aiuto dei tedeschi giunti con Enrico II e Ulderico. Cangrande fu ferito e costretto a riparare a Monselice. La vittoria diede respiro ai padovani, che si riorganizzarono sotto la guida di Ulderico. Nel 1321 Ulderico tornò in Germania e Federico I lo sostituì con Enrico di Carinzia e Tirolo, che ebbe grandi problemi a sottomettere i fuoriusciti padovani. 16 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Altri Carraresi Signori di Padova Nel 1324 morì Giacomo da Carrara dopo aver eletto a proprio successore il nipote Marsilio (13241338). Quest'ultimo fu comunque subordinato inizialmente agli Asburgo, che continuarono ad esercitare il potere con Enrico di Carinzia e Tirolo fino al 1328. Nel 1328 cedette il potere a Cangrande, ma mantenne il titolo di vicario continuando a governare la città. Dopo la morte di Cangrande, nel 1337 si accordò con i fiorentini e con i veneziani che lottavano contro gli Scaligeri e poté così rientrare in possesso pieno della Signoria. Dopo aver rafforzato le mura di Padova e fatto costruire un tratto completamente nuovo e dopo aver posto sotto assedio Monselice, dove le truppe Scaligere si erano asserragliate per l'ultima difesa delle terre padovane, Marsilio, già gravemente ammalato, fece nominare dal Consiglio padovano il cugino Ubertino come suo successore (10 marzo 1338) per spirare poi il 21 marzo 1338 a Padova. Ubertino (1338-1345) iniziò una politica espansionistica. Sempre nel 1338, venne assediata Monselice e il 19 agosto, riuscì a conquistarla. Ottenne poi dagli Scaligeri il dominio su Treviso, che poi cedette alla Repubblica di Venezia, mentre invece ottenne i comuni di Bassano del Grappa e Castelbaldo. La sua carica venne riconosciuta nel 1339, in seguito al trattato di Venezia concluso tra la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze e gli Scaligeri. Nello stesso anno ricevette la nomina dal papa Benedetto XII a vicario della Santa Sede. Il 24 marzo 1340, ottenne il castello di Camposampiero. Il 9 aprile 1340, stipulò un'alleanza con gli Estensi, i Pepoli e Firenze a Lendinara, contrastata però dall'alleanza tra Luchino Visconti, Ludovico Gonzaga e Mastino della Scala. Ma la sua forte ostilità e invidia nei confronti degli Scaligeri, lo portò a tentare la conquista di Vicenza, ma fu bloccato dalle truppe viscontee. Si alleò poi con i Visconti, i Gonzaga e Azzo da Correggio, per tentare la conquista di Parma. Nel 1342, appoggiò Pisa nella guerra contro Firenze con l'invio di truppe e si alleò con la Repubblica di Genova, i Gonzaga, i Visconti e i Correggio. Sostenne anche i ghibellini della Toscana e dell'Emilia-Romagna. Nel maggio 1343, venne raggiunta la pace con Mastino della Scala. In ambito economico, lavorò al potenziamento dell'industria e del commercio. Fece creare delle industrie tessili laniere a Ognissanti e Torricelle e industrie cartiere a Battaglia Terme. Inoltre per sfamare il suo popolo fece importare frumento dalla Svevia a costi molto bassi. La sua azione di governo si mosse anche in ambito culturale, favorendo lo studio collaborando con l'Università di Padova. La salute di Ubertino si aggravò, e per questo nominò successore alla guida della città Marsilietto Papafava da Carrara. Morì il 29 marzo 1345. Ubertino, quindi, escludeva dalla successione i cugini Giacomo e Giacomino di Nicolò e nominava alla guida della città un suo lontano parente; determinante fu l'influenza dal suo vicario Pietro da Campagnola, acerrimo nemico di Nicolò che temeva la vendetta dei suoi figli. Ma il 6 maggio, dopo appena quarantun giorni di governo, Marsilietto moriva sotto i colpi di Giacomo II (detto anche Jacopo) che prese possesso della signoria rivendicando i propri diritti di successione. Giacomo II (1345-1350) la mattina seguente convocò il Consiglio e ricevette la formale nomina a Signore della città. Fece immediatamente arrestare i famigliari di Marsilietto e i suoi principali collaboratori, ma nello stesso tempo concesse subito un'aministia generale e diede il permesso di rientro a numerosi fuoriusciti; inoltre si imparentò con la famiglia padovana dei Buzzacarini, facendo sposare il figlio Francesco con Fina, figlia di Pataro. In questo modo cercò di appianare i dissidi della città e guadagnare un maggior consenso popolare. 