Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVI Lezione: il XIV secolo
Papa Bonifacio VIII
Bonifacio VIII, nato Benedetto Caetani (Anagni, 1230 circa – Roma, 1303), è stato il 193º papa
della Chiesa cattolica dal 1294. Era discendente di un ramo della famiglia pisana Caetani (o
Gaetani), che poté acquisire ulteriori ricchezze e grandi latifondi sfruttando la sua carica pontificia.
Le regole per l'elezione ed il ripristino della Ubi Periculum
Contrariamente a quanto avvenuto spesso nel passato, il conclave successivo alla rinuncia di
Celestino V fu radunato nella città di Napoli nei dieci giorni seguenti l'inizio della Sede vacante ed
ebbe una durata molto breve. Tutto ciò fu dovuto alle disposizioni contenute nella costituzione
apostolica Ubi Periculum sull'elezione pontificia, promulgata da papa Gregorio X (il piacentino
Tedaldo Visconti). La costituzione Ubi Periculum conteneva disposizioni molto precise, rigide e
vincolanti per l'elezione papale, al fine di sottrarla ad ogni ingerenza che non fosse strettamente
ecclesiastica. Prescriveva, infatti, l'obbligo del conclave per il Sacro Collegio, che avrebbe dovuto
tenersi, obbligatoriamente, entro dieci giorni dall'inizio della Sede vacante, nella stessa città ove era
scomparso il papa precedente. Passati i dieci giorni previsti, il Sacro collegio doveva essere
segregato in conclave sotto la sorveglianza del Podestà, che diveniva il custode del conclave.
Inoltre, se entro tre giorni dall'apertura del conclave stesso il papa non fosse stato ancora eletto, si
sarebbero dovute applicare norme gradualmente restrittive sui pasti e sul reddito dei porporati, fino
a ridurli a pane ed acqua.
Tutte queste disposizioni erano finalizzate non solo ad evitare che l'elezione del papa fosse
condizionata dal popolo o dai nobili, ma anche ad impedire che l'elezione stessa si trasformasse in
una lunga ed estenuante trattativa basata su operazioni di mercimonio, come frequentemente
avveniva in quei tempi. La Ubi Periculum venne peraltro abrogata da papa Giovanni XXI, ma fu
ripristinata quasi completamente da papa Celestino V, che voleva evitare le lungaggini ed i
problemi che avevano preceduto la sua elezione.
Appena dieci giorni dopo l'abdicazione di papa Celestino V i componenti del Sacro Collegio si
riunirono in conclave nella città di Napoli. Fu eletto papa il cardinale Caetani e assunse il nome
pontificale di Bonifacio VIII. Aveva circa 64 anni.
La segregazione e la morte di Celestino V
Come primo atto del suo pontificato, dopo aver riportato la sede papale da Napoli a Roma per
sottrarre l'istituzione all'influenza di re Carlo II d'Angiò, annullò o sospese tutte le decisioni assunte
dal suo predecessore Celestino V, riconoscendo valida soltanto la creazione dei dodici nuovi
cardinali. Immediatamente dopo, a causa dell'ostilità dei cardinali francesi, ebbe timore che il suo
predecessore, Pietro del Morrone, ritornato semplice frate, potesse essere cooptato dai porporati
transalpini come antipapa. Bonifacio VIII quindi lo fece arrestare da Carlo II d'Angiò, lo stesso
monarca che pochi mesi prima ne aveva sostenuto l'elezione pontificia, e lo fece rinchiudere nella
rocca di Fumone, di proprietà della famiglia Caetani, dove rimase fino alla morte (1294). Poco dopo
diede inizio al processo di canonizzazione, che fu accelerato e concluso pochi anni dopo da papa
Clemente V su pressione del re di Francia Filippo IV il Bello e dei fedeli.
La Sicilia agli Aragonesi
A Napoli governava Carlo II d'Angiò detto lo Zoppo, e in Sicilia Federico III d'Aragona (12731337), fratello di re Giacomo II che, a sua volta, era passato nel 1291 al trono d'Aragona.
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Nel 1295 Giacomo II sottoscrisse il Trattato di Anagni con il quale rinunciava a tutti i diritti sulla
Sicilia in favore del Papa, che, a sua volta, li trasferiva a Carlo lo Zoppo. Il trattato fu fortemente
osteggiato dalla nobiltà locale in Sicilia dove la casa angioina era fortemente impopolare; tale
risentimento si tradusse in una rivolta popolare a favore del re Federico d'Aragona. Il Papa dovette
acconsentire incoronando Federico re di Sicilia nella cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296.
L'incoronazione fu sanzionata successivamente e definitivamente mediante la Pace di Caltabellotta
(già ricordata nella lezione XIV)
L'idea teocratica e la tassazione degli ecclesiastici
Bonifacio VIII riteneva infatti, più di suoi predecessori che si erano già orientati in questo senso,
come Gregorio VII, Innocenzo III e Gregorio IX, che l'autorità del papa fosse al di sopra del potere
dei regnanti, i quali, come battezzati, erano sottoposti come gli altri fedeli alla Chiesa. All'interno di
questa si collocava la cosiddetta Christianitas, ossia la comunità socio-politica dei popoli cristiani. Il
capo naturale della Chiesa, cioè il Papa, era perciò anche il capo della Cristianità; data la
concezione gerarchica del potere nel medioevo, ne derivava che quello spirituale potesse indirizzare
e guidare il temporale, in qualunque questione che implicasse il bene delle anime o la prevenzione e
la repressione del peccato. È questa la concezione detta generalmente teocrazia pontificia. Avendo
espulso dalla sfera sacrale l’imperium degradandolo di fatto ad una istituzione profana (anche se
bisognosa della consacrazione religiosa per esercitare il suo potere), ora il Papato aveva come
avversario l'autorità regia dei singoli stati sovrani. L'idea bonifaciana non era dunque nuova, ma
nuovo era l'ambito di applicazione. Tra i teologi che maggiormente sostennero l’idea teocratica di
Bonifacio vi furono i due studiosi agostiniani Egidio Romano e Giacomo da Viterbo: quest'ultimo,
in particolare, con il suo trattato De regimine christiano approfondì e sostenne i temi del potere
temporale e del papato inteso come teocrazia.
Il primo atto della politica teocratica di Bonifacio avvenne con l'emanazione della bolla Clericis
laicos, nel 1296, mediante la quale il papa ribadiva la proibizione ai laici, sotto la pena di
scomunica, di tassare gli ecclesiastici, ed a questi ultimi di pagare i tributi eventualmente richiesti.
Infatti, durante la sede vacante del 1292-1294, tale norma era stata violata in Francia e Inghilterra. Il
re di Germania, Adolfo di Nassau - Vilburgo, candidato alla nomina imperiale, non si oppose per
motivi di opportunità. Egli, infatti, mirava alla corona imperiale, per cui aveva bisogno
dell'incoronazione papale. Anche in Inghilterra re Edoardo I Plantageneto dovette accettare
formalmente il rifiuto dei vescovi al pagamento delle imposte. La Francia assunse, invece, una
posizione molto diversa. Il re Filippo IV il Bello, non respinse la bolla papale (altrimenti sarebbe
incorso nella scomunica), ma emise una serie di editti, nei quali vietava a chiunque, laico od
ecclesiastico che fosse, l'esportazione di denaro e preziosi. In questo modo le rendite percepite
dalla Santa Sede in Francia, la nazione più ricca dell'Occidente, non sarebbero state consegnate a
Roma. La posizione di re Filippo fu talmente astuta che il Papa si vide costretto ad addivenire ad un
accordo, autorizzando il re francese a riscuotere le imposte dal clero, in caso di estrema necessità,
anche senza la preventiva autorizzazione pontificia.
I contrasti con la curia: i Colonna
A causa del suo atteggiamento arrogante ed accentratore, il pontefice aveva provocato l'insorgere di
uno schieramento a lui ostile, sia nella Curia che nell'aristocrazia romana. Questo schieramento era
capeggiato dai cardinali Giacomo Colonna e Pietro Colonna - acerrimi nemica della famiglia dei
Caetani - i quali sostennero che la sua elezione era da ritenere illegittima poiché non doveva essere
considerata valida l'abdicazione di papa Celestino V. Questa posizione, che poteva preludere ad un
possibile scisma, era fortemente appoggiata anche da tutto il movimento dei Francescani spirituali.
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La perdita di potere interno aveva, quindi, indotto il Pontefice ad essere più tollerante verso le
resistenze di Filippo il Bello. Ai Francescani spirituali si aggregarono, contro Bonifacio, anche i
Celestini: l'insieme di questi due gruppi di religiosi prese il nome di Bizochi. La lotta all'interno
delle istituzioni ecclesiastiche toccò il suo culmine nei primi giorni del maggio 1297, quando i due
Colonna, alcuni loro familiari ed amici e tre Francescani spirituali sottoscrissero un memoriale con
il quale il papa veniva dichiarato decaduto, sempre a causa della sua illegittima elezione, con
espresso invito ai fedeli a non portargli più obbedienza.
La durissima reazione del Pontefice non si fece attendere: i due cardinali furono destituiti e
scomunicati ed i beni di famiglia confiscati. Si aprì così una vera e propria guerra tra il papa ed i
Colonna, nella quale questi ultimi speravano in un intervento del re di Francia, ma Filippo il Bello
non desiderava ulteriori contrasti con Bonifacio in quel particolare momento.
A conclusione della contesa con i Colonna, i due porporati dovettero riparare in Francia sotto la
protezione di Filippo il Bello, e i loro beni furono confiscati e divisi tra un ramo dei Colonna vicino
al papa e la famiglia degli Orsini, anch'essi acerrimi nemici dei Colonna. Il 3 ottobre 1299 Papa
Bonifacio accettò dal libero comune di Velletri l'elezione a podestà per una legislatura (6 mesi).
L'istituzione del Giubileo
Uno dei più importanti successi del pontificato di Bonifacio fu senz'altro l'istituzione del Giubileo.
Sul finire del 1299 moltissimi pellegrini si erano radunati a Roma, spinti da un vero e proprio moto
popolare spontaneo, che rendeva pieno di grandi aspettative il secolo che stava per iniziare.
Prendendo così spunto da questa vasta iniziativa spontanea ed ispirandosi sia alla leggenda
dell’Indulgenza dei Cent'anni, risalente almeno a Innocenzo III, che alla Perdonanza, voluta dal suo
predecessore Celestino V, Bonifacio istituì l'Anno Santo, nel quale potevano lucrare l'indulgenza
plenaria tutti i fedeli che avessero fatto visita alle Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura.
Secondo molti storici il giubileo rappresentò per il papa «una breve ma felice parentesi di pace»,
che gli permise, tra l'altro, di rimpinguare le finanze pontificie; egli infatti temeva il blocco delle
"decime", ed istituì il Giubileo anche per motivi economici. In tal senso fu sicuramente piuttosto
notevole l'afflusso di denaro, ma il papa non ricevette l'omaggio dei sovrani d'Europa e questo fu
per lui motivo di grande delusione. Le assenze dei regnanti volevano in qualche modo significare
che la sua aspirazione di riunire nelle sue mani sia il potere spirituale che quello temporale era
probabilmente soltanto un'illusione.
