Il Giardino dei Pensieri - Studi di Storia della Filosofia

Il Giardino dei Pensieri - Studi di Storia della Filosofia
M. Pancaldi
Per una storia delle interpretazioni di G. Bruno
-prima parte: dal ‘600 a F.A. Yates -
Ben pochi autori sono stati interpretati sulla base di criteri estrinseci e ideologicamente
condizionati quanto Giordano Bruno. Infatti, la sua complessa personalità e la sua
drammatica vicenda sono stati spesso oggetto di identificazioni e proiezioni storiche che
ne hanno impedito una corretta valutazione ed una oggettiva determinazione, fino a
renderne del tutto irriconoscibili i tratti. La sua opera è stata più considerata sotto il profilo
simbolico che effettivamente studiata, tanto che i dibattiti attorno a lui sono risultati in
genere funzionali a polemiche occasionali, e raramente finalizzati all'accertamento sereno
del reale spessore delle sue idee.
Già nel Seicento la sua figura diventa simbolo del pensiero moderno ateo e
materialistico, che respinge gli errori e le superstizioni del passato per
annunciare una visione più aperta e razionale della natura e della vita. Come tale
viene, a seconda delle prospettive di parte, esaltato o esecrato, quasi mai
criticamente analizzato. Così in Francia, nel periodo che segue la morte di Enrico
IV, Bruno è coinvolto nell'offensiva antilibertina ed il suo nome associato a quello di
Cartesio a proposito della teoria dei vortici. Al contrario, nel clima di tolleranza
instauratosi in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1689 e nel generale fermento
culturale che favorisce la ricerca scientifica, il suo nome diventa sinonimo di libertà di
pensiero e di antidogmatismo: significativo è l'apprezzamento espresso da un autore
così particolare ma anche così rappresentativo del movimento dei liberi pensatori
come J. Toland, che ne avverte profonde affinità tematiche e sintonie concettuali.
Nel corso del Settecento le polemiche sui temi religiosi ed etici non si placano,
questa volta associate al nome di Spinoza. E' P. Bayle a collegare il filosofo di
Amsterdam con il Nolano sul tema di una visione panteistica giudicata assurda per le
sue implicazioni deterministiche e negatrici dell'autonomia dell'individualità. Altri (ad
esempio il Brucker) cercheranno di distinguere le due posizioni individuando
affinità con Leibniz: di Bruno viene fornita una interpretazione spiritualistica e
religiosizzante, moderata e privata delle posizioni più acute e originali contenute nelle
opere italiane che rimangono sconosciute. Malgrado questi limiti, egli viene a pieno
titolo inserito nella filosofia moderna di cui è considerato esponente di rilievo.
Anche nella cultura romantica l'interesse per i temi dell'infinito e del panteismo
consente di mantenere l'associazione tra Bruno e Spinoza: se la concezione di
quest'ultimo appare più inclinata in senso ateo, quella del primo assume tinte
spiritualistiche a sfondo irrazionalistico. Così in particolare F.H. Jacobi nelle "Lettere
sulla dottrina di Spinoza" del 1785. Malgrado l'interpretazione hegeliana avesse
evidenziato i motivi razionalistico-dialettici (Bruno avrebbe ridotto la realtà a vivente
movimento di concetti, avvicinandosi a comprendere la radice razionale del tutto), è
soprattutto Schelling ad accreditare, dopo quelle del secolo precedente, una
immagine irrazionalistica: nel dialogo giovanile "Bruno o del divino nella natura"
(1802), sullo sfondo della polemica antifichtiana, egli oppone al naturalismo
spinoziano lo spiritualismo di Bruno, che avrebbe compreso come finito e
infinito siano l'uno accanto all'altro entro l'assoluto. L'identità di Dio e natura
costituirebbe allora un momento intermedio nel processo che vede circolarmente
Dio farsi uomo e gli uomini farsi Dio. Questa linea interpretativa antirazionalistica
viene mantenuta durante la reazione antihegeliana in Germania nel corso della
quale Schelling espone a Berlino la sua filosofia positiva dai caratteri fortemente
teistici.
Questa impostazione ermeneutica, mentre riconferma l'inserimento di
Bruno nel processo di formazione della filosofia moderna, risulta di
particolare rilievo perché è quella che viene accolta in Italia: paradossalmente
Bruno rientra nel suo paese sotto l'egida del moderatismo filosofico e
dell'irrazionalismo idealistico di matrice schellinghiana. In questo panorama si
segnala T. Mamiani che scrive una prefazione alla traduzione del "Bruno",
sostenendo, in funzione antispinoziana, una visione spiritualistica: Bruno
avrebbe asserito non che Dio è nel mondo ma che il mondo è in Dio. Il
panteismo verrebbe così riabilitato in quanto Dio costituirebbe il
fondamento del mondo.
Nel clima politico e culturale della borghesia ottocentesca con le sue
convinzioni anticlericali e liberali, l'interpretazione moderata si consolida
affrontando il tema dei rapporti tra filosofia e libertà religiosa: di questa tendenza
l'esponente più autorevole è F. Tocco. Profondo conoscitore della vita e delle
opere di Bruno (il suo lavoro più notevole è "Le opere latine di Bruno confrontate
con le italiane", Firenze 1889), egli intende scagionare Bruno dall'accusa di
eresia presentandolo come un testimone dell'esigenza della libertà dello
spirito, un razionalista che mira ad interpretare senza imposizioni
autoritarie i dogmi religiosi. Dunque Bruno viene intrepretato in climi storici a
lui estranei che gli impongono temi, problemi e impostazioni teoretiche in modo
del tutto estrinseco. Così se da un lato è presentato quasi fosse un sincretista
platonico cristiano, spiritualizzato attraverso l'influenza di Cusano e Ficino,
dall'altra si giunge fino a farne il precursore delle teorie evoluzionistiche.
Tuttavia esiste un altro filone interpretativo, molto più corretto e fecondo, che
intende rovesciare la posizione spiritualistica attraverso la comprensione del nesso
tra la filosofia di Bruno e la storia sociale, politica e culturale dell'Italia. Si
tratta di una sorta di linea maestra che collega B. Spaventa ad A. Labriola. Il
primo in particolare, mediante la riscoperta dei maggiori autori italiani del
Rinascimento e della loro influenza sulla cultura europea, intende offrire alla
borghesia liberale il terreno più sicuro per ritrovare la migliore tradizione ed
identità culturale nazionale esaltata dal contatto con il più evoluto e maturo
pensiero occidentale. Del pensiero di Bruno Spaventa coglie soprattutto il
nesso tra metafisica della mente e moralità, nel senso che prima di Cartesio
egli evidenzia il fondamento dell'etica sulla ragione nella sua assolutezza e
necessità: l'autorità è interna, è l'essenza della coscienza stessa. Ma la
ragione, principio del sapere e del fare, è la stessa cosa di Dio e la natura: in
tal modo emerge la progressiva esposizione della necessità dell'uomo e il
significato del lavoro che mentre ci riconcilia con la natura viene a costituire il
senso intrinseco della vita umana. Dunque nell'interpretazione spaventiana la
metafisica della mente, che è espessione dell'infinito, si traduce in una
filosofia dell'immanenza esaltante la dignità umana nella sua dimensione
naturale e operativa.
Data la sua formazione marxista, A. Labriola non accetta queste conclusioni
anche se è disposto ad utilizzarle come punto di partenza per collegare il
naturalismo cinquecentesco italiano ai dibattiti scientifici e sociali dell'Europa
moderna. Egli vede Bruno sullo sfondo della decadenza economica e politica
dell'Italia di fronte al progredire dei moderni stati europei (Francia e Inghilterra
in particolare) che egli aveva potuto osservare da vicino durante i suoi soggiorni. I
contrasti d' idee (copernicanesimo contro aristotelismo, filosofia contro religione,
sapienza contro ignoranza ecc.) rappresentati nei dialoghi e nelle opere latine
sono espressione di quei contrasti sociali che travagliano la storia del nostro
paese in un' epoca di transizione. Rispetto ad essa Bruno, secondo questa
prospettiva ermeneutica, avrebbe ricoperto una funzione anticipatrice storica oltreché
culturale: merito di Labriola è di aver liberato Bruno dalla terminologia teologica
e di aver scoperto la storia dentro il divenire della natura. Tuttavia le sue
indicazioni pur così stimolanti per una lettura più appropriata del pensiero di Bruno,
non riceveranno uno svolgimento adeguato: al contrario si può assistere, nella
prima metà del nostro secolo, ad una involuzione che riporta l'attenzione sul
piano spiritualistico e avalla il mito di in interesse religioso da parte di Bruno.
Su questa linea si collocano i volumi di J.R. Charbonel ("L'ethique de G.B. et le
deuxiéme dialogue du Spaccio", Paris 1919), di A. Guzzo ( "I dialoghi di Bruno",
Torino 1932, secondo il quale Bruno avrebbe sostenuto una sofferta interiorità
dell'esperienza religiosa e una filosofia degna dell'infinità di Dio) e di A. Corsano ( "Il
pensiero di G. B. nel suo sviluppo storico", Firenze 1940, che presenta Bruno come un
riformatore religioso teso alla evoluzione e al riconoscimento della dignità etico
religiosa di tutti gli uomini).
