LA SVOLTA DOPO ESSERE E TEMPO /SCHEDA 3 La verità dell’essere Essere e tempo non fu mai portato a termine: la parte che doveva recare il titolo Tempo ed essere non fu scritta. Dirà poi Heidegger, nella celebre Lettera sull'umanismo del 1947, che l'opera del 1927 era stata lasciata in sospeso perché il «linguaggio della metafisica», l'unico disponibile, non riusciva a esprimere in modo adeguato la «verità dell'essere». Proprio il mancato completamento dell'opera del 1927 fu all'origine di una serie di letture della filosofia heideggeriana che la interpretavano come una variante dell'esistenzialismo, indirizzo di pensiero nato in Germania fra le due guerre, […], trovando poi particolare diffusione in Francia. Destò dunque sorpresa il fatto che Heidegger, nella Lettera sull'umanismo, distinguesse nettamente il suo pensiero da quello esistenzialistico, criticando in particolare le tesi sviluppate da Jean-Paul Sartre nel saggio del 1946 L'esistenzialismo è un umanismo, dove il filosofo francese accomunava alla propria riflessione l'opera heideggeriana del 1927. All'affermazione sartriana che «siamo su un piano dove c'è solamente l'uomo», che comportava una presa di posizione umanistica e atea, Heidegger replicava che, per lui, l'essenziale non è l'uomo, ma l'essere. Nella Lettera sull'umanismo, Heidegger afferma la necessità di un rovesciamento della questione dell'essere, così come era stata impostata in Essere e tempo, Questa nuova posizione, che ha fatto parlare di una "svolta" nel pensiero heideggeriano, non va intesa come un abbandono dell'interesse ontologico originario, quanto come un rovesciamento di prospettiva: il tentativo di pensare «l’essere nel suo rapporto con l’uomo» si ribalta nel compito di pensare «l'uomo in rapporto all'essere e alla verità». Per fare ciò, occorre rimettere in discussione il linguaggio della metafisica, la quale, in tutta la sua storia, ha sempre concepito l'essere in quanto ente (cosa) o come ente supremo, Dio (teo-logia). Essa non ha mai pensato l'essere come essere. L'essere, tuttavia, non può venire pensato sul modello degli enti, in quanto ne costituisce piuttosto l'orizzonte al cui interno gli enti stessi si manifestano. Solo in quanto l'uomo si rapporta a questo orizzonte, e dunque oltrepassa l'ente in direzione dell'essere, gli enti vengono per lui alla luce. Dirà Heidegger, per descrivere questo processo, che la verità ontologica, la comprensione dell'essere, precede e fonda la verità ontica, cioè la conoscenza degli enti. La metafisica come evento complessivo Per il "secondo" Heidegger, l'uomo accede agli enti e li conosce solo in quanto si trova già da sempre inserito in un'originaria apertura storica di significati, il mondo, che non risale a lui, ma che ha i tratti di un evento che disvela l'essere stesso. Ci si può chiedere se questa concezione non risulti radicalmente anti-umanistica, tale cioè da non lasciare alcuna libertà all'uomo, ponendolo in balìa dell'essere. Certamente per Heidegger si tratta di pensare l'essere come essere, e dunque di interpretare la stessa essenza dell'uomo a partire dalla sua appartenenza all'essere. Tuttavia, occorre guardarsi dal pensare l'essere come qualcosa di dato che entra solo in un secondo momento in relazione con l'uomo. Heidegger sottolinea che «l'essere "ha bisogno" dell'uomo», senza il quale la manifestazione degli enti non avrebbe alcun senso; ma, al medesimo tempo, egli afferma che «l'uomo stesso è in quanto appartiene all'essere». Dovremo dunque dire che essere e uomo si appartengono l'uno all'altro: l'uomo non è mai senza l'essere, e l'essere non si dà mai senza l'uomo, sicché non ha senso pensare a una loro contrapposizione. Per designare questa originaria "coappartenenza", Heidegger usa la parola evento. L'essere va inteso come evento, in quanto