Articolo n°16 “Odissea nello spazio”. di Alessandra Fanì Tuttavia lo spirito libero è solo un viandante verso una meta ancora non chiarita. E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? […] perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono ƒino a oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si dirà ƒorse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere I’India, ma che fu il nostro destino a naufragare nell’infinito?[F. Nietzsche, Aurora] Come in un immediato cambio di scena, ci troviamo tutti ad invadere un maestoso e sconfinato spazio circoscritto. Prima in piedi, poi seduti, poi di nuovo in piedi, fluidi da parte a parte. Inondiamo indiscriminatamente un enorme parallelepipedo aperto, dalle fughe infinite proiettate al cielo. Ad osservarlo di tanto in tanto, ricade pesantemente verso il basso con monolitiche braccia di pietra. Si pianta lì per ricordarci di appartenere alla sua terra, mentre tutti stiamo camminando con la coscienza ad un metro sopra di essa. Questo spazio ci raccoglie tutti, in una pienezza per me senza precedenti. Ho l’impressione di essere tra tanti viandanti inconsapevoli del “perché” di essere lì e dell’affascinate curiosità e scoperta di quell’ignoto. La mia sensazione è di appartenere ad un mondo di anime simili, “elette” da un ancestrale ed istintivo spirito primordiale di conoscenza. Lo stesso spirito che ci spinge, come frecce del nostro stesso arco. Siamo lì, sull’onda di un momento di vita, ribelle. Ci sediamo ed aspettiamo quest’occasione, per molti, ignota: un dialogo tra filosofia e dinamiche sociali pop contemporanee. La luci bianche si abbassano, esplodono macchie purpuree che circoscrivono lo spazio e d’improvviso ci proiettano a bucare un’altra dimensione. L’atmosfera si fa magica e la differenza, dal prima al dopo, si avverte anche dentro, nello stato inconscio: la dimensione dell’istinto. La sensazione del bianco dava la coscienza di una regola spaziale, di un controllo. Il rosso è la morbidezza di un ritorno , la promessa di un incontro, gli oggetti e gli ambienti si trasformano in “un rapporto più intimo con l'uomo e i suoi istinti”. Solo poi capirò quanto fossimo stati immersi nella rivelazione di un’odissea: tra le proiezioni, la spiegazione del perché stiamo affrontando questo viaggio culturale e del perché siamo attratti a rimanere lì. Immagini affascinanti di “2001: Odissea nello spazio” ci introducono. Il passaggio del film di Kubrick , scelto per la proiezione, è il “viaggio allucinatorio di Dave: le forme regolari e simmetriche della realtà lasciano il posto a figure irregolari e indefinibili, ad un arcobaleno di colori che rendono evidente lo sforzo del personaggio per entrare nell’oltre. La telecamera si sposta sull’occhio, che cambia colore ogni volta che batte le ciglia.” L’immagine che anticiperà il finale di questo assoluto capolavoro cinematografico. Sembra di fluttuare d’improvviso su piani spaziali, in una dimensione planetaria, di esplorare l’ignoto in un’atmosfera surreale. Sembra di elevarsi ad un altro livello di comprensione e di esperienza sensoriale entrando in uno spazio illusionistico attraverso il quale tento di misurare il mio reale. Ricordo di aver visto il film diversi anni fa, e non ricordo più le sensazioni avvertite in quel momento. Ogni percezione , a prima vista, è quella che guiderà ogni impressione e comprensione delle cose. Poi ritrovo una frase del regista, letta tempo fa: « Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio. » Da qui torno a documentarmi su questo intramontabile film e riscopro la connessione col contemporaneo, col presente, poi il senso del tutto e del perché fosse scelto come una delle proiezioni di quella sera; soprattutto creo immediate connessioni e relazioni con altro, con altre ricerche. Un tema profondamente attuale, quello affrontato qui da Kubrick, che ha l’ardire di presentare l’evoluzione, mai arrestata, della specie umana. L’uomo, grazie alla sua intelligenza ha affermato il predominio, ma allo stesso tempo ha bloccato la sua istintività, “racchiudendola nelle forme della tecnologia” ed in ambienti penalizzanti che hanno portato “l’uomo all’interno dei meccanismi alienanti della nuova società”. Un incontro, questo che diventa un viaggio verso una nuova realtà, ora ancora ignota ed impalpabile. Un’opportunità per uno sguardo oltre e per ritrovare un punto di congiunzione di energie diffuse che si incontrano a governare uno spazio fisico, apparentemente incontrollabile, ma che accoglie e diffonde, invece, un rapporto sinergico tra sé e chi lo vive. C’è un senso profondo e quanto mai attuale nella relazione che lega questa pellicola con l’evento stesso a cui stavo assistendo e con la condizione evoluzionistica contemporanea, di cui siamo protagonisti. Nel bene o nel male sta accadendo qualcosa di epocale che investe tutti noi e tutto intorno a noi. Si stanno tessendo nuove maglie