Leggi un estratto

annuncio pubblicitario
Giuseppe Vatinno
IL NULLA E IL TUTTO
Le meraviglie del possibile
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione
9
Capitolo 1
“I mostri all’angolo della strada”: il Nulla e il Tutto
13
Capitolo 2
Ancora a che fare con i mostri: Cantor, Russell e Gödel
Una seconda ghirlanda brillante
43
Capitolo 3
La Relatività cambia le regole del gioco
65
Capitolo 4
Meccanica quantistica ed “entanglement”. Einstein, Bohr & Co. 83
Capitolo 5
L’immortalità quantistica
111
Capitolo 6
L’ipotesi della matrice. Viviamo in una simulazione?
117
Capitolo 7
I crononauti: dalla fantascienza alla realtà
121
Capitolo 8
Il mistero del “fine tuning”
131
Capitolo 9
Ex estropia lux
137
Capitolo 10
Il metodo scientifico e la conoscenza del mondo
149
Capitolo 11
La teoria del tutto
153
Capitolo 12
La scienza dei “cultori del confine”.
Appunti per una metodologia della conoscenza
163
Conclusioni
166
Bibliografia
169
Indice analitico e dei nomi
173
Introduzione
Questo è un libro sul “meraviglioso”, ma un meraviglioso che non
è, si badi bene, una categoria della fantasia o della fantascienza bensì
si riferisce alla scienza e alla tecnica (potremmo dire alla tecnoscienza)
e ha nella concretezza e non solo nella plausibilità la sua essenza. Due
parole di spiegazione sul titolo. Il “Nulla” e il “Tutto” si riferiscono a
due concetti matematici, ma anche fisici e filosofici, rappresentati dallo
“zero” e dall’“infinito”, mentre la seconda parte del titolo, “le meraviglie del possibile”, fa riferimento alle conseguenze necessarie della
genesi matematica nelle specie della fisica teorica e della tecnologia.
Una delle tematiche portanti, specialmente nei primi due capitoli,
riguarda appunto lo zero e l’infinito, la loro origine che parte dalle misteriose paludi della preistoria per giungere ai giorni nostri ed i relativi
paradossi che hanno sempre affascinato l’umanità. Le “meraviglie del
possibile”, dunque, sono i concetti scientifici che ci parlano in termini
ormai rigorosissimi dei concetti di spazio, tempo e gravitazione tramite
la Relatività sia speciale che generale (Cap. 3), di Meccanica quantistica, la legge che governa il mondo dell’infinitamente piccolo, con il fenomeno inquietante dell’entanglement che sembra mettere in immediata correlazione l’intero universo (Cap. 4), di teorie sulle diverse specie
di universi paralleli e di una forma di “immortalità” che deriverebbe da
un loro utilizzo (Cap. 5), di ipotesi della “matrice” o della simulazione
(Cap. 6) per cui il nostro mondo potrebbe non essere “reale”, ma bensì
“programmato” dall’esterno, di viaggi nel tempo ora resi possibili (almeno teoricamente) dalla fisica moderna ed i relativi paradossi (Cap.
7), del problema del fine tuning e del Principio antropico che ci fornisce una possibile spiegazione del perché l’universo pare fatto proprio
“su misura” per l’Uomo (Cap. 8), dei concetti di entropia ed estropia
9
che paiono essere i veri domini nel dirigere l’evoluzione (Cap. 9), per
concludere con una riflessione sul metodo scientifico ed il suo valore
epistemologico (Cap. 10), con la storia della Teoria del Tutto, come
viene ambiziosamente chiamata la candidata più accreditata e cioè la
Teoria delle Stringhe e la sua evoluzione nella Teoria M (Cap. 11) e
della necessità di una “Scienza dei cultori del confine” (Cap. 12) che
renda merito alla interdisciplinarità per coniugare la vastità del sapere e
la profondità della conoscenza, in un mondo sempre più settoriale.
Io stesso mi reputo appartenente a questo gruppo; sono laureato in
fisica, ma anche ricercatore, giornalista e divulgatore scientifico e quindi mi accorgo di quanto sia importante che insieme ad una profondità
della conoscenza ci sia una pari professionale estensione del sapere.
Molti di questi argomenti fino a poco tempo fa erano solo sogni di
viaggiatori dei territori del fantastico1, ma ora non più. I temi che si
possono trattare sono tantissimi e tutti molto impegnativi e quindi è
stata fatta necessariamente una scelta. A parte l’interesse scientifico,
tecnologico e divulgativo ciò che mi preme segnalare, ancora una volta,
è la scientificità di quanto riportato e la possibile fattibilità di alcuni manufatti che da tali teorie derivano. In definitiva, il messaggio che vorrei
passasse con questo libro è che il mondo reale è altrettanto meraviglioso e fantastico di quello immaginario se solo riusciamo a scegliere le
“lenti” giuste per osservarlo e questo, in un periodo sempre più incline
a ricercare l’ebbrezza di soluzioni di “fuga dalla realtà” mi pare un bellissimo cambio di prospettiva.
La scienza, intesa nell’accezione più varia di metodo scientifico, permette di cominciare a comprendere l’universo, ma, altro elemento fondamentale, essa può avere addirittura un valore fondante nel senso che
può permette anche di costruire un sistema di valori se coniugata con un
Umanesimo o, meglio ancora, con un Transumanesimo2 di fondo.
Una doverosa osservazione riguarda, come in ogni libro che ha a che
fare con la scienza, l’utilizzo delle formule matematiche. In genere, si
cerca di evitarle perché, si dice, allontanano il lettore. Io le ho volute
1 Le meraviglie del possibile è il titolo di una famosa antologia di racconti di
fantascienza curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero e pubblicata da Einaudi nel
1959.
2 Cfr., ad esempio, Giuseppe Vatinno, Transumanesimo: una nuova filosofia
per l’Uomo del XXI secolo, Armando, Roma, 2010.
10
lasciare, anche se per lo stretto indispensabile, perché sebbene questo
libro sia diretto ad un lettore generalista penso che i lettori specialisti
interessati possano comunque apprezzarlo.
Del resto lo stesso Einstein disse che la divulgazione scientifica deve
trovare l’equilibrio tra rigorosità e narratività. Spero di esserci riuscito.
11
Capitolo 1
“I mostri all’angolo della strada”: il Nulla e il Tutto
La matematica, vista nella giusta luce, possiede non soltanto verità, ma anche suprema bellezza – una bellezza fredda e austera, come quella della scultura.
Bertrand Russell
13
Il titolo di questo capitolo richiama volutamente quello di una raccolta di racconti dell’inquietante scrittore gotico americano H.P. Lovecraft; i “mostri” in agguato, non nella giungla o sulla superficie ricoperta di lava metallica di qualche lontano pianeta alieno, abitano invece in
uno dei territori che il senso comune ci dice più “sicuri” ed affidabili
(almeno fino a ottanta anni fa), ma così, avrete già capito, non è, cioè
quello della matematica, fintanto cioè che il logico-matematico Kurt
Gödel (1906-1978) non presentò nel 1931 i suoi ormai famosi “Teoremi
di Incompletezza” che minarono le basi di questa sicurezza.
Ma incominciamo parlando di numeri.
A scuola ci hanno insegnato che esistono i buoni e vecchi “numeri”,
classificabili come naturali, razionali, irrazionali, trascendenti che formano i numeri reali e poi ci sono anche i numeri immaginari, i numeri
complessi, i numeri ipercomplessi con i quaternioni, gli ottiononi, i sedenioni (i nomi diventano via via più improbabili e impronunciabili),
e generalizzando la nozione di “vicinanza” i numeri non standard e i
transfiniti, per parlare anche degli ultimi arrivati.
In matematica il concetto di numero può essere formalizzato utilizzando la teoria degli insiemi.
A onor del vero, lo “zero” è considerato un numero appartenente
ai naturali anche se rappresenta un concetto estremamente sofisticato,
ingannevole e in un certo senso “pericoloso”, cioè quello del “nulla”.
Anche l’“infinito”, denotato matematicamente dal simbolo, ∞, è indubbiamente qualcosa di strano ed infatti, tale concetto, non compare
sui banchi di scuola se non nelle classi superiori ed è comunque sempre
maneggiato con estrema cautela.
Invece, la tesi che mi propongo di illustrare in questo capitolo è
che la più pericolosa “anomalia” non è quella che tutti pensano, cioè il
concetto di infinito (che comunque non è facile da comprendere), ma
bensì l’apparentemente molto più innocuo concetto di zero. Per dare
elementi a questa mia tesi utilizzerò sia concetti matematici, che fisici
e filosofici.