Ma gli studi su Giordano Bruno in questo arco di tempo sono dominati dalla
interpretazione di Giovanni Gentile esposta in una conferenza del 1907 (rielaborata e
inserita nel volume "Il pensiero italiano del Rinascimento", Firenze 1968, XIV, alle pp.
261-310). Per il teorico dell'attualismo il Nolano fu essenzialmente uno spirito
contemplativo, animato esclusivamente dall'amore per l'eterno e il divino; perciò fu
alieno dalla pratica e disattento verso le cose che gli stavano attorno: estraneo a tutte le
chiese (ai riformati parve cattolico, ai cattolici riformato), sentì profondamente la
sua solitudine, vivendo in prima persona la sovramondanità della filosofia. In
quanto eroico furore, essa per Bruno si collocava su una dimensione mistica,
nel senso di un' elevazione razionale al divino il cui spirito viene realizzato
nell'individuo che se ne dimostra capace. La verità filosofica è dunque solo per i
filosofi, e Bruno non la espose né al tribunale né al volgo; ma proprio questa
coscienza aristocratica del pensiero doveva consentire l'apertura ad una visione
positiva della religione e favorirne l'azione per i suoi scopi pratici e civili. Se lo
stato è sostanza etica, "non c' è legge, non c' è stato senza religione", afferma
Gentile in scoperta polemica contro radicali e socialisti. Se da un lato è evidente che
stato e filosofia concepiscono diversamente questa sostanza, dall'altro è altrettanto
chiaro che negarla significa distruggere lo stato e dissolvere la legge. Certo Bruno con
la sua verità eterna si pone al di fuori della storia, e quindi anche del conflitto tra
clericali e liberi pensatori che sono partiti pratici; tuttavia non c'è legge che non sia
assoluta e non sia pertanto anche religione. Bisogna naturalmente separare la legge, la
religione e lo stato dei filosofi da quelli del popolo; ma lo stato senza religione non può
sussistere, quindi lo stato del popolo non può essere scisso dalla religione del popolo.
Data la loro natura essenzialmente pratica, tutte le religioni si equivalgono in
quanto tutte sono contingenti : in ciò si differenziano dalla filosofia che, quale
momento ideale dello spirito, non può mai trasformarsi in una condizione
storica effettiva ed empiricamente determinata. Questo spiega le repentine
conversioni di Bruno al calvinismo, al luteranesimo, al cattolicesimo: non si
tratta di opportunismo, ma della matura convinzione che la vita pratica in
una comunità politica implica anche l'accettazione della sua legge e della
sua religione. Esse possono essere criticate in astratto, ma debbono essere
obbedite in concreto: se l'interesse pratico è preminente rispetto a quello teorico,
Bruno combatte i teologi che portano con le loro dispute discordie, guerre,
divisioni. Ma quando decide di rientrare in Italia, allora si genuflette poiché
il cattolicesimo è legge civile e morale di questo paese. L'atto di obbedienza
fatto a Venezia non è dunque quello del filosofo, ma dell'uomo con i suoi bisogni
pratici di pace e di inserimento sociale; egli non rinuncia alla sua filosofia, ma non
la difende neppure perché il tribunale dell'inquisizione è solo un istituto pratico e
non un'accademia o un'università. Non avrebbe avuto senso discutere di materia
dogmatica con i giudici, mentre era del tutto coerente accettare per motivi pratici
(non di debolezza) i dogmi religiosi del paese in cui aveva deciso di vivere. Ma
quando a Roma si pretese da lui una ritrattazione oltre il segno fino al quale
aveva ritenuto di potersi spingere (cioè quando gli si impose l'abiura della
sua filosofia), allora Bruno fu inflessibile e accettò serenamente la morte.
Distinguendo tra verità filosofica e fede religiosa, chiedeva una libertà di pensiero
senza ingerenze teologiche: per questo riconoscimento, che sperava di ottenere dal
Papa, era disposto a concedere la propria sottomissione all'autorità ecclesiastica,
confessando anche i propri errori di ordine morale e teologico. Però non avrebbe
mai potuto rinunciare a quella verità filosofica a cui si era elevato e con cui si
identificava in modo totale.
Nella prospettiva gentiliana Bruno rappresenta la conclusione logica del
Rinascimento con le sue oscillazioni e le sue contraddizioni, prima tra tutte
quella consistente nel distruggere l'antica concezione della realtà ma non il
suo fondamento trascendente: di qui i germi della decadenza, la falsità di
un intero mondo che Bruno avverte e denuncia. Anch'egli tuttavia non nega la
trascendenza limitandosi a trasformarla in quella "mens insita omnibus" che è la
Natura. Mancando il concetto di Spirito quale assoluto immanente, essa
presuppone necessariamente, secondo Gentile, un Dio esterno, una "mens supra
omnia" quale suo fondamento. Una volta ammessa questa verità ultramondana, è
agevole cogliere l'importanza della religione, la cui legittimità consiste nel margine
lasciato dalla filosofia nella conoscenza della verità. Ma se la verità della filosofia
suppone e conferma una verità più alta, quella religiosa, allora la condanna al rogo
non risulta intrinsecamente conseguente a questa dottrina? Non era stato lo stesso
Bruno ad ammettere la necessità della legge e il suo fondamento nella religione? Se
una filosofia combatte la religione è pericolosa e il suo autore deve essere
condannato perché così impone la legge. Accettando queste premesse, la condanna
a morte risulta legittima, anche se Bruno, non cosciente della contraddizione di cui
lui stesso è portatore, attraverso di essa mostra l' impossibilità di una conciliazione
tra l'antica concezione del mondo e le esigenze del pensiero moderno. Quest'
ultimo riconosce la libertà di pensiero come fatto storico e la necessità di realizzare
il divino immanente al mondo nella legge della coscienza e dello stato.
La morte di Bruno è dunque il martirio per la fede nell'uomo nuovo,
conclusione e correzione inveratrice della sua filosofia.
§. Gli studi del dopoguerra (nel complesso opere di carattere generale e di sintesi
complessiva quali A. Corsano "Il pensiero di G.B. nel suo svolgimento storico" Firenze
1938, L. Cicuttini "G.B." Milano 1951, A. Guzzo "G.B." Torino 1960) sono tesi a
liberare la filosofia di Bruno non solo dai condizionamenti ottocenteschi (Bruno
martire del libero pensiero e teorico del laicismo) ma anche da quelli
dell'attualismo gentiliano e dello spiritualismo cattolico.
Sotto questo profilo il libro di N. Badaloni "Il pensiero di G.B." (Firenze 1955,
rielaborato alla luce della critica più recente e ripresentato col titolo "G.B. : tra cosmologia
ed etica", Bari 1988) costituisce una vera e propria svolta, perché offre una lettura
dell'opera del Nolano finalmente restituita ai suoi legami con il pensiero moderno
e riconosciuta nei suoi aspetti più innovatori. Sgombrato il campo da tutti i
tentativi di imporre a Bruno interessi teologici o religiosi di qualunque tipo, si
insiste soprattutto sugli interessi naturalistici (che ovviamente non potevano non
scontrarsi polemicamente con le credenze e i modi di vita del mondo circostante) e
sulle diverse matrici del suo pensiero che tuttavia si evolve all'interno
dell'aristotelismo per arricchirsi e ampliarsi con l'innesto di altre fonti. Avremmo
così l'evoluzione da un iniziale averroismo verso una concezione dell'infinito prima
formulata in termini atomistici poi in termini neoplatonico-anassagorei. Detto
altrimenti, Bruno avrebbe cercato in una natura intesa in termini di infinità e di
mutevolezza continua quei fattori di costanza che la rendessero intelligibile. Le idee
platoniche (private del loro aspetto finalistico) non sarebbero altro che lo stesso mondo
sensibile colto nei suoi aspetti di costanza ed eternità, mentre senso e intelletto
costituirebbero due modi di intendere la stessa realtà fisica la cui visione non è data da una
scienza matematica ma da una penetrazione metafisica che coglie il movimento unitario del
tutto. Mantenendo il pregiudizio che l'ordine delle cose sia riproducibile nel
pensiero, la novità della sua filosofia consiste nella collocazione di un mondo di
forme, attraverso cui passa il divenire delle cose, nell'universo infinito: quest'ultimo
è segnato dal prendere forma di un'infinita materia che segue un ordine costante (e l'arte
della memoria non è che lo strumento mentale per riuscire a rappresentare
l'universo in una immagine riassuntiva che si basa sull'innesto delle idee nella
natura). Dio è la forza vivificante delle cose, il sigillo della costanza dell'universo e
della sua continua creatività. E qui Badaloni può definire la posizione di Bruno
rispetto alla scienza moderna: certo la sua è ancora una posizione speculativa, filosofica,
per tanti aspetti espressione di una fase di transizione, ma portando a precisazione la
moderna visione del mondo, egli finisce per condizionare e influenzare la nuova ricerca
scientifica. La scoperta dell'infinito (che è realtà materiale) agita e sommuove i concetti
scientifici tradizionali: nella misura in cui Bruno identifica la nuova cosmologia
eliocentrica con l'antica filosofia della natura di cui vuole la rinascita, quest'ultima
assume un significato moderno e attuale, implicando anche la liberazione dalle
superstizioni e dalle sofisticherie. In questo senso deve essere interpretato l'interesse di
Bruno per la magia: posto che la scienza possiede un interesse pratico di di liberazione
umana, essa si configura come ricerca oggettiva delle cause della natura e non come
supposti poteri del soggetto, come anticipazione di un fatto singolo di fronte ad una
sollecitazione determinata. La magia non è capacità di operare miracoli ma
spiegazione del perché si ripetono certi eventi e di come sia possibile utilizzarli
come vincoli. Essa spiega come sia possibile vincere con determinati simboli o atti
l'animo dell'uomo facendo udire a ciascuno il richiamo dello spirito corporeo
universale.