ha il carattere dell'accadere, dell'avvenire storico; esso è però evento anche perché, in tale accadere, si consegna all'uomo, il quale diventa così il custode della rivelazione dell'essere. In Essere e tempo, la storicità era la storicità dell'uomo. Nel secondo Heidegger, la storia dell'uomo acquista senso solo se si inscrive nella storia dell'essere. Quest'ultima, in quanto non fa capo all'uomo come "soggetto" sovrano della storia, è pensata come destino, termine che in Heidegger non significa fato inevitabile, ma destinazione. L'uomo è destinato a vivere in un mondo storico caratterizzato da un certo progetto in base a cui egli si riferisce agli enti e agli altri uomini. Tale progetto, tuttavia, non è istituito dall'uomo o dalle generazioni a lui precedenti. L'accadere dei diversi mondi storici costituisce la «storia dell'essere», che è la 1 storia del suo donarsi nell'ente e al contempo del suo celarsi. Ogni epoca della storia dell'essere appare così segnata da una sospensione (epoché, in greco) della rivelazione dell'essere, sicché il destino dell'essere fa tutt'uno con il suo assentarsi e con l'oblio dell'essere a favore dell'ente. La storia di questo oblio coincide con la storia della metafisica. Il concetto di metafisica non è pensato da Heidegger in contrapposizione a quello di scienza (come fanno invece il positivismo e l'empirismo), in quanto la stessa scienza, che pensa l'ente come semplice oggetto, nasce dal tronco della metafisica, ossia dalla rinuncia a pensare la verità dell'essere. Dal punto di vista della storia dell'essere, la metafisica va pensata come il progetto complessivo che domina un'intera fase di tale storia (la sola che finora ci sia dato di conoscere). È alla luce di una determinata metafisica che, in ogni epoca, l'umanità è posta in rapporto con gli enti e con se stessa. La metafisica diventa così l'evento complessivo che segna la civiltà occidentale, la cui storia rivela una vocazione nichilistica, se per nichilismo si intende l'oblio dell'essere, ovvero «la storia in cui dell'essere non ne è più nulla». L'oblio dell'essere è alle origini di quella «mancanza di patria», che per Heidegger è la radice dell'alienazione propria dell'uomo moderno. Si tratta di quello sradicamento profondo dell'uomo dalla sua essenza (essenza che consiste nella sua vicinanza all'essere), per il quale egli si affaccenda in modo esclusivo con gli oggetti, le cose, chiuso in un'esistenza inautentica. Il concetto di inautenticità (come quelli simili di alienazione o di reificazione, ricorrenti in pensatori del Novecento come Lukacs, Adorno, Marcuse) non va riferito, secondo Heidegger, a una presunta perdita di sé da parte del soggetto: esso segna il destino dell'uomo nell'epoca della metafisica. In modo paragonabile alla categoria di nichilismo elaborata da Nietzsche, la metafisica assume in Heidegger un carattere epocale. Parlando della metafisica come oblio dell'essere, Heidegger non intende negare che il pensiero metafisico si sia riferito, in vari modi, all'essere. Esso ha sempre tentato di pensare l'ente nel suo essere, pervenendo tuttavia soltanto a concepire l'essere dell'ente come un ente ulteriore, senza pensare l'essere come tale, nella sua differenza dall'ente; l'oblio dell'essere è, dunque, l'oblio della differenza tra essere ed ente (differenza ontologica). Se oggi diventa possibile riconoscere l'oblio dell'essere è perche la metafisica è giunta a compimento, La sentenza nietzscheana sulla "morte di Dio" conclude ogni ricerca possibile di un mondo meta fisico al di là di questo mondo e prefigura l'oltrepassamento della metafisica, ossia il passaggio a un pensiero che pensi la verità dell'essere. Ciò che cominciò con Platone giunge alla fine con Nietzsche, sebbene questa fine non significhi che la metafisica rimanga