relazionali tra noi ed i due mondi: quello dentro e l’altro fuori di noi. Non è qui luogo e tempo per scrivere una nuova e meno elevata recensione del film, tantomeno affrontare ed approfondire tematiche intimistiche e riflessioni che ho sviluppato nei giorni a seguire dell’evento. Avverto, invece, un forte interesse ad esprimere dei punti di vista personali, se vogliamo degli spunti per riflettere, delle domande che non hanno risposte, per suggerire imput che tentino capire. La partecipazione all’evento di pop-sophia,“Allegria di Naufragi” è stata un’occasione illuminante, per me, per sviluppare nuove riflessioni che non sono legate totalmente a qualcosa di concreto, all’evento in sé o allo spazio che ci ha accolti. Voglio affrontare, un po’ come nel film, un viaggio di un uomo, verso un ignoto che diventa la ricerca dell’essenza della sua stessa vita e di come, in fondo, la nostra esistenza sia una continua ed imperterrita ricerca senza certezze, ma che proprio questo carattere la rende capace di affrontare attraverso gli istinti e la nostra vera ed intima essenza, senza l’uso esclusivo della razionalità, il viaggio che stiamo facendo. Per scoprire se il nostro possa essere un percorso ciclico che riporti all’origine, senza offrire una soluzione classicista e romantica, ma che punti ad un’esperienza, visiva, tattile, sensoriale, emozionale. Kubrick afferma che “Il 2001 è un'esperienza: Ho cercato di creare un'esperienza visiva, che penetra direttamente il subconscio con un contenuto emozionale e filosofico”. In quella sera, immersa in uno spazio ancestrale, sconosciuto ma pieno di spunti e suggestioni, tra persone differenti ma tutte fluidificate in quell’esperienza, fusi e trasportati da parte a parte alla scoperta di qualcosa di diverso, mi sentivo in un’altra dimensione. In una dimensione tanto “spaziale” da diventare addirittura inibitoria, in cui elementi differenti, spazio, tempo, inconscio, architettura, musica, sensazioni visive confluivano in una nuova ottica visionaria. Un ritorno alle origini di quel luogo e a sentire quel legame essenziale che ognuno di noi può avvertire per il “suo” luogo verso il quale torna in un senso ciclico delle sue esperienze di vita. Che rapporto c’è, allora, tra l’uomo ed il luogo? Avverto la congiunzione e l’importanza di una linea di confine e di una giusta tensione, che si creano quando si mettono in relazione due entità differenti: i luoghi fisici del sociale e le persona. Due elementi differenti ma che si contaminano ed influenzano a tal punto da modificare le relazioni, gli ambienti, le energie e addirittura le evoluzioni di entrambi. Gli spazi nascono dal nostro fare, si sviluppano dal nostro pensare e dalle nostre relazioni, ma noi nasciamo, o meglio rinasciamo da loro e la nostra evoluzione dipende strettamente ed inevitabilmente da questi contenitori immensi e labirintici. Questo mi fa pensare che l’uomo è legato al suo contenitore, è condizionato delle sue leggi fisiche, costretto da regole che deve seguire e che lui stesso ha creato con la sua razionalità, che gli hanno permesso di evolvere enormemente, ma che oggi, come non mai, lo stanno legando e limitando nell’esplorazione e ricerca delle sue nuove risorse. Metaforicamente parlando, rileggo lo spazio fisico come un contenitore , una gabbia mentale. La stessa che costringe, all’inverso, l’uomo a risiedere e contenersi in un ristretto e limitato spazio fisico. Il risultato è la limitazione e la frustrazione per una mancata visione dell’oltre. Allora dilatiamo gli spazi. Mi interessa pensare di poter ampliare gli spazi sociali fisici che ci “lanciano” verso altre immagini dimensionali, altri ruoli sociali, in cui le persone, contenute in questi spazi, possano rileggersi diversamente e riescano a riscrivere il loro ruolo. Come nel film fa Dave, che è freccia ed arco allo stesso tempo e riesce a lanciarsi verso una nuova dimensione: la rivalutazione di sé e delle sue capacità istintuali. Leggendo le varie recensioni del film di Kubrick, che rivedrò, in virtù di questa nuova esperienza, suscitano in me particolare interesse i riferimenti fatti al pensiero filosofico di Nietzsche: il suo concetto di superuomo. “Attraverso la figura dello spirito libero, Nietzsche mette a fuoco uno dei temi-chiave della sua filosofia: la vita dell’uomo ha valore per i grandi progetti che è capace di esprimere”. Esattamente come è espresso nel film di Kubrick, per accennare ad un parallelismo, “i personaggi restano abbandonati al loro destino, riscoprono un totale smarrimento di fronte alla vastità di uno spazio infinito dove l’uomo ha perso le sue coordinate”. Perché non sentire accoglimento dentro uno spazio “immenso”, dove ciò che ci stringe a lui è proprio la riscoperta di sensazioni, di stupore, d’istinti e d’emozioni ? Oggi il significato di “oltreuomo” è altro da quel concetto filosofico, la figura dell’uomo sociale e la sua