14
Matematica. Il concetto di zero
Il nostro racconto inizia nella preistoria, in quell’oscuro periodo situato al confine tra il Paleolitico ed il Neolitico1 (circa 30. 000 anni fa),
quando l’Uomo, combattendo gli elementi della natura, cominciò ad
utilizzare una protoaritmetica per “contare” gli oggetti per poi passare,
successivamente, a contare gli appezzamenti di terreno dando luogo ad
una protogeometria. Dapprima ebbe chiaro i concetti di “uno”, “due”,
“molti” – e di tale metodologia rimase successivamente traccia nei
“linguaggi”2 nel senso più ampio del termine –, poi passò ad una aritmetica corporale che arrivava a contare fino a 5, 10, 15 e 20 (le dita del
corpo) ed infine, dopo molto tempo, e sotto la necessità pragmatica dei
commerci, ci si liberò anche di questo sistema primitivo per passare ad
una aritmetica astratta in cui comparvero i numeri, a loro volta formati
di cifre. I primi sistemi di numerazione o “del contare” erano molto
semplici e culture diverse hanno seguito sostanzialmente lo stesso percorso; si contavano gli oggetti utilizzando stanghette verticali chiuse
da una orizzontale e si raggruppavano poi in cinquine o decine o altro;
poi si cominciò a dare dei nomi ai gruppi ed a indicarli con i relativi
simboli.
I primi sistemi di numerazione furono non posizionali e ci si rende
facilmente conto come questi sistemi fossero poco adatti a compiere
operazioni aritmetiche anche semplici e ad esprimere numeri molto
grandi; solo successivamente si affermarono i sistemi di numerazione
posizionali in cui ogni cifra ha un valore per il posto che occupa nel
numero.
Lo zero è “comparso” nei sistemi di numerazione quando si è passati
da quelli non posizionali a quelli posizionali perché serviva ad indicare
una “assenza” della relativa “base” in cui il numero veniva scritto. Lo
zero ha fatto la sua apparizione nelle terre d’Oriente tra i fiumi Tigri
1
Uno dei più antichi reperti del contare, risalente a un periodo situato tra i
22.000 e i 20.000 anni fa, è il cosiddetto “osso di Ishango”, trovato nel 1960, vicino
al lago Edoardo, tra Uganda e (l’allora) Zaire, attuale Repubblica Democratica del
Congo. Si tratta di un perone di babbuino che porta inciso, su tre righe, dei numeri
(con il metodo delle tacche), tra cui i numeri primi.
2 Tutt’ora diverse lingue hanno questa divisione tra il singolo, il doppio e una
pluralità.
15
e Eufrate e poi è giunto in Grecia, per andarsene di nuovo in India e
per tornare poi definitivamente in Occidente, probabilmente seguendo
tragitti commerciali. Storicamente sappiamo che lo zero è apparso circa
5000 anni fa, per la prima volta, tra i Sumeri, che utilizzavano sia il
sistema di numerazione decimale che quello sessagesimale (traccia ne è
rimasta nel nostro modo di misurare gli angoli ed il tempo in frazioni di
sessantesimi) ed abitavano quella terra, la Mesopotamia, che pressappoco coincide con l’odierno Iraq.
Queste popolazioni utilizzavano dei caratteri detti cuneiformi sia per
scrivere che contare e li incidevano con uno stilo su tavolette di argilla
fresca che poi veniva cotta per indurirla e conservare i risultati. Tuttavia, tale popolo, ad un certo punto, per diversi fattori che potrebbe essere interessante investigare, sicuramente di origine pragmatica e quindi
economica e di efficienza, scoprì il sistema “posizionale” in cui ogni
cifra ha un valore per la posizione che occupa nel numero. Questo fu un
fatto veramente degno di nota perché con il sistema posizionale i calcoli
divengono estremamente più rapidi e facili. La cosa fondamentale da
capire è che i sistemi di numerazione posizionali implicano l’esistenza
dello zero, almeno come concetto se non come simbolo numerico vero
e proprio.
Facciamo un esempio.
404 = 4X102 + 0X101 + 4X100 = 400 + 0 + 4
è diverso da
44 = 4X101 + 4X100 = 40 + 4
Se non utilizziamo lo zero, in questo caso l’“assenza” di 101, “404”
e “44” sono lo stesso numero.
Mentre, in un tipico sistema non posizionale, come quello romano,
abbiamo che, 404 = CDIV, non può confondersi con 44 = XLIV, perché
utilizza simboli diversi per indicare “quattrocento” e “quattro”.
Si comprende quindi come la comparsa dello zero sia legata alla
comparsa dei sistemi di numerazione posizionali.
16
La storia dello zero è molto complessa e di difficile ricostruzione;
infatti, se l’origine del concetto è stata individuata, come detto, nella
antica Mesopotamia, così non si può dire del relativo simbolo utilizzato
per rappresentarlo graficamente, cioè lo “0”. In effetti, gli Assiri utilizzavano per lo “zero” il carattere cuneiforme costituito da due cunei inclinati (facilmente ottenibili inclinando lo stilo sull’argilla). Quello che
sembra attestato da studi storici è che il simbolo “0” abbia avuto origine
invece in Grecia e poi sia stato importato in India ai tempi delle conquiste di Alessandro Magno (356-323 a.C.). L’esatta origine non è sicura
perché la forma oscillava tra un piccolo cerchio e un punto a seconda
dei luoghi e dei tempi, tuttavia è molto probabile la sua derivazione dalla lettera greca “omicron”, identica alla nostra “o”, e che veniva scritta
come οὺδἐν, cioè “nulla”3. I simboli attualmente utilizzati per le cifre
0 - 9 sono invece di derivazione indiana (300 a.C. circa) passando per
successive evoluzioni grafiche dovute principalmente agli arabi e agli
stessi indiani; in Europa il sistema decimale di numeri indo-arabo, cioè
l’insieme di cifre, le nove “figure” indiane più lo zero {0, 1, 2, 3, 4, 5,
6, 7, 8, 9}, fu introdotto dal matematico italiano Leonardo Fibonacci4 o
Leonardo Pisano (circa 1170-1240), che si firmava “filio Bonacj” – figlio di Bonaccio – nel Liber Abaci, opera in quindici capitoli, che tratta
questioni originariamente di matematica commerciale.
Lo zero è la dizione italiana del veneziano zephiro5, traduzione
dell’arabo sifr che, a sua volta, traduce l’indiano śūnya (e quindi lo
zero, nella forma araba di sifr, dà poi addirittura origine al nome per
indicare le cifre). Il matematico pisano, nel suddetto libro, non si limita
ad introdurre le nuove cifre al posto dei simboli romani, ma mostra anche concretamente i vantaggi che si hanno nell’utilizzarle nella pratica.
Leonardo Pisano, richiamato dal padre funzionario della Repubblica
di Pisa in Algeria, imparò nei luoghi della Mezzaluna l’arte dei numeri
arabi e la diffuse, come detto, dapprima in Italia, con due edizioni del
3
Si noti che, tuttavia, i greci non utilizzavano un sistema posizionale ed indicavano, come i romani e gli ebrei, i numeri con le lettere dell’alfabeto.
4 Molto nota, per le sue particolari proprietà matematiche è la cosiddetta Serie
di Fibonacci formata dalla sequenza: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, … dove ogni termine è la
somma dei due precedenti.
5 “…quod arabice zephirum appellatur”, “che dagli arabi è chiamato zefiro”
(Liber Abaci, cap. I).
17
libro: la prima del 1202 e la seconda ampliata (l’unica a noi rimasta)
nel 1228.
Nel 1223 pubblica poi un altro trattato, la Practica geometriae. Le
fonti di Fibonacci furono matematici arabi come Mohammed ibn Musa,
Abu Kamil, Al Biruni.
La figura di Fibonacci appare sottovalutata nella storia della matematica occidentale, infatti, il Liber Abaci segna un vero e proprio spartiacque culturale tra due modi completamente diversi di intendere e di
fare matematica; tale opera può effettivamente essere considerata una
sorta di trampolino di lancio da cui si svilupperà nei secoli seguenti e
a questo punto potremmo anche dire conseguenti, l’intero sofisticato e
complesso apparato dell’algebra moderna prima e dell’analisi matematica poi.
Questa osservazione è fondamentale per capire come, a sua volta, fu
proprio l’algebra a permettere il grande sviluppo della scienza e della
tecnologia occidentale, cosa sicuramente complessa se non impossibile
se si fosse restati al poco pratico sistema di numerazione dei Romani.
