Diocesi di FERMO - seminario Arcivescovile - Scuola di Formazione Teologica Anno accademico 2015-2016 I° SEMESTRE Corso sul “STORIA DELLA CHIESA” - Docente: Prof. Romolo ILLUMINATI ------------------------------------------- Decima lezione – 19/12/2015 APPUNTI Tema del giorno: «KOINONIA» (comunione) – «DIAKONÍA» (servizio) - «MARTYRÍA» (testimonianza) San Cipriano, sottolinea il fatto che la Chiesa è «un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». La Chiesa allora non è primariamente un’organizzazione, ma una realtà vivente. Infatti Sant’Ireneo di Lione parla dell’«organismo antico della Chiesa». Emerge il tema unità-comunione nella dottrina sulla collegialità dei vescovi con il Papa quale successore di Pietro e perciò fondamento della loro unità visibile nel mondo. L’essenza del cristianesimo s’impara solamente dalla diakonia del Cristo. Altrimenti non si capisce più il Cristo che «spogliò se stesso» e «umiliò se stesso fino alla morte, e a una morte in croce». Ogni fratello che incontro è mio signore. Ed io? Sono suo diakonos. Solo chi cerca di vivere così è un cristiano. Mons. Bruno Forte indica tre contributi che il cristianesimo può offrire alla costruzione dell’unità della famiglia umana, superando le deviazioni ed i limiti di omologazione della globalizzazione: la koinonìa, la diakonìa, la martyrìa. Sono tre orizzonti di senso radicati nel cuore della fede cristiana, che hanno una valenza universale, ma non ideologica. La via della koinonìa (comunione) risponde al bisogno di unità della famiglia umana, chiede ai cristiani di testimoniare, in maniera corale, la possibilità dell’essere insieme, comunità abitabile, accogliente, attraente, dove ci si senta accolti, rispettati, personalmente riconciliati. La via della diakonìa (servizio), risponde alle sfide della giustizia sociale, dell’ecologia e dell’etica, sollevate dalla globalizzazione, ed esprime l’impegno per la giustizia, la solidarietà, la pace che, derivando dalla fede, contrastino le ambiguità ideologiche ed economiche della globalizzazione. La via della martyrìa (testimonianza), di fronte al bisogno di religiosità nell’epoca postmoderna, mostra il primato della fede non razionalistica né ideologizzata, radicata nell’esperienza, nella totalità dell’uomo, capace di rendere ragione della speranza. La testimonianza - martyrìa - che la “Gente del Viaggio”:(i cristiani)- può offrire alla società di oggi in ordine alla costruzione di una famiglia umana più unita e solidale è data essenzialmente dalla sua storia passata ed attuale fatta di strade percorse e persone incontrate, di comunità capaci di far convivere culture ed esperienze diverse. La tipologia di spettacolo che offre, in cui i ruoli di attori e spettatori si intersecano, si scambiano e si confondono, costruisce una specie di koinonìa laica, pur momentanea ma non meno intensa e partecipata. Il senso della provvisorietà, la non appartenenza ad un luogo specifico è una sorta di diakonìa che la “Gente del viaggio” offre ad una umanità troppo legata ad un territorio a cui si sente attaccata e che deve difendere dagli altri: tutti siamo chiamati a piantare e spiantare, nessuno è definitivo, la terra che ci accoglie non è nostra esclusiva proprietà, l’unica cosa necessaria per vivere è saperci accogliere” LA PREMINENZA DI ROMA SULLE ALTRE COMUNITA’ Sin dall’antichità si è posto il problema di come restare in Koinonìa, con quale criterio si potevano riconoscere le autentiche chiese Apostoliche contro quelle eretiche, e chi garantiva questa autenticità? All’inizio ci si affidava al numero e precisamente affiliarsi e mettersi in comunione con il maggior numero dava garanzia di essere in vera “Koinonia” in autentica comunione. Successivamente con il moltiplicarsi delle chiese scismatiche questo criterio ha perso significato e pertanto ci si affidava ad altri criteri ed in particolare faceva fede il rivolgersi alle chiese più antiche, che davano garanzia di affidabilità. Ultimo e definitivo criterio era quello di essere il comunione con la chiesa di Roma e si aveva la certezza di essere in piena e vera Koinonia. Questo perché da tutti era riconosciuta ed accettata la “Preminenza” di Roma su tutte le altre comunità.