Anche la riflessione etica di Bruno viene presentata da Badaloni in continuità
con quella sulla natura e quindi liberata da tutte le interpretazioni spiritualistiche
che vedono la fonte dell'etica nel contatto con Dio cui tutto si subordina. Badaloni
mostra come questa visione sorga dall'aver equivocato il senso del termine "divino"
che Bruno impiega in senso metaforico per indicare la costanza del tutto che è oggetto
di comprensione intellettuale: divina è allora la stessa coscienza del reale. Il
raccogliere il reale nella mente corrisponde al carattere divino dell'uomo in
quanto la mente ci dà modo di rispecchiare in forme costanti l'infinita
mutevolezza delle cose. La moralità si fonda dunque sul pensare, che consente
un legame con la razionalità e la vita. La contemplazione intellettuale, in cui
consiste la più alta forma di moralità e alla cui elevazione Bruno richiama, significa
intendere più a fondo l'oggettività delle cose e approfondire la tendenza più nascosta
del nostro essere, orientando i nostri impulsi verso l'unità con la natura poiché
l'intelletto è la natura stessa vista nel suo nocciolo di eternità e costanza che sta alla
base del mutamento. Respingendo l'ascetismo cristiano, Bruno apprezza la
religione antica, e particolarmente quelle egizia anche se egli è ben lontano da
volerla riesumare e sostituirla al cristianesimo (come pretenderà la Yates). Il
problema della libertà dell'uomo nasce dall'intuizione della costanza
dell'essere nella sua infinitezza e l'intelligenza è condizione di libertà. La moralità
sta nel dominio del transeunte raggiunto attraverso la percezione del permanere della
sostanza al di là del nascere e del morire delle cose: in questa coscienza del divenire
universale consiste, secondo Badaloni, la storicità (non lo storicismo) del pensiero
di Bruno. Ne deriva una complessa problematica sociale e politica cui Badaloni, lungo
la linea tracciata da Labriola, dedica ampio spazio così come, in generale, al rapporto
di Bruno con il suo tempo. Anche il mondo sociale rispecchia questo aspetto di
mutevolezza naturale: infatti, intesa la necessità del tutto, il movimento incessante
delle cose nel suo significato reale, l'uomo è in grado di cogliere il vero significato
delle vicende del mondo sociale. Amando il movimento, la conservazione e la
vitalità del tutto, può tendere al mantenimento del corpo sociale che è lacerato
all'interno dalle singole volontà. Di qui la valorizzazione delle attività volte a
questo fine, compresa la religione, mentre la virtù suprema è perfezione del
proprio e altrui intelletto al servizio della comunità. Anche le religioni possono
contribuire a conservare e rafforzare i legami sociali e vanno bandite solo
quando diventano strumento di divisione sociale. Al principe tocca creare una
situazione di pace sociale e di convivenza che implichi un diritto comune:
entro questo quadro può svolgersi la lotta per la ricerca della fortuna che
alterna le sorti dei singoli, senza che ciò si svolga in un clima distruttivo.
Badaloni sottolinea come questo orientamento sia stato suggerito a Bruno
dalle sue esperienze nei paesi più avanzati dell'Europa moderna: egli ha potuto
apprezzare la politica di Enrico III e di Elisabetta I che hanno impostato la
convivenza civile su basi razionali e naturali. Dunque Bruno sarebbe cosciente delle
trasformazioni del mondo moderno, come è testimoniato dall'apprezzamento del lavoro
che apre ad un rapporto dinamico tra uomo e natura ma anche alla trasformazione dei
rapporti sociali e di proprietà. Ne deriva il riconoscimento del ricambio necessario dei ceti
dirigenti (la cui mancanza aveva potuto constatare a Napoli) da ricercarsi negli strati più
alti della società (e qui si può giustificare chi, come l'Ogiati, ha parlato di aristocraticismo
bruniano, notando la frattura con le masse popolari). In ogni caso Badaloni evidenzia la
modernità di Bruno che si esplica nell'accettazione delle fratture sociali (con il
conseguente abbandono delle ideologie gerarchico-feudali), della nuova struttura del
principato (liberato dalle concezioni feudali del sovrano) e della funzione della legge.
E' secondo natura, che è continuo mutare di forme, assecondare il nuovo che avanza e
cambia il mondo: perciò si deve lasciare posto all'iniziativa del singolo e alla circolazione
della ricchezza. La natura non è Provvidenza ma Fortuna che dà a ciascuno la sua
sorte: essa si offre a tutti, anche se non tutti sono capaci d' afferrarla. Perciò Bruno, che
non è al di sopra delle parti ma è dalla parte dell'avvenire e del progresso, approva
un ordine politico non egalitaristico ma fondato sulla divisione di gradi raggiunti
con l'abilità e sull'impero della legge, in base al principio "natura sit rationi lex,
non naturae ratio". Questo atteggiamento generale giustifica, secondo Badaloni, anche la
vicenda personale di Bruno che da Venezia, città moderna con un governo fondato sulla
legge (tra l'altro Venezia era stato il primo stato cattolico a riconoscere la monarchia di
Enrico IV), voleva seguire più da vicino la politica antispagnola di Enrico IV (in cui
sarebbe stata coinvolta anche l'Italia) e prendere contatto con Clemente VIII, papa
antispagnolo, in vista di un suo rientro in seno alla Chiesa cattolica e alla corte francese. La
situazione sembrava volgere al meglio, profilandosi un accordo tra Francia e Papato che
avrebbe portato ad un clima più tollerante e ad un allentamento del controllo censorio
imposto agli intellettuali, cui avrebbe dovuto essere lasciata libertà di pensiero come guide
politiche dei popoli. Ma egli si illuse sulla disponibilità della Chiesa e accettò la morte non
volendo divenire meno alle sue convinzioni, peraltro perfettamente accertate dagli
inquisitori.
§§. Nel 1964 compare una monografia destinata a modificare radicalmente l'immagine di
Bruno e ad influenzare per molto tempo gli studi e le interpretazioni del suo pensiero. Si
tratta dell'opera di F. A. Yates "G.B. e la tradizione ermetica" ( trad. it., Bari 1969) La
studiosa, membro del Warburg Istitute di Londra e già nota per alcuni saggi bruniani sullo
sfondo della cultura inglese tra '500 e '600 (raccolti in volume e tradotti col titolo "G.B. e la
cultura europea del Rinascimento", Bari 1988), propone una nuovo paradigma
ermeneutico alla luce del quale leggere l'intera opera di Bruno e, più in generale,
intendere il significato del Rinascimento. L'ermetismo viene così descritto nei suoi
contenuti, colto nelle sue origini e seguito nei suoi sviluppi nell'ambito della
cultura umanistica. In particolare viene messo in risalto il tema della magia, il suo
inserimento in un quadro filosofico di stampo neoplatonico, la sintesi conciliativa
con la tradizione cabalistica e soprattutto con la religione cristiana che viene
realizzata del platonismo fiorentino nella seconda metà del Quattrocento. La Yates
analizza, da questa prospettiva, l'opera di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, di
Cornelio Agrippa, ricostruendo l'intensa trama di collegamenti e di influenze nella
cultura inglese e francese del Cinquecento fino a sostenere la derivazione della
scienza moderna dalla magia rinascimentale. Giordano Bruno si collocherebbe
allora al termine di questa tradizione di pensiero di cui trarrebbe le implicite ed
estreme conseguenze: infatti, se Ficino e Pico avevano accolto i temi ermetici con
estrema cautela e moderazione per non giungere a collisione con l'ortodossia
religiosa, Bruno esige un ritorno esplicito e radicale alla religione egizia ed alla
pratica della magia in senso nettamente pagano. Durante il suo soggiorno
parigino prima e londinese poi, Bruno ha insegnato dunque la filosofia di
Ermete Trismegisto, la prisca sophia di cui egli intende essere il reastauratore,
alla cui luce ha letto anche il copernicanesimo e da cui ha tratti tutte le
implicazioni sul piano etico e religioso. "La visione che viene elaborata dal Nolano è una
nuova interpretazione ermetica della divinità dell'universo, una gnosi sviluppata. Il copernicanesimo
annuncia il risorgere vittorioso dell'antica verace filosofia dopo il lungo periodo in cui era rimasta
sepolta nelle tenebre. (..) La verità bruniana non è né quelle cattolica ortodossa né quella protestante
ortodossa: è la verità egiziana, quella magica. (..)Bruno ha compiuto l'ascensione gnostica, ha vissuto l
'esperienza ermetica ed è pertanto divenuto un essere divino imbevuto delle Potestà [cioè dei poteri
magici]". L'universo "viene trasformato da Bruno in una gnosi ermetica profondamente allargata, in
una nuova rivelazione di Dio come mago che infonde una magica animazione nei mondi innumerevoli,
in una visione, infine, per ricevere la quale, l'uomo mago, miraculum megnum, deve dilatarsi a
proporzioni infinite per poterla riflettere in sè".