incarnazione nello spazio che vive è un atto di supremazia irrispettosa e presuntuosa, opportunista e distruttrice dello Spazio Natura che lo circonda, oppure è una sensazione di insoddisfazione , in-attivismo ed mancato adeguamento ad un intorno che non funziona più. E’ evidente come ciò che si muove intorno a noi, resta fermo ed artefatto, perché manca proprio quello spirito del viaggio che ogni coscienza umana dovrebbe affrontare per ricreare una comunione non soltanto sociale, ma soprattutto contestuale e d’identità fisica, ciò su cui più mi interessa riflettere. Mi preme ora il concetto di affrontare un trasferimento d’intenzione verso ciò che di fisico possa migliorare le nostre relazioni e la dimensioni che viviamo, quindi la nostre umanità. Occorre ricercare quel “monolite nero” di cui parla Kubrick, il salto, l’occasione scatenante che rompe e mette in crisi l’apparente sicurezza per potere iniziare “la danza attraverso i pianeti” contro l’alienazione. Credo proprio che si tratti della questione di essere più umani, in un viaggio “spaziale” che mi piace definire “Odissea nello spazio” che potrebbe trasformarsi in Odissea dello Spazio: una trasformazione degli spazi insieme ad un’evoluzione dell’uomo in “oltreuomo”. Il viaggio come recupero della nostra dimensione ed identità, della nostra terra d’origine o acquisita che possiamo rivalutare, rivisitare, far rivivere attraverso uno stato di incoscienza che ci riporta fedelmente verso noi stessi, ma anche coscienza che ci offre la chiave autentica per riscoprire nuovi spazi in cui stare bene e nuove relazioni tra essi e le persone, tra le persone e le cose. Ritrovare noi stessi per creare nuove relazioni spaziali in cui muoversi e creare. “Il viaggio dunque non è il semplice sfondo del film,” che è divenuto, il parallelismo di questa riflessione, preso a spunto dall’evento vissuto, ma “ piuttosto uno dei temi centrali in quanto esso costituisce la possibilità e soprattutto la necessità di riscoprire la dimensione autentica dell’uomo, la sua vera natura che il mondo della tecnologia e delle ideologie hanno coperto. L’arte, in questo caso il cinema, si propone di affrancare lo spirito dell’uomo, di liberarlo dalle sovrastrutture dell’umanità, rendendoci coscienti attraverso la sua conoscenza contemplativa e non utilitaria degli scompensi del reale. Ci mette di fronte allo specchio, proprio come fa Bowman nella stanza in stile Luigi XVI, permettendoci di ritrovare attraverso una sorta di regressione verso la nostra infanzia quel rapporto di immediatezza e ingenuità con il mondo che l’umanità ha nascosto dietro alle sue false illusioni del progresso.” “ Verso la nostra infanzia”! Cos’è questa necessità che si va liberando e di cui appunto si sente il bisogno per la riscoperta di nuove identità personali e spaziali allo stesso tempo? Un ritorno alle nostre origini diventa essenziale e si sviluppa nel concetto di una dimensione fisicamente circolare della nostra esistenza per risvegliarsi un giorno bambini e ritrovare quello stupore e quella spontaneità e istintività con cui riaffrontare tutte le scelte, le relazioni e gli approcci. In questa nuova ottica, tutto diventa una sfera perfetta in cui la dimensione dello spazio come quella del tempo non sono più lineari ma si sviluppano in un circolare ritorno in cui lo spazio “perde il carattere di statico e diventa fluido , dinamico, illimitato ed aperto mentre il tempo perde la sua ininterrotta continuità e la sua direzione invariabile”. Non voglio offrire qui futili soluzioni, pressoché banali e quasi inappropriate che definiscano cosa sia e come si possa generare lo spazio sociale “nuovo”, di cui parlo, per stabilire relazioni altre o un rinnovo delle esistenti, per tessere legami profondi con chi le vive. Voglio suggerire spunti e riflessioni per scambi e dibattiti motivanti per soluzioni sociali possibili e future. Quali possono essere le condizioni per nuovi approcci progettuali verso luoghi differenti? Quali sono le odissee negli spazi? Quali le odissee degli spazi stessi? Un punto fermo c’è, a mio avviso: guardiamo attraverso una lente differente, trasformiamo ed portiamo ad evoluzione il tutto secondo un concetto di normalità. Che questa parola non ci faccia paura più di tanto, se si pensi che per normalità si possa intendere, filosoficamente parlando, un qualcosa di particolare. La si può intendere così, infatti. Chiediamolo ad un bambino cosa sia una cosa normale, un oggetto normale, una vita normale, un pensiero normale, quanto e quando si senta normale. Scopriamo che ogni bambino lo sa senza ombra di dubbio ed ognuno di loro lo sa in maniera differente. Proprio perché alle domande di cosa rappresenti la normalità di ognuno, le risposte sono varie e differenziate, la normalità non esiste; ogni cosa assume caratteri a sé, per questo ognuno è particolare e speciale in sé e per sé. (da Filosofia coi Bambini). 14 luglio 2015