La questione fiorentina: Bianchi e Neri, Carlo di Valois, Dante
In quegli stessi anni esplose con violenza la diatriba fiorentina tra le due parti della città,
storicamente e tradizionalmente guelfa, ma divisa tra la famiglia dei Cerchi, di recente ricchezza
commerciale e finanziaria, e quella dei Donati, di antica nobiltà oligarchica. I Cerchi furono
identificati con i Bianchi, ed i Donati con i Neri. La controversia fra le due parti fu durissima e
senza esclusione di colpi: il 18 aprile 1300 tre fiorentini residenti alla corte pontificia furono
condannati per alto tradimento: il papa intervenne subito in loro difesa ed inviò in città, anche dopo
i gravi disordini di Calendimaggio del 1300, il cardinale Matteo d'Acquasparta, con poteri molto
ampi.
Peraltro il cardinale non ottenne i risultati sperati dal pontefice e fu, anzi, costretto, dopo un grave
attentato alla sua persona, a lasciare Firenze, decretando la scomunica contro i maggiorenti cittadini
e l'interdetto contro l'intera città. Bonifacio decise allora di mandare a Firenze Carlo di Valois, già
accolto in Italia con grandi onori, che fu nominato, tra l'altro, paciere di Toscana, ed intervenne
nella città, con i suoi numerosi armati e con grande determinazione, tra il novembre 1301 e l'aprile
1302, portando alla supremazia della parte Nera (Donati), maggiormente gradita al pontefice.
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In quegli stessi anni Dante Alighieri, che apparteneva alla parte Bianca, e ricopriva importanti
incarichi di governo nella città, si trovò più volte in contrasto con il papa: agli inizi del 1302 Dante
venne inviato e Roma con un'ambasceria per trovare un accordo con Bonifacio, ma fu trattenuto
presso la corte papale -anche con pretesti- per lunghissimo tempo, forse per ordine del pontefice,
mentre, in quello stesso periodo, il nuovo Podestà di Firenze, Cante Gabrielli, lo condannava al
rogo ed alla perdita delle proprietà. Dante, di fatto esiliato, non rientrò mai più in Firenze e maturò
una forte avversione per il pontefice, che riteneva responsabile della sua disgrazia.
I nuovi contrasti con Filippo il Bello
Vi erano stati, nel frattempo, profondi cambiamenti nella situazione della Germania, ove vi era un
nuovo Re dei Romani nella persona di Alberto I d'Asburgo, che aveva affrontato in battaglia Adolfo
di Nassau, sconfiggendolo ed uccidendolo. Il nuovo re tedesco aveva incontrato quasi subito Filippo
il Bello nei pressi di Vaucouleurs, stringendo un accordo con lui (dicembre 1299). Questa alleanza
contrastava con i desideri del Papa che, da un lato, intendeva sottrarre la Chiesa francese al
controllo di re Filippo e, dall'altro, temeva fortemente una ripresa delle mire dell'imperatore tedesco
sull'Italia, mire che erano cessate con la fine della casa di Svevia nel 1266.
La cosa, ovviamente, irritò e preoccupò notevolmente Bonifacio VIII, anche perché Filippo, pochi
mesi prima (luglio 1299), aveva accolto presso la sua corte i Colonna. Una vicenda religiosa acuì
ulteriormente la crisi tra Bonifacio e Filippo il Bello: nel marzo 1298 il conte Ruggero Bernardo IV
di Foix si impadronì dell’abazia di San Antoine – di cui era abate il Saisset- sotto protezione
papale; la reazione del pontefice fu energica e rapida: scrisse al re una dura lettera in cui lo
rimproverava per la sua inattività nella vicenda, minacciò di scomunica il conte e, finalmente,
eresse a diocesi la città di Pamiers, nominandone vescovo proprio il Saisset. Filippo, stimolato
anche dal conte di Foix, nell'ottobre 1301 fece arrestare il Saisset con l'accusa di alto tradimento,
confiscandogli anche il patrimonio.
La risposta di Bonifacio VIII non si fece attendere e giunse il 4 dicembre 1301 con la bolla Salvator
Mundi, mediante la quale il papa abolì tutti i privilegi ch'egli aveva concesso a re Filippo
allorquando lo aveva autorizzato a riscuotere le imposte agli ecclesiastici. anche senza il consenso
papale. Inoltre convocò l'episcopato francese e lo stesso re ad un sinodo, da tenersi a Roma l'anno
seguente, al fine di definire una volta e per sempre i rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Questo
atteggiamento autoritario del pontefice provocò l'immediata reazione di Filippo IV. Nel corso degli
Stati Generali, riuniti a Parigi per la prima volta da Filippo il 10 aprile del 1302, egli ottenne
l'approvazione unanime dell'assemblea alla stesura di una lettera indirizzata al Papa, nella quale
veniva respinta la posizione del pontefice. Il re inoltre proibì ai vescovi francesi di recarsi a Roma
per il sinodo.
La Unam Sanctam: le conseguenze
Nel corso del sinodo, al quale parteciparono trentanove vescovi francesi nonostante il divieto di
Filippo il Bello, il 18 novembre 1302 Bonifacio VIII emanò la celebre bolla Unam Sanctam, nella
quale veniva ribadito dogmaticamente il seguente concetto: «…nella potestà della Chiesa sono
distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la
seconda per la Chiesa, quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione
del sacerdote [...], la potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale [...], chi si
oppone a questa suprema potestà spirituale, esercitata da un uomo ma derivata da Dio, nella
promessa di Pietro, si oppone a Dio stesso. È quindi necessario per ogni uomo che desidera la sua
salvezza assoggettarsi al vescovo di Roma». In caso di inosservanza di quanto decretato dal papa la
pena era la scomunica.
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La reazione di Filippo IV fu estremamente determinata e decisa anche questa volta, ma con scopi
definitivi: infatti il suo obiettivo finale era procedere infine alla sua deposizione. In ciò gli furono
molto utili le testimonianze dei Colonna, che erano stati scomunicati da papa Bonifacio e si
trovavano ancora sotto la protezione del re. La decisione di processare il papa fu adottata da Filippo
nel corso di una riunione del Consiglio di Stato da lui convocata al Louvre il 12 marzo 1303.
Occorreva però la presenza del pontefice al processo. A tal fine il sovrano incaricò il Consigliere di
Stato Guglielmo di Nogaret di catturare il papa e condurlo a Parigi.
Il pontefice, venuto a conoscenza delle manovre del re, tentò di guadagnare l'amicizia del re dei
Romani, Alberto I d'Asburgo, sottraendolo all'alleanza con il re di Francia. Venuto a conoscenza
che Alberto d'Asburgo era stato riconosciuto dal Papa re di Germania e temendo di averne perso
l'alleanza, re Filippo cercò di accelerare i tempi per la messa in stato di accusa del Papa.
Numerose furono le accuse formulate verso il Caetani quella di aver fatto assassinare il suo
predecessore Pietro da Morrone, già papa Celestino V, di negare l'immortalità dell'anima e di aver
autorizzato alcuni sacerdoti alla violazione del segreto confessionale, di simonia, di sodomia, di
eresia e di molte altre colpe. Sulla base di queste infamanti accuse, il re propose di convocare un
Concilio per la destituzione del Pontefice e la sua proposta fu approvata anche dalla quasi totalità
del clero francese.
Lo schiaffo di Anagni e la morte
All'inizio di settembre del 1303 il Nogaret e Sciarra Colonna, entrati indisturbati in Anagni,
riuscirono a catturare il papa dopo un assalto al palazzo pontificio e per tre giorni Bonifacio restò
nelle mani dei due congiurati, che non risparmiarono ingiurie alla persona del pontefice (l'episodio è
noto come lo schiaffo di Anagni, anche se pare che in realtà il papa non sia stato colpito fisicamente
ma pesantemente umiliato).
Le numerose ingiurie inferte al papa, unitamente al contrasto tra il Nogaret e il Colonna sul destino
del Caetani, che li rese dubbiosi ed indecisi (il primo lo voleva infatti prigioniero a Parigi, il
secondo lo voleva morto), indussero la città di Anagni a rivoltarsi contro i congiurati e a prendere le
difese del papa concittadino. Vi fu pertanto un'inversione di rotta da parte della borghesia di Anagni
che mise in fuga i congiurati e liberò il papa, guadagnandosi la sua benedizione ed il suo perdono.
Morì l'11 ottobre del 1303 e fu sepolto nella Basilica di San Pietro. Le spoglie del pontefice, invece,
furono sistemate nelle Grotte Vaticane, dove si trovano tuttora, nel bel sarcofago funerario
realizzato da Arnolfo di Cambio.
Il processo post mortem contro Bonifacio VIII e lo spostamento della sede pontificia ad
Avignone
In una riunione del Consiglio di Stato, tenutasi il 13 e 14 giugno del 1303, il processo venne
formalmente istruito con la formulazione delle accuse contro Bonifacio VIII. I capi d'accusa contro
il papa furono ben ventotto o addirittura ventinove. Dopo la morte di Bonifacio la situazione cambiò
radicalmente, ma il re, anziché fermare il processo, capì che, continuandolo, avrebbe avuto in mano
un'arma pesantissima contro il papato; così, qualche tempo dopo, le vicende del processo finirono
per intrecciarsi strettamente con le vicende di papa Clemente V, che era stato eletto al soglio
pontificio il 5 giugno 1305, al termine del lungo conclave perugino seguito alla morte di papa
Benedetto XI, successore per soli otto mesi di Bonifacio VIII.
Clemente V, che era francese ed aveva trasferito in Francia la curia pontificia, finì per aderire
alle incessanti pressioni di Filippo il Bello e riprese il processo contro Bonifacio tra il 1310 ed il
1313, anno in cui riuscì a concludere il processo stesso senza che il defunto pontefice venisse
condannato, pagando peraltro al re francese, per questo compromesso, un pesante tributo in termini
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di concessioni: furono infatti annullate tutte le sentenze di Bonifacio contro Filippo, contro la
Francia e contro i Colonna; furono assolti da ogni accusa gli autori dell'oltraggio di Anagni; fu
infine proclamato, con il decreto papale «Rex gloriae virtutum», che, nelle azioni contro Bonifacio,
il re di Francia era stato mosso da «zelo e giustizia».
Filippo otterrà anche da Clemente V la soppressione dell'Ordine dei Templari, dei cui ingentissimi
beni il sovrano francese riuscirà ad impadronirsi.
Roma
Il successore di Bonifacio VIII, Papa Clemente V non mise mai piede a Roma, iniziando la serie di
pontefici che ebbero la propria residenza presso la città francese di Avignone. Fu un periodo di forte
decadenza per Roma, la cui economia si basava in larga parte sulla presenza della corte papale e sui
pellegrinaggi.