(con si cita mai il termine “Primato”!!) Fatto innegabile della “Preminenza di Roma” è attestato e documentato dagli scritti antichi, già dal 2° secolo, vedi: Ireneo, Ignazio,Cipriano,Terulliano ecc... Storicamente si attesta che tutti sin dall’inizio la riconoscono. Pietro ha portato a Roma quello che Gesù gli aveva dato, ed è rimasto a Roma !! La preminenza della chiesa di Roma nel II sec., insomma, appare legata non tanto a fattori politici, quanto al ricordo della dimora, dell'insegnamento e del martirio di Pietro e di Paolo nella città. Ireneo e Tertulliano Sugli stessi motivi insistono anche teologi importanti come Ireneo e Tertulliano, quando, per combattere gli gnostici, sono costretti ad appellarsi alla regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica, fedelmente conservata a Roma attraverso la successione apostolica. Grande rilievo assume la posizione di Ireneo, vescovo di Lione nella seconda metà del II sec., ma originario dell'Asia minore. Egli indica nella comunione con la chiesa di Roma il criterio sicuro per conoscere l'autentica regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica; e per dimostrare la ininterrotta successione dei vescovi romani dagli apostoli Pietro e Paolo, ne riferisce la lista completa. Egli è convinto che la Chiesa di Roma "è la chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti e stabilita a Roma dai due gloriosi apostoli Pietro e Paolo... Pertanto a questa chiesa deve convergere ogni altra chiesa, cioè i fedeli che sono dovunque, perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli da coloro che sono dovunque". Potentior principalitas non pare che voglia dire una più potente autorità, quanto piuttosto una più alta origine. Anche così, il discorso di Ireneo non lascia dubbi: riconosce il ruolo preminente della chiesa di Roma nell'accertamento della fede e della comunione cattolica. L'approccio storico-critico al tema mostra nel primo millennio un diverso sviluppo della coscienza ecclesiale circa il primato. A Roma già alla fine del II secolo e durante il III i vescovi si mostrano coscienti di essere depositari di una tradizione apostolica, che dev'essere accolta dalle altre chiese. Nei secoli seguenti, mentre consolidano e ampliano la loro giurisdizione in Occidente, si dichiarano successori e vicari di Pietro nella cura di tutte le chiese; resistono alle ingerenze ecclesiali degli imperatori bizantini e contrastano le mire egemoniche di Costantinopoli. Sotto i regni franchi e germanici si accresce l'autorità papale in Occidente, mentre si allentano i legami con l'Oriente. La chiesa africana ha sempre visto nella Sede di Pietro un fattore primario di ortodossia e comunione tra le chiese, ma è stata ugualmente gelosa della propria autonomia. Anche in Oriente presto si guardò a Roma con rispetto e ad essa ci si rivolgeva nei momenti difficili. Poi l'affermazione di Costantinopoli, la nuova Roma, e le ingerenze degli imperatori nelle questioni ecclesiastiche crearono frequenti tensioni con la Sede di Pietro, di cui comunque si ricercavano sempre la comunione e l'approvazione dei concili. Il distacco politico dell'Occidente dall'Oriente nei secoli IX e X allontanò sempre di più le due chiese, preparando lo scisma. CELIBATO NELLA CHIESA. Essere celibi, nel senso comune del termine, significa non essere sposati. Nel linguaggio cristiano, però, il concetto di “celibato” è strettamente connesso con quello di “castità” e di “continenza sessuale”. Per questo stretto legame tra celibato e castità, molti non distinguono più tra celibato (come stato civile) e castità o continenza sessuale (come virtù), e da qui derivano molte confusioni. Esiste nella Chiesa cattolica di rito latino una “regola” o “legge del celibato”. Se si tratta di una “regola”, essa va considerata anzitutto dal punto di vista canonico. Che cosa significa questa regola? Lo dice per la prima volta in modo esplicito il Codice di Diritto Canonico del 1917 (can. 987, § 2), dove si stabilisce che le persone sposate «sono impedite», cioè non possono accedere alla sacra ordinazione. In altri termini, l’essere sposati, l’essere nello stato coniugale, oggi come oggi nella Chiesa cattolica di rito latino, costituisce un “impedimento” canonico alla ricezione del sacramento dell’Ordine. Questo “impedimento” è stato recepito anche dal nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 277). Si tratta di un impedimento “semplice”, tale cioè che l’ordinazione di un uomo sposato risulta illecita, ma non invalida. Ora questo “impedimento” non esiste da sempre nella Chiesa cattolica. In effetti, nella Chiesa antica i sacri ministri erano scelti sia tra le persone celibi sia tra le persone coniugate. Non abbiamo delle statistiche, ma è certo che molti preti e vescovi fossero coniugati. Per fare qualche esempio, che risale addirittura al tempo apostolico, san Pietro era coniugato, mentre san Giovanni certamente era non solo celibe, ma vergine; san Paolo invece era celibe. Per citare altri nomi abbastanza noti, san Paolino, vescovo di Nola, era sposato; così pure s. Ilario, vescovo di Poitiers