alle nostre spalle e non condizioni più il nostro modo di pensare. L'epoca contemporanea, per Heidegger, è infatti caratterizzata dalla metafisica della volontà di potenza, che trova il suo annuncio con Nietzsche e la sua manifestazione compiuta nella tecnica moderna. Nella filosofia di Nietzsche, la metafisica diventa metafisica della volontà di potenza o, come dice Heidegger, della volontà di volontà: questa vuole infatti se stessa, in quanto non ha più alcuna meta da raggiungere che non sia la pura espansione e l'ultrapotenziamento di se medesima. LA TECNICA, L’ARTE, IL LINGUAGGIO La tecnica come imposizione e destino La tecnica rappresenta il compimento della metafisica, in quanto realizza la più perfetta forma di organizzazione e di dominio sul mondo, sugli uomini e sulla natura che la storia abbia conosciuto. L'uomo contemporaneo, dimentico dell'essere, è l'uomo della tecnica; dominato dal pensiero della tecnica, ridotto esso stesso a cosa fra le cose, egli smarrisce la domanda sul senso. Tecnica non significa solo creazione di macchine, ma designa qualcosa di più ampio, ossia una certa maniera in cui l'uomo e l'essere risultano coinvolti: nella tecnica, tutto (enti e uomini) è ridotto a risorsa disponibile, sfruttabile, manipolabile, calcolabile. Il carattere della tecnica e la modalità in cui l'uomo al suo interno si pone in relazione agli enti sono dunque quelli dell'imposizione. Quella di Heidegger non è tuttavia una polemica romantica contro la tecnica e la modernità: egli tenta di cogliere la radice filosofica che sta alla base della tecnica come fenomeno della nostra epoca. Vi è certamente una differenza tra la tecnica moderna, che forza la 2 natura riducendola a energia da accumulare e da sfruttare, e la techne degli antichi, che assecondava la natura e le possibilità in essa inscritte. C'è una differenza tra l'antico ponte di legno che congiunge da secoli le sponde del Reno e la centrale idroelettrica che imbriglia le acque del fiume, incorporando il fiume nella costruzione stessa della centrale. Per quanto diversa da quella antica, anche la tecnica moderna, tuttavia, è un modo del disvelamento della verità. Occorre pertanto guardarsi dalle facili alternative che consistono nella sua cieca esaltazione o nella sua condanna, nella volontà di dominarla o nella scoperta di esserne travolti. L'essenza della tecnica sta nel fatto che essa si dà nella storia degli uomini come un destino, vale a dire un evento dell'essere che accade nell'uomo e con l'uomo. Nell'epoca della tecnica, per Heidegger, è dunque possibile un nuovo inizio: se infatti con essa la metafisica giunge al proprio compimento, allora si apre anche la possibilità per l'uomo di porsi all'ascolto dell'essere e di corrispondervi. L’essenza dell’opera d’arte Heidegger è indotto ora a privilegiare l'arte come esperienza di verità. A essa egli attribuisce un valore ontologico, nel senso che essa produce un'apertura della verità dell'essere. Rivolgersi all'arte non è tuttavia, per il filosofo tedesco, un rimedio ai mali della tecnica, ma un modo per collocarsi in una dimensione che non è più quella della metafisica. Il tentativo di pensare l'essere al di là del linguaggio della metafisica diventa così occasione di riflessione sull'essenza dell'opera d'arte. Nel saggio sulla Origine dell'opera d'arte, Heidegger osserva che l'opera d'arte non può essere interpretata semplicemente come un ente intramondano, ossia un ente che si situa all'interno del mondo allo stesso modo delle cose. Piuttosto, essa stessa fonda un mondo, quello che comunemente chiamiamo il mondo dell'opera, alla luce del quale le cose acquistano un significato. L'opera d'arte è dunque «apertura d'un mondo storico», Un tempio greco, una statua, un quadro, una poesia non rispecchiano una realtà oggettiva, ma