UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA
Anno accademico 2016/2017
Insegnamento di Storia romana – Laurea triennale
Handout n. 2
Addendum al punto II.
Plinio il Vecchio, Storia naturale 17.38.244 (in cui Calpurnio Pisone, Annales fr. 38 Peter)
A Roma, sul Campidoglio, al tempo delle guerre contro Perseo [171-168 a.C.] un albero di palma
crebbe dalla statua di Giove, presagio di prossime vittorie e trionfi. Questa palma, però, fu distrutta
da una tempesta e allora un albero di fico spuntò esattamente nello stesso punto ai tempi della
lustratio fatta dai censori M. Messalla e C. Cassio [154 a.C.], in un momento in cui, secondo Pisone,
un autore di grande autorevolezza, ogni senso del pudore (pudicitia) era stato perduto.
III. ANNALI, HISTORIA E MONOGRAFIA
1. Sempronio Asellione, fr. 1-2 Peter
Tra coloro che hanno voluto lasciare degli annali e colori che hanno cercato di scrivere
compiutamente una storia romana, questa è la differenza fondamentale: i libri annali si limitavano a
esporre i fatti e la loro cronologica, alla stregua più o meno di chi scrive un diario, quello che cioè i
Greci chiamano “efemeride”. Io osservo invece che a noi interessa non solo riferire dei fatti ma
anche esporre le intenzioni e i moventi (quo consilio quaque ratione) delle imprese. […] Infatti i
libri annali non riescono per nulla a suscitare alacrità nella difesa dello stato o a imporre remora alla
sovversione. Scrivere sotto quale console cominciò la guerra e sotto quale finì e chi fece il suo
ingresso trionfale, ma non mettere in evidenza lo svolgimento della guerra né i decreti nel frattempo
emanati dal senato o lo leggi e le rogazioni votate, e non riferire le intenzioni (consilia) che
promossero gli avvenimenti: tutto ciò è raccontar favole ai bambini, non scrivere storia”.
2. Cicerone, Le leggi 1.1-2.5
Quinto: “Capisco, fratello, che ritieni che diverse siano le leggi da osservare nella poesia e nella
storia”.
Marco: “Naturalmente, Quinto, dal momento che nella storia tutto si riconduce alla verità (veritas),
e nella poesia al dilettare (delectare), per quanto anche in Erodoto, il padre della storia, e in
Teopompo vi siano numerose leggende”.
[…] Attico: “Già da tempo ti si chiede, Marco, o meglio si esige da te una storia (historia). Si ritiene
infatti che se tu la trattassi potrebbe avvenire che anche in questo genere letterario non abbiamo a
restare per nulla inferiori alla Grecia. […] Manca infatti alla nostra letteratura la storia (historia)
[…]. E tu sei senza dubbio in grado di soddisfarci di essa da momento che appunto essa, secondo il
tuo pensiero, è l’unica forma di scrittura che sia un opus oratorium maxime. Perciò, ti preghiamo,
comincia una buona volta e riservati del tempo a tale argomento, che dai nostri conterranei è fino
ad oggi ignorato o lasciato ai margini. Infatti, se a partire dagli annali dei pontefici massimi, dei
quali nulla si potrebbe considerare più arido (ieiunius), veniamo a Fabio Pittore, o a Catone che hai
sempre sulla bocca, o a Pisone […] pur avendo tra di loro l’uno più vigore dell’altro, tuttavia non vi
è nulla di più esile (exile) di loro. […] Anche Asellione […] è paragonabile alla debolezza e alla
rozzezza (inscitia) degli antichi scrittori ”.
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3. Cicerone, Lo Stato 2.1.1-2
La nostra costituzione non è sorta per opera di un solo uomo e di una sola generazione, ma nel
corso di parecchie età e per virtù di molti uomini. Diceva infatti Catone che non vi fu mai ingegno
tanto alto a cui nulla potesse sfuggire, e che neppure tanti ingegni riuniti insieme, senza l’esperienza
che deriva dal trascorrere del tempo, potrebbero in un solo momento storico prevedere tutto, e a
tutto provvedere. Per questo motivo, così come egli era solito fare, anche le mie parole si rifaranno
all’origine del popolo romano […]. Inoltre più facilmente realizzerò il mio intento, se vi
rappresenterò il nostro Stato (res publica) nel suo nascere, crescere ed essere adulto e ormai saldo e
robusto, che non se io ne foggiassi uno idealmente, come fece Socrate in Platone.