La figura di Bruno risulta centrale in un' altra opera della Yates dedicata a "L'arte della
memoria" (trad. it., Torino 1972), argomento apparentemente marginale ma che
invece costituisce il crocevia di numerosi fili tematici che ancora una volta fanno capo
alla cultura ermetica con tutti i suoi risvolti cosmologici, magici e gnoseologici (e non
si dimentichi che Bruno aveva insegnato mnemotecnica a Parigi e che per
l'apprendimento di quest'arte il Mocenigo l'aveva chiamato a Venezia).
L'opera della Yates ha avuto un'eco amplissima e non si può negare che gran parte
della saggistica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sia stata in una qualche misura
influenzata dalla sua prospettiva, che, come e stato notato, ha il merito di aver
collocato Bruno all'interno di tradizioni culturali in precedenza trascurate, reagendo in
tal modo a schemi interpretativi ormai consunti. Essa tuttavia non ha scoperto ma ha
utilizzato in modo forte e originale la chiave ermetica fino a incidere sulla discussione
sulla scienza moderna e sul rapporto scienza-magia.
Sul piano dei contenuti si può dire che si sia riallacciata alle ricerche di E. Garin, che a questi temi ha dedicato
molti studi. Tra questi bisogna ricordare le notevoli "Considerazioni sulla magia" (comprese nel volume
"Medioevo e Rinascimento", Bari 1954) dove già si sostiene il carattere operativo della magia ed il suo costante
appello all'esperienza quali fattori decisivi per la formazione dello spirito scientifico moderno; "La rivoluzione
copernicana e il mito solare" (nel volume "Rinascite e rivoluzioni", Bari 1975), dove si sostiene la tesi che
"appunto perché la veduta di Copernico importa una concezione diversa delle cose, non può scaturire se non da
una diversa filosofia", quella che lo studioso italiano ricostruisce studiando i testi del platonismo rinascimentale;
ed infine "Lo zodiaco della vita" (Bari 1976) che ripercorre le fasi salienti della polemica sull'astrologia tra
Trecento e Cinquecento toccando punti estremamente interessanti quali i rapporti tra astrologia e magia e quelli
tra neoplatonismo ed ermetismo. Anche se Garin non si è mai occupato specificamente di Bruno, tuttavia i suoi
saggi sondano il clima culturale ed il tessuto di idee in cui è cresciuto ed ha operato il Nolano confermando ed
approfondendo il quadro delineato dalla Yates.
Maurizio Pancaldi
Per una storia delle interpretazioni di G. Bruno
-seconda parte: da F.A. Yates a M. Ciliberto Tra gli studi emersi lungo il solco tracciato dalla studiosa inglese spicca il libro di H.
Védrine "La conception de la nature chez G.B." (Paris 1967), che comunque si collega
anche al lavoro di Badaloni, più volte citato. La tesi sostenuta è che Bruno appartenga
integralmente al naturalismo rinascimentale e quindi in lui sia dominante la concezione
animistica: la sua metafisica consiste nel mostrare la presenza dell'uno nel molteplice
attraverso la nozione centrale dell'anima universale. Insistendo sull'unità dell'universo, egli
getta le basi di una concezione monista che può essere considerata anche uno spiritualismo
assoluto. Certo la presenza delle nozioni di anima, forma e divinità nonché il privilegio
accordato in sede morale ad una eternità situata al di là di tutte le percezioni a discapito del
divenire, escludono l'accusa di materialismo. Piuttosto il primato della materia incorporea
(Bruno rifiuta l 'identificazione, tipica di questo periodo segnato dal rigorismo sia
riformato che cattolico, di materia con peccato e vizio) conduce Bruno a identificare la
sostanza con una eternità attuale, identica a se stessa e perpetuamente creatrice. Non
avendo mai superato l'orizzonte dell'animismo (e del conseguente pampsichismo), è facile
capire il recupero dell'ermetismo da parte di Bruno che concepisce la filosofia come
ricerche di corrispondenze simpatetiche e quindi il conseguente sfociare
nell'apprezzamento della magia. Quest'ultima consente di esercitare degli influssi che
trasformano la natura mediante il ruolo taumaturgico dell'immaginazione che sa esercitare
un benefico effetto sui corpi estrerni (e non c'è bisogno di evidenziare come l'arte della
memoria si fondi proprio sulla forza delle immagini). Da questo punto di vista la Védrine
polemizza con chi applica al pensiero di Bruno categorie moderne (il '600 sottolineerà le
sue insufficienze scientifiche, l''800 lo riabiliterà ma solo sulla base di equivoci, il '900 cade
spesso da un eccesso all'altro): la sua cultura è esclusivamente fissata sul passato sia per gli
strumenti sia per il sistema di referenze, tutta riassorbita nel mondo rinascimentale (e se si
pone dei problemi moderni lo fa con un linguaggio antico, con nozioni improntate alla
tradizione greco-cristiana). Basta pensare al primato della contemplazione sull 'azione,
dell'eterno sul divenire: tipico esempio di intellettuale aristocratico staccato dai rapporti
con la storia, Bruno trascura del tutto il mondo del quotidiano, non si interessa né della
tecnica né dell'industria (il che lo pone al di qua di Moro e Campanella), e lo sviluppo della
borghesia non gli suscita se non pensieri nefasti sul ruolo del denaro. Cercheremmo
invano in Bruno una considerazione della storia come prodotto umano, visto che la prassi
è spesso solo una mera agitazione sulla superficie dell'essere (la stessa magia è più teoria
che pratica): è dall'eternità che spera possa giungere ciò che il tempo non può fornire, cioè
la verità e l'unità riconquistata. L'eternità che non è trascendenza ma abolizione del tempo
nell'immanenza dell'uno, nella natura vivente. La natura è infinità e totalmente realizzata in
atto, ma non ha storia ed esclude lo sviluppo: così il tempo è solo l'ambito dove si
affrontano i destini individuali, ma non quello in cui l'uomo si fa totalmente uomo. A
conclusione del saggio, tuttavia, la Védrine è disposta a riconoscere il contributo di Bruno
al mondo moderno identificato nella critica agli schemi del passato tesa alla trasformazione
delle abitudini di pensiero: di qui passano infatti l'audacia intellettuale e la formazione di
nuovi concetti. Quello di Bruno sarebbe così un razionalismo anticipatore la cui essenza
consisterebbe in una sorta di esperienza mentale sul possibile: dalla distruzione del cosmo
aristotelico egli avrebbe tratto le estreme conseguenze (non a caso più audaci e radicali dei
contemporanei, anche se ovviamente prive di controllo sperimentale) sia sul piano fisico
che su quello metafisico ed etico.
All'orizzonte interpretativo che si ispira alla Yates può essere ascritto, senza tuttavia
dipenderne in modo diretto, anche il lavoro di F. Papi "Antropologia e civiltà nel pensiero
di G.B." (La Nuova Italia, Firenze, 1968), che sottolinea fortemente le valenze anticristiane
e libertine del pensiero del Nolano. Partendo da un tema apparentemente marginale
(ma che fu oggetto di contestazione da parte dell'inquisizione) quale quello della
generazione spontanea degli esseri, egli ne evidenzia, insieme alla matrice lucreziana, le
implicazioni materialistiche e anticreazioniste che sfociano in una concezione della
natura come solo e autentico divino. Nella dilatazione infinita del cosmo copernicano,
Bruno risolve il tradizionale problema teologico degli attributi di Dio con la loro
identità: nell'infinito infatti non esiste distinzione di gradi. Ma se si razionalizza il
modo teologico di porre il problema di Dio in merito ai suoi attributi, si perviene all
'idea di un Dio come unità infinita ed efficiente ab aeterno di un universo fisicamente
infinito che è la sua realizzazione. Ereditando e fondendo temi della tradizione
averroista e neoplatonica, si concepisce il processo che conduce da Dio all'universo
come un'esplicazione nell'identità (identità di potenza ed atto e dei suoi principi, anima
e materia). Ne risulta una divinizzazione della natura dove il suo essere coincide con il
suo valore: infatti, neutralizzando la concezione cristiana in chiave neoplatonica,
Bruno fonda l'infinità non solo come esistenza ma anche come qualità positiva in
quanto infinità di luoghi abitabili dall'uomo. Una simile concezione di Dio come
necessaria esplicazione nell'infinito naturale è ciò che conferisce valore alla natura che
è totalità e quindi unica fonte di conforto e sostegno per l'uomo. Ma ciò significa
anche piena fiducia nei mezzi umani di raggiungere la conoscenza totale dell'essere
naturale e convinzione che il discorso sulla natura sia il solo discorso possibile su Dio:
di conseguenza Bruno decristianizza il problema teologico (sarebbe vano cercare in lui
una sostanza separata e trascendente) che viene risolto completamente in quello
filosofico. Inoltre l'idea razionale di Dio che si realizza nella totalità della natura fonda
anche l'omogeneità dell'infinito con se stesso, un'omogeneità metafisica che è parallela
a quella fisica e che rompe non solo con la visione aristotelica ma anche con quella
cristiana del mondo in tal modo desacralizzato. Se c'è sinonimia tra Dio e natura, Dio
si trova in tutto e ovunque nel senso che Dio-natura è in rapporto diretto con la
materia: allora la natura produce tutto dal suo seno, poiché essa è l'artista interiore, il
motore che agisce dall'interno. Ma la natura è bene e quindi l'infinito è bene.