E questo è anche un interessante ed istruttivo caso di apertura culturale in cui proprio le contaminazioni tra diverse culture come quella
indiana, quella araba e quella latina hanno funzionato in una mirabile
sinergia.
Interessante anche notare come nella scienza e nella matematica
possano coesistere grandi risultati intellettuali con una grande umiltà: il
Liber Abaci, infatti, da un certo punto di vista, può essere considerato
un libro che insegna ai mercanti a “far di conto”, a gestire le complesse manovre aritmetiche volte a tenere traccia dei traffici commerciali
della Toscana e dell’Italia del tempo che poco a poco, espandendosi in
tutta l’Europa, avrebbe segnato il culmine di quella poi nota come era
mercantile.
Questo nuovo sistema aritmetico, come detto, portava in dono lo
zero e le sue regole trovate dai matematici indiani ed arabi nei secoli
precedenti.
Si vide che lo zero si comportava come un numero, con alcune accortezze.
Ad esempio:
18
0 X 0 =0
aX0=0
0/a = 0
0/0 = indeterminato
a/0 = infinito
ove “a” è una quantità diversa da zero, e “/” denota la divisione.
Quindi si tralasciò il suo inquietante significato filosofico a favore
dei suoi (notevoli) servigi applicativi.
Matematica. Il concetto di infinito
L’analogo o il corrispondente per dualità dello zero è l’infinito che,
come abbiamo già visto, è indicato con il simbolo ∞6. L’infinito in matematica ha avuto una storia completamente diversa dallo zero anche
se, dal punto di vista più strettamente filosofico, i due concetti di “nulla” e di “tutto” sono certamente simili o quantomeno diadici. Infatti,
entrambi possono essere meglio inquadrati considerandoli come i punti
di arrivo a cui tendono dei processi di “limite” nell’accezione dell’analisi.
Incominciamo col dire che l’infinito, come del resto lo zero, non
godettero di buona fama presso i greci che fecero di tutto per allontanarsene ogniqualvolta vi si imbattevano, ad esempio in questioni
geometriche (che erano per loro preponderanti). I greci, Aristotele ed
Euclide particolarmente, ammettevano l’esistenza di un “infinito potenziale” che poteva essere utilizzato nelle definizioni, ma negavano
una sua esistenza reale, cioè un “infinito in atto”. Ad esempio, Euclide
6 Il simbolo deriva probabilmente dal matematico inglese John Wallis (16161703) che lo considerava derivante dalla lettera latina “m” (forse a sua volta dal
greco murias da cui l’italiano miriade) che indica 1000 (cioè un numero allora
considerato grandissimo) in cifre romane.
19
parla di “rette prolungabili arbitrariamente”, ma nega l’esistenza di rette aventi estensione lineare infinita. Un altro esempio storico di cautela
nei confronti dell’infinito si ha con Archimede che computa l’area di un
cerchio circoscrivendolo ed iscrivendolo con poligoni di n lati (procedimento chiamato di esaustione); poi, aumentando quanto si voleva il
numero dei lati delle due classi di poligoni si aveva un valore sempre
più preciso dell’area del cerchio una volta per eccesso (poligoni circoscritti) e l’altra per difetto (poligoni iscritti). Al limite di n che tendeva
all’infinito le tre aree andavano a coincidere, determinando, tra l’altro,
il valore della costante π7 con un infinito numero di cifre dopo la virgola; tuttavia, come detto, Archimede non utilizza mai il ricorso esplicito
all’infinito anche se di fatto lo fa, considerando il cerchio come un poligono con un numero “grande a piacere” di lati (sottintendendo quindi
il processo di limite).
Fu solo con l’invenzione del calcolo differenziale nel XVII secolo
che l’infinito (e lo zero) trovarono esplicita collocazione prima che il
rigore matematico del XIX secolo, con il concetto di limite, e la logica
del XX, dessero loro piena dignità di esistenza.
Torniamo tuttavia ai greci; Pitagora, nel VI secolo a.C., si imbatté
per primo in una situazione per lui estremamente fastidiosa; infatti, nel
semplice ed apparentemente innocuo tentativo di misurare la diagonale
di un quadrato di lato 1, “scoprì” una nuova tipologia di numeri, in questo caso esemplificati dalla radice quadrata di 2, e cioè quelli che poi
saranno chiamati numeri irrazionali. Essi risultavano non associabili al
rapporto tra numeri interi ed erano caratterizzati da una infinità (non
periodica) di numeri decimali8. Dunque il temibile ∞ faceva la sua comparsa durante una semplice operazione di misura e pertanto implicava
che non si potesse conoscere con precisione assoluta la lunghezza della
diagonale di un quadrato di lato unitario (come non si poteva conoscere
precisamente il rapporto tra circonferenza di un cerchio ed il suo dia7
Archimede giunse a un valore per π, che è il rapporto tra la lunghezza di
una circonferenza ed il suo diametro, compreso tra 3,1408 (in frazione: 223/71) e
3,1429 (in frazione: 22/7), mentre il valore comunemente accettato con cinque cifre significative è di 3,1416, in ottimo accordo con quanto trovato dallo scienziato
siracusano con il suo metodo di esaustione.
8 Nel caso in esame √¯2 = 1,414213562373095…
20
metro); questo fu il “segreto” che Pitagora impose9 ai suoi discepoli di
non rivelare.
In effetti, i pitagorici ritenevano che il rapporto tra la misura di due
segmenti dovesse dare sempre un numero intero in quanto ogni segmento pensavano fosse formato da una serie intera e finita di “atomi” (e
quindi divisibili perfettamente, senza “resti”) e per questo non potevano
accettare l’esistenza di numeri irrazionali che mostravano una “imprecisione” o non perfetta divisibilità intrinseca.
Il concetto di infinito, come detto, fu guardato sempre con estremo
sospetto per circa 2400 anni fin quando il concetto di limite e gli studi
di Augustin Louis Cauchy (1789-1857) e Karl Weiertrass (1815-1897)
non lo ancorarono, come detto, a solide basi logiche. Tuttavia, se l’infinito era da un lato cominciato ad essere accettato dall’altro dava nuovi
problemi quando si tentava, in qualche maniera, di “misurarlo” o di “ordinarlo”. Allora emergevano subito “paradossi”; ad esempio il filosofo
Giovanni Duns Scoto (1265-1308) aveva già notato che se si considerano due circonferenze concentriche da ogni punto di quella esterna si
può tracciare un “raggio” che intercetta un punto di quella interna; tuttavia, la lunghezza della circonferenza esterna è chiaramente maggiore
di quella interna anche se tutti i loro punti possono essere messi in corrispondenza (biunivoca) tra loro. Galileo Galilei (1564-1642) affronta
compiutamente il tema dell’infinito nel libro Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze, del 1638. In quest’opera Galilei paragona l’“infinito potenziale” ad un poligono di n lati che diviene
“infinito in atto” quando tendendo il numero di lati all’infinito diviene
un cerchio (il procedimento appunto utilizzato da Archimede e prima
ancora da Eudosso e conosciuto, come detto, come esaustione); inoltre,
sempre nella stessa opera, Galilei mette in corrispondenza biunivoca
ogni numero naturale con il suo quadrato e “dimostra” che l’infinito
dei numeri interi è uguale ad una sua sottoparte, cioè i suoi quadrati.
Insomma, sembrava proprio che, per l’infinito, non valesse più la regola
che “il tutto è maggiore di una sua parte”. L’ecclesiastico Bonaventura
Cavalieri (1598-1647), che fu allievo di Galilei, è famoso per avere
introdotto un metodo, chiamato degli indivisibili, che permette di calco9
In verità, insieme ad altre strane prescrizioni come, ad esempio, il non mangiare fave.
21
lare le aree e i volumi dei solidi considerandoli come “infinite” somme
di rette e aree rispettivamente ed aprendo così la strada verso il calcolo
integrale.
Dunque l’infinito, dopo l’esilio greco, si riaffaccia sulla scena della
matematica e lo fa da primo attore conquistando rapidamente la scena.
Gottfried Leibniz (1646-1716), in queste dispute, è per la sua esistenza, mentre Carl Friedrich Gauss (1777-1855) contesta l’esistenza
“reale” dell’infinito.
Invece l’ecclesiastico Bernard Bolzano (1781-1848) nel suo libro
più famoso I paradossi dell’infinito, pubblicato nel 1851, non solo accetta l’infinito, ma assume i suoi “limiti” per caratterizzarlo e cioè lo
definisce come un’entità per cui, appunto, il “tutto non è sempre maggiore delle parti”; se Galilei aveva dimostrato che l’“insieme infinito
può essere più grande di una sua parte” nel caso discreto dei numeri naturali, Bolzano lo dimostra per il caso continuo in un intervallo chiuso.