e san Gregorio, vescovo di Nissa; s. Agostino aveva una concubina, mentre sant’Ambrogio era celibe (e forse anche vergine). In definitiva, dal punto di vista della Chiesa antica, il problema non era se ordinare persone sposate o celibi, ma come vivere autenticamente la castità sacerdotale. L’orientamento prevalente però fu quello di assumere persone celibi, sperando che fossero formate nella virtù. I vari concili medievali che si sono espressi su tale questione, fino al concilio di Trento, constatarono però la difficoltà di avere preti non solo celibi, ma anche capaci di dominare la propria sessualità, per cui spesso vivevano con concubine o addirittura cercavano di sposarsi. Così il concilio Lateranense II (1139) dichiara che se un vescovo, prete o diacono osa contrarre matrimonio, tale matrimonio è invalido. La stessa cosa ripete il concilio di Trento nel 1563 (sess. 24, can. 9). Nonostante queste evidenti difficoltà, la Chiesa latina ha sempre mantenuto la “legge delle continenza”, che di fatto è diventata la “legge del celibato”. Diversamente sono andate le cose nella Chiesa greca, dove a partire dall’VIII secolo, con il Concilio Quininsesto (in Trullo) fu concessa una mitigazione alla legge della continenza, permettendo ai preti e ai diaconi sposati di continuare i rapporti coniugali e quindi di avere figli. Per i vescovi però è rimasta la legge della continenza o celibato. La “legge della continenza” invece è, di origine apostolica e si radica nella figura stessa di Gesù, il quale non si è sposato e ha chiesto ai suoi apostoli una sequela radicale, che comportava un abbandono della vita coniugale a motivo del regno, in accordo con l’eventuale sposa, che da quel momento diventava una “sorella”. In definitiva, il passaggio dalla stato coniugale a quello sacerdotale è stato ammesso nella Chiesa antica, ma non è ammesso ora nella Chiesa cattolica di rito latino. Invece il passaggio dallo stato sacerdotale a quello coniugale non è mai stato ammesso nella Chiesa, né antica, né moderna, e neppure nelle Chiese Ortodosse. Il Concilio di Elvira Delle testimonianze di vario genere che riguardano questo tema si deve invocare per prima quella del Concilio di Elvira. Nel primo decennio del secolo IV dopo Cristo si sono radunati vescovi e sacerdoti della Chiesa di Spagna nel centro diocesano di Elvira presso Granada per sottoporre ad una regolamentazione comune le condizioni ecclesiastiche della Spagna appartenente alla parte occidentale dell'Impero Romano, la quale sotto il Cesare Costanzo godeva di una pace religiosa relativamente buona. Nel periodo precedente, durante le persecuzioni dei cristiani, si erano verificati degli abusi in più di un settore della vita cristiana che aveva subito dei danni seri nell'osservanza della disciplina ecclesiastica. In 81 canoni conciliari si emanarono dei provvedimenti riguardo a tutti i campi più importanti della vita ecclesiastica che richiedevano dei chiarimenti e dei rinnovamenti, allo scopo di riaffermare la disciplina antica e di sancire le nuove norme resesi necessarie. Il can. 33 di questo Concilio contiene dunque la, già nota, prima legge sul celibato. Sotto la rubrica: " Sui vescovi e i ministri (dell'altare) che devono cioè essere continenti dalle loro consorti " sta il testo dispositivo seguente: " Si è d'accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale ". Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Essi potevano tenere con sé solo una sorella o una figlia consacrata vergine, ma per nessun motivo una donna estranea. Da questi primi importanti testi legali si deve dedurre quanto segue: molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano “viri probati” vale a dire uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi. Essi pero erano obbligati, dopo aver ricevuto l'ordine sacro, ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio, di osservare cioè completa continenza. Alla luce delle finalità del Concilio di Elvira, del diritto e della storia del diritto nel grande Impero Romano di cultura giuridica che dominava in quell'epoca anche nella Spagna, non è possibile vedere nel canone 33 (assieme con il canone 27) una legge nuova. Esso appare invece chiaramente quale reazione contro una non-osservanza ormai largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto, al quale ora si annette anche la sanzione: o osservanza dell'obbligo assunto o rinuncia all'ufficio clericale. Una novità in questo campo con una tale generale retroattività della sanzione contro diritti già ben acquisiti dal tempo dell'ordinazione avrebbe causato una tempesta di proteste contro una tale evidente violazione di un diritto