La rivalità tra gli Orsini e i Colonna non smise di manifestarsi, in particolare in occasione dell'arrivo
in città nel 1312 dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo, detto anche Arrigo, il quale dovette
aprirsi con le armi la strada verso la Basilica di San Pietro. Papa Giovanni XXII nominò quindi
Senatore della città e suo vicario, il re di Napoli Roberto d'Angiò, che governò la città per mezzo di
funzionari. Nel 1328 giunse a Roma l'imperatore Ludovico il Bavaro, che venne incoronato da
Sciarra Colonna nonostante l'opposizione del papa, causando l'interdetto papale contro la città. Nei
successivi disordini l'imperatore fu costretto ad asserragliarsi entro le mura del Vaticano. Dopo la
sua partenza Roberto d'Angiò riprese la carica di Senatore, che successivamente passò di nuovo allo
stesso pontefice, Benedetto XIII
Cola di Rienzo (Roma 1313-1354)
Era di umilissime origini. Si mostrò fin da giovanissimo, oltre che di bell'aspetto, di intelligenza
assai vivace, e appassionato dell'antichità in mezzo ai cui ruderi viveva. Ottimo oratore, divenne
notaio, e in questa veste fu mandato ad Avignone alla corte papale come ambasciatore del governo
popolare di Roma, detto dei «Tredici buoni uomini», presso papa Clemente VI. Il papa lo apprezzò
molto ed egli colse l'occasione di questa familiarità per lamentare i soprusi dei baroni romani,
attirandosi così le ire del cardinale Giovanni Colonna.
Tornò tuttavia a Roma nel 1344 con l'incarico di notaio della Camera Apostolica, istituzione dello
Stato pontificio che attraverso i suoi componenti - camerlengo, tesoriere, commissario, chierici di
camera ed altri - amministrava le finanze e osservava le competenze legislative e giudiziarie.
Ora aveva diritto di parlare pubblicamente nel palazzo senatorio, e cominciò con l'ammonire «li
officiali e li rettori che dovessino provvedere allo buono stato della citate».
Per farsi capire anche dalla stragrande maggioranza analfabeta dei romani fece dipingere sul
Campidoglio un grande affresco dove si vedeva un mare tempestoso: in mezzo c'era Roma, dolente
e vestita a lutto, e circondata da altre donne già morte che rappresentavano le antiche città potenti e
cadute: Babilonia, Cartagine, Troia, Gerusalemme. A sinistra, su due isolette, l'Italia e le virtù
cardinali, tristi e spaventate. A destra, su un'altra isoletta, la Fede cristiana che pregava: «O summo
patre, duca e signor mio, se Roma père dove starraio io?». A minacciarla, sullo stesso lato, vari
piani di animali: leoni, lupi e orsi a rappresentare i baroni; cani, porci e caprioli a rappresentare i
loro clienti; pecoroni, dragoni e volpi a rappresentare i popolari intenti, all'ombra dei precedenti, ai
propri affari ingiusti.
A beneficio di chi sapeva leggere, tutte le figure avevano il loro cartiglio, a mo' di fumetto
moderno. Il popolo, riferisce il cronista, guardava e stupiva.
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In Laterano ritrovò poi, utilizzata come tavola d'altare, la lex de imperio Vespasiani, nella quale il
Senato romano investiva Vespasiano del potere imperiale. Cola la pubblicò installandola al centro
di un altro affresco che rappresentava il Senato romano e convocando in Laterano una grande
assemblea dei potenti di Roma, a cui la lesse, intendendo con ciò sostenere che dovevano essere i
romani a conferire il potere all'imperatore.
Il successivo exploit iconografico fu un terzo affresco fatto eseguire nella chiesa di Sant'Angelo in
Pescheria, dove erano rappresentati sulla sinistra una gran fiamma quasi infernale nella quale
ardevano nobili e popolari, e Roma nella figura di una vecchia donna che cercava di scampare al
fuoco. Sulla destra, in cima all'altissimo campanile di una chiesa da cui usciva l'Agnello, stavano
San Pietro e San Paolo che invocavano salvezza «alla albergatrice nostra». Una colomba portava
una corona di mortella e la passava ad un uccellino assai piccolo per mandarla, in segno di salvezza,
all'antica donna.
L'ascesa al Campidoglio
I ragionamenti di Cola sul bisogno di sollevare la città dalla prepotenza dei baroni e dalla miseria
che ne nasceva fecero breccia in un gruppo di cittadini e presso lo stesso vicario del papa. Alla fine
di aprile del 1347 Cola di Rienzo salì al Campidoglio con un centinaio di uomini di scorta,
preceduto da tre gonfaloni che rappresentavano:



il primo, rosso a lettere d'oro, Roma seduta tra due leoni con il mondo in una mano e la
palma della vittoria nell'altra;
il secondo, bianco, rappresentava san Paolo con la corona della giustizia e la spada in mano;
il terzo, san Pietro, "con le chiavi della concordia e della pace".
Il popolo andò ad ascoltare, e Cola proclamò i suoi ordinamenti dello buono stato.
L'obiettivo di Cola era fare anche di Roma, nonostante fosse sede del papa e teoricamente anche
dell'imperatore, un Comune dotato di propri ordinamenti e risorse, governato da rappresentanti del
popolo di Roma, animato dalla memoria della sua grandezza.
Gli ordinamenti prevedevano quindi un sistema di regole finalizzato a:



limitare la violenza privata;
destinare le risorse pubbliche al sostegno dei cittadini (aiuti ad orfane, vedove, monasteri;
granai pubblici ai quali ricorrere in caso di bisogno; divieto di demolizione degli antichi
edifici, che dovevano essere conferiti al Comune);
stabilire nuovi rapporti politici con i baroni e con le città vicine (che essi tenevano
infeudate).
Questo programma di governo era l'esatto contrario di quanto concretamente accadeva, ed
entusiasmò il popolo, che conferì a Cola la signoria del comune (associandogli tuttavia il
rappresentante del papa).
Il conflitto con i baroni
La prima reazione dei baroni fu rabbiosa: Stefano Colonna, che l'editto di Cola aveva sorpreso a
Corneto, tornò precipitosamente a Roma a stracciarlo pubblicamente. Il popolo però, richiamato
dalle campane a stormo, intervenne con furore e mise in fuga il Colonna, e anzi, il giorno dopo Cola
comandò che i baroni si ritirassero nei loro castelli fuori città abbandonando i ponti che
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occupavano, e così fu fatto. Dopodiché, Cola fece giustizia sommaria dei loro uomini trovati in città
e che si erano resi protagonisti di violenza, facendosi poi nominare «Tribuno del popolo romano»
(l'altro era il vicario papale).
I baroni tentarono allora di organizzare una congiura contro il tribuno ma, rissosi e competitivi
com'erano, non riuscirono ad accordarsi neppure contro il nemico comune.
Forse preoccupati per la piega presa dalla situazione, ma soprattutto convinti, ognuno, di poter
avere personalmente ragione di Cola in danno dei propri pari, vennero invece, uno per volta, ad
arrenderglisi, accettando di giurare sul Vangelo fedeltà al Tribuno e ai Romani.
La rinascita della città
Cominciò allora un breve periodo in cui sembrò che Roma, partendo dalla memoria dell'antica
grandezza, potesse sviluppare una civiltà comunale: le classi che allora rappresentavano la
modernità e altrove conducevano le città fuori dal Medioevo - giudici, notai, mercanti - vennero a
giurare fedeltà al nuovo Comune; in Campidoglio si amministrava una giustizia equa, severa contro
i baroni ma anche contro i popolani che avessero approfittato del proprio ufficio; i vessatori
fuggivano dalla città.
Tutta Roma, compresa la maggior parte dei nobili, mostrava a Cola grande rispetto e attaccamento e
pagava al Comune senza protestare i tributi prima prelevati dai signori feudali. Non mancarono
guerre, ai pochi che non volevano assoggettarsi come il signore di Viterbo, con i quali Cola, forte
della propria armata e della propria fama, concluse una pace equa. Cola intraprese anche una sua
politica estera, mandando messi per l'Italia a città e nobili, all'Imperatore e al Papa, ad annunciare la
nuova Roma.
La caduta
Poi l'incantesimo si ruppe: in Cola il sentimento della grandezza, di Roma e sua propria,
cominciò a sconfinare nel delirio. Si proclamò cavaliere, nel battistero di San Giovanni, tra grandi
festeggiamenti e proclamazioni (che cominciavano a suscitare resistenze e mormorii). Poi, in
Campidoglio, fece arrestare i Colonna e gli Orsini che lo avevano sostenuto minacciandoli di
esecuzione. Per quella volta fu convinto a soprassedere, ma quelli ripararono nei loro castelli e i
Colonna da Marino cominciarono a fare scorrerie contro Roma. Cola prima gli devastò le terre poi
li sconfisse nella Battaglia di Porta San Lorenzo (20 novembre 1347), ma intanto la sua mente
svaniva: si convertì in tiranno, si abbandonò al lusso e alla gola. Il legato pontificio lo abbandonò, i
baroni rialzarono la testa, il popolo non accorse più alle scampanate. Spaventato a morte e dicendosi
vittima dell'invidia Cola si rifugiò a Castel Sant'Angelo, mentre il legato lo dichiarava eretico e
nominava nuovi senatori.
Il ritorno e la morte
Cola riuscì a fuggire da Roma, travestito da frate, rifugiandosi prima in Boemia presso il re Carlo
IV (1346-1378), dove riprese la vita di studioso ed ebbe grandi onori, poi, contro l'opinione
generale, decise di andare a presentarsi al papa in Avignone. Il papa era allora Innocenzo VI, che
prima imprigionò blandamente Cola, poi lo esaminò, riconobbe che non era eretico e si convinse a
revocare il suo processo e a rimandarlo a Roma, con il cardinale di Spagna Egidio Albornoz suo
legato. Era il 24 settembre 1353.
Durante il viaggio verso Roma fu fatto segno a grandi manifestazioni di meraviglia per essere
scampato e, almeno a parole, di consenso politico. Ma il potere chiede denaro. A Perugia il legato
non sborsò uno scudo, ma nominò Cola senatore e lo autorizzò a rientrare a Roma. Cola riuscì con
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qualche fatica a farsi finanziare il viaggio e una compagnia di qualche centinaio di armati, fra
mercenari tedeschi e cittadini di Perugia, da Arimbaldo de Narba, perugino, che aveva convinto di
poter diventare, con lui, signore di Roma.
Arrivato a Roma, il popolo gli uscì incontro con grande cordialità e lo accompagnò festoso dalla
porta di Castello fino a Campidoglio, ascoltò entusiasta il suo discorso. Presto però si vide che
l'uomo, pur mantenendo la sua grande abilità oratoria, era diventato un grasso ubriacone incline a
straparlare, assetato di vendetta contro chi lo aveva scacciato da Roma, traditore per giunta, giacché
fece condannare i suoi sostenitori perugini per confiscarne i beni, e, costretto com'era a procurarsi
denaro per mantenere i suoi soldati, anche esoso.