Tuttavia i contributi più rilevanti in questo campo saranno quelli di
Richard Dedekind (1831-1916) e ancor più di Georg Cantor (1845-1918)
per capire che non solo l’infinito può esistere come ente matematico legittimato a tutti gli effetti, ma anche che esistono diversi “gradi” di infiniti che differiscono tra loro per una sorta di “grandezza”. Infine, proprio
prendendo lo spunto dalle idee di Dedekind e Cantor ed attraverso i
lavori di Bertrand Russell (1872-1970) e Ludwig Wittgenstein (18891951), Kurt Gödel giunse ad elaborare nel 1931 i suoi famosi Teoremi di
Incompletezza che sancirono, come detto, la fine della certezza in campo
matematico ed anche la fine del cosiddetto “programma di Hilbert”, dal
nome del matematico David Hilbert (1862-1943) che intendeva formalizzare tutta la matematica in un sistema di tipo assiomatico.
Ma ora torniamo a Cantor ed alla sua immane opera di “ordinare”
gli infiniti. Nella teoria degli insiemi la “cardinalità” di un insieme, indicata con il simbolo “#”, è data dal numero degli elementi che costituiscono l’insieme stesso. Ad esempio, la cardinalità dell’insieme delle
vocali, in italiano, è data dal numero 5 e si scrive #5; infatti le vocali,
(a, e, i, o, u) sono appunto cinque.
Per gli insiemi finiti non sembrano esserci problemi, basta contare
gli elementi (finiti) che lo compongono. Tuttavia, poniamoci la domanda di quale sia la cardinalità dell’insieme dei numeri interi. Essendo
essi infiniti la sua cardinalità è infinito. Consideriamo ora la cardinalità
22
dell’insieme di tutti i numeri interi pari. Possiamo mettere in corrispondenza biunivoca (cioè ad ogni membro di un insieme corrisponde un
membro di un altro) i numeri interi con i numeri pari.
N = (1, 2, 3, …, n…)
corrisponde (e viceversa) con
P = (2, 4, 6, …, 2n…)
Il fatto che esista questa corrispondenza biunivoca ci dice che N
e P hanno la stessa cardinalità sebbene l’intuizione ci dica altresì che
l’insieme dei numeri naturali ha “più elementi” dell’insieme dei numeri
pari, contenendo di fatto il primo insieme il secondo.
Cantor poi si chiede quale sia la cardinalità dei numeri razionali Q
(definiti come rapporti di interi) e dimostra nuovamente, ed in modo
controintuitivo, visto che Q sembra molto più vasto di N, che tale insieme Q possiede lo stesso cardinale di N in quanto ogni numero razionale
può essere associato ad un numero intero in corrispondenza biunivoca.
Allora si dice che l’insieme Q è “numerabile” e la sua cardinalità
è chiamata con la prima lettera dell’alfabeto ebraico:
(aleph con
zero).
L’insieme R dei numeri reali contiene a sua volta, come visto, sia
gli interi, che i razionali che gli irrazionali (algebrici e trascendenti10),
Cantor, tramite il suo “metodo della diagonale” dimostra che N ed R
non possono essere messi in corrispondenza biunivoca e quindi non
hanno la stessa cardinalità. Quello di R è noto come “potenza del continuo” che è “maggiore” della “potenza del numerabile”. In questo modo
Cantor riesce a classificare, ordinandoli, infiniti di potenza diversa e
chiama questi nuovi “numeri” transfiniti.
Il passo successivo è quello di chiedersi se esistono altri tipi di infiniti con cardinalità ancora maggiore. La risposta è positiva e per dimostrare questa affermazione nella sua generalità Cantor prende un insieme finito “E” e definisce P(E), l’“insieme delle parti”.
10 I “numeri trascendenti” non sono soluzioni di alcuna equazione polinominale
a coefficenti interi, al contrario dei “numeri algebrici”.
23
Ad esempio prendiamo per E l’insieme composto dai primi due numeri E = (1, 2), allora P(E) = {(0), (1), (2), (1,2)}. Abbiamo dunque
l’insieme vuoto, quelli composti da un solo elemento e quello composto
da tutti e due gli elementi. In totale 4 elementi; quindi l’insieme delle
parti P(E) ha cardinalità 4. Per un insieme di 3 elementi abbiamo P(E)
= 8 ed in generale, per un insieme finito di cardinalità “c”, abbiamo per
l’insieme delle parti P(E) cardinalità 2c.
Nel 1890 Cantor dimostra un fondamentale teorema:
“L’insieme delle parti di un insieme finito o infinito di cardinalità “c”
ha cardinalità 2c”;
poi dimostra che il P(N) cioè l’insieme delle parti degli interi può essere
messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme R dei reali e quindi
con la potenza del continuo, cioè la cardinalità dei numeri reali è 2alep0.
Successivamente Cantor dimostra che i punti di una retta, cioè l’insieme dei numeri reali R e i punti sulla superficie di un piano, cioè i numeri
dati da RXR = R2, hanno lo stesso cardinale e questo è vero anche per i
punti dello spazio, cioè, #R = #RXR = # RXRXR.
Ciò è assolutamente controintuitivo perché da questa dimostrazione
“sembra” che i punti su una retta, pur essendo infiniti, siano uguali di
quelli posti su un piano o nello spazio; Dedekind chiarì successivamente i rapporti tra questo risultato e la geometria.
Andando avanti con questo ragionamento ci si chiede cosa ci sia tra
aleph0 (naturali) e 2aleph0 (reali) o equivalentemente se aleph1 è uguale
oppure no al 2aleph0.
In formula, quella che è nota come l’ipotesi del continuo è:
Oppure, l’“ipotesi generalizzata del continuo”:
(dove α è un indice che varia da 0 a N).
24
Nel 1900 Hilbert pose questo dilemma tra i problemi fondamentali
ancora da risolvere in matematica; nel 1938 il logico Kurt Gödel dimostrò che non è possibile provare la falsità dell’ipotesi del continuo
e nel 1963 Paul J. Cohen provò che è impossibile dimostrare la verità
dell’ipotesi del continuo. In pratica, dunque, l’ipotesi del continuo è
“indecidibile” e può essere assunta come vera o falsa e cioè è quello
che si chiama un enunciato indipendente, senza per questo che la teoria
degli insiemi sia contraddittoria, mentre diverso concettualmente, come
vedremo, il quadro che disegna per l’aritmetica il Teorema di Incompletezza di Gödel11.
Interessante è la storia del simbolo dell’Aleph e del Beth (che fu
successivamente utilizzato sempre dallo stesso Cantor). Cantor era un
ebreo marrano, cioè convertito (sembra solo formalmente) al Cristianesimo e la sua famiglia proveniva dalla Spagna da cui tramite vari
spostamenti dapprima in Germania giunse in Russia, a San Pietroburgo
dove il matematico nacque.
Cantor era uno studioso della “cabala” (ebr. ‫)הלבק‬, cioè della mistica
ebraica che è basata sulle 10 Sefiroth o “stazioni” che sono rappresentate da 10 sfere.
11
Riportiamo qui i due Teoremi di Incompletezza di Gödel, di cui si discuterà
in seguito.
Primo Teorema: “In ogni teoria matematica T sufficientemente espressiva da
contenere l’aritmetica, esiste una formula φ tale che, se T è coerente, allora né φ
né la sua negazione sono dimostrabili in T”.
Secondo Teorema: “Sia T una teoria matematica sufficientemente espressiva
da contenere l’aritmetica: se T è coerente, non è possibile provare la coerenza di
T all’interno di T”.
25
La struttura di una Sepiroth della cabala ebraica e le relative “vie”.
Dio è infinito ed è chiamato En Sof ed è indicato proprio dalla prima
lettera dell’alfabeto ebraico, Aleph, che Cantor, come abbiamo visto,
pose alla base della cardinalità dei numeri transfiniti.
Cosmologia
Dopo esserci fatti un’idea del ruolo dello zero in matematica passiamo ora a vedere il ruolo dello zero, inteso come “nulla”, nella cosmologia e nella relativa interpretazione filosofica. Questa parte del discorso
sarà necessariamente meno formale di quella matematica e molto più
discorsiva, ma è proprio l’analisi in questo contesto a risultare, a mio
avviso, la più interessante per i risvolti pratici e concreti che contiene.