4. Sallustio, La congiura di Catilina 3-10 passim
In così grande varietà di occupazioni la natura mostra a ciascuno una via diversa. È bello essere utile
allo Stato con l’azione, ma anche essergli utile con la parola è degno di lode. […] E per quanto non
sia certamente uguale la gloria che accompagna chi descrive (scriptor) e chi compie (auctor) le
imprese, mi pare che sia particolarmente difficile narrare gli avvenimenti storici anzitutto perché si
devono trovare le parole adeguate alle azioni e poi perché la maggior parte della gente ritiene dettato
dall’odio e dall’invidia quanto hai detto per stigmatizzare delle colpe.
[…] Quando presi la risoluzione di trascorrere il resto della mia esistenza lontano dalla politica, non
coltivai affatto il proposito di sprecare un prezioso periodo di tempo libero nella pigrizia e nel
torpore e neppure di passare la vita intento alla agricoltura e alla caccia. […] Al contrario decisi di
scrivere compiutamente la storia del popolo romano per episodi (carptim), a seconda che mi
sembrassero degni di memoria (memoria digna); tanto più che il mio animo era libero da speranze,
da timori e da passioni di parte. E così in breve, con la maggior veridicità possibile (quam verissume
potero), tratterò della congiura di Catilina: questa impresa la considero infatti degna di essere
ricordata fra le più importanti, perché straordinario fu il progetto delittuoso e straordinario (novus)
il pericolo corso dallo Stato.
La città di Roma, secondo la tradizione fu fondata e abitata nell’epoca più antica da Troiani, che
esuli andavano vagabondando sotto la guida di Enea.
[…] In pace e in guerra era tenuta in grande considerazione l’onestà dei costumi; la concordia era
massima, minima l’avidità. Il giusto e l’onesto presso di lor valevano non per forza di legge, ma
piuttosto per forza di natura. Litigi, discordie, rivalità le riservavano ai nemici, i cittadini
gareggiavano tra loro in valore. Nel culto degli dei erano prodighi, nella vita privata parsimoniosi,
fedeli verso gli amici. Con le qualità dell’audacia in guerra e l’equità in pace, reggevano se stessi e lo
Stato. […] Ma nel momento in cui grazie all’operosità e la giustizia lo Stato si irrobustì, grandi re
furono domati in guerra, genti feroci e popoli potenti furono sottomessi con la forza, e Cartagine,
rivale del potere di Roma fu annientata fino alle radici e tutti i mari e tutte le terre si aprivano al
domino romano, la fortuna cominciò a infierire crudelmente e a sconvolgere ogni cosa. Per gente
che si era dimostrata capace di sopportare fatiche, rischi, pericoli, la pace e il benessere, valori in
altre circostanze desiderabili, furono causa di peso e infelicità. E così crebbe l’avidità, prima di
denaro e poi di potere […] e l’avidità sovvertì la lealtà, la rettitudine e le altre virtù; al loro posto
insegnò a essere arroganti e crudeli, a disprezzare gli dei, a considerare tutto venale.
5. Sallustio, Guerra contro Giugurta 5.1-2
Mi accingo a narrare la guerra che il popolo romano condusse contro Giugurta, re dei Numidi,
anzitutto perché fu grande, sanguinosa e di alterne vicende, in secondo luogo perché allora, per la
prima volta, si mostrò la tracotanza (superbia) della nobiltà: contesa che sconvolse ogni legge divina
e umana e pervenne a un tale grado di furore che solo la guerra e la devastazione dell’Italia posero
fine alle discordie civili.