17 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo In politica estera, fece in modo di avere buone relazioni con i suoi vicini: Mastino della Scala, signore di Verona, Obizzo III d'Este, marchese di Ferrara, ma soprattutto con la Repubblica di Venezia, tanto che nel gennaio 1346 Giacomo II con il figlio Francesco I fu solennemente accolto tra la nobiltà della città lagunare. Per mantenere buoni rapporti, Giacomo chiamò sempre veneziani per ricoprire il ruolo di podestà di Padova e partecipò alle varie imprese di guerra al fianco di Venezia: riconquista di Zara (maggio 1346), riconquista di Capodistria (settembre 1348) e guerra contro la Repubblica di Genova (novembre 1350). Giacomo II fu famoso per aver creato attorno a sé una corte di artisti che diedero lustro alla città e ai Da Carrara. Fu grazie alle sue insistenze che si trasferì a Padova Francesco Petrarca, nominato canonico del duomo cittadino nel 1349 per sua intercessione. Giacomo intese in tal modo trattenere in città il poeta il quale, oltre alla confortevole casa, in virtù del canonicato ottenne una rendita annua di 200 ducati d'oro. Giacomo venne pugnalato a morte il 19 dicembre 1350 da Guglielmo da Carrara, figlio illegittimo di Giacomo I, che fu immediatamente trucidato dagli astanti. Guglielmo avrebbe assassinato Giacomo a causa del divieto di uscire dalla città ricevuto dalla Signoria a causa del suo comportamento violento. Francesco I da Carrara Francesco I da Carrara, detto Francesco il Vecchio (Padova, 1325 – Monza, 1393), signore di Padova da 1350 al 1388. Fino al 1350, aiutò il padre Giacomo II insieme allo zio Jacopino nel governo cittadino. Nel dicembre di quell'anno Giacomo II fu assassinato e quello stesso giorno sia Francesco che Jacopino furono nominati signori di Padova per acclamazione popolare. Nei primi anni, la coppia di signori si mantenne leale all'alleanza con Venezia, ed entrambi nell'ottobre 1354 guidarono l'esercito di una lega che i lagunari avevano organizzato contro i Visconti, Signori di Milano. In tale occasione Francesco conobbe l'Imperatore Carlo IV a Bassano, e fu probabilmente allora che il sovrano gli conferì gli onori di vicario imperiale, titolo che era stato appannaggio di tutti i da Carrara Signori di Padova, e di Cavaliere del Sacro Romano Impero. Deposizione di Jacopino Il successo riscosso da Francesco con l'imperatore provocò l'invidia dello zio Jacopino, e i rapporti tra i due si complicarono ulteriormente con il conflitto tra Fina Buzzaccarini e la moglie dello zio, Margherita Gonzaga, che iniziarono a scontrarsi sul problema della successione. Jacopino arrivò ad organizzare l'assassinio del nipote e affidò l'incarico a Zambono Dotti. Francesco scoprì la congiura nell'estate del 1355, fece incarcerare lo zio e giustiziare il sicario. Prima guerra contro Venezia e alleanza con l'Ungheria Nel 1356, l'esercito del re d'Ungheria Ludovico il Grande invase la terraferma veneziana, assediando Treviso e devastando i territori di Padova. Il conflitto durò due anni e non portò alcun beneficio per Padova, i cui confini rimasero inalterati dopo che nel 1358 fu firmata la pace di Zara, mentre gli ungheresi si videro riconoscere i territori dalmati conquistati. Da un lato Francesco si inimicò definitivamente i veneziani e dall'altro si assicurò la protezione ungherese, che si sarebbe protratta per