Respirare, muoversi, amare, vivere: tutto si svolge nella dimensione dell'infinito in cui
non c' è drammaticità, angoscia o frustrazione poiché l'uomo è sempre in rapporto
organico con la natura in ogni aspetto della vita quotidiana. Nella dimensione
dell'infinito ogni cosa si identifica con le altre e tutte costituiscono la natura dove
sussiste nello stesso tempo infinità ed omogeneità dell'uno rispetto ad ogni vivente,
senza che si possa dare alcuna gerarchia o graduazione degli esseri che risponda ad un
quadro di valori prefissato. Secondo Papi la novità di Bruno consisterebbe proprio in
questa visione dell'universo infinito come unità organica e vivente dove ogni essere è
manifestazione dell'unità naturale, concrezione temporale destinata a scomparire e a
trasformarsi in un altro organismo, secondo una prospettiva teorica in cui si
mescolano in varia misura Averroè, Plotino, Ermete, Pitagora, Lucrezio.
Questa prospettiva, dalle marcate implicazioni polemiche in senso antireligioso e
libertino, viene confermata dalla credenza di Bruno nei preadamiti, credenza che si
riallaccia evidentemente con i temi dell'infinità della natura e della generazione
spontanea delle forme all'interno della nuova cosmologia copernicana. Se non esiste
tempo e luogo che sia privo di generazione umana, allora questo comporta la fine della
dottrina creazionista di matrice biblica e di converso l'adozione della teoria averroista
della religione quale verità pratica finalizzata a modificare le condizioni di vita di un
popolo mediante l'emanazione di leggi da parte di profeti che, spezzando antiche
consuetudini, educano ad una rinnovata forma di comportamento morale e civile. Ma
se le credenze religiose sono un elemento costitutivo della vita collettiva, allora la
civiltà ebraico cristiana codificata da Agostino viene privata del suo significato
spirituale esclusivo: il profeta, quale riformatore religioso, è portatore di messaggi atti
ad essere recepiti dalla moltitudine che crede che in lui parli la voce divina. Così il
profeta si può avvicinare al mago per il comune intento pratico realizzato mediante
l'azione esercitata sull'immaginazione allo scopo di modificare i comportamenti tra gli
individui. Ancora: se l'uomo è un essere totalmente naturale, si può comprendere
l'idealizzazione della religione egizia che appare a Bruno quale modello positivo di religione
mondanizzata e finalizzata al bene comune (ma ciò non significa che ne caldeggi la
rinascita, come vuole la Yates), antitetica alle tenebre contemporanee rappresentate
dall'oscurantismo cattolico e protestante. Ma il modello agostiniano di storia (e
implicitamente la cronologia della storia biblica del mondo) entra in crisi anche quando
Bruno prende in considerazione i selvaggi d'America. Essi contesterebbero con la loro
esistenza (per Bruno gli uomini nascono in America come in qualunque altra parte per
processo spontaneo) e le loro civiltà antichissime l'etnocentrismo ebraico e cristiano il cui
modello è respinto dall'alleanza congiunta tra il Nuovo Mondo e la civiltà egizia in favore
di una concezione policentrica dell'umanità e della civiltà. In questo modo Bruno partecipa
al dibattito assai animato e denso di fermenti all'interno della cultura europea, specie
libertina, che, dalla ferocia delle guerre di religione, prende spunto per riflettere su se stessa
e per immaginare un mondo in cui gli uomini vivano in confidente rapporto con la natura
lontano da leggi, istituzioni, dottrine opprimenti. Tuttavia Papi ha cura di evidenziare la
posizione particolare di Bruno. Egli infatti non si limita a identificare i selvaggi con le virtù
degli antichi, ma rifiuta il mito dello stato naturale degli uomini in quanto bestiale. Certo
l'uomo è un essere naturale, è gettato nel contesto naturale; ma egli non solo è, ma può
essere: il suo poter essere è specifico della sua naturalità poiché con l'attività e l'abilità
tecnica riesce a modificare le condizioni storiche d'esistenza. Queste considerazioni ci
aprono alle tematiche gnoseologiche e antropologiche del pensiero bruniano. Per quanto
concerne il primo aspetto, bisogna evidenziare che il conoscere è un processo naturale
della vita, la garanzia che l'essere naturale pervenga al suo fine. I diversi livelli di
conoscenza (senso, immaginazione, ragione, intelletto) provengono dall'unità metafisica
che è identica all'unità di animazione di tutti i viventi, che agisce differentemente nelle
specie e nei vari organismi. Bruno vede nella progressione dei gradi uno sviluppo del
livello iniziale: il senso è lo stesso intelletto e viceversa. Ma ciò equivale a sostenere che,
data la medesima mente che provoca conseguenze diverse negli esseri che si trova a
vivificare, il comportamento istintuale e il discorso intellettuale hanno una stessa radice pur
assolvendo a funzioni differenti. In sostanza l'unità della natura si traduce nell'unità dei
processi gnoseologici. Tutto appartiene allo stesso essere naturale e natura è anche il
risultato ultimo dell'ascesi conoscitiva del saggio, che sa modificare il suo stato alterando i
suoi vincoli con gli oggetti, mutando l'atteggiamento verso la morte, affermando la sua
indifferenza verso i beni materiali. La certezza del conoscere, costituendo una possibilità
della ed entro la natura, sta nel fatto che soggetto e oggetto hanno la stessa radice
metafisica (come viene espresso nel mito di Atteone). Ciò significa, secondo Bruno,
valorizzare la corporeità in quanto pone le condizioni di ciò che può diventare la stessa
natura manifestandosi in una qualsiasi complessione fisica. Infatti la superiorità o
inferiorità tra gli esseri viventi viene stabilita in base alle possibilità che ciascuna
costituzione corporea ha di trasformarsi in strumenti: quanto più largo è l'uso che un
essere può fare della propria corporeità, tanto più diverse possono essere le sue operazioni.
L'uomo dunque si differenzia dagli altri esseri viventi: la sua eccellenza è il risultato di un
processo mediante il quale le operazioni rese possibili dalla sua corporeità hanno potuto
accumularsi consentendo il passaggio alla sfera della cultura e spezzando la vicissitudine
ciclica del cosmo. Se dunque la cultura deriva con passaggio obbligato dalla corporeità,
essa si pone in continuità con la natura nel senso che la complessione corporea dell'uomo
dà origine a fenomeni non previsti nel ciclo naturalistico. In questo contesto si può
collocare l'importanza che Bruno, con evidente richiamo ad Anassagora attraverso la
mediazione di Lucrezio, attribuisce alla mano (peraltro un topos della cultura
cinquecentesca): infatti è il possesso di questo meta-strumento che può provocare
comportamenti naturali che stabiliscono il passaggio da natura a cultura. Essendo capace di
produrre una molteplicità di strumenti, essa determina un rapporto che altera le condizioni
di partenza consentendo la moltiplicazione delle tecniche e lo sviluppo della civiltà quale si
evidenzia nel quadro che si para davanti agli occhi di Bruno: nuove scoperte geografiche,
nascita di nuove ricchezze, sfruttamento della natura, aumento delle invenzioni,
organizzazione razionale dello stato. Secondo Papi non c'è contrasto tra la mistica
dell'Assoluto e la valorizzazione della vita attiva, dato che vi è una natura immutabile e
una natura artificiale, una necessità che non può mai essere superata e una libertà che
può continuamente rinascere attraverso la mediazione della conoscenza (che
comprende anche la magia, fondata sull'omogeneità strutturale di uomo e natura) e del
lavoro. Tuttavia si può notare una tensione, una scissione irrisolta poiché il processo di
crescita della civiltà è inscritto nel cerchio della natura che tutto comprende e in cui
tutto di dissolve (così come l'uomo è un tutto in relazione a quello che ha costruito, e
un niente in relazione all'infinità immutabile del tempo): il mondo umano sembra così
subire un processo di innichilimento, virtù e vizio sembrano cadere nell'indifferenza
dell'identità. L'uomo non può sfuggire alle condizioni naturali che sono intrinseche al
suo seme connesso in natura con gli altri semi del vivente: egli vive la sua avventura
naturale tutto risolto nel rapporto che si costituisce tra la necessità che vive in lui e la
contingenza che si esplica nella sua vita mondana. L'ordine dell'universo è dunque
regolato dalla necessità, ma quest'ordine si riferisce alle vicende naturali e non tocca la
civiltà dove trovano luogo la libertà e la dignità dell'uomo. Egli come struttura
corporea deve agire poiché così è scritto nel suo seme; ma agisce in connessione con
l'intelligenza, cosicché mano e intelligenza sono inseriti nella struttura corporea
dell'uomo in modo originale, tale da determinare un mondo nel mondo dove la
necessità naturale non è eliminata ma incorporata in una struttura nuova.