Le nuove gabelle che infliggeva lo resero presto inviso. L'8 ottobre 1354, un suo capitano che aveva
destituito sollevò il popolo e lo condusse a Campidoglio. Là Cola, abbandonato da tutti i suoi, tentò
per l'ultima volta di arringare i romani, che risposero dando fuoco alle porte. Cola allora cercò di
scampare travestendosi da popolano pezzente, alterando anche la voce. Ma fu riconosciuto dai
braccialetti d’oro che non si era tolto, smascherato e condotto in una sala per essere giudicato. «Là
addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo uomo era ardito toccarelo», finché un popolano «impuinao
mano ad uno stocco e deoli nello ventre.»
Gli altri seguirono, ad infierire, ma Cola era già morto. Il cadavere fu trascinato fino a San Marcello
in via Lata, di fronte alle case dei Colonna, e lì lasciato appeso per due giorni e una notte. Il terzo
giorno fu trascinato a Ripetta, presso il Mausoleo di Augusto, che era sempre un territorio dei
Colonna, lì bruciato (commenta l'Anonimo: «Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva
volentieri»), e le ceneri disperse.
La memoria
Benché non fosse mai stato anticlericale, ma anzi avesse sempre accuratamente coltivato il sostegno
papale alle proprie imprese, la figura di Cola di Rienzo fu assai cara all'immaginario risorgimentale
e massone, che ne fece l'eroe antesignano di un risorgimento di Roma rimasto incompiuto.
A lui furono dedicate nel 1872 una lapide nei pressi della casa di nascita a san Bartolomeo dei
Vaccinari, e nel 1887 la statua ai piedi del Campidoglio, il cui basamento, formato da un insieme di
frammenti architettonici di epoca romana e importante almeno quanto la figura, rappresenta
appunto il sogno di Cola di ripristino dell'antica gloria di Roma.
Gli fu inoltre intitolato il principale rettifilo del nuovo rione Prati, destinato a ospitare le prestigiose
abitazioni dei funzionari dello Stato umbertino.
La “cattività avignonese” dei papi (1309-1377)
Un altro degli aspetti della crisi del Trecento è quello che tocca il Papato. La nuova realtà degli stati
nazionali (la Francia di Filippo il Bello, nella fattispecie) fosse sempre più arrogante e insofferente
nei confronti della Chiesa e del Papato. Si giunge infatti al trasferimento della sede papale da Roma,
ad Avignone, città formalmente di sovranità pontificia, ma circondata dal regno di Francia. Per
quasi settant'anni, dal 1309 al 1377, i Papi, sette in tutto, eletti da un collegio di cardinali in cui i
francesi avevano la prevalenza, risiedettero ad Avignone. Si è soliti definire quel periodo di storia
del Papato come l'esilio o la "cattività" avignonese, istituendo una analogia col periodo che il
popolo eletto dovette trascorrere, in condizioni di analoga non-libertà, a Babilonia.
In effetti i Papi di Avignone furono, se non prigionieri del Re di Francia, almeno fortemente
condizionati dal trovarsi in un territorio di fatto francese. Uno dei maggiori storici della Chiesa, il
Lortz, definisce quel periodo come "un terribile colpo inferto sia alla forza interna, che al prestigio
del Papato". La massima autorità della Chiesa, in modo incomprensibile alla stragrande
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maggioranza dei fedeli, sposta la sua sede abituale per trasferirsi in una città del Mezzogiorno di
Francia, che non aveva niente di significativo per la fede. Ciò facendo i Papi cedono alle pressioni
del Re di Francia e finiscono per essere condizionati assumendo spesso iniziative concrete che
riducevano il loro prestigio e la loro credibilità. La curia papale di Avignone infatti si dedica in
modo eccessivo a questioni di carattere fiscale e finanziario, trascurando altri compiti. Tale
fiscalismo esoso era funzionale al mantenimento di una vita di corte "sfarzosa". Inoltre troppo
spesso il Papa ricorreva all'interdetto e alla scomunica, per motivazioni non proporzionate a tali,
eccezionali, misure punitive. Un tale abuso finì col rendere quelle misure inefficaci, in quanto
l'arma dell'interdetto, ove applicata fedelmente, comportava l'isolamento dalla vita sacramentale,
anche per la durata di anni, per un elevato numero di fedeli. Non a caso è in quel contesto che
fioriscono discussioni sulla possibilità che un Papa sia eretico. Di fatto le accuse in tal senso contro
Bonifacio VIII erano state evidentemente strumentali. Nel Papa in effetti si vede sempre più un
sovrano politico accanto ad altri. È però giusto ricordare come, in tale periodo stesso, la maggiore
responsabilità diretta della mondanizzazione della Chiesa va attribuita piuttosto alla curia pontificia,
divenuta un pesante e potente apparato, che ai singoli Papi i quali in realtà cercarono di porre un
freno agli abusi curiali.
Gregorio XI (1370-1378) venne sollecitato da molte parti a ritornare a Roma: in quest'opera di
convincimento fu molto attiva Santa Caterina da Siena. Il Pontefice si rendeva conto che i motivi
che avevano determinato, decenni prima, il trasferimento ad Avignone erano ormai superati: la
Francia era assorbita dalla Guerra dei cent'anni (1337-1453) e la situazione di Roma sembrava
volgere al meglio. Non si poteva ulteriormente rimandare senza il rischio di vedere il tracollo del
concetto stesso di Santa "Romana" Chiesa. Il 27 gennaio 1377 il Papa fece solenne rientro a Roma.
Lo scisma d’Occidente (1378-1417)
L'origine dello scisma è da ricercare nel trasferimento della sede apostolica da Avignone a Roma,
voluta da papa Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort) nel 1377 dopo circa settant'anni di
permanenza nella cittadina provenzale. Morto Gregorio l'anno successivo, il collegio cardinalizio,
dominato da prelati francesi, si apprestò ad eleggere un nuovo papa transalpino. I romani si
sollevarono con l'obiettivo di scongiurare tale evento, poiché temevano che un nuovo papa francese
avrebbe potuto disporre il ritorno ad Avignone. Il popolo reclamò a gran voce la scelta di un papa
gradito, gridando nelle piazze: "Romano lo vogliamo o, almeno, italiano".
L'8 aprile 1378, i cardinali si riunirono in conclave ed elessero al Soglio di Pietro il napoletano
Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, che assunse il nome di Urbano VI. Già valente e
rispettato amministratore della Cancelleria Apostolica ad Avignone, Urbano, da papa, si dimostrò
severo e esigente. Alcuni cardinali, in particolare quelli francesi, che si erano riuniti ad Anagni per
congiurare contro il papa (qualcuno di essi propose anche la cattura e sostituzione del nuovo
pontefice), abbandonarono Roma e si riunirono in una città situata oltre il confine dello Stato,
Fondi, sotto la protezione del conte Onorato Caetani. Il 20 settembre di quello stesso anno, dopo
appena cinque mesi, i cardinali "scismatici" elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, che
prese il nome di Clemente VII. La decisione di eleggere un nuovo papa era motivata dal fatto che
taluni cardinali avrebbero preferito un altro pontefice più vicino alle loro idee politiche. Tentarono
quindi di far passare come invalida l'elezione di Urbano VI, sostenendo la dipendenza del conclave
da pressioni esterne. Dopo qualche tempo, l'antipapa Clemente VII ristabilì la propria corte ad
Avignone, in opposizione alla sede romana di Urbano VI. Con due pontefici in carica, la Chiesa
occidentale fu spezzata in due corpi autocefali e la stessa comunità dei fedeli risultò divisa fra
"obbedienza romana" e "obbedienza avignonese".
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Rispetto ai conflitti tra pontefici rivali del passato, che pure avevano dilaniato più volte la Chiesa, la
rottura del 1378 presentava aspetti molto più gravi e preoccupanti. Non si trattava di papi e
antipapi nominati da fazioni rivali, ma di pontefici eletti in apparente legittimità da coloro che soli
ne avevano il potere: i cardinali.
Successori dello scisma
Da questione puramente ecclesiastica, il conflitto si trasformò ben presto in una crisi politica di
dimensioni continentali, tale da orientare alleanze e scelte diplomatiche in virtù del riconoscimento
che i sovrani europei tributarono all'uno o all'altro pontefice. All'obbedienza avignonese si
allinearono i regni di Francia, Aragona, Castiglia, Cipro, Borgogna, Napoli, Scozia, Sicilia e il
Ducato di Savoia; restarono invece fedeli a Roma i regni d'Inghilterra, Portogallo, Danimarca,
Norvegia, Svezia, Polonia, Ungheria, l'Irlanda, gli Stati italiani e le Fiandre. Nei domini imperiali e
nei territori dell'Ordine teutonico, ufficialmente obbedienti a Roma, si registrarono oscillazioni a
livello locale. Il dilemma provocato dallo scisma coinvolse anche grandi personalità religiose, quali
i futuri santi Caterina da Siena, schierata dalla parte di Urbano VI, e Vicente Ferrer, sostenitore di
Clemente VII.
Mappa che mostra lo Scisma d'Occidente
Le curie papali di Roma e Avignone continuarono ad agire con pretesa di legittimità anche oltre i
pontificati dei due primi contendenti, eleggendone i successori e perpetuando così lo scisma. Nel
1389, alla morte di Urbano VI, i cardinali romani elevarono al soglio pontificio Pietro Tomacelli,
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che assunse il nome di Bonifacio IX, mentre ad Avignone, scomparso Clemente, fu eletto nel 1394
Pedro Martìnez de Luna, papa Benedetto XIII. Uno spiraglio sembrò aprirsi nel 1404, quando alla
morte di Bonifacio IX i cardinali del conclave si dissero disposti ad astenersi dall'eleggere un
successore qualora Benedetto avesse accettato di dimettersi. Di fronte al rifiuto del papa
avignonese, i cardinali romani procedettero all'elezione e la scelta cadde su Cosimo de' Migliorati,
papa col nome di Innocenzo VII. Due anni dopo, nel 1406, gli successe il cardinale Angelo Correr
(Gregorio XII).
Nel frattempo, negli ambienti colti dell'Europa cattolica, teologi ed eruditi cominciarono a
ipotizzare soluzioni adeguate al problema, che rischiava ormai di delegittimare la funzione stessa
del papato e gettare la cristianità occidentale nel caos. Il rimedio più ovvio apparve la convocazione
di un concilio ecumenico che ricomponesse lo scisma e mettesse fine alla controversia, ma i due
rivali si opposero energicamente, non potendo accettare che si attribuisse a un concilio un potere
superiore a quello del papa.