La tesi o enunciato base è che il “nulla” (che, ripetiamo, dobbia26
mo intendere con l’equivalente “zero” in matematica) non può esistere
perché comunque circondato da una struttura infinita (ad esempio, lo
“spazio vuoto”). In effetti, già una prima analisi anche elementare di
questa affermazione ci rimanda ad una regressio ad infinitum che capita
spesso in questo tipo di ragionamenti.
L’idea base, come detto, è che non possa esistere un “nulla” sia in
senso strettamente spaziale che in quello temporale senza che, esso stesso, non sia collegato ed assuma immediatamente la nozione di “infinito”. Questo lo possiamo capire anche solo filosoficamente senza entrare
in dettagli fisici che comunque esamineremo in seguito.
Questa argomentazione non è del tutto nuova; infatti, già Archita
di Taranto nel V secolo a.C. espresse questa “impossibilità del vuoto”
con il celebre “argomento della lancia”; se si è all’estremità del “cielo” (nella cosmologia antica e medievale si ha una rappresentazione
dell’Universo come costituito da sfere concentriche che sono separate
da una “parete”) si può tendere una mano o una lancia oltre il limite?
È chiaro che lo si può fare (dice Archita), ma allora cosa troverei oltre?
Chiaramente deve esserci “qualcosa”, cioè uno “spazio” e così via fino
alla già citata regressio.
Il punto dove Cielo e Terra si incontrano, Camille Flammarion, 1888.
27
Il contributo più autorevole al dibattito viene dato da Aristotele che
nel suo libro sulla Fisica, afferma decisamente che tutto ciò che ha rilevanza per il mondo fisico deve essere “finito”; l’“infinito”, in senso
aristotelico, può esistere solo in una forma “potenziale”, utile solo per i
ragionamenti, ma non “attuale”.
A partire da questa posizione si sono susseguite per millenni vere
e proprie “fazioni” di filosofi prima e di “filosofi della natura”, fisici e
matematici poi, con posizioni assolutamente dicotomiche riguardo alla
spinosa questione.
Tra gli “infinitisti” ricordiamo: gli Atomisti, i filosofi ionici – Talete, Anassimandro, Anassimene –, Lucrezio, Cusano, Bruno, Cartesio,
Newton, Kant, Einstein, de Sitter, gli inflazionisti (in riferimento alla
teoria cosmologica dell’inflazione); tra i “finitisti” abbiamo: Aristotele, Tolomeo, Dante, Copernico, Keplero12, Riemann, di nuovo Einstein
(cambiò idea), Friedmann, Lemaître.
Ci sono stati storicamente diversi tentativi di superare questa situazione; dalla teoria medievale del “bordo graduale” che mostra in continuo cambiamento di “gradazione” dal “fisico” allo “spirituale”, per cui
la lancia si muta in un elemento etereo e non più fisico alla teoria del
“bordo mobile”: il mondo è finito e circondato dall’infinito; la mano protesa quindi, non fa altro che estendere il finito, “guadagnando” spazio.
La cosmologia del XX secolo ha cercato di dare una risposta a questo “paradosso”.
Una (possibile) spiegazione si può ricercare nelle geometrie non euclidee per cui può esistere una superficie “finita senza bordo” e questo
potrebbe essere il caso del nostro universo. L’“errore”, secondo i moderni modelli relativistici, sarebbe quello di considerare, con il Big bang13,
un universo in espansione (accelerata) in uno spazio infinito, mentre in
12 A proposito,
le famose leggi di Keplero sono:
1) I pianeti si muovono su orbite ellittiche con il Sole posto in uno dei fuochi.
2) Il segmento congiungente il pianeta con il Sole spazza aree uguali in tempi
uguali.
3) I quadrati dei tempi dei periodi di rivoluzione sono proporzionali ai cubi dei
semiassi maggiori delle loro orbite.
13 La teoria del Big bang non risolve diverse problematiche tra cui la piattezza e
l’uniformità dell’universo e l’assenza di monopoli magnetici, previsti dalle Teorie
di Grande Unificazione e da quelle di SuperStringhe. Tutti questi aspetti vengono
spiegati dalla teoria dell’inflazione, che vedremo in seguito.
28
realtà per la Relatività generale di Einstein, c’è solo uno spazio-tempo
o cronotopo, che “è” tutto quello che esiste e non si “espande” in conseguenza in nulla. Quindi, in questa ottica, il “nulla” semplicemente non
esiste e pertanto non vi sarebbe alcun “paradosso”.
Tuttavia ci sono veramente molte difficoltà ad accettare tale visione
assolutamente controintuitiva di un universo senza bordo e quindi senza “niente” all’esterno e la problematica filosofica non pare completamente risolta.
Una visione più comprensibile è quella di un universo fisico finito,
nato da una fluttuazione quantistica del vuoto, immerso appunto nel
“vuoto quantistico” infinito; in questo caso l’infinito è “fuori”; una variante di questa visione è che l’universo fisico sia nato da una fluttuazione quantistica del vuoto e che effettivamente non si espande nel “nulla”
o “vuoto”, ma crea di continuo “spazio” dilatandosi. Si noti che questa
versione, apparentemente finitistica del modello, in realtà ha comunque
un infinito all’origine.
La cosmologia moderna, per alcune considerazioni di natura prettamente topologica, tende a considerare più fisicamente rilevante un tale
modello, ma, curiosamente, “non si accorge” o sembra non accorgersi
che il problema dell’infinito è solo spostato all’origine, ed è ciò che ha
(presumibilmente), dato origine al Big bang, che in questa ottica può
essere quindi considerato solo come una sorta di “transizione di fase”.
Il modello precedente ha un illustre ed antichissimo predecessore
in quello di Anassimandro di Mileto, che, già nel VI secolo a.C., considerava il mondo fisico finito circondato da una sostanza l’“apeiron”
infinito (ἀ-πεῖραρ).
Un interessante caso è quello di un universo infinito che si espanda
in un “vuoto” anche esso infinito, magari con un “aleph” superiore…
Molto probabilmente dunque, alla luce della Relatività generale,
l’Universo materiale è una “bolla” o “varietà topologica” presumibilmente finita (ma potrebbe essere infinita) in “espansione” nel “nulla”
vero e proprio, non avendo un confine geometrico14, e non nel vuoto
quantico ed è nato da una fluttuazione quantica del vuoto comunque infinito, oppure (ipotesi più debole) è una “bolla” presumibilmente finita
(o infinita) che si espande nel vuoto quantico, sempre infinito.
14
Congettura di Hawking, proposta nel 1970.
29
Fisica
Abbiamo trattato precedentemente il concetto di infinito in cosmologia, perché ci interessava particolarmente quel campo di ricerca, tuttavia, per completezza, occorre dire che gli “infiniti” in fisica compaiono spesso e sono, in genere, il segnale che la teoria per certi valori
critici del modello che rappresenta il fenomeno perde di validità; nel
contempo, la presenza dell’infinito segnala che per quei particolari valori “succede qualcosa” di particolare e il corrispondente matematico
dell’infinito può avere un (rilevante) significato fisico, anche in relazione all’ampliamento del significato del modello stesso15. Considereremo
ora alcuni infiniti famosi che si sono presentati in fisica e che in alcuni
casi hanno rivoluzionato la fisica stessa.
Gli infiniti nella materia. Catastrofe ultravioletta e corpo nero
Un fenomeno particolarmente interessante è quello della cosiddetta
“catastrofe ultravioletta” che si verifica quando si cerca, in fisica classica, di calcolare l’energia emessa da un corpo nero su tutte le frequenze (integrando quindi una opportuna densità di distribuzione espressa
in forma differenziale tra - ∞ e + ∞). Un corpo nero, fisicamente, è
rappresentabile da una cavità profonda che assorbe tutta la radiazione
in entrata e la riemette termicamente secondo una particolare curva di
distribuzione. Tale quantità riemessa è, naturalmente, un valore finito
e misurabile. Se si tenta di applicare i concetti elettromagnetici e termodinamici classici al corpo nero si ottengono invece valori infiniti in
funzione della frequenza dell’energia riemessa il che è assurdo.
Questo vuol dire che la teoria non è più valida nelle condizioni descritte. Fu principalmente questo fenomeno inspiegabile classicamente
che portò il 14 dicembre del 1900 – ad un convegno della Società di
Fisica Tedesca –, Max Planck (1858-1947), a formulare la sua rivoluzionaria teoria per cui la radiazione elettromagnetica è composta di
15 Si pensi, ad esempio, alle masse nella Teoria della Relatività speciale; per
v=c diventano infinite, ma per v>c diventano immaginarie permettendo di definire
un nuovo tipo di particelle, cioè i tachioni, che possono trovarsi solo a velocità
superluminari.