L'influenza della Yates (senza per questo risultare esclusiva e monopolizzatrice del
senso della ricerca) sembra essere più marcata nel lavoro di A. Ingegno "Cosmologia e
filosofia nel pensiero di G.B." (La Nuova Italia, Firenze 1978), che raccoglie diversi
saggi dell'autore scritti lungo un decennio. Il tema della rivoluzione astronomica viene
colto, al di là degli aspetti tecnici, all'interno di un più ampio contesto culturale, a
partire dalla domanda circa gli elementi sui quali Bruno abbia fondato le sue certezze
delle ragioni di Copernico. Il fatto che egli presenti in chiave di catastrofe naturale la
crisi del sistema aristotelico viene giustificato con la conoscenza della letteratura
astrologica in cui è delineato il verificarsi di immani eventi cosmici in relazione alla
fase finale in cui è entrato il vecchio mondo (e nello "Spaccio" Bruno mostra di
credere al verificarsi di un'immane congiunzione astrale). Dunque in Copernico si
compie ciò che è indicato nell'Apocalisse, l'avvento di cieli e terra nuova (che in
termini fisici significa eliminazione del geocentrismo, del primo mobile, dell'ultimo
cielo): egli è stato un segno divino e Bruno l'unico vero interprete. Le spiegazioni della
nuova astronomia, mentre chiariscono la reale portata e natura dei fenomeni,
forniscono le prove più sicure che essa rappresenta qualcosa di origine superiore che
comporta anche conseguenze morali, poiché comprendere l'operato divino significa
come vivere bene. Se seguire Dio è seguire la natura, il distacco dalla visione cristiana
non potrebbe essere più profondo: la magia è la sola religione efficace sul piano
pratico, e perciò l'unica vera. Ingegno interpreta in questa chiave anticristiana il primo
dei dialoghi italiani, dove Bruno si presenterebbe come avente una missione religiosa,
dato che distribuisce la vera cena e proprio nel giorno delle ceneri, cioè nel momento
iniziale di un' epoca che segue ad un periodo di corruzione e sconvolgimenti. La sua
cena riguarda un futuro che si apre solo se si riconoscono gli errori del passato a
cominciare dal contrasto tra divinità e natura. Anche lo "Spaccio della bestia
trionfante" è interpretato nel suo significato anticristiano: la bestia è lo stesso
cristianesimo, sia cattolico che protestante, di cui Bruno intende attaccare i valori
fondamentali rivelando il vero significato di quei testi (Genesi e Apocalisse) di cui a
torto le chiese affermano di possedere la chiave ermeneutica. La "Cena" e lo "Spaccio"
sono dunque i due dialoghi in cui, sui due piani del vero e del buono, vengono
denunciati i guasti prodotti dal cristianesimo (guerre, divisioni ecc.). Risalendo con
Copernico alle radici dell'errore, il sapiente è in grado di valutarne le conseguenze
nefaste sia filosofiche che politiche e morali. Di conseguenza il copernicanesimo
significa per Bruno una religione alternativa, la magia e la capacità di produrre influssi
sulla vita civile: ma, appunto, la nuova teologia richiedeva una nuova astronomia e una
nuova concezione dell'universo. Da questo punto di vista secondo Ingegno per Bruno
sarebbe rilevante non il problema dell'immanenza, quanto piuttosto quello del corretto
rapporto tra questa e la trascendenza, pensate in un nesso inscindibile e di
complementarietà e realizzato nel momento in cui Dio viene visto come un insieme
presente in ogni cosa ma non circoscrivibile in esso, partecipantesi a tutto senza che nulla
possa esaurirne la natura e la potenza. Per questo Bruno rivaluta la teologia negativa e la
religione degli antichi entrambe consapevoli di questo duplice rapporto, rompendo non
solo con l'aristotelismo ma con tutto il cristianesimo e un certo platonismo (quello
umanistico di Ficino). Egli non annulla la distinzione tra mondo sensibile e intelligibile, ma
la ripropone nel senso che il primo è l'immagine del secondo che a sua volta è verità del
primo. Così Dio è legato al mondo e ne è insieme svincolato, è libertà e necessità secondo
un nesso inscindibile che pone l'intelligibile all'interno delle manifestazioni sensibili anche
se queste ultime non lo esauriscono. Certo non è più possibile separare, come nella vecchia
cosmologia, operato divino e operato della natura, anche se poi si verifica la
sovrapposizione alla spiegazione fisica dei fenomeni celesti quella della teologia astrale.
Essa risulta centrale soprattutto nello "Spaccio" (la struttura dell'opera poggia sulla
convinzione che nell'uno-tutto vi sia un nesso tra cicli cosmici e rinnovamento delle
credenze religiose), che si propone di purificare, attraverso l'ermetismo, lo zodiaco pagano
dalle immagini del vizio identificato con il cristianesimo e il disordine che ha prodotto in
Europa. In questa prospettiva Ingegno studia il tema dell'idolatria. Apparentemente Bruno
è vicino alle posizioni cattoliche circa l'uso delle immagini anche se il suo è ovviamente
diverso in chiave magica. Del resto cattolici e protestanti concordano nel rifiutare
l'adorazione di semplici creature che per Bruno sono il segno del legame tra religione
ebraica ed egizia (alcuni episodi della storia di Mosè mostrerebbero un chiaro significato
magico) in seguito perduto. Peraltro se i protestanti accusano i cattolici di idolatria senza
strumenti per sradicarla, ciò significa che non capiscono il valore di utilità morale che le
immagini rivestono. Al contrario il carattere operativo (magico) dell'antica religione
scaturisce dalla convinzione che la divinità non può essere attinta nella sua essenza mentre
l'unico culto possibile è quello che realizza il rapporto con la natura e le forma in cui
questo rapporto si realizza. L'idolatra pagana scaturisce dall'impossibilità di giungere al
divino direttamente e dalla necessità di trovare il modo con cui esso comunica con la
natura. Al contrario la pretesa cristiana di dare vita ad un culto diretto della divinità è già
spia della sua incapacità di ottenerne i favori con efficacia: ciò significa che nel
cristianesimo c'è idolatria ma senza giustificazione. Sotto questo aspetto i protestanti
hanno ragione di evidenziare l'idolatria dei cattolici, ma la loro accusa presuppone proprio
quella pretesa (un rapporto immediato con Dio) che è matrice dell'errore. Non vedendo il
nesso tra Dio e religione pratica, il cristianesimo ha finito per recidere tale legame attuando
un culto della divinità nella sua assolutezza. Perciò i cristiani non solo sono idolatri, ma lo
sono imitando e fraintendendo gli egiziani e gli altri pagani che cercavano la divinità in
cose vive mentre essi la cercano in cose morte. Secondo Bruno il corretto rapporto tra
trascendenza e immanenza definisce anche il senso della magia; di conseguenza lo smarrirsi
del primo rapporto (cioè la presenza di Dio nelle cose pur non esaurendosi in esse),
verificatosi con Aristotele, porta all'oscurarsi del rapporto tra Dio e natura e quindi alla
perdita dell'efficacia pratica della religione. Invece Bruno riconosce alla magia lo stato di
autentica religione, poiché è solo attraverso essa che la divinità provvede ai bisogni
dell'uomo, dal momento che essa vuole solo ciò che è possibile e naturale. Attraverso
Copernico la magia si ricostituisce come "prisca religio" in contrapposizione al
cristianesimo: ridando al cosmo la sua vera immagine (e quindi il vero rapporto
trascendenza-immanenza), l'astronomo polacco ha mostrato il vero volto della religione
antica, incompatibile con la nostra. Certo, la magia è un sapere esoterico per pochi eletti;
tuttavia i simboli, mentre celano un contenuto più alto, nello stesso tempo lo rendono
accessibile in forma sensibile stabilendo in tal modo una corretta trasmissione del vero. Per
questo la religione primitiva è verità originaria, colloquio diretto tra gli uomini e gli dei; al
contrario è il cristianesimo a traviare il senso della rivelazione, nel momento stesso in cui
ha perduto la chiave interpretativa dei testi sacri (Genesi e Apocalisse soprattutto). Bruno
l'ha ritrovata (e non va confusa con la pretesa novità filologica dell'umanesimo, che è
pura pedanteria data l'estrinsecità dei suoi criteri), ed ecco il motivo della superiorità
della sua filosofia. Essa insegna che gli dei hanno voluto che l'uomo fosse simile a
loro, e per tale motivo gli hanno dato la libertà che significa agire e mutare la natura
mediante i doni della mano e dell'intelletto. Il mutare la natura è esso stesso un fatto
naturale: la struttura che spinge l'uomo ad operare avvicinandosi agli dei lo radica
maggiormente nella natura. Ingegno segnala a questo punto la difficoltà che incontra il
pensiero di Bruno che mentre rivendica l'importanza del lavoro in vista di una
completa naturalizzazione dell'uomo, mantiene fermo il principio del determinismo
come traccia inviolabile della divinità. Di qui l'impossibilità di separare l'operare
magico da quello della natura e nello stesso tempo la necessità di far rientrare il primo
in una sfera che non può essere sostanzialmente modificata. Il sapiente sa di muoversi
in una realtà che non gli è estranea, purché sia in grado di vederla nella complessità dei
suoi diversi aspetti: infatti il rigore delle leggi di natura non può non investire l'uomo, e
l'equilibrio uomo-natura è lo stesso che il rapporto uomo-divinità. In questa
prospettiva risulta allora fondamentale la conoscenza: agire è prima di tutto un atto
dell'intelletto. Attraverso di esso sarà possibile cogliere il riflesso nell'uomo dell'identità
divina di libertà e necessità.