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6. Sallustio, Guerra contro Giugurta 63-64
[Mario], nato e vissuto ad Arpino […] appena fu in età di portare le armi si dedicò alla carriera
militare, trascurando la retorica greca e le mondanità cittadine: e così, fra queste oneste arti il suo
carattere integro maturò rapidamente […]. In seguito [dopo il tribunato militare] conseguì altre
cariche comportandosi nell’esercizio di una magistratura sempre in modo tale da sembrare degno di
un’altra più importante dell’attuale. E tuttavia, sino a quel momento, un uomo così eccezionale […]
non osava chiedere il consolato: si era ancora nel periodo in cui la plebs poteva ottenere tutte le
magistrature salvo il consolato, che i nobiles si passavano di mano tra loro. La chiara fama e gli atti
di valore non bastavano a far sì che un homo novus non fosse ritenuto indegno di quella
magistratura, e quasi contaminato (pollutus). […] [Però] si lasciava guidare dall’ambizione e dalla
collera, pessime consigliere, e non risparmiava detto o atto che poteva apparire superbo.
7. Sallustio, Guerra contro Giugurta 4.7-8
Ora, in questi tempi corrotti, anziché in rettitudine e in operosità, chi non gareggia con i suoi
antenati in ricchezza e in sfarzo? Perfino gli homines novi, che prima solevano eccellere sulla classe
dei nobili per virtus, ora con intrighi e violenze, piuttosto che col merito, raggiungono le cariche
pubbliche.
8. Sallustio, Storie 1.11
Lo Stato romano (res Romana) raggiunse l’apice della potenza sotto il consolato di Servio Sulpicio e
Marco Marcello [51 a.C.], quando tutta la Gallia al di qua del Reno, dal Mediterraneo all’Oceano,
escluse le regioni inaccessibili per via delle paludi, veniva dall’essere assoggettata. D’altra parte
Roma si resse con ottimi costumi e grande concordia fra la seconda e la terza guerra punica. Ma la
discordia, l’avidità e l’ambizione, nonché tutti i malanni che sono soliti originarsi nei periodi
favorevoli crebbero in misura grandissima dopo la distruzione di Cartagine. In effetti, gli arbitri dei
più forti, la conseguente secessione della plebe dai nobili e discordie di altro genere esistettero in
Roma fin dalla fondazione della città. Lo Stato fu governato in modo equo e temperato dopo
l’espulsione dei re, ma solo finché durarono la paura di un attacco di Tarquinio il Superbo e la
dolorosa guerra con gli Etruschi. Dopo ciò, i nobili iniziarono a trattare la plebe come schiavi […]
confiscando le loro terre in modo da essere gli unici a esercitare il potere, mentre gli altri erano
esclusi.
IV. STORIA, RETORICA, ERUDIZIONE, BIOGRAFIA TRA TARDA REPUBBLICA E ALTO IMPERO
1. Varrone, La lingua latina 6.21
Il giorno chiamato Opeconsivia è detto così dà Ops Consiva, il cui sacrario è nella Regia ed è così
stretto che a parte le vergini Vestali e il sacerdote officiante non vi può entrare nessuno. Su di esso
c’è scritto ‘che entra qui, abbia un velo bianco chiuso da una fibbia (suffibulum)’. Deriva forse
questo termine da suffire (purificare con suffumigi)?
2. Varrone, La lingua latina 5.41-42
Dove ora è Roma c’era il Septimontium, così chiamato da altrettanti colli poi inclusi nelle mura della
città: tra questi vi era quello capitolino.
3. Festo, Il significato delle parole p. 458.1-5 Lindsay
Chiamavano Septimontium un giorno di festa, per il fatto che si facevano sacrifici in sette luoghi: il
Palatino, la Velia, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, il Celio, l’Oppio e il Cispio.
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4. Varrone, La campagna 2.1.3-5
Non senza ragione quei grandi uomini che furono i nostri antenati preferivano ai Romani di città
quelli di campagna. […] Quelli che vivevano in città erano considerati degli sfaccendati rispetto a
quelli che attendevano all’agricoltura […]. Finché conservarono tali costumi i Romani ottennero il
doppi vantaggio fi avere campagne fertilissime e di godere di maggiore salute. […]
È un fatto necessario che la vita umana dalla remota antichità arrivasse gradualmente (gradatim)
sino ai nostri giorni, come scrive Dicearco, e che il più antico stadio di questa vita fosse quello
naturale, quando gli uomini si nutrivano di quello che la terra vergine produceva spontaneamente.
Da questo stato si passò al secondo, quello della pastorizia, in cui gli uomini vivevano sia cogliendo
per loro uso dagli alberi e dai virgulti selvatici ghiande, corbezzoli, more e altri frutti, sia, per le
medesime necessità, catturando, chiudendo e addomesticando tutti gli animali che potevano servire.