vent'anni. L'alleanza con Ludovico diede inizialmente buoni frutti; quando nel 1360 l'Imperatore Carlo IV assegnò al sovrano ungherese le città di Feltre, Belluno e Cividale, questi ne fece dono al da Carrara, che nei tre anni successivi vi rafforzò il 18 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo proprio potere. I rapporti con i veneziani si fecero invece sempre più tesi e Francesco fece erigere nuovi bastioni difensivi al confine tra i due Stati. Mire espansionistiche Impossibilitato a fortificare i confini con Venezia, la grande ambizione di Francesco lo portò a dar forma al disegno di estendere il proprio potere su tutta l'Italia nord-orientale. Tale progetto gli attrasse le ostilità del duca d'Austria Rodolfo d'Asburgo, che a sua volta ambiva ad espandere sulla stessa zona i propri territori. Nel 1362, Rodolfo si alleò con i conti di Gorizia e con Venezia, e fomentò ribellioni nel Friuli contro il patriarca di Aquileia Ludovico della Torre, alleato del Carrarese, che fu in grado di inviare rinforzi solo nell'autunno del 1363. Nella primavera successiva, le forze di Padova e del patriarcato sconfissero l'esercito austriaco e il conflitto ebbe termine in autunno. In questi anni maturò la collaborazione tra Padova e il Comune di Firenze, città entrambe governate da guelfi. Nel 1366 Francesco diede in prestito 27.000 ducati a Firenze, impegnata nella guerra contro Pisa. Nel 1370 ne prestò altri 10.000 a Lucca, alleata di Firenze. L'alleanza con Firenze di Francesco ebbe un riconoscimento formale nel 1370, quando i Priori concessero a lui, alla moglie Fina e agli eredi la cittadinanza fiorentina. Seconda guerra contro Venezia Si inasprirono intanto i rapporti con Venezia, allarmata dalle mire espansionistiche padovane confermate nel 1369, quando il Carrarese fece rimuovere pietre confinarie tra il Feltrino, in suo possesso, e il Trevisano che era parte di Venezia. Nel 1371 fece costruire nuovi bastioni ai confini con la terraferma veneziana e il doge per punizione ordinò l'embargo sulle merci padovane. Nel 1372 fu istituita una commissione incaricata di definire le frontiere tra i due Stati. Quello stesso anno, Venezia sventò un complotto di Francesco che prevedeva l'assassinio di alcuni nobili veneziani a lui ostili e il tentativo di convincere i nobili lagunari scontenti a passare dalla sua parte. Fu inevitabile la guerra che ne scaturì, e la campagna militare padovana, sostenuta da ungheresi e genovesi, ebbe inizio nell'autunno 1372. Dopo alcune incursioni da parte di entrambi gli schieramenti, il conflitto entrò nel vivo con l'arrivo delle truppe ungheresi, che contribuirono a una prima vittoria di Padova in dicembre. Il rientro di forze veneziane impegnate altrove diede un vantaggio alla Serenissima. Nel febbraio del 1373, Francesco consegnò Belluno e Feltre ai duchi d'Austria per ottenerne gli aiuti. In luglio, dopo aver perso la fortezza di Borgoforte, la situazione per i padovani si fece critica. In agosto Francesco sventò un complotto ai suoi danni organizzato dai fratellastri Marsilio e Nicolò, che progettavano di ucciderlo finanziati dai veneziani. I cospiratori furono giustiziati ad eccezione di Marsilio che si rifugiò a Venezia. Sfiduciato, il Carrarese chiese la fine delle ostilità e dovette accettare le dure condizioni imposte dai veneziani il 21 settembre 1373. Fu costretto a mandare a Venezia il figlio Francesco Novello, il quale davanti al governo cittadino ammise che la responsabilità del conflitto era di Padova. Fu obbligato a pagare un'indennità di 280.000 ducati e a smantellare le fortificazioni lungo le frontiere, dovette concedere privilegi fiscali ai veneziani che avevano proprietà nel Padovano e allontanare i mercenari che facevano parte delle sue truppe. Riorganizzazione amministrativa della signoria e