30
“quanti” di luce chiamati fotoni, che possono essere scambiati con la
materia (atomi) solo in quantità finite o discrete e non continue, cioè appunto in “quanti” di energia. Utilizzando quindi questa ipotesi nel problema dell’emissione del corpo nero, si mostra che l’infinito scompare
e che resta una quantità finita che corrisponde esattamente al valore
sperimentale misurato. Questo risultato, del tutto inaspettato, diede origine a quella che è stata chiamata Fisica quantistica che vale nel regno
molecolare e atomico, e ivi sostituisce la Fisica classica.
C’è da dire che Planck considerò inizialmente i quanti solo una specie di artifizio matematico (ed in questo ricorda il significato originario
dei concetti di spazio e di tempo nelle trasformazioni di Lorentz in Relatività speciale).
Elettrodinamica quantistica
La somma di tre quarks “blu”, “rosso” e “verde”
dà un protone o un neutrone, che fanno parte della famiglia dei barioni.
La teoria fisica più avanzata che abbiamo per descrivere il moto relativistico degli elettroni è la teoria dell’elettrodinamica quantistica che
fu sviluppata dal fisico, matematico ed ingegnere britannico Paul A.M.
31
Dirac16 (1902-1984) e poi dal tedesco Werner Heisenberg (1901-1976)
e dall’austriaco Wolfgang Pauli (1900-1958).
In pratica, la teoria si occupa della interazione tra la materia e la luce
e cioè specificatamente tra gli elettroni e i fotoni. Tuttavia, anche in
questo caso, si presentano nei calcoli degli infiniti che possono essere
eliminati solo tramite un processo artificioso chiamato rinormalizzazione. In Meccanica quantistica (m.q.), il vuoto non è affatto “vuoto”, ma
è pieno di energia17 che è in costante interazione ed auto-interazione e
che provoca la continua creazione e distruzione di particelle (virtuali)
elementari, come del resto permesso dalla celebre equazione di Einstein: E = MC2.
Dunque, quando si tenta di calcolare l’energia di un elettrone si scopre che è infinita (a rigore lo è anche in Meccanica classica, dove lo si
considera puntiforme). Tuttavia, con un artificio matematico, la rinormalizzazione, dovuto all’opera congiunta di a Shin’ichirō Tomonaga
(1906-1979), Julian Schwinger (1918-1994) e Richard Feynman (19181988) si riescono a “sottrarre” due infiniti facendo scomparire l’infinito
originale. Tecnicamente l’energia (infinita) dell’elettrone viene sottratta
16
L’equazione, in forma compatta, scritta da Dirac nel 1928 è:
(iγμ∂μ − m) ψ = 0
dove le γ sono delle opportune matrici, dette appunto matrici di Dirac e μ sono degli indici che indicano le coordinate rispetto a cui fare le derivate parziali indicate.
La ψ è l’usuale funzione d’onda.
L’ equazione di Dirac descrive particelle relativistiche – come l’elettrone – con
spin.
Invece, nel caso di particelle con spin nullo si ha l’equazione relativistica di
Klein-Gordon che nel limite di basse velocità fornisce l’equazione di Schröedinger. Inoltre, l’equazione di Dirac predice l’esistenza di un elettrone di massa negativa, cioè il positrone, che solo successivamente sarà scoperto da Carl Anderson
nei raggi cosmici nel 1932. Il problema della preminenza della materia rispetto
all’antimateria primordiale non è ancora completamente risolto dal punto di vista
teorico; quello che si sa è che già dopo 10-35 s dal Big bang si era prodotta una lieve
asimmetria tra materia ed antimateria che si è poi mantenuta ed ampliata a favore
della materia ordinaria fino alla nostra epoca.
17 L’energia del vuoto, risulta tuttavia sperimentalmente 120 ordini di grandezza inferiore a quella calcolata teoricamente. È questa una delle principali incoerenze della fisica moderna.
32
a quella (infinita) del vuoto e resta un valore finito che non è più l’energia pura dell’elettrone, ma bensì un suo valore riscalato, cioè rinormalizzato; in pratica, in m.q. si considerano solo differenze di energie e
non valori assoluti, e questo ricorda le funzioni di stato termodinamiche
e l’energia potenziale in fisica classica.
Successivamente, con i lavori di Feynman, Schwinger, Tomonaga e
Dyson si è passati alla QFT (Quantum Field Theory) che ha “promossso” la funzione d’onda al rango di “operatore” utile per descrivere le
moderne teorie sulle particelle elementari che vengono create e distrutte
nelle interazioni.
L’equazione utilizzata è quella di Young-Mills in “seconda quantizzazione”. In linea di principio, conoscendo una funzione delle coordinate e del tempo detta “lagrangiana” cioè l’energia totale (cambiata di
segno) del sistema è possibile predire tutte le probabilità di transizione.
Feynman per agevolare questo tipo di previsioni ideò i cosiddetti “diagrammi di Feynman” che rappresentano un processo di approssimazione successiva, reso molto efficacemente in forma grafica.
Un diagramma di Feynman in teoria dei campi per l’interazione di due elettroni che si scambiano un fotone.
Si noti che il metodo di Feynman (introdotto nel 1948) si può utilizzare anche nella Meccanica quantistica “semplice”, cioè non dei campi;
33
in tale accezione il metodo degli “integrali di cammino” – che generalizza il concetto di “azione” classica – è del tutto equivalente alla
risoluzione della equazione di Schrödinger.
Anzi, questo metodo indica una nuova interpretazione della Meccanica quantistica.
In Fisica classica esiste il concetto di “forza” poi sostituito con quello di “campo” per evitare l’“azione a distanza” che sembrava esserci
nella meccanica newtoniana; ad esempio, nel diagramma di Feynmann
sopra riportato, due elettroni indicati con “e-” si avvicinano e poi ad una
certa distanza si respingono con un’azione repulsiva della forza elettromagnetica, essendo le due cariche dello stesso segno.
Nella teoria quantistica dei campi, il fenomeno viene descritto con
uno scambio del mediatore della forza elettromagnetica, cioè il fotone
indicato con γ, che passa da un elettrone che lo emette all’altro che lo
assorbe. Ogni forza ha il suo mediatore: la gravità il gravitone, l’elettromagnetismo il fotone, la forza nucleare debole ha 3 mediatori: W+,
W- e Z0, mentre la forza nucleare forte ha 8 gluoni che si scambiano i
Quarks18.
La teoria delle interazioni forti è chiamata “cromodinamica quantistica” o QCD (Quantum Cromo Dynamics)19 e porta al concetto di
Quarks20 costituenti fondamentali, come visto, di alcune particelle,
come i protoni ed i neutroni.
18
Il curioso nome “Quarks” è stato suggerito al Nobel per la fisica Murray
Gell-Mann dalla lettura di una frase dell’opera Finnegans Wake, di James Joice:
Three quarks for Muster Mark! che può essere tradotta come Tre quarks per il
signor Mark! ed a Gell-Mann sembrava una storpiatura del comando Three quarts
for Mister Mark! e cioè Tre quarts per il signor Mark!, dove il quart è un grande
boccale di birra inglese. Poiché i Quarks che costituivano i protoni ed i neutroni del
suo modello erano inizialmente proprio tre il gioco era fatto!
19 La Cromodinamica quantistica si chiama così non perché abbia a che fare
con reali colori, ma perché i Quarks vengono identificati da un analogo della carica
elettrica, chiamato appunto “colore” introdotto dal fisico Oscar W. Greenberg nel
1964; i “colori” sono, in genere, il blu, il verde ed il giallo e i relativi “anticolori”
e cioè l’“anti-blu”, l’“anti-verde” e l’“anti-giallo”.
20 Esistono sei sapori di Quarks e cioè: Up, Down, Strange, Charm, Bottom e
Top ciascuno nei tre possibili colori anzidetti, per un totale di 18 Quarks.
34
Modello standard e Teoria delle Stringhe
Nell’attuale fisica fondamentale si contrappongono due teorie: quella del cosiddetto Modello standard (M.s.) che considera le interazioni
quantistiche tra particelle elementari e la Relatività generale (R.g.) che
è la più avanzata (ed elegante) teoria della gravitazione che possediamo.
La R.g., come vedremo più approfonditamente in seguito, è una teoria
particolare in fisica; essa “geometrizza” lo spazio-tempo e la gravità ha
l’effetto di modificare la curvatura della “varietà” (in senso topologico) del cronotopo. Il Modello standard applicato alla gravità quantistica
dà degli infiniti non rinormalizzabili perché il M.s. è strutturalmente
diverso dalla R.g.; sono due modi opposti di vedere e considerare la
Fisica, uno basato su concetti geometrici (la Relatività generale) l’altro
su quello di “campo” (il Modello standard).