Tra questi si crede che prime fossero le pecore sia per la loro utilità che per la loro mansuetudine
[…]. Per il nutrimento esse offrivano latte e formaggio, per il corpo vesti di lana e pelli. Infine nel
terzo stadio dalla vita pastorale si passò a quello della coltivazione dei campi, in cui gli uomini molto
conservarono die due stadi precedenti e tanto progredirono sino ad arrivare alla nostra età.
5. Varrone, La vita del popolo romano 3 fr. Riposati p. 216
Infatti i Romani producevano lingotti in argento e in bronzo, e poi li riponevano nell’erario di
Saturno.
6. Cornelio Nepote, Vite degli uomini illustri Praef.
Sono certo, o Attico, che molti quando leggeranno da me riferito chi ha insegnato la musica a
Epaminonda o ricordato tra le sue qualità il fatto che danzava con eleganza e suonava il flauto con
perizia, giudicheranno questo genere di scrittura leggero e non adeguato alla personalità di uomini
sommi. Ma si tratterà al solito di quelli che, ignari di cultura greca, riterranno conveniente solo ciò
che è conforme ai loro costumi (quod ipsorum moribus conveniat). Se questi si renderanno conto
che non tutti hanno lo stesso concetto di ciò che è onorevole e ciò che è turpe, ma che tutto si
giudica in conformità delle consuetudini degli antenati (maiorum instituta) non si meraviglieranno
se noi, nel trattare dei meriti dei Greci, abbiamo seguito i loro costumi. Per Cimone, ad esempio,
uno dei più eminenti ateniesi, non era cosa turpe avere per moglie una sorella consanguinea, dato
che i suoi concittadini seguivano la stessa usanza; invece questo secondo i nostri costumi è ritenuto
un’empietà. A Creta è titolo di lode per un giovane aver avuto il maggior numero possibile di amasi.
[…] In quasi tutta la Grecia era considerata grandissima lode essere proclamato vincitore a Olimpia;
presentarsi poi sulla scena e dare spettacolo al popolo, da nessuna di quelle genti fu considerata cosa
turpe: tutte cose che invece da noi sono considerate o infamanti, o sordide o moto sconvenienti. Al
contrario sono onorevoli secondo i nostri costumi molte usanze che presso i Greci vengono ritenute
indecorose. Quale Romano per esempio si vergona a portare a un banchetto la propria moglie? O
quale donna non fa vita di società? Ben diversamente stanno le cose in Grecia: la donna non è
ammessa a un banchetto se non di parenti e risiede solo nella parte più interna della casa chiamata
gineceo, dove nessuno ha accesso se non i parenti più stretti.
7. Erodoto, Storie 3.38.3-4
Se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze (nómoi) migliori di tute le altre,
dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue usanze
sono di gran lunga migliori di tutte […]. E che tutti gli uomini siano di questo parere lo si può dedurre da
molte prove, e in particolare questa. Dario, durante il suo regno, chiamati i Greci che erano presso di lui,
chiese a qual prezzo avrebbero acconsentito a cibarsi dei propri padri morti; e quelli gli dichiararono che a
nessun prezzo lo avrebbero fatto. Dario chiamò allora presso di sé quegli indiani detti Callati, i quali
divorano i genitori. E mentre i Greci erano presenti, e seguivano per mezzo di un interprete i discorsi che si
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facevano, chiese ai Callati a qual prezzo avrebbero acconsentito a gettare nel fuoco i genitori defunti: e quelli
con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà. Tale è in questi casi la forza della tradizione, e a me
sembra che giustamente Pindaro abbia scritto che ‘la consuetudine è regina di tutte le cose’.
V. I COMMENTARII TRA REPUBBLICA E IMPERO
1. Svetonio, Il divo Giulio 56
Cesare lasciò anche dei Commentarii sulle sue gesta nelle guerre galliche e in quelle civili contro
Pompeo. È però incerto che sia l’autore di quelli sulla guerra alessandrina, e su quella africana e
spagnola. Alcuni li attribuiscono a Oppio e altri a Irzio, che terminò anche l’ultimo libro delle
Guerre galliche, rimasto incompiuto.