interessi personali In quegli anni la vita familiare di Francesco entrò in crisi. Pare che dopo la nascita di Francesco Novello abbia iniziato ad avere rapporti extraconiugali dai quali ebbe diversi figli illegittimi. Si 19 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo ipotizza che il primo sia stato Conte, avuto da Giustina Maconia, che divenne prima un ecclesiastico e poi un condottiero. Nel 1370 ebbe il figlio naturale Stefano, che sarebbe diventato vescovo di Padova. Altri suoi figli illegittimi furono capi militari durante la signoria di Francesco Novello. La moglie Fina morì nel 1378. Francesco fu attento ai problemi amministrativi di Padova e alle proprie finanze, diventando l'uomo più ricco della Signoria. Nel 1362 promulgò un codice statutario che aveva fatto compilare da Giovanni Salgardi e che si basava sul diritto civile e sulle procedure in uso nel periodo comunale. Si differenziava da queste nel sancire le limitazioni alle competenze del podestà e dei suoi ufficiali, per accentrare i poteri disciplinando tali cariche alle proprie esigenze. Per assestare le finanze e affermare l'indipendenza da Venezia, Francesco fece venire da Firenze dei monetari che coniarono in argento le monete da un soldo e i più pregiati "carrarini" e "carraresi", che recavano la sua effigie. Fu per lui una fonte di reddito perché per ogni marco d'argento trasformato in moneta gli spettava circa il cinque per cento. Diede impulso all'industria laniera concedendo la cittadinanza e l'esenzione dalle tasse agli artigiani e commercianti del settore che si fossero stabiliti nel Padovano. Anche questa ordinanza era concepita per favorire i propri interessi privati, era infatti una sua proprietà il fondaco dei panni. Francesco controllava così i prezzi e monopolizzava la distribuzione. Pare che per aumentare e migliorare la produzione anticipasse denaro agli artigiani per l'acquisto di lana grezza e si riservasse il diritto di approvare le innovazioni nei processi di lavorazione. Nei primi vent'anni in cui fu a capo della Signoria, Francesco fece grandi investimenti presso i prestatori di denaro cittadini. Tra il 1366 e il 1376, prestò più di 140.000 lire di piccoli al tasso d'interesse del venti per cento. Ma le sue entrate principali derivavano dalle grandi proprietà fondiarie che aveva sia in città che nelle zone rurali, in particolare attorno alla Reggia Carrarese e a sud della città, nella zona dei Colli Euganei, dove fece razionalizzare la coltivazione. Tra i suoi possedimenti a nord, vi erano quelli avuti in dote con il matrimonio e quelli che erano passati ai Carraresi dopo aver sconfitto le famiglie dei Dente e dei Camposampiero. Protettore di letterati e artisti, chiamò a Padova il giurista Baldo degli Ubaldi, accordò protezione al medico e scienziato Giovanni Dondi dell'Orologio e al letterato Giovanni Conversini. Fu amico del Petrarca il quale gli dedicò il trattato De Principe e gli lasciò in eredità una Vergine di Giotto. Il principe donò al Petrarca la tenuta di Arquà nella quale trascorse gli ultimi anni di vita. Terza guerra contro Venezia In quegli anni il Carrarese si preparò ad un nuovo conflitto con la Serenissima e l'occasione si presentò nel 1378, quando assieme al patriarca d'Aquileia e al re d'Ungheria appoggiò la Repubblica di Genova contro Venezia nella guerra di Chioggia. La lega anti-veneziana si formò nell'aprile di quell'anno: il conflitto, che iniziò nel giugno 1378. Il fronte veneto del conflitto si articolò in una serie di attacchi per mare e per terra contro le difese lagunari. Francesco guidò personalmente le truppe padovane, che attaccarono le difese meridionali chioggiotte e compirono incursioni nel Trevigiano. Il primo anno di guerra vide le vittorie della lega e nell'agosto del 1379 Chioggia fu occupata da padovani e