A partire dagli anni Ottanta il paradigma ermeneutico della Yates viene
esplicitamente ridimensionato: ridotta a mago, la figura di Bruno risulta deformata,
insieme amplificata e contratta. Si fa largo la consapevolezza che ad un mito se ne è
sostituito un altro: alla visione laica, scientistica e progressista, si è contrapposta quella
magica e religiosa che priva il pensiero bruniano dello sguardo sul futuro. Si è insistito
sulla perennità e continuità di una tradizione, ma non si è visto il suo intreccio con altri
fattori costitutivi della modernità, il cui nesso con Bruno è apparso offuscato.
Beninteso, anche in precedenza si erano levate voci critiche verso un'assunzione
troppo disinvolta ed acritica delle tesi della studiosa inglese. Risalgono al periodo '73'76 alcuni articoli di P. Rossi (riuniti poi nel volume "Immagini della scienza", Roma
1977) dove, insieme con i meriti, vengono evidenziati i limiti di uno studio, peraltro
imprescindibile, come "G.B. e la tradizione ermetica". Il punto centrale del dissenso
riguarda "la tendenza a sottolineare esclusivamente gli elementi di continuità fra la
tradizione ermetica e la moderna immagine della scienza", tanto da trarre
"l'impressione che l'intento della Yates sia quello di ricondurre la seconda fase
(meccanicistica) della cosiddetta rivoluzione scientifica alla prima fase (magicoermetica), e che lo studio delle interazioni fra queste due fasi debba servire a
dimostrare che la prima fase non ha avuto, né avrà mai fine". In discussione è dunque
lo specifico della modernità di cui la scienza costituisce una delle manifestazioni più
notevoli. Su questo argomento negli stessi anni ha scritti pagine di straordinario vigore
speculativo H. Blumenberg in "La legittimità dell'epoca moderna" (Marietti, Genova
1992). Secondo il filosofo tedesco "per il Nolano la riforma copernicana è sì compiuta
e ha valore di una verità indubitabile; ma essa è ancora rinchiusa nel linguaggio
tecnico, per lui inquietante, dell'astronomia matematica, che poteva solo celare la
necessità di ripensare radicalmente le premesse dell'esistenza umana e di distruggere il
sistema in cui egli si sentiva al sicuro". Di qui la sua contestazione radicale
all'incarnazione dato che l'universo postcopernicano non può fornire più alcun luogo
designato e alcun substrato eminente per l'atto di salvezza divino: "solo il cosmo
infinito stesso può essere la fenomenalità, qualcosa come l'incarnazione della divinità,
che per il Nolano era divenuto impossibile pensare come persona" Per questo il
paganesimo di Bruno non diventa né ritorno né rinascita degli antichi dei, ma mezzo
trasparente attraverso il quale deve essere reso visibile il fondo morale della
formazione di figure del divino. Egli vede le figure e gli esseri come possibilità
equivalenti nel tempo per continue partecipazioni, in un' eterna ridistribuzione delle
parti attraverso la quale viene compiuto il poter trasformarsi di tutto in tutto. "Nel
nuovo modello la divinità non solo porta innumerevoli nomi per una sostanza
trascendente soggiacente (..), ma è la divinità che appare in tutte le figure senza divenire
completamente una di esse e senza mischiarvisi definitivamente", realizzando una
congruenza tra divinità e mondanità. "Se il mondo in quanto creazione esaurisce
assolutamente le possibilità del fondamento dell'essere, diventa una contraddizione
pensare che la divinità possa aver realizzato una possibilità nuova e peculiarissima dopo la
creazione e all'interno di essa, anzi contro di essa. Se il mondo come tale rappresenta già in
modo credibile l'autodispendio di Dio, Egli non può essersi fatto ancora una volta evento
storico di un'incarnazione nel mondo". Secondo Blumenberg Bruno mostra alla sua epoca
che il nuovo punto di vista dell'incommensurabilità otticamente inattesa del mondo degli
astri, conseguenza dell'abbandono della visione geocentrica, non doveva necessariamente
essere tradotto nella delusione del rimpicciolimento e dell'annientamento dell'uomo di
fronte all'universo. Piuttosto questo poteva essere il prezzo per il superamento della
coscienza tormentosa della contingenza sperimentata su sè e il mondo in seguito al
cristianesimo.
Nel panorama del rinnovamento degli studi bruniani, il contributo più notevole lo ha
certamente recato M. Ciliberto a partire da "La ruota del tempo" (Ed. Riuniti, Roma 1986),
che lavora sulla base della consapevolezza che interpretare oggi Bruno significhi
ricostruirne il pensiero individuandone mutamenti e costanti. Infatti esso è distinto in
fortissimi, continui elementi di rielaborazione e autoripensamento, con paradossali ritorni
al passato e proiezioni al futuro. La sua filosofia è molto ricca e articolata, non
riconducibile a un solo tema o a una sola posizione: per questo è necessario distinguere
fasi, momenti e programmi di ricerca per individuarne la pluralità dei quadri teorici
elaborati secondo linee di scorrimento distinte da svolte, crisi, fratture, arretramenti che
impongono una pluralità di livelli di lettura e di punti di vista. Tra questi Ciliberto sceglie
una prospettiva di lettura che privilegia l'ambito etico-politico dell'esperienza inglese,
ponendo al centro due archetipi o strutture quali l'asinità e la pedanteria che servono ad
illuminare, una volta che se ne siano messe a fuoco costanti e mutamenti, le trasformazioni
e le sistemazioni tematiche e concettuali nella mente di Bruno. Se l'asinità è facilmente
identificabile con l'ignoranza, più complesso è il discorso riguardante la pedanteria: in
generale essa incarna una visione del mondo antitetica ad una concezione positiva e non
oziosa del sapere e della vita, che va combattuta perché disintegra la società e l'ordine
umano e naturale. Se nel "Candelaio" questa figura sta a significare la degenerazione
umanistica, nel periodo inglese essa si identifica fondamentalmente con Lutero: ciò è
parallelo alla polemica anticristiana e alla riduzione del cristianesimo a paolinismo e
religione riformata con la conseguente persuasione che la pedanteria sia la causa della crisi
e della decadenza attuale che invade il mondo e devasta il sapere. Essa diventa quindi la
chiave interpretativa della realtà, mentre asinità, pedanteria e cristianesimo si intrecciano
nella stessa corrente polemica. Distruggere la pedanteria significa allora veder rinascere la
civiltà: perciò la critica alla pedanteria si intreccia con la battaglia copernicana, con la
riforma cosmologica e gnoseologica, con la lotta in difesa della sua filosofia dalla critica dei
dottori oxoniensi in nome della lettera biblica. Infatti nella figura del pedante si saldano
una concezione grammaticale del testo sacro, la visione tolemaica del mondo, una
concezione della vita che esalta l'ozio e l'asinità, il rifiuto dei fondamenti della scienza e
della società. Ciliberto tende a sottolineare il significato antiriformato della polemica
bruniana: il pedante è Lutero che con la sua dottrina distrugge la repubblica seminando
odio in nome del vangelo. Se a Parigi Bruno non è ancora interessato alla problematica
etico-politica, questa balza in primo piano nel periodo inglese quando vengono
abbandonate le tendenze concordatarie tra la Scrittura e la sua filosofia con la scoperta
della religione civile (dei Romani) e naturale (degli Egizi) e del nesso tra etica, religione e
conoscenza. Nello "Spaccio" si sostiene pertanto la tesi che la migliore religione è quella
che, come presso gli antichi, riconosce il valore delle opere umane, il loro significato
sociale che rinsalda le repubbliche ed incrementa il pubblico bene. Se dunque il culto
divino non ha altro fine che il buon vivere degli uomini, l'asinità si configura come il luogo
d'origine, come la ragion d' essere della pedanteria, in particolare quella riformata (con la
Chiesa cattolica, che apprezza e sostiene la dottrina delle opere buone, Bruno ritiene
possibili delle convergenze di carattere civile e politico), che trova la sua principale
matrice primaria nell'esaltazione della santa ignoranza fatta da S. Paolo e S.Agostino.
Ciliberto insiste sulla scansione cronologica del pensiero bruniano: sotto questo
aspetto l'opera principale del periodo parigino (tra il 1582 e il 1583), il "De umbris
idearum", costituisce una specie di laboratorio dell'intera ricerca del Nolano dove sono
presenti tutti i temi destinati ad essere successivamente svolti ed approfonditi.