2. Cesare, La guerra gallica 1.1
In tutto il territorio della Gallia si distinguono tre settori: in uno sono stanziati i Belgi, in un altro gli
Aquitani, nel terzo quelli che si Chiamano Celti nella loro lingua e che noi chiamiamo Galli.
Ciascuna di queste popolazioni ha lingua, istituzioni e leggi proprie. Il fiume Garonna segna il
confine tra il territorio dei Gallie quello degli Aquitani, la marna e la Senna lo separano da quello
dei Belgi. I Belgi sono i più fieri di tutti perché lontanissimi dalla civile umanità delle nostre terre.
3. Cesare, La guerra civile 2.24.1-4
Curione manda avanti a Utica Marcio con le navi; egli stesso con l’esercito vi si dirige e, dopo un
percorso di due giorni, giunge presso il fiume Bagrada. Qui lascia con le legioni il luogotenente C.
Caninio Rebilo; egli va avanti con la cavalleria a esplorare il campo di Cornelio, poiché quella
località era giudicata molto adatta per l’accampamento. Si tratta infatti di un colle ripido a picco sul
mare, erto e scosceso da entrambe le parti, m tuttavia con un pendio un po’ più dolce dalla parte
rivolta verso Utica. In linea retta dista da Utica più di mille passi.
4. Cesare, La guerra civile 3.14.1
Caleno, imbarcate a Brindisi legioni e cavalleria, quel tanto che le navi potevano contenere, come
era stato comandato da Cesare, salpa e, allontanandosi un po’ dal porto, riceve una lettera da Cesare
che lo informa che i porti e tutto il litorale sono in mano alla flotta nemica.
5. Cesare, La guerra gallica 7.90.8
Conosciuti da una lettera di Cesare i fatti di quell’anno [52 a.C.], a Roma si resero grazie agli dei con
solenni preghiere e sacrifici per venti giorni.
6. Svetonio, Il divo Giulio 56.4
Asino Pollione reputa i Commentarii di Cesare composti con scarsa cura e con poco rispetto della
verità. “Infatti” dice Pollione “in molti casi Cesare prestò fede con leggerezza alle imprese riferite da
altri e, in quanto alle proprie, le riportò n modo inesatto, sia per deliberato proposito che per errore
di memoria, e credo che li avrebbe voluti riscrivere o correggere”
7. Cesare, La guerra civile 3.96
Nell’accampamento di Pompeo si potevano vedere pergolati di frasche, una grande quantità di
argenteria esibita, tende pavimentate con zolle di erba fresca, le tende di Lucio Lentulo e di alcuni
altri coperte di edera e inoltre altre cose che testimoniavano un lusso eccessivo e la fiducia nella
vittoria, così che facilmente si poteva pensare che i nemici, che cercavano piaceri non necessari, non
avevano avuto alcun timore per l’esito di quella giornata. Eppure costoro criticavano il lusso
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dell’esercito di Cesare, quanto mai povero e paziente, cui erano sempre mancate le cose di prima
necessità.
8. Gesta del Divo Augusto Praef., 3.1-2, 4.1, 35.1
Qui sotto è esposta una copia dell’elenco delle gesta compiute dal divo Augusto, con i quali
sottomise al somnio del popolo romano il mondo (quibus orbem terrarum imperio populi Romani
subiecit), e delle spese che sostenne per lo Stato e per il popolo romano: a Roma esso è inciso su due
pilastri di bronzo.
[…] Guerre per terra e per mare, civili ed esterne, in tutto il mondo spesso combattei e, vincitore,
risparmiai tutti i cittadini che chiedevano perdono. Le genti straniere, alle quali si poté perdonare
senza pericolo, preferì graziare piuttosto che annientare.
[…] Due volte ebbi un’ovazione trionfale e tre volte celebrai trionfi curuli e fui acclamato ventuno
volte imperator, sebbene il senato deliberasse un maggior numero di trionfi, che tutti declinai.
[…] Mentre esercitavo il tredicesimo consolato, il senato e l’ordine equestre e il popolo romano
tutto quanto mi proclamarono ‘Padre della patria’ e decretarono che tale titolo dovesse essere
iscritto nel vestibolo della mia casa e nella Curia Giulia e nel Foro di Augusto sotto la quadriga che
fu eretta in mio onore per decreto del senato.
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