genovesi, costringendo i veneziani a chiedere la pace. Il Carrarese rifiutò ogni compromesso e il conflitto continuò. Con il ritorno delle navi di stanza in Oriente e l'assunzione del comando da parte di Vettor Pisani, i veneziani ribaltarono le sorti della guerra. Nel giugno 1380, i militari genovesi che occupavano Chioggia, coadiuvati da diversi padovani, furono costretti alla resa. I Carraresi posero allora sotto assedio Treviso e i veneziani, per evitare che finisse in mani padovane, cedettero la città al duca d'Austria Leopoldo III d'Asburgo. Dopo vari tentativi di riportare la pace, a persuadere i belligeranti a deporre le armi fu la mediazione di Amedeo VI di Savoia, che portò alla pace siglata a Torino l'8 agosto 1381. Il compromesso che 20 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo ne risultò fece tornare i confini dov'erano prima del conflitto, furono scambiati i prigionieri e i bottini di guerra furono riconsegnati ai proprietari. I padovani rientrarono in possesso di alcuni diritti persi nel 1373: i veneziani proprietari di fondi nella Signoria dovevano tornare a pagare le tasse al Carrarese, fu abolita la clausola con la quale Marsilio da Carrara riceveva i propri redditi esenti da tasse. Padova ottenne anche il permesso di fortificare le frontiere. Acquisto di Treviso Francesco voleva comunque impadronirsi di Treviso, continuò negli anni seguenti a fare di tutto per strapparla al controllo asburgico, la pose sotto assedio e fece devastare i territori della marca. Quando i trevigiani stavano per capitolare, Leopoldo III fece il suo ingresso a Treviso nel maggio del 1383 al comando dei propri soldati. Il duca austriaco si rese conto di non riuscire a mantenere sotto il proprio dominio la città e consegnò al Carrarese Treviso, Ceneda, Feltre e Belluno dietro al pagamento di 100.000 ducati. Il 4 febbraio 1384, Francesco entrò trionfalmente a Treviso. Per guadagnarsi i favori degli abitanti, incoraggiò l'artigianato ed i commercianti locali offrendo denaro in prestito ed esenzioni fiscali. Fece trasferire a Treviso alcuni burocrati per uniformarne le leggi a quelle padovane e per controllare il governo locale. Guerra di successione al Patriarcato di Aquileia Galvanizzato dalla conquista di Treviso, Francesco riprese il progetto di espandere i suoi territori a nord-est, dove la nomina a patriarca di Aquileia del francese Filippo II di Alençon nel 1381 aveva provocato gravi discordie tra Udine e Cividale, che si contendevano la supremazia sullo Stato. Il Patriarca si schierò apertamente con Cividale, suscitando la reazione degli udinesi che lo costrinsero alla fuga. Fu l'inizio della guerra di successione al Patriarcato, che in breve tempo spaccò in due l'aristocrazia friulana. A fianco di Cividale e i suoi alleati si schierarono i Carraresi e il Regno d'Ungheria, mentre con Udine si schierarono gli Scaligeri di Verona e i veneziani, uniti nella lega chiamata Felice Unione. L'intervento dell'esercito Carrarese costrinse alla resa gli udinesi nel febbraio del 1385. Quello stesso mese Venezia entrò nel conflitto, mentre il Signore di Verona Antonio della Scala si unì a Udine il 18 maggio 1385; entrambe le città vedevano con preoccupazione l'espansione padovana, in particolare Venezia, che si vedeva tagliati i commerci con il nord. L'intervento scaligero portò in agosto Francesco ad allearsi in funzione anti-veronese con il Signore di Milano Gian Galeazzo Visconti, aprendo un fronte occidentale del conflitto. Verso fine anno le truppe padovane passarono all'attacco cercando di conquistare diverse importanti municipalità friulane, ma la campagna ebbe termine dopo alcuni sterili successi iniziali. Dopo un periodo di stallo, l'anno successivo la guerra fu ripresa dagli Scaligeri, il cui attacco fu arginato dai padovani alle porte