In pratica, è dal 1930 che i fisici cercano di unificare la gravità alla
m.q. ; dal punto di vista geometrico, lo spazio-tempo a distanze inferiori
alla cosiddetta lunghezza di Planck (10-35 m) deve essere, in qualche
modo, “quantizzato” naturalmente, cioè la geometria dello spazio-tempo non è più “liscia”, ma bensì increspata dagli effetti quantistici. Un
tentativo di realizzare questa “unione”, superando anche qui il problema
degli infiniti, è stato, come vedremo in seguito, quello della Teoria delle
Stringhe (TdS), inizialmente proposta dal fisico italiano Gabriele Veneziano (1942-). In tale teoria le particelle fondamentali, leptoni, quark,
bosoni, non sarebbero puntiformi, ma bensì simili ad una “fettuccia”
filiforme (superstringa) che ha diversi “modi” di vibrazione, come una
corda di uno strumento. Ad ogni “modo” di vibrazione si manifesta una
particella diversa. In questa maniera anche la gravità entra a far parte
del gioco, ma tuttavia la teoria implica un certo numero di dimensioni21
fisiche addizionali, alcune ripiegate su se stesse, e comunque non visibili nel nostro mondo.
La TdS evita gli infiniti perché non considera più le particelle puntiformi e quindi “singolari”, ma bensì considera una dimensione lineare,
comunque “finita”.
21
Le dimensioni previste dalla teoria delle stringhe erano 26 nella prima versione e 11 nell’attuale.
35
I buchi neri e i buchi bianchi
I buchi neri (b. n.) furono previsti già nel XVIII secolo da Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) che immaginò un corpo così concentrato
che nessuna cosa, neppure la luce, potesse più uscire sotto l’effetto dirompente della sua stessa forza gravitazionale. Affinché si generi questa
condizione di blocco anche della luce occorre che il corpo abbia un raggio di valore critico, detto “raggio di Schwarzschild” che è di circa 3 Km
per una stella della massa del Sole. Applicando nel 1915 le equazioni di
campo della R.g. da poco scoperte, Schwarzchild riuscì a modellizzare un buco nero. Le soluzioni trovate da Schwarzchild tuttavia davano
valori infiniti per lunghezza e tempo già sul raggio critico del b. n.; fu
il fisico e religioso belga Georges Edouard Lemaître22 (1894-1966), nel
1933, a dimostrare che in realtà si trattava di “falsi infiniti” che un’opportuna scelta delle coordinate poteva cancellare. Tuttavia l’infinito era
in agguato, sotto forma di una singolarità nel buco nero, ma non nel
suo bordo bensì nel suo centro dove il valore della curvatura diventava infinito a causa della incredibile azione della gravità. Negli anni
’60 del XX secolo Roger Penrose (1931-) e Stephen Hawking (1942-)
dimostrarono che questa singolarità centrale era del tutto inevitabile
e non era frutto, come quella sulla superficie di Schwartzchild, di una
cattiva scelta di coordinate23. La singolarità centrale di un buco nero in
genere è “censurata” cioè all’esterno non può trapelare nulla di quello
che avviene nel centro; tuttavia, in alcuni casi, tale singolarità può non
essere censurata ed allora le influenze di essa potrebbero propagarsi
nel cosmo disturbando arbitrariamente ogni osservazione in modo del
tutto imprevedibile, di fatto rendendo impossibile il concetto stesso di
22
Il religioso belga utilizzò la R.g. e il cosiddetto “spostamento verso il rosso” degli spettri stellari, per giungere ad un modello di universo in espansione da
una esplosione originaria, che in seguito sarà chiamata Big bang. Einstein invece riteneva l’universo statico ed avversò inizialmente l’ipotesi di un universo in
espansione. Tale modello fu individuato nello stesso periodo anche dal matematico
russo Aleksandr Fridman (1888-1925). La metrica detta FLRW e cioè di Fridman,
Lemaître, Robertson, Walker si ritiene sia una buona approssimazione dell’universo nato dal Big bang.
23 Alcuni fisici teorici ritengono che tale singolarità possa in futuro essere eliminata da una adeguata teoria della Relatività renerale che includa la Meccanica
quantistica.
36
scienza. Esistono, come soluzioni della Teoria della Relatività generale,
anche i “buchi bianchi” (b. b.) che sono, in un certo senso, speculari ai
buchi neri ed anzi un buco nero ed un buco bianco potrebbero essere
connessi attraverso un cunicolo spazio-temporale (wormhole o “Ponti
di Einstein-Rosen”). Tali cunicoli sarebbero, al di là della presenza di
b. n. e b. b., delle scorciatoie nello spazio-tempo per connettere punti
diversi di uno stesso universo o di universi diversi. La fisica di un buco
bianco è l’esatto opposto di quella di un buco nero; come nel primo tutto
esce e nulla può entrare nel secondo tutto entra e nulla può uscire24. Per
“tutto” intendiamo luce e materia. Alcune speculazioni vedono nella
nascita di un universo (Big bang) proprio l’azione di un buco bianco. I
buchi bianchi sembrano esistere solo come soluzioni matematiche delle
equazioni di campo della Relatività generale, ma mentre i buchi neri, o
meglio le loro “prove” sono stati osservati non è stata rivelata, finora,
traccia dei buchi bianchi.
Il Big bang
Nell’istante iniziale, 13,7 miliardi di anni fa, la temperatura e la densità di materia erano infinite; questo significa che la Relatività generale
non è in grado di descrivere fisicamente lo stato di questa materia. Sotto
la lunghezza di Planck, 10-35 m e il tempo di Planck, 10-40 s, non possiamo dire nulla perché la R.g. deve essere sostituta da una teoria della
gravità quantistica. Ci sono alcuni modelli, come quello visto delle superstringhe che evitano la singolarità iniziale, ma in tutti gli altri tale
singolarità è presente ed è sostanziale cioè non è un artifizio matematico relativo, ad esempio, alla scelta di “buone coordinate”, come i lavori
di Penrose ed Hawking hanno dimostrato.
Altri modelli cosmologici, come quello di Linde in cui si generano
in continuazione universi-bolla con leggi e costanti fisiche diverse sono
probabilmente al di là di ogni verifica sperimentale. L’unica cosa che
possiamo dire è che la presenza degli infiniti ci dice che la teoria fino
allora usata deve essere sostituita con una teoria più completa, come
24
In realtà, lo stesso Hawking incalzato dal fisico Jacob Bekenstein nel 1974
si persuase che anche un buco nero emette una radiazione di tipo termico a causa
di effetti quantistici.
37
appunto quella della gravità quantistica ottenuta o quantizzando la Relatività generale o relativizzando la Meccanica quantistica.
Gli infinitesimi ed il calcolo differenziale
Fig. 1. (originariamente tratto da:
http://macosa.dima.unige.it/om/voci/derivata/derivata.htm).
L’infinito, a ben pensare, non è solo una entità concettuale identificabile con qualche “estremo superiore” non limitato come è, ad esempio, nella serie dei numeri Naturali (0,1,2,…, N, N+1,…), ma è presente
ovunque, anche “tra” due numeri Naturali stessi; ad esempio, l’intervallo tra il numero 2 e il numero 3 contiene una infinità di altri numeri
di tutti i tipi. Dunque qui ci occuperemo di questi infiniti nascosti ed in
particolare di quello che si trova vicino allo zero e che è esemplificato
dal concetto di “infinitesimo” o “numero infinitesimale”.
Il XVII secolo è il secolo che vide la nascita del calcolo differenziale (c. d.) ed integrale o infinitesimale ed è il secolo della soluzione
dei problemi relativi al moto dei pianeti e dei corpi terrestri. Proprio
studiando questi moti si giunge al concetto di traiettoria, o spazio percorso, seguita da un pianeta o un mobile e da questa si arriva al concetto
di velocità istantanea ed accelerazione istantanea, considerate come il
38
valore numerico della tangente alla curva in un “istante” temporale.
Dunque il c. d. nasce dai problemi della fisica e specificatamente della
meccanica ed infatti le equazioni differenziali non sono altro che delle
relazioni tra una quantità espressa come funzione e le sue successive
variazioni espresse come derivate. Si incomincia ad abbandonare l’algebra per qualcosa di dinamico che è appunto l’analisi. Le curve segnano un progresso di liberazione dalla fissazione greca per i circoli ed i
cerchi, considerati idealisticamente “perfetti” e si capisce che il mondo
reale è fatto di cose alquanto storte ed irregolari che di seguire leggi
armoniche a priori proprio non ne vogliono sapere; quindi, dietro al
progresso matematico c’è un cambio di visione del mondo, dalla perfezione filosofica iperuranica al mondo materiale.