Il Concilio di Pisa (1409)
Apparentemente impraticabile per l'opposizione dei contendenti, la soluzione conciliare fu ripresa
nel 1409, quando la maggior parte dei cardinali di entrambe le parti si riunì a Pisa per tentare la via
del compromesso. Il concilio stabilì la deposizione di Benedetto XIII e Gregorio XII, dichiarati
eretici e scismatici, e l'elezione di un nuovo pontefice, che salì al trono papale col nome di
Alessandro V. Quello che avrebbe dovuto essere l'atto finale di uno scisma che da trent'anni
lacerava la comunità cattolica finì invece col complicare ulteriormente la situazione: Benedetto e
Gregorio, sostenuti da larghi strati del mondo ecclesiastico, dichiararono illegittimo il concilio e si
rifiutarono di deporre la carica, cosicché da due i papi contendenti divennero tre.
Il Concilio di Costanza (1414 - 1417)
La soluzione della crisi fu possibile soltanto qualche anno dopo, grazie all'iniziativa di Sigismondo
di Lussemburgo (1368-1437, futuro imperatore dal 1433 al 1437) e del nuovo pontefice pisano
Giovanni XXIII, succeduto nel frattempo ad Alessandro V. Convocato a Costanza, in Germania, nel
1414, il nuovo concilio chiuse i lavori soltanto nel 1417, quando tutte le questioni che minacciavano
la stabilità della Chiesa furono adeguatamente discusse e superate. Affermata l'autorità del concilio,
i padri conciliari dichiararono antipapi Giovanni XXIII e Benedetto XIII. Il papa Gregorio XII, per
il bene della Chiesa e accettando l'autorità del concilio, preferì dimettersi spontaneamente. Nel
corso di un breve conclave i padri elessero pontefice il cardinale Oddone Colonna, che assunse il
nome di Martino V. Il concilio di Costanza non negò l'autorità papale e fu profondamente cosciente
dell'importanza vitale del supremo pontefice per la Chiesa.
Jan Hus
Riformatore religioso boemo (Husinec, Boemia Merid., probabilmente 1369 - Costanza 1415).
Ordinato prete, divenne predicatore a Praga, dando prova di vasta cultura filosofico-teologica. Suoi
argomenti principali erano l'accusa della corruzione del clero e la necessità di una riforma della vita
morale di laici ed ecclesiastici. Si fece anche sempre più chiara la sua ammirazione per Wycliffe,
che seguì nella dottrina della predestinazione e più tardi difese. Un nuovo conflitto con Roma
scoppiò per la violenta opposizione di Hus alla promulgazione delle indulgenze da parte di
Giovanni XXIII. Sosteneva altresì le tesi degli utraquisti Fu scomunicato nel 1410 e fu costretto ad
abbandonare Praga; condannato dal concilio come eretico per le tesi sostenute nel De ecclesia, nel
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1415 fu arso sul rogo nonostante il salvacondotto imperiale. Le dottrine di Hus furono riprese dal
movimento nazionale ceco, che si chiamò appunto hussitismo.
Firenze 1378: la rivolta dei Ciompi
Premesse: la guerra degli 8 santi
Nel 1375 i legati pontifici stavano ri-assoggettando i territori dello Stato della Chiesa in vista di un
imminente ritorno del papa a Roma da Avignone. L'Italia non si era ancora ripresa dallo choc della
peste nera del 1348 e ancora ne subiva ciclicamente le conseguenze con ondate residue di epidemia,
carestia e stagnazione economica dovuta alla mancanza di manodopera.
I legati pontifici, tutti di origine francese e mal visti dalla popolazione locale, erano alle prese con
altri problemi a Bologna, quando giunse da Firenze la richiesta di grano che il cardinale nella città
emiliana Guglielmo di Noellet declinò seccamente. L'azione venne interpretata come un tentativo di
indebolire Firenze prima di provare a conquistarla, aggravata dall'ingresso delle truppe di Giovanni
Acuto, un mercenario inglese, nel territorio fiorentino (sebbene il legato si affrettasse a smentire
che il condottiero inglese fosse ancora al soldo della Chiesa).
Per rivalsa, incitati soprattutto nei ceti subalterni dai semiereticali "fraticelli" nemici della ricchezza
della corte avignonese, i fiorentini entrarono in lotta contro il Papa, fomentando la rivolta anche in
altre città Milano, Lucca, Siena, Pisa, alle quali si aggiunsero poi Arezzo, Viterbo, Perugia, Città di
Castello, Montefiascone, Foligno, Spoleto, Gubbio, Terni, Narni, Todi, Assisi, Chiusi, Orvieto,
Orte, Toscanella, Radicofani, Sarteano, Camerino, Fermo, Ascoli e molte altre.
A Firenze venne creata una magistratura apposita degli Otto di Guerra. Nel 1376 si unì alla lega
Bologna, fortemente sovvenzionata da Firenze a ribellarsi: a scopo dimostrativo Giovanni Acuto
compiva pochi giorni dopo l'eccidio di Forlì. Fu allora (31 marzo 1376) che papa Gregorio XI
decise di scomunicare i fiorentini dichiarando decaduto qualsiasi credito verso di loro ed iniziando
con lo scacciare seicento di loro da Avignone confiscando tutti i loro beni.
La contromossa dei fiorentini fu quella di iniziare a chiamare gli otto magistrati della guerra "Otto
santi", a sottolineare la legittimità morale delle loro rivendicazioni.
Quando Caterina da Siena, grande mediatrice tra gli interessi opposti dei fiorentini e del papato,
ottenne il rientro del papa in Italia si aprì un nuovo tavolo di trattative da Roma. La diplomazia però
non ebbe esito. Con la tregua stipulata da Bologna, i fiorentini decisero di arruolare Giovanni Acuto
dalla loro parte (aprile 1377), mentre il clero fiorentino veniva pesantemente tassato ed obbligato a
riaprire le chiese e celebrare le funzioni.
L'intransigenza degli Otto (la cui mancata deposizione era ormai l'unico motivo di attrito col
pontefice) venne mediata dall'intervento di Bernabò Visconti, che convocò una conferenza di
trattative a Sarzana, nella riviera di levante ligure, (12 marzo 1378) interrotta pochi giorni dopo (il
27) per la morte di Gregorio XI.
Il successore Urbano VI riuscì a far firmare un trattato di pace poco dopo (28 luglio) a Tivoli. I
fiorentini si impegnarono a pagare, in cambio della cancellazione dell'interdizione, la somma di
350.000 fiorini. Vennero pagati solo in parte.
I Ciompi
Col termine Ciompi, d'incerta origine,si designavano nel '300 a Firenze i salariati sottoposti alle
varie Arti o i professanti le più umili mansioni al di fuori di qualunque Arte, ma soprattutto i
lavoratori dipendenti dall'Arte della lana e ascendenti per numero a molte migliaia.
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Questi ultimi - unici forse nella gran massa della plebe fiorentina - si trovavano in condizione di
semplici salariati alla mercè degli imprenditori, che concedevano il lavoro, senza riconoscere
all'operaio il diritto di stabilire il prezzo della mano d'opera. Pagati giorno per giorno ad arbitrio
delle Arti con salari di fame, chiusi come condannati, durante tutta la giornata, in locali malsani,
vivevano in stato di vera servitù. Molto difficilmente potevano abbandonare la bottega cui erano
addetti e cercarsi altro padrone, sia perché l'Arte impediva a tutti i consociati di assumerli come
operai, sia perché indebitati quasi sempre con i padroni erano tenuti a servirli, finché col loro lavoro
non avessero saldato il debito. In caso di mancanze o di controversie non erano giudicati dal
tribunale dell'Arte, ma da un ufficiale forestiero, specie di bargello, eletto e pagato dall'Arte, che
poteva sottoporli alla tortura o a pene corporali. Non godevano dei diritti di cittadinanza e quindi
non partecipavano alla cosa pubblica; era loro impedito di riunirsi in leghe che potessero renderli
pericolosi per la forza del numero.
Nel 1345, un Ciuto Brandini eccitò i Ciompi di Lana a formare un'associazione, con consoli e capi,
per resistere alle angherie padronali. È il primo tentativo di un vero e proprio sindacato di lavoratori
in odio ai datori di lavoro, che la storia ricordi; e l'arresto di Ciuto portò a uno dei primissimi
scioperi di protesta. Ciuto fu decapitato e i Ciompi nulla ottennero.
La rivolta
Le enormi spese sostenute per la guerra degli otto santi e il suo sostanziale fallimento avevano
fortemente impoverito la città di Firenze e gettato un grave discredito sull'oligarchia guelfa al
governo della città. Le corporazioni artigiane organizzarono un forte tumulto per protestare contro i
banchieri e i mercanti che detenevano il potere cittadino
Il 24 giugno 1378 i Ciompi occuparono il Palazzo dei Priori, chiedendo il diritto di associazione e la
partecipazione alla vita pubblica. Grazie all'effetto sorpresa la loro protesta ebbe buon esito.
Riuscirono infatti a eleggere come gonfaloniere di giustizia (la più alta carica esecutiva della
Repubblica fiorentina, seppure con un mandato di durata molto breve) il loro leader Michele di
Lando, e ottennero la creazione di tre nuove Arti che rappresentassero i ceti più bassi (da allora
chiamato enfaticamente il "popolo di Dio"), quella dei Ciompi, appunto, quella dei Farsettai (i sarti)
e quella dei Tintori. Essi inoltre ottennero, per queste tre nuove corporazioni, il diritto di eleggere
un terzo delle magistrature della città.
Ma delle tre nuove Arti, una sola comprendeva i veri e proprî salariati, i Ciompi; le altre due
riunivano artigiani, sia pur modesti, ma con botteghe proprie che gestivano opifici sussidiarî delle
Arti della Lana, della Seta, di Calimala e che fino ad allora erano stati costretti a consociarsi con
esse in condizioni d'inferiorità. Erano dunque queste 2 arti veri e propri datori di lavoro, i cui
interessi non collimavano con quelli dei Ciompi.
Michele di Lando non fu un abile uomo politico. Trovatosi improvvisamente a gestire un grande
potere, fu continuamente bersagliato da richieste sempre maggiori dal popolo magro e venne messo
in cattiva luce per l'alleanza con alcuni membri del più ricco popolo grasso (tra i quali soprattutto
Salvestro de' Medici). Già in discredito verso gli operai che rappresentava, fu costretto a prendere
misure di repressione contro l'ondata di violenza che essi andavano scatenando, con ritorsioni
contro la nobiltà. Il malcontento contro la sua figura aumentò in poche settimane, soprattutto
quando venne chiesta e non concessa la cancellazione del debito verso i datori di lavoro. Fu allora
che i rappresentanti della vecchia oligarchia fecero cerchio per isolare la fazione dei Ciompi, ormai
disgregata internamente. L’Arte della Lana, la più importante bloccò le lavorazioni tessili e tutta
l’attività economica della città si fermò. Il "popolo grasso" si alleò con quello minuto (la piccola
borghesia).