costruiscono un ordine di valori e di significati (religiosi, etici, civili, estetici) che sono alla base della cultura di un'epoca. Non è dunque attraverso un'epoca storica che comprendiamo il senso di un'opera d'arte, ma al contrario è attraverso l'opera che cogliamo il senso di un'epoca. Proprio perche l'opera d'arte è «messa in opera della verità», essa ha una molteplicità di significati, mai completamente esplicitabili, e dunque continua nel tempo a rivolgersi a noi, anche se appartiene a un orizzonte storico diverso dal nostro. Il linguaggio e il disvelamento dell’essere Heidegger afferma che l'arte è nella sua essenza poesia, nel senso di creazione (poiesis, in greco) di ciò che è nuovo. Sebbene questo non significhi la risoluzione di tutte le arti nella poesia in senso letterario, quest'ultima assume di fatto una centralità peculiare nella meditazione heideggeriana. La poesia infatti si fonda sulla parola e vive del linguaggio, il quale è un «dire originario», in quanto, nominando l'essere, lo porta ad accadere. Come l'arte non è semplice imitazione della realtà, ma è apertura di un mondo, così il linguaggio poetico non consiste in un complesso di segni che rimandano al mondo oggettivo, ma è il luogo dove l'essere si disvela. Per il tramite del linguaggio, la verità si dà come un dono dell'essere. Per questo, Heidegger afferma che il «linguaggio è la casa dell'essere», Questa affermazione significa, in primo luogo, che non c'è apertura di un mondo, e dunque possibilità d'incontro tra l'uomo e le cose, che non sia un evento linguistico, al punto che «là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell'essere della pietra, della pianta e dell'animale, non ha neppur luogo alcun aprimento dell'ente»: ogni ente, infatti, per apparire deve inserirsi in un mondo, cioè in una totalità di significati che presuppone appunto il linguaggio. Heidegger intende anche affermare che «è la parola che procura l'essere alla cosa» ciò è plausibile se si pensa il linguaggio come un evento che sottrae l'ente al nascondimento, portandolo alla parola, sicché «nessuna cosa è dove la parola manca». Nel linguaggio, dunque, risiede il nostro accesso all'essere. Tra uomo e linguaggio corre una relazione di circolarità. L'uomo, parlando, dispone in una certa misura del linguaggio, ma è vero anche che è il linguaggio a disporre di lui. Per un verso, il linguaggio sembra opera 3 dell'uomo. C'è infatti linguaggio solo dove l'uomo lo parla; ma, per un altro verso, l'uomo è rimesso al linguaggio e può pensare e dire solo ciò che rientra in un certo orizzonte linguistico che trova predefinito. Sotto questo profilo, «è il linguaggio che parla» e l'uomo parla solo in quanto vi corrisponde. Qui Heidegger non intende segnalare un generico condizionamento del linguaggio sull'uomo, quanto indicare come, nella circolarità di linguaggio e uomo, l'essere reclami a se l'uomo e l'uomo gli corrisponda. A quale linguaggio, tuttavia? Non certo al linguaggio come semplice strumento di comunicazione, quanto piuttosto al linguaggio poetico, il vero linguaggio autentico. Proprio perche egli accentua il carattere evocativo del linguaggio poetico, per Heidegger l'atto originario del parlare non sta nella pura connessione proposizionale ( oggetto della logica e della linguistica), ma nel nominare attraverso la parola l'essere della cosa. Se la cosa è anzitutto nella parola che la nomina, allora la realtà autentica della cosa si rivelerà attraverso un esercizio ermeneutico (interpretativo) condotto sulla parola. Da qui nasce l'attenzione per le etimologie: l'etimologia non è mai, per Heidegger, l'evocazione di una realtà lontana, morta, di un residuo arcaico, ma un modo per riconquistare il senso autentico delle parole e per attingere le originarie dimensioni d'essere delle cose. 4