in un mondo tutt'altro che digiuno di diritto. Ciò ha percepito chiaramente già Pio XI quando, nella sua Enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente. PROBLEMA DELL’ORDINAZIONE DELLE DONNE. Sull’eventuale ordinazione delle donne al presbiterato Il ministero di guida della comunità secondo Gesù e la Chiesa apostolica Inaugurando il regno di Dio, Gesù, durante il suo ministero, scelse un gruppo di dodici uomini che, secondo il modello dei dodici patriarchi dell’Antico Testamento, sarebbero stati le guide del nuovo popolo di Dio (cf. Mc 3,14- 19). Questi uomini, da lui destinati a «sedere su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele» (Mt 19,28), furono anzitutto inviati a «proclamare che il regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7). Dopo la sua morte e risurrezione, Cristo affidò ai suoi apostoli la missione di evangelizzare tutte le nazioni (cf. Mt 28,19; Mc 16,5). Questi uomini sarebbero diventati i suoi testimoni, cominciando da Gerusalemme «e fino ai confini della terra» (At 1,8; cf. Lc 24,47). «Come il Padre ha mandato me» – egli disse – «così io mando voi» (Gv 20,21). Dopo aver lasciato questo mondo per tornare al Padre, delegò a un gruppo di uomini che aveva scelto la responsabilità di far crescere il regno di Dio e l’autorità di governare la Chiesa. Secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, il gruppo apostolico così stabilito dal Signore apparve come la base di una comunità che ha continuato l’opera di Cristo, incaricata di comunicare all’umanità i frutti della salvezza. È un dato di fatto che negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere le prime comunità erano sempre dirette da uomini che esercitavano il potere apostolico. Gli Atti degli Apostoli fanno vedere che la prima comunità cristiana di Gerusalemme conobbe un unico ministero di guida, quello degli apostoli: si trattava dell’urministerioum dal quale sono derivati tutti gli altri. Pare che molto presto la comunità greca abbia ricevuto una sua propria struttura, presieduta dal collegio dei sette (cf. At 6,5). Un po’ più tardi il gruppo ebraico ebbe da discutere su un collegio di presbiteri (cf. At 11,30). La Chiesa di Antiochia era presieduta da un gruppo di «cinque profeti e maestri» (cf. At 13,1). Alla fine del loro primo viaggio missionario, Paolo e Barnaba collocarono presbiteri nelle Chiese appena fondate (cf. At 14,23). C’erano presbiteri anche a Efeso (cf. At 20,17), a cui fu dato il nome di vescovi (cf. At 20,28). Le Lettere confermano lo stesso quadro. Si parla di proistamenoi nella Prima lettera ai Tessalonicesi (5,12, cf. 1Tm 5,17 «hoi kalos proetotes presbyteroi»), del presbiterio cristiano (cf. 1Tm 5,1.2.17.19; Tt 1,5; Gc 5,4; 1Pt 5,1.5), di episkopoi, di hegoumenoi (cf. Eb 13,7; 13,24; Lc 22,26). Nella Prima lettera ai Corinzi (16,16) raccomanda ai cristiani la «sottomissione» nei confronti di quelli della «casa di Stefanas» che erano mandati per il servizio dei santi. Qualunque cosa volesse dire questa designazione (il v. 17 parla di Stefanas, Fortunato e Acaico), tutto ciò che possiamo sapere di coloro che avevano un ruolo di guida nelle comunità ci porta a concludere che questo ruolo era sempre ricoperto da uomini (in conformità con le usanze ebraiche). Nota bene: le «presbytides» nominate nella Lettera a Tito (2,3) erano donne anziane, non pretesse. Il carattere maschile dell’ordine gerarchico che ha strutturato la Chiesa fin dal suo inizio pare quindi attestato dalla Scrittura in modo innegabile. Dobbiamo concludere che questa regola deve rimanere valida per sempre nella Chiesa? Non va dimenticato che secondo i Vangeli, gli Atti e Paolo, alcune donne offrirono una positiva collaborazione al servizio delle comunità cristiane. Dobbiamo sempre farci anche un’altra do manda: quale valore normativo si deve accordare alla pratica delle comunità cristiane dei primi secoli? Non pare che il Nuovo Testamento, preso da solo, permetta di risolvere in modo chiaro e definitivo il problema del possibile accesso delle donne al presbiterato. Alcuni ritengono che nella Scrittura vi siano sufficienti indicazioni per escludere una tale possibilità. Soprattutto in considerazione del fatto che i sacramenti dell’eucaristia e della riconciliazione hanno un particolare legame con la persona di Cristo, e quindi con la gerarchia maschile così come è nata dal Nuovo Testamento. Altri, al contrario, si chiedono se la gerarchia ecclesiastica, cui è affidata l’economia sacramentale, non potrebbe affidare i ministeri dell’eucaristia e della riconciliazione a donne in particolari circostanze, senza andare contro le intenzioni originali di Cristo.