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Le Arti maggiori, le Arti minori e le due Arti nuove composte di artigiani indipendenti si
accordarono tra loro; lo stesso Michele di Lando, sia indignato dagli eccessi dei suoi antichi
compagni, sia corrotto per denaro, si pose a capo della reazione.
La sconfitta
Il 31 agosto i Ciompi furono assaliti in Piazza della Signoria e costretti a fuggire. Per timore di un
loro ritorno, la notte i cittadini armati li assalirono nelle loro contrade e li massacrarono, i più
fuggirono di città. L'indomani mattina i cittadini convocati a parlamento, dichiaravano sciolta l'Arte
degli operai della Lana, confermando le altre due nuove Arti. Il tentativo dei Ciompi di costituire
un'associazione a sé, era caduto per sempre.
Dopo la loro caduta, tra il 1378 e il 1382, mentre prevalsero le Arti minori, alcuni Ciompi dai loro
esili del contado, di Siena, di Bologna, congiurarono insieme con gli sbanditi appartenenti alle
classi più alte della cittadinanza per un ritorno in città con l'appoggio dei loro compagni rimasti a
Firenze, ma sempre invano; per quei tre anni è un continuo susseguirsi di processi e di condanne
capitali. Nel 1382 un ultimo tentativo compiuto da Lorenzo di Giovanni, uno scardassiere, di
rialzare il vessillo dei Ciompi con l'insegna dell'Angelo, con una nuova congiura si conclude
tragicamente con il supplizio feroce dello stesso Giovanni.
I Carraresi alla guida di Padova
L'influenza di Padova sul territorio circostante comprendeva all'inizio del XIV secolo il controllo di
importanti città quali Vicenza, Bassano e Rovigo, l'alleanza con il Patriarcato di Aquileia e gli
Estensi nonché la collaborazione con Venezia. Una svolta importante per le sorti cittadine fu la
calata in Italia del re di Germania Enrico VII di Lussemburgo nel 1310, ansioso di restaurare il
potere imperiale in Italia, scemato dopo la morte di Federico II di Svevia nel 1250. Il sovrano iniziò
una campagna militare contro le città che si rifiutavano di assoggettarsi; la guelfa Padova non si
sottomise ad Enrico VII ma riuscì ad evitare lo scontro; Enrico VII comunque la punì favorendo
l'occupazione di Vicenza da parte del ghibellino Cangrande della Scala, signore di Verona. Questi
fece deviare le acque del Bacchiglione per indebolire Padova, che preferì evitare lo scontro con
Enrico VII, eletto in quel periodo Sacro Romano Imperatore a Roma.
Grazie alla diplomazia padovana guidata da Albertino Mussato, la situazione fu ricomposta ma la
successiva nomina di Cangrande a vicario imperiale di Vicenza e le mire che questi aveva su
Padova fecero precipitare gli avvenimenti: nel 1312 il Consiglio cittadino dichiarò guerra a Verona.
Le stragi e le devastazioni che ne seguirono conobbero una tregua nel 1313 con la morte di Enrico
VII, che era stato impegnato in un conflitto analogo in Toscana. La guerra con Verona aveva ridato
vigore alle lotte tra le varie fazioni padovane e la grave situazione creatasi portò alla istituzione di
un Consiglio cittadino straordinario egemonizzato da un'oligarchia delle famiglie arricchitesi con i
commerci e l'usura, che aveva poteri maggiori rispetto al normale Consiglio comunale.
Nel 1314, il Consiglio degli otto sapienti, nominato dal Consiglio straordinario per governare
Padova, decretò l'espulsione di dodici ghibellini legati ai Carraresi. Tale decreto creò oviamente
scontento tra la nobiltà; Niccolò da Carrara e Obizzo dei Carraresi Papafava guidarono la rivolta
popolare e furono distrutte le famiglie degli usurai dei Ronchi e degli Alticlini, che da anni
commettevano ogni sorta di soprusi e che avevano ispirato l'espulsione dei ghibellini. Il giorno
successivo un'assemblea cittadina affidò il governo a un nuovo Consiglio formato da diciotto
anziani e fu ripresa la guerra con Verona. Fu in questo periodo che, dopo l'ennesima deviazione
delle acque del Bacchiglione da parte dei vicentini/veronesi, i padovani costruirono il canale
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Brentella, che tuttora immette nell'alveo del Bacchiglione le acque del Brenta. Durante un tentativo
di riprendere Vicenza, l'esercito padovano fu messo in fuga e tra i catturati vi furono Marsilio e
Giacomo da Carrara e Albertino Mussato. Per negoziare la pace, Cangrande inviò a Padova
Giacomo da Carrara (detto anche Jacopo), che convinse il Consiglio comunale ad accettare le
condizioni dello Scaligero.
La fine delle ostilità vide rifiorire l'economia indebolita dai costi delle guerre, ma i reciproci
sospetti tra le città legate ai guelfi e quelle legate ai ghibellini fecero in breve riprendere le guerre.
Un nuovo attacco a Vicenza nel 1318 di truppe organizzate dai padovani fu respinto e la reazione
scaligera vide la devastazione di molte città della Bassa Padovana. Con l'esercito veronese
accampato alle porte della città, Giacomo da Carrara condusse nuovamente i negoziati di pace, con
cui Padova si impegnò a cedere agli Scaligeri il controllo di Este, Monselice, Montagnana e
Castelbaldo, nonché a permettere il ritorno in città dei ghibellini esiliati. Il Carrarese in tal modo si
assicurò i favori dei ghibellini, tra i quali vi erano i suoi parenti Niccolò, Marsilio e Obizzo. A tali
eventi seguì un periodo di violenze da parte dei ghibellini rientrati, che si vendicarono dei torti
subiti costringendo molti guelfi a lasciare la città e Giacomo da Carrara ad un difficile ruolo di
mediatore. Nel caos che regnava, il pisano Obizzo degli Obizzi rinunciò ad assumere la carica di
capitano della guerra (dittatore militare).
Giacomo I Signore di Padova
La situazione era grave al punto che il Consiglio comunale non fu più in grado di gestirla e si decise
ad affidare le sorti di governo ad uno solo tra i cittadini più influenti, che fosse in grado di riportare
l'armonia tra le fazioni in lotta. La scelta cadde sul ricco guelfo Giacomo da Carrara, che aveva
dimostrato eccellenti doti negli affari, in politica, in ambito militare e diplomatico; era inoltre ben
accetto dai ghibellini e dal popolo in generale, ed aveva sposato Anna, figlia del potente doge
veneziano Pietro Gradenigo. Il discorso del 24 luglio 1318 con cui si rendeva nota la scelta alla
cittadinanza fu affidato al celebre giurista Rolando da Piazzola, al termine del quale i padovani
acclamarono Giacomo "capitano di governo". Al nuovo signore di Padova venivano affidati pieni
poteri e venivano dichiarati suoi subalterni tutti i precedenti governanti, compreso il podestà, i capi
delle forze armate e gli addetti all'amministrazione, lasciando alla sua discrezione la loro
sostituzione.
Padova fu l'ultima delle grandi città del nord Italia a conservare le libertà democratiche proprie
dell'epoca comunale ma, a differenza di quanto accadde in molti altri comuni, non le perse per
l'affermazione dispotica del nuovo sovrano ma per acclamazione popolare. In seguito, Giacomo I da
Carrara sarebbe diventato vicario imperiale con la carica di signore della città.
L'elezione di Giacomo non placò l'ambizione di Cangrande, che ben presto riprese i suoi attacchi
coadiuvato dagli Estensi e dalle truppe imperiali guidate da Enrico II di Gorizia, che governava
Treviso per conto del duca d'Austria e pretendente al trono imperiale Federico I d'Asburgo. Con la
città sull'orlo della capitolazione e privata dal supporto degli alleati, Giacomo ne affidò la difesa a
Enrico II, facendo atto di sottomissione al duca d'Austria che però inviò come vicario imperiale
Ulderico di Valse. Questi giunse a Padova e costrinse Cangrande ad una tregua, ricevendo i poteri
ed il gonfalone del popolo da Giacomo.
In questa fase diedero manforte ai veronesi i padovani esiliati e si crearono nuove lotte tra le
maggiori famiglie padovane. Un nuovo assalto notturno fu sventato dal ghibellino Niccolò da
Carrara, che rese inoffensivi i veronesi infiltrati in città. Il successivo assedio fu nuovamente
respinto dai padovani con l'aiuto dei tedeschi giunti con Enrico II e Ulderico. Cangrande fu ferito e
costretto a riparare a Monselice. La vittoria diede respiro ai padovani, che si riorganizzarono sotto
la guida di Ulderico. Nel 1321 Ulderico tornò in Germania e Federico I lo sostituì con Enrico di
Carinzia e Tirolo, che ebbe grandi problemi a sottomettere i fuoriusciti padovani.
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Altri Carraresi Signori di Padova
Nel 1324 morì Giacomo da Carrara dopo aver eletto a proprio successore il nipote Marsilio (13241338). Quest'ultimo fu comunque subordinato inizialmente agli Asburgo, che continuarono ad
esercitare il potere con Enrico di Carinzia e Tirolo fino al 1328.
Nel 1328 cedette il potere a Cangrande, ma mantenne il titolo di vicario continuando a governare la
città.
Dopo la morte di Cangrande, nel 1337 si accordò con i fiorentini e con i veneziani che lottavano
contro gli Scaligeri e poté così rientrare in possesso pieno della Signoria.
Dopo aver rafforzato le mura di Padova e fatto costruire un tratto completamente nuovo e dopo aver
posto sotto assedio Monselice, dove le truppe Scaligere si erano asserragliate per l'ultima difesa
delle terre padovane, Marsilio, già gravemente ammalato, fece nominare dal Consiglio padovano il
cugino Ubertino come suo successore (10 marzo 1338) per spirare poi il 21 marzo 1338 a Padova.
Ubertino (1338-1345) iniziò una politica espansionistica. Sempre nel 1338, venne assediata
Monselice e il 19 agosto, riuscì a conquistarla. Ottenne poi dagli Scaligeri il dominio su Treviso,
che poi cedette alla Repubblica di Venezia, mentre invece ottenne i comuni di Bassano del Grappa e
Castelbaldo.
La sua carica venne riconosciuta nel 1339, in seguito al trattato di Venezia concluso tra la
Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze e gli Scaligeri. Nello stesso anno ricevette la
nomina dal papa Benedetto XII a vicario della Santa Sede.
Il 24 marzo 1340, ottenne il castello di Camposampiero.
Il 9 aprile 1340, stipulò un'alleanza con gli Estensi, i Pepoli e Firenze a Lendinara, contrastata però
dall'alleanza tra Luchino Visconti, Ludovico Gonzaga e Mastino della Scala. Ma la sua forte ostilità
e invidia nei confronti degli Scaligeri, lo portò a tentare la conquista di Vicenza, ma fu bloccato
dalle truppe viscontee. Si alleò poi con i Visconti, i Gonzaga e Azzo da Correggio, per tentare la
conquista di Parma.