René Descartes (1596-1650), Cartesio, aveva introdotto uno strumento fondamentale: le coordinate cartesiane, appunto, che mettevano
in relazione i punti del piano (o dello spazio) tra loro mediante l’algebra
delle coppie ordinate di numeri.
Uno dei primi problemi che si pose il calcolo differenziale, come
detto, fu quello di calcolare la direzione di una curva in un punto e
quindi di conoscere la tangente geometrica alla curva in quel punto,
rilevante per il calcolo di velocità e di accelerazione di un mobile.
Facciamo un esempio pratico. La curva f(x) = x2 rappresenta, come
noto, una parabola. Vogliamo calcolare l’equazione della tangente in un
punto qualsiasi. Geometricamente (vedi fig. 1) si vede che il coefficiente angolare della tangente sarà dato dalla relazione:
(1) f(r + h) – f(h) / h
Nel caso in esame:
(2) (r + h)2 – r2)/h = (r2 +2rh + h2 – r2)/h = h(2r + h)/h
Alla fine si ha, dividendo la (2) per h (supposto diverso da zero):
2r + h e nel limite che h sia “molto piccolo” si può trascurare h stesso
e la (1) diviene
(3) f(r+h)- f(h)/h = 2r
39
La (3) dà proprio la “pendenza” o il “coefficiente angolare” della
tangente alla funzione f(x) = x2 nel punto (r, r2).
In pratica abbiamo, con un ragionamento puramente geometrico,
trovato la tangente ad una curva data in un punto dato. Questo metodo
vale per ogni curva e per ogni punto e quindi risolve il problema che ci
si era posti.
In realtà questo ragionamento funziona bene praticamente, ma dal
punto di vista della correttezza matematica lascia molto a desiderare;
infatti abbiamo diviso per h il numeratore ed il denominatore supponendo che sia diverso da zero e poi, invece, abbiamo trascurato h supponendo che fosse “così piccolo” da essere in pratica zero!
Insomma, h una volta è trattato come fosse diverso da zero ed un’altra, in pratica, come zero o, appunto, “infinitesimamente” vicino allo
zero.
Il primo ad occuparsi seriamente del problema fu il matematico inglese Isaac Barrow (1630-1667), il maestro di Newton, che in effetti
seguì proprio il ragionamento appena fatto per giungere a trovare la
tangente ad una curva. Tuttavia, una ambiguità sicuramente esisteva e
si crearono subito due fazioni25: quella per cui le cose “funzionavano”
bene ed era inutile filosofeggiare troppo (la potremmo definire “degli
ingegneri”) e quelli che invece erano assolutamente contrari ai “giochi
di prestigio” matematico con questi numeri “infinitamente” piccoli che
sembravano comparire e scomparire quando facevano comodo (la potremmo definire fazione “dei matematici”).
Tra i propugnatori degli infinitesimi c’era Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), di professione diplomatico tedesco, ma anche avvocato, geologo, filosofo e, soprattutto, inventore o co-inventore (insieme a
Newton) del calcolo infinitesimale. Fu lui ad introdurre una notazione
matematica particolarmente efficace designando con “dx” la differenza “infinitesima” tra i valori x1 e x2 di due punti infinitamente vicini.
Naturalmente, per capire concettualmente l’origine di quello che intendeva per “infinitesimo” occorre rifarsi alla sua filosofia e al concetto di
“monade” come entità “spirituale” minima e sicuramente, nel suo modello matematico-filosofico, c’erano grandi affinità tra dx e la monade.
25
Stranamente la vicenda ricorda quella della M.q. che “funziona”, ma non si
è “capita”.
40
Questo era tipico di un periodo in cui non c’era ancora una separazione
completa tra fisica e filosofia26.
Lasciamo però ora la filosofia e torniamo alla scienza con l’altro
grande attore di questa vicenda, Isaac Newton (1642-1727) uno dei fondatori insieme a Galileo Galilei della fisica moderna. Newton, come
Barrow, “pensava per infinitesimi” ed utilizzava il simbolo “o” (chiamato “o piccolo”) per indicarli, come faceva il matematico James Gregory (1638 -1675). Newton chiamava la variabile x, “fluente”, e quella
f(x) che denotava con “y”, “flussione”. Insomma, cambiavano i termini, ma sia Leibniz che Newton pensavano la stessa cosa e soprattutto
utilizzavano in maniera assai poco convincente questi “nuovi numeri”
(tralasciamo qui la grande disputa che vide opposti lo scienziato inglese
e quello tedesco sulla priorità della scoperta). Le critiche non mancarono. La più nota è quella contenuta in una famosa “lettera” pubblica del
vescovo George Berkley (1685-1753) del 1734, The Analyst, che attaccava questi “incrementi evanescenti” che non sono “né quantità finite
né infinitamente piccole, e neppure nulle. Noi dovremmo chiamarli i
fantasmi di quantità inesistenti?”. Le risposte a Berkley, parimenti, non
mancarono, ma poiché il metodo alla fine funzionava bene si continuò
ad usarlo.
Il calcolo differenziale ed integrale si affermò in tutto il mondo sebbene le sue fondamenta fossero appunto tutt’altro che solide.
Fu solo successivamente con il concetto assai rigoroso di “limite”
e con i lavori di Cauchy e Weierstrass27, nel XIX secolo, che si ebbe
l’analisi infinitesimale nella forma odierna. I due matematici anzidetti
diedero finalmente una salda base teorica e formale ai risultati degli
“stregoni matematici” del XVII e XVIII secolo e così i concetti di “derivata” ed “integrale” di una funzione ebbero salde basi teoriche su cui
poggiare le proprie fortune. Weierstrass, oltre che nel concetto di limite,
si occupò direttamente dell’infinito definendo, ad esempio, un numero
irrazionale come limite di successioni di numeri razionali, ad esempio
1, 14/10, 141/100… converge a √¯2.
Tuttavia a questa lunga storia manca ancora un capitolo ed è quello
26 Si pensi anche alle influenze platoniche su Keplero o alla “teoria dei vortici”
eterei utilizzata da Cartesio per spiegare il moto dei pianeti.
27 Con il metodo dell’epsilon-delta, che definisce rigorosamente il concetto di
limite.
41
che nel XX secolo, nel 1966, a sorpresa, vide la riabilitazione del metodo degli infinitesimi di Newton e Leibniz, grazie all’opera del logicomatematico Abraham Robinson (1918-1974), fondatore dell’analisi non
standard. Robinson riutilizzò i simboli dei differenziali “dx” e “dy”, ma
li definì nell’ambito di una nuova teoria dell’analisi che vide l’introduzione di una nuova classe di “numeri iperreali”28, numeri formati da
una parte reale ed una infinitesima.
In formule:
x=x + dx = numero iperreale29
dove x è un numero reale e ds un infinitesimo.
la parte standard di (x + dx) è l’usuale x mentre dx è un infinitesimo
(minore di ogni numero reale positivo) definito come:
per ogni numero naturale n.
Quindi, nel caso del nostro esempio precedente, il numero 2r + h
può essere scritto come 2r + dr e cioè un numero iperreale.
Allora, secondo l’analisi non standard, la derivata, cioè la tangente
nel punto alla curva, sarà la “parte standard” del numero iperreale e
cioè, correttamente, 2r.
Quindi, grazie a tale risultato, l’analisi matematica è finalmente pienamente utilizzabile (basta fare i calcoli con gli iperreali e poi prendere
solo la parte standard) anche adoperando i metodi non molto ortodossi
di Newton, che comunque risultano molto più comodi di quelli che utilizzano il concetto di limite.
Dunque, la storia dell’infinito che ebbe inizio nella Magna Grecia, e
precisamente a Siracusa, in Italia più di 2000 anni fa, con il metodo di
esaustione di Archimede, ebbe il suo compimento in America, e resta
comunque uno dei più grandi edifici intellettuali costruiti dall’Uomo
nei secoli.
28
I numeri iperreali non godono della proprietà archimedea quindi non è detto
che, dati due numeri a e b, con a < b, esista un intero N per cui vale la relazione
Na > b.
29 La formulazione dei numeri iperreali ricorda quella dei numeri complessi
formati da una parte reale ed una parte immaginaria e cioè: x = Re x+ i Imm x, ove
“i” è l’unità immaginaria.
42
Scarica