della città nella battaglia delle Brentelle. L'incertezza iniziale di tale cruenta battaglia si risolse in favore dei Carraresi, le cui truppe costrinsero i veronesi alla ritirata il 25 giugno 1386. La vittoria delle Brentelle mise in evidenza le debolezze degli Scaligeri, e l'anno seguente furono i padovani ad attaccare la signoria veronese. La battaglia di Castagnaro ebbe luogo il 1º marzo 1387 nella cittadina che si trova pochi chilometri a sud del capoluogo scaligero. Le truppe di Verona erano condotte dai capitani di ventura Giovanni Ordelaffi di Forlì e Ostasio da Polenta di Ravenna, mentre i padovani erano guidati dal condottiero inglese Giovanni Acuto e da Francesco Novello da Carrara, figlio del signore di Padova. La battaglia è considerata la più grande vittoria di Giovanni Acuto, che attirò in una trappola e sgominò i veronesi dopo aver finto di ritirarsi. La sconfitta di Castagnaro segnò la fine della lunga egemonia degli Scaligeri, che dopo qualche mese sarebbero stati cacciati da Verona dalle truppe viscontee. Il signore di Verona Antonio della 21 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo Scala trovò rifugio presso il suocero Guido III da Polenta, signore di Ravenna, mentre il resto della famiglia si sparse in Italia e in Germania. Il grande successo ottenuto si rivelò una vittoria di Pirro per i Carraresi, che concordarono la spartizione dei territori scaligeri con Gian Galeazzo Visconti. Quest'ultimo non mantenne le promesse e dopo la cacciata degli Scaligeri, oltre a conquistare Verona, tenne per sé anche Vicenza, che a quel tempo faceva parte della signoria veronese e che era stata promessa a Francesco I da Carrara. Al tradimento del Visconti si aggiunse quello del generale Ugolotto Biancardo, che era a capo del presidio carrarese a Vicenza e ordinò ai propri uomini di lasciare la città. Abdicazione di Francesco e presa di Padova da parte dei Visconti Con le finanze ridotte allo stremo dalle molte guerre sostenute, nel 1387 la signoria padovana perse l'alleato Filippo d'Alençon, richiamato in Francia, e rimase definitivamente isolata dopo che i tradizionali alleati fiorentini si dichiararono neutrali sulla guerra. Il tentativo del Carrarese di venire a patti con la Serenissima contro il Visconti, fu vanificato da quest'ultimo che, il 29 maggio 1388, strinse alleanza con i veneziani per cacciare i Carraresi e spartirsi i loro domini. Francesco si vide costretto a rinunciare alla signoria in favore del figlio Francesco Novello e si trasferì a Treviso in attesa degli eventi. La campagna militare viscontea fu capitanata da Jacopo Dal Verme e Francesco Delfino. La difesa dei padovani si schierò nella Saccisica ma non riuscì a contenere l'offensiva nemica, che si impadronì di Castel Caro. Constatati gli sfavorevoli rapporti di forza, Francesco Novello nel novembre 1388 venne ai patti con i milanesi accordandosi per la consegna di Padova, Treviso, Ceneda, Feltre, Belluno e tutti i territori ad esse subordinati. I milanesi si trovarono in tal modo in controllo della maggior parte dell'Italia settentrionale, mentre Venezia tornò in possesso dei propri territori, oltre a Ceneda e una parte della zona rurale padovana. Resa, trasferimento in Lombardia e morte in carcere Un mese dopo la caduta di Padova e vista l'impossibilità di resistere alle forze nemiche, anche Treviso dovette soccombere e Francesco si consegnò agli ufficiali dell'esercito visconteo. Fu portato prima a Verona e poi a Como, dove fu incarcerato. Dopo essere stato rinchiuso in alcune prigioni lombarde, Francesco il Vecchio morì nella fortezza di Monza il 6 ottobre 1393. Francesco Novello, che aveva ripreso il controllo di Padova nel giugno del 1390, aveva preso accordi con i milanesi per il ritorno in Patria del padre nel 1392 che non erano stati rispettati. 22