Nel 1342, appoggiò Pisa nella guerra contro Firenze con l'invio di truppe e si alleò con la
Repubblica di Genova, i Gonzaga, i Visconti e i Correggio. Sostenne anche i ghibellini della
Toscana e dell'Emilia-Romagna.
Nel maggio 1343, venne raggiunta la pace con Mastino della Scala.
In ambito economico, lavorò al potenziamento dell'industria e del commercio. Fece creare delle
industrie tessili laniere a Ognissanti e Torricelle e industrie cartiere a Battaglia Terme. Inoltre per
sfamare il suo popolo fece importare frumento dalla Svevia a costi molto bassi.
La sua azione di governo si mosse anche in ambito culturale, favorendo lo studio collaborando con
l'Università di Padova.
La salute di Ubertino si aggravò, e per questo nominò successore alla guida della città Marsilietto
Papafava da Carrara. Morì il 29 marzo 1345. Ubertino, quindi, escludeva dalla successione i cugini
Giacomo e Giacomino di Nicolò e nominava alla guida della città un suo lontano parente;
determinante fu l'influenza dal suo vicario Pietro da Campagnola, acerrimo nemico di Nicolò che
temeva la vendetta dei suoi figli. Ma il 6 maggio, dopo appena quarantun giorni di governo,
Marsilietto moriva sotto i colpi di Giacomo II (detto anche Jacopo) che prese possesso della
signoria rivendicando i propri diritti di successione.
Giacomo II (1345-1350) la mattina seguente convocò il Consiglio e ricevette la formale nomina a
Signore della città.
Fece immediatamente arrestare i famigliari di Marsilietto e i suoi principali collaboratori, ma nello
stesso tempo concesse subito un'aministia generale e diede il permesso di rientro a numerosi
fuoriusciti; inoltre si imparentò con la famiglia padovana dei Buzzacarini, facendo sposare il figlio
Francesco con Fina, figlia di Pataro. In questo modo cercò di appianare i dissidi della città e
guadagnare un maggior consenso popolare.
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In politica estera, fece in modo di avere buone relazioni con i suoi vicini: Mastino della Scala,
signore di Verona, Obizzo III d'Este, marchese di Ferrara, ma soprattutto con la Repubblica di
Venezia, tanto che nel gennaio 1346 Giacomo II con il figlio Francesco I fu solennemente accolto
tra la nobiltà della città lagunare. Per mantenere buoni rapporti, Giacomo chiamò sempre veneziani
per ricoprire il ruolo di podestà di Padova e partecipò alle varie imprese di guerra al fianco di
Venezia: riconquista di Zara (maggio 1346), riconquista di Capodistria (settembre 1348) e guerra
contro la Repubblica di Genova (novembre 1350).
Giacomo II fu famoso per aver creato attorno a sé una corte di artisti che diedero lustro alla città e ai
Da Carrara. Fu grazie alle sue insistenze che si trasferì a Padova Francesco Petrarca, nominato
canonico del duomo cittadino nel 1349 per sua intercessione. Giacomo intese in tal modo trattenere
in città il poeta il quale, oltre alla confortevole casa, in virtù del canonicato ottenne una rendita
annua di 200 ducati d'oro.
Giacomo venne pugnalato a morte il 19 dicembre 1350 da Guglielmo da Carrara, figlio illegittimo
di Giacomo I, che fu immediatamente trucidato dagli astanti. Guglielmo avrebbe assassinato
Giacomo a causa del divieto di uscire dalla città ricevuto dalla Signoria a causa del suo
comportamento violento.
Francesco I da Carrara
Francesco I da Carrara, detto Francesco il Vecchio (Padova, 1325 – Monza, 1393), signore di
Padova da 1350 al 1388.
Fino al 1350, aiutò il padre Giacomo II insieme allo zio Jacopino nel governo cittadino. Nel
dicembre di quell'anno Giacomo II fu assassinato e quello stesso giorno sia Francesco che Jacopino
furono nominati signori di Padova per acclamazione popolare. Nei primi anni, la coppia di signori si
mantenne leale all'alleanza con Venezia, ed entrambi nell'ottobre 1354 guidarono l'esercito di una
lega che i lagunari avevano organizzato contro i Visconti, Signori di Milano. In tale occasione
Francesco conobbe l'Imperatore Carlo IV a Bassano, e fu probabilmente allora che il sovrano gli
conferì gli onori di vicario imperiale, titolo che era stato appannaggio di tutti i da Carrara Signori di
Padova, e di Cavaliere del Sacro Romano Impero.
Deposizione di Jacopino
Il successo riscosso da Francesco con l'imperatore provocò l'invidia dello zio Jacopino, e i rapporti
tra i due si complicarono ulteriormente con il conflitto tra Fina Buzzaccarini e la moglie dello zio,
Margherita Gonzaga, che iniziarono a scontrarsi sul problema della successione. Jacopino arrivò ad
organizzare l'assassinio del nipote e affidò l'incarico a Zambono Dotti. Francesco scoprì la congiura
nell'estate del 1355, fece incarcerare lo zio e giustiziare il sicario.
Prima guerra contro Venezia e alleanza con l'Ungheria
Nel 1356, l'esercito del re d'Ungheria Ludovico il Grande invase la terraferma veneziana,
assediando Treviso e devastando i territori di Padova. Il conflitto durò due anni e non portò alcun
beneficio per Padova, i cui confini rimasero inalterati dopo che nel 1358 fu firmata la pace di Zara,
mentre gli ungheresi si videro riconoscere i territori dalmati conquistati.
Da un lato Francesco si inimicò definitivamente i veneziani e dall'altro si assicurò la protezione
ungherese, che si sarebbe protratta per vent'anni. L'alleanza con Ludovico diede inizialmente buoni
frutti; quando nel 1360 l'Imperatore Carlo IV assegnò al sovrano ungherese le città di Feltre,
Belluno e Cividale, questi ne fece dono al da Carrara, che nei tre anni successivi vi rafforzò il
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proprio potere. I rapporti con i veneziani si fecero invece sempre più tesi e Francesco fece erigere
nuovi bastioni difensivi al confine tra i due Stati.
Mire espansionistiche
Impossibilitato a fortificare i confini con Venezia, la grande ambizione di Francesco lo portò a dar
forma al disegno di estendere il proprio potere su tutta l'Italia nord-orientale. Tale progetto gli
attrasse le ostilità del duca d'Austria Rodolfo d'Asburgo, che a sua volta ambiva ad espandere sulla
stessa zona i propri territori. Nel 1362, Rodolfo si alleò con i conti di Gorizia e con Venezia, e
fomentò ribellioni nel Friuli contro il patriarca di Aquileia Ludovico della Torre, alleato del
Carrarese, che fu in grado di inviare rinforzi solo nell'autunno del 1363. Nella primavera successiva,
le forze di Padova e del patriarcato sconfissero l'esercito austriaco e il conflitto ebbe termine in
autunno.
In questi anni maturò la collaborazione tra Padova e il Comune di Firenze, città entrambe governate
da guelfi. Nel 1366 Francesco diede in prestito 27.000 ducati a Firenze, impegnata nella guerra
contro Pisa. Nel 1370 ne prestò altri 10.000 a Lucca, alleata di Firenze. L'alleanza con Firenze di
Francesco ebbe un riconoscimento formale nel 1370, quando i Priori concessero a lui, alla moglie
Fina e agli eredi la cittadinanza fiorentina.
Seconda guerra contro Venezia
Si inasprirono intanto i rapporti con Venezia, allarmata dalle mire espansionistiche padovane
confermate nel 1369, quando il Carrarese fece rimuovere pietre confinarie tra il Feltrino, in suo
possesso, e il Trevisano che era parte di Venezia. Nel 1371 fece costruire nuovi bastioni ai confini
con la terraferma veneziana e il doge per punizione ordinò l'embargo sulle merci padovane. Nel
1372 fu istituita una commissione incaricata di definire le frontiere tra i due Stati. Quello stesso
anno, Venezia sventò un complotto di Francesco che prevedeva l'assassinio di alcuni nobili
veneziani a lui ostili e il tentativo di convincere i nobili lagunari scontenti a passare dalla sua parte.
Fu inevitabile la guerra che ne scaturì, e la campagna militare padovana, sostenuta da ungheresi e
genovesi, ebbe inizio nell'autunno 1372.
Dopo alcune incursioni da parte di entrambi gli schieramenti, il conflitto entrò nel vivo con l'arrivo
delle truppe ungheresi, che contribuirono a una prima vittoria di Padova in dicembre. Il rientro di
forze veneziane impegnate altrove diede un vantaggio alla Serenissima. Nel febbraio del 1373,
Francesco consegnò Belluno e Feltre ai duchi d'Austria per ottenerne gli aiuti. In luglio, dopo aver
perso la fortezza di Borgoforte, la situazione per i padovani si fece critica. In agosto Francesco
sventò un complotto ai suoi danni organizzato dai fratellastri Marsilio e Nicolò, che progettavano di
ucciderlo finanziati dai veneziani. I cospiratori furono giustiziati ad eccezione di Marsilio che si
rifugiò a Venezia. Sfiduciato, il Carrarese chiese la fine delle ostilità e dovette accettare le dure
condizioni imposte dai veneziani il 21 settembre 1373.
Fu costretto a mandare a Venezia il figlio Francesco Novello, il quale davanti al governo cittadino
ammise che la responsabilità del conflitto era di Padova. Fu obbligato a pagare un'indennità di
280.000 ducati e a smantellare le fortificazioni lungo le frontiere, dovette concedere privilegi fiscali
ai veneziani che avevano proprietà nel Padovano e allontanare i mercenari che facevano parte delle
sue truppe.
Riorganizzazione amministrativa della signoria e interessi personali
In quegli anni la vita familiare di Francesco entrò in crisi. Pare che dopo la nascita di Francesco
Novello abbia iniziato ad avere rapporti extraconiugali dai quali ebbe diversi figli illegittimi. Si
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ipotizza che il primo sia stato Conte, avuto da Giustina Maconia, che divenne prima un ecclesiastico
e poi un condottiero. Nel 1370 ebbe il figlio naturale Stefano, che sarebbe diventato vescovo di
Padova. Altri suoi figli illegittimi furono capi militari durante la signoria di Francesco Novello. La
moglie Fina morì nel 1378.
Francesco fu attento ai problemi amministrativi di Padova e alle proprie finanze, diventando l'uomo
più ricco della Signoria. Nel 1362 promulgò un codice statutario che aveva fatto compilare da
Giovanni Salgardi e che si basava sul diritto civile e sulle procedure in uso nel periodo comunale. Si
differenziava da queste nel sancire le limitazioni alle competenze del podestà e dei suoi ufficiali, per
accentrare i poteri disciplinando tali cariche alle proprie esigenze.
Per assestare le finanze e affermare l'indipendenza da Venezia, Francesco fece venire da Firenze dei
monetari che coniarono in argento le monete da un soldo e i più pregiati "carrarini" e "carraresi",
che recavano la sua effigie. Fu per lui una fonte di reddito perché per ogni marco d'argento
trasformato in moneta gli spettava circa il cinque per cento.
Diede impulso all'industria laniera concedendo la cittadinanza e l'esenzione dalle tasse agli artigiani
e commercianti del settore che si fossero stabiliti nel Padovano. Anche questa ordinanza era
concepita per favorire i propri interessi privati, era infatti una sua proprietà il fondaco dei panni.
Francesco controllava così i prezzi e monopolizzava la distribuzione. Pare che per aumentare e
migliorare la produzione anticipasse denaro agli artigiani per l'acquisto di lana grezza e si riservasse
il diritto di approvare le innovazioni nei processi di lavorazione.
Nei primi vent'anni in cui fu a capo della Signoria, Francesco fece grandi investimenti presso i
prestatori di denaro cittadini. Tra il 1366 e il 1376, prestò più di 140.000 lire di piccoli al tasso
d'interesse del venti per cento. Ma le sue entrate principali derivavano dalle grandi proprietà
fondiarie che aveva sia in città che nelle zone rurali, in particolare attorno alla Reggia Carrarese e a
sud della città, nella zona dei Colli Euganei, dove fece razionalizzare la coltivazione. Tra i suoi
possedimenti a nord, vi erano quelli avuti in dote con il matrimonio e quelli che erano passati ai
Carraresi dopo aver sconfitto le famiglie dei Dente e dei Camposampiero.
Protettore di letterati e artisti, chiamò a Padova il giurista Baldo degli Ubaldi, accordò protezione al
medico e scienziato Giovanni Dondi dell'Orologio e al letterato Giovanni Conversini.
Fu amico del Petrarca il quale gli dedicò il trattato De Principe e gli lasciò in eredità una Vergine di
Giotto. Il principe donò al Petrarca la tenuta di Arquà nella quale trascorse gli ultimi anni di vita.
Terza guerra contro Venezia
In quegli anni il Carrarese si preparò ad un nuovo conflitto con la Serenissima e l'occasione si
presentò nel 1378, quando assieme al patriarca d'Aquileia e al re d'Ungheria appoggiò la Repubblica
di Genova contro Venezia nella guerra di Chioggia. La lega anti-veneziana si formò nell'aprile di
quell'anno: il conflitto, che iniziò nel giugno 1378.
Il fronte veneto del conflitto si articolò in una serie di attacchi per mare e per terra contro le difese
lagunari. Francesco guidò personalmente le truppe padovane, che attaccarono le difese meridionali
chioggiotte e compirono incursioni nel Trevigiano. Il primo anno di guerra vide le vittorie della lega
e nell'agosto del 1379 Chioggia fu occupata da padovani e genovesi, costringendo i veneziani a
chiedere la pace. Il Carrarese rifiutò ogni compromesso e il conflitto continuò. Con il ritorno delle
navi di stanza in Oriente e l'assunzione del comando da parte di Vettor Pisani, i veneziani
ribaltarono le sorti della guerra. Nel giugno 1380, i militari genovesi che occupavano Chioggia,
coadiuvati da diversi padovani, furono costretti alla resa. I Carraresi posero allora sotto assedio
Treviso e i veneziani, per evitare che finisse in mani padovane, cedettero la città al duca d'Austria
Leopoldo III d'Asburgo.
Dopo vari tentativi di riportare la pace, a persuadere i belligeranti a deporre le armi fu la mediazione
di Amedeo VI di Savoia, che portò alla pace siglata a Torino l'8 agosto 1381. Il compromesso che
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ne risultò fece tornare i confini dov'erano prima del conflitto, furono scambiati i prigionieri e i
bottini di guerra furono riconsegnati ai proprietari. I padovani rientrarono in possesso di alcuni
diritti persi nel 1373: i veneziani proprietari di fondi nella Signoria dovevano tornare a pagare le
tasse al Carrarese, fu abolita la clausola con la quale Marsilio da Carrara riceveva i propri redditi
esenti da tasse. Padova ottenne anche il permesso di fortificare le frontiere.
Acquisto di Treviso
Francesco voleva comunque impadronirsi di Treviso, continuò negli anni seguenti a fare di tutto per
strapparla al controllo asburgico, la pose sotto assedio e fece devastare i territori della marca.
Quando i trevigiani stavano per capitolare, Leopoldo III fece il suo ingresso a Treviso nel maggio
del 1383 al comando dei propri soldati. Il duca austriaco si rese conto di non riuscire a mantenere
sotto il proprio dominio la città e consegnò al Carrarese Treviso, Ceneda, Feltre e Belluno dietro al
pagamento di 100.000 ducati. Il 4 febbraio 1384, Francesco entrò trionfalmente a Treviso. Per
guadagnarsi i favori degli abitanti, incoraggiò l'artigianato ed i commercianti locali offrendo denaro
in prestito ed esenzioni fiscali. Fece trasferire a Treviso alcuni burocrati per uniformarne le leggi a
quelle padovane e per controllare il governo locale.
Guerra di successione al Patriarcato di Aquileia
Galvanizzato dalla conquista di Treviso, Francesco riprese il progetto di espandere i suoi territori a
nord-est, dove la nomina a patriarca di Aquileia del francese Filippo II di Alençon nel 1381 aveva
provocato gravi discordie tra Udine e Cividale, che si contendevano la supremazia sullo Stato. Il
Patriarca si schierò apertamente con Cividale, suscitando la reazione degli udinesi che lo
costrinsero alla fuga. Fu l'inizio della guerra di successione al Patriarcato, che in breve tempo
spaccò in due l'aristocrazia friulana. A fianco di Cividale e i suoi alleati si schierarono i Carraresi e
il Regno d'Ungheria, mentre con Udine si schierarono gli Scaligeri di Verona e i veneziani, uniti
nella lega chiamata Felice Unione.
L'intervento dell'esercito Carrarese costrinse alla resa gli udinesi nel febbraio del 1385. Quello
stesso mese Venezia entrò nel conflitto, mentre il Signore di Verona Antonio della Scala si unì a
Udine il 18 maggio 1385; entrambe le città vedevano con preoccupazione l'espansione padovana, in
particolare Venezia, che si vedeva tagliati i commerci con il nord. L'intervento scaligero portò in
agosto Francesco ad allearsi in funzione anti-veronese con il Signore di Milano Gian Galeazzo
Visconti, aprendo un fronte occidentale del conflitto. Verso fine anno le truppe padovane passarono
all'attacco cercando di conquistare diverse importanti municipalità friulane, ma la campagna ebbe
termine dopo alcuni sterili successi iniziali.
Dopo un periodo di stallo, l'anno successivo la guerra fu ripresa dagli Scaligeri, il cui attacco fu
arginato dai padovani alle porte della città nella battaglia delle Brentelle. L'incertezza iniziale di tale
cruenta battaglia si risolse in favore dei Carraresi, le cui truppe costrinsero i veronesi alla ritirata il
25 giugno 1386. La vittoria delle Brentelle mise in evidenza le debolezze degli Scaligeri, e l'anno
seguente furono i padovani ad attaccare la signoria veronese. La battaglia di Castagnaro ebbe luogo
il 1º marzo 1387 nella cittadina che si trova pochi chilometri a sud del capoluogo scaligero. Le
truppe di Verona erano condotte dai capitani di ventura Giovanni Ordelaffi di Forlì e Ostasio da
Polenta di Ravenna, mentre i padovani erano guidati dal condottiero inglese Giovanni Acuto e da
Francesco Novello da Carrara, figlio del signore di Padova. La battaglia è considerata la più grande
vittoria di Giovanni Acuto, che attirò in una trappola e sgominò i veronesi dopo aver finto di
ritirarsi.
La sconfitta di Castagnaro segnò la fine della lunga egemonia degli Scaligeri, che dopo qualche
mese sarebbero stati cacciati da Verona dalle truppe viscontee. Il signore di Verona Antonio della
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Scala trovò rifugio presso il suocero Guido III da Polenta, signore di Ravenna, mentre il resto della
famiglia si sparse in Italia e in Germania. Il grande successo ottenuto si rivelò una vittoria di Pirro
per i Carraresi, che concordarono la spartizione dei territori scaligeri con Gian Galeazzo Visconti.
Quest'ultimo non mantenne le promesse e dopo la cacciata degli Scaligeri, oltre a conquistare
Verona, tenne per sé anche Vicenza, che a quel tempo faceva parte della signoria veronese e che era
stata promessa a Francesco I da Carrara. Al tradimento del Visconti si aggiunse quello del generale
Ugolotto Biancardo, che era a capo del presidio carrarese a Vicenza e ordinò ai propri uomini di
lasciare la città.
Abdicazione di Francesco e presa di Padova da parte dei Visconti
Con le finanze ridotte allo stremo dalle molte guerre sostenute, nel 1387 la signoria padovana perse
l'alleato Filippo d'Alençon, richiamato in Francia, e rimase definitivamente isolata dopo che i
tradizionali alleati fiorentini si dichiararono neutrali sulla guerra. Il tentativo del Carrarese di venire
a patti con la Serenissima contro il Visconti, fu vanificato da quest'ultimo che, il 29 maggio 1388,
strinse alleanza con i veneziani per cacciare i Carraresi e spartirsi i loro domini. Francesco si vide
costretto a rinunciare alla signoria in favore del figlio Francesco Novello e si trasferì a Treviso in
attesa degli eventi.
La campagna militare viscontea fu capitanata da Jacopo Dal Verme e Francesco Delfino. La difesa
dei padovani si schierò nella Saccisica ma non riuscì a contenere l'offensiva nemica, che si
impadronì di Castel Caro. Constatati gli sfavorevoli rapporti di forza, Francesco Novello nel
novembre 1388 venne ai patti con i milanesi accordandosi per la consegna di Padova, Treviso,
Ceneda, Feltre, Belluno e tutti i territori ad esse subordinati. I milanesi si trovarono in tal modo in
controllo della maggior parte dell'Italia settentrionale, mentre Venezia tornò in possesso dei propri
territori, oltre a Ceneda e una parte della zona rurale padovana.
Resa, trasferimento in Lombardia e morte in carcere
Un mese dopo la caduta di Padova e vista l'impossibilità di resistere alle forze nemiche, anche
Treviso dovette soccombere e Francesco si consegnò agli ufficiali dell'esercito visconteo. Fu portato
prima a Verona e poi a Como, dove fu incarcerato. Dopo essere stato rinchiuso in alcune prigioni
lombarde, Francesco il Vecchio morì nella fortezza di Monza il 6 ottobre 1393. Francesco Novello,
che aveva ripreso il controllo di Padova nel giugno del 1390, aveva preso accordi con i milanesi per
il ritorno in Patria del padre nel 1392 che non erano stati rispettati.
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