Soprattutto si possono notare i motivi ermetici, che tuttavia si configurano in termini
più pacati nella loro valenza anticristiana. Solo successivamente l'interesse si sposta
dalla gnoseologia e dalla mnemotecnica verso la cosmologia; ma su questo terreno, nel
fuoco della polemica con i teologi di Oxford, viene scoperto anche il nesso tra
conoscenza ed etica (significativo che nel "Cantus circaeus" la purificazione morale si
costituisca come fattore prepedeutico all'arte della memoria). Ancora: se a Parigi la
mano è strumento di violenza e sofferenza di cui gli animali sono sprovvisti, a Londra,
nel pieno della disputa antiriformata, essa riveste una funzione positiva quale mezzo di
cui l'uomo si serve per costruire la civiltà. Essa è il fondamento del libero arbitrio e
perciò opposta all'orecchio che invece è condizione della fede (fides ex auditu,
secondo la definizione paolina ed agostiniana). Qui Bruno individua nella religione
oziosa (Lutero) ed ascetica (la controriforma cattolica con le sue pratiche devozionali e
l'esaltazione dell'imitatio Christi) la causa della decadenza universale delle opere, del
sapere, dei costumi a motivo dei suoi effetti nefasti sulla vita sociale. In Francia
prevale l'atteggiamento conciliativo, ma in Inghilterra si insiste sulle differenze, sulle
distinzioni nei rapporti tra religione e civiltà, tra etica e conoscenza. Anche se i suoi
primi scritti (la "Cena" e l'"Epistula valedictoria") sono più un invito alla discussione e
al confronto che cerca di evitare la rottura radicale, il fallimento oxoniense, dovuto
all'adesione al copernicanesimo (e non per la ripresa dei temi di magia desunti da
Ficino, come vuole la Yates) e all'esposizione del suo programma di ricerca del sapere,
apre la strada alla scoperta dell'etica quale condizione dello sviluppo della scienza e
dell'umanità. L'esame della "Cena", prima opera in volgare pubblicata in Inghilterra,
mette in luce la convinzione bruniana di aver scoperto l'antica verità riservata a pochi
sapienti. Filosofia e religione hanno autonomia e assolutezza ciascuna nel proprio
campo, ma certo non possono conciliarsi (come veniva prospettato nel "De umbris"):
la verità è solo della filosofia (la cui ricerca non è più limitata al piano dell'utilità e del
verisimile) che perciò si ritira dal campo pratico e civile lasciato alla Scrittura. Caduta la
convinzione di un linguaggio universale, tuttavia Bruno non sembra rinunciare al tema
dell'unità: ciò significa che da un lato il sapere conserva una funzione civile, e dall'altro
che la Scrittura non ha solo un valore pratico. Occorre distinguere, nel discorso su
Dio, tra metafora e verità, tenere separati i codici ed i livelli: ma dalla distinzione può
riemergere l'unità che attiva una relazione di reciprocità tra legge e verità. Tuttavia
secondo Bruno il criterio di differenziazione è costituito dalla natura, senza la cui
conoscenza non si può leggere adeguatamente la Scrittura ed intenderne i vari
linguaggi. Nella prospettiva aperta da Ciliberto, Bruno da un lato insisterebbe sulla
distinzione tra filosofia e religione, dall'altro ne ridefinirebbe il piano d'incontro
riproponendo l'unità di linguaggio divino, naturale, umano. Egli svolge l'uno o l'altro
argomento a seconda delle prospettive e delle discussioni, che si snodano attraverso gli
altri dialoghi metafisici, il "De l'infinito" e il "De la causa".
Secondo Ciliberto si assisterebbe ad una svolta solo con lo "Spaccio" (e con "La cabale
del cavallo pegaseo", vera e propria riscrittura ironica dell'"Elogio della follia" come
elogio dell'asinità), steso nel contesto dello scontro tra la corona e i puritani di cui
Oxford era diventato un centro di propaganda e con i cui dottori Bruno si era
scontrato. Qui nel mirino della polemica cade la pedanteria identificata con il
cristianesimo paolino di cui Lutero è la massima espressione. Vero angelo del male,
egli ha avvelenato il mondo e ne ha sconvolto l'ordine perseguitando e opprimendo:
sotto questo aspetto lo "Spaccio" costituirebbe una vera e propria risposta al "De
servo arbitrio" di cui rovescia i valori mentre si annuncia il risorgere dell'antica
religione con il suo nesso tra Dio, uomo, natura. Cogliendo una significativa sintonia
tematica con i "Discorsi" di Machiavelli (opposizione tra ozio e virtù, la religione come
principio di mantenimento e sviluppo della civiltà come nel caso della religione eroica e
civile dei Romani), Ciliberto mostra come Bruno dissolva la teologia nella religione civile
mentre avanza la necessità dell'individuazione di un nuovo principio religioso (il
cristianesimo che doveva essere strumento di governo è diventato strumento di corruzione
sia dei costume che del sapere) ed etico a fondamento della vita civile e del rapporto con la
natura. L'antica unità tra sapere, opere e costumi si è infranta, scienza filosofia e religione
si sono separate e corrotte, il mondo è invecchiato. Senza buoni costumi non c'è scienza:
perciò restaurare il sapere vuol dire ricostruire la base etico-religiosa del consorzio umano
dissolto dai pedanti. Per questo nello "Spaccio" si insiste sull'azione, sul lavoro (la mano),
sul merito e sul loro riconoscimento all'interno di un ambito caratterizzato dall'esperienza
individuale e dalla sua storia dove mediante il lavoro si cerca di trasformare la Fortuna
cieca in Provvidenza (nei dialoghi cosmologici infatti la moralità consisteva nel
superamento della visione parziale e casuale della realtà e con la conoscenza dell'ordine
naturale in cui la storia si dissolve nell'uguaglianza di tutti i destini), che appunto è frutto di
quell'intreccio di merito e fortuna in cui l'uomo trova la propria libertà. In questa
prospettiva restaurare la natura significa ristabilire le differenze rispetto all'indistinzione
cieca e gratuita. L'ultima parte del lavoro di Ciliberto è dedicata all'esame del problema del
linguaggio. Partendo dall'osservazione che Bruno definisce sempre i propri termini
distinguendoli dagli analoghi della tradizione aristotelica e dell'uso comune nella
consapevolezza della pluralità delle forme espressive, ne viene messa in evidenza anche la
disponibilità nei confronti delle altre filosofie la cui validità non è valutata sulla base di
criteri pregiudiziali ma dell'unica pietra di paragone che è la natura (Aristotele invece viene
accusato di aver falsificato la filosofia degli altri). In particolare nel "De la causa" è
evidente l'ammissione della compossibilità di più lessici teorici da decifrare ciascuno nella
propria specificità per evitare confusione. Parole, voci ecc. non esauriscono il loro
significato nell'ambito di una sola tradizione valida una volta per tutte, ma variano a
seconda della filosofia in cui si dispongono. Ma la pluralità dei linguaggi si giustifica in base
anche alla differenza dei loro oggetti e quindi delle forme di vita: non c'è corrispondenza
univoca tra nomi e oggetti e quindi non esiste un'unica lingua perfetta. Mentre i pedanti e i
filologi si fermano alle parole, si può penetrare un pensiero o una filosofia superando i
limiti linguistici mediante la focalizzazione dell'attenzione sulle cose piuttosto che sui segni.
Del resto anche l'astronomia è una lingua e gli astronomi sono come dei traduttori; sia il
libro di Dio sia quello della natura hanno bisogno di chiavi esplicative per poterne
penetrare il contenuto. In definitiva la critica del linguaggio in Bruno consiste a) nella
critica all'impostazione grammaticale e filologica (e matematica se ci si riferisce
all'astronomia) che non penetra nella natura e nei problemi filosofici; b) nella ricerca di un
livello di comunicazione in grado di esprimere la molteplicità dei linguaggi dell'uomo, della
natura, di Dio, restaurando gli elementi di una nuova unità. E' proprio la riscoperta
dell'antica sapienza che porta alla luce una serie di piani comunicativi e con essi la pluralità
(e relatività) dei linguaggi che la nuova filosofia è in grado di esprimere insieme con la
varietà della realtà e la ricchezza dell'esperienza. Perciò da essa possono scaturire nuove
concezioni etiche, politiche, religiose antitetiche a quelle dei pedanti. Presso gli egizi la
comunicazione con gli dei era possibile mediante una lingua sacra, originaria, fondamento
della magia e della conoscenza della verità. Oggi la lingua si è corrotta e con essa anche la
sapienza: uomini e dei si sono separati e sono incapaci di parlarsi. In questo consiste la crisi
della civiltà: corruzione della visione della verità, della concezione della divinità, del sapere
e dell'azione umana. Ricostruire l'unità e la comunicazione vuol dire pertanto riscoprire la
lingua originaria (delle figure, dei simboli, dei gesti): senza riforma della lingua non c'è
renovatio mundi. Ed ecco quindi il sogno di Giordano Bruno: risalire alle radici, alla
giovinezza, restaurare l'infinita pluralità dei linguaggi della vita e ricostruire la
comunicazione tra Dio, uomini e natura dopo la crisi e la loro separazione.
Dopo questo volume Ciliberto ha proseguito la sua ricerca pubblicando edizioni
commentate dei testi bruniani e offrendo un ricco lavoro di sintesi nel suo "Giordano
Bruno" (Laterza, Bari 1992) dove riprendendo i temi indicati nello studio precedente, viene
ricostruita la complessità della personalità e del pensiero del Nolano (specialmente i
suoi rapporti con la "modernità") attraverso un itinerario che ne mostra l'evoluzione
sullo sfondo degli ambienti in cui è vissuto e delle problematiche che via via ha dovuto
affontare.
Tra gli studi degli ultimi anni si segnala, per ricchezza di informazione ed
approfondimento d'analisi, quello di L. Spuit su "Il problema della conoscenza in
G.B." (Napoli, Bibliopolis 1988) che intende sondare il pensiero del Nolano sullo
sfondo della tradizione gnoseologica, non ermetica, dell'età rinascimentale,
comprendente quindi autori platonici e aristotelici. Constatato che dopo il 1585 non si
è verificata alcuna rottura nel suo pensiero (concentrato su quattro poli: cosmologia,
critica ad Aristotele, organizzazione della conoscenza - con le opere lulliane e
mnemotecniche -, magia - vertente sulle possibilità operative dell'uomo), lo studioso
olandese evidenzia il nesso indissolubile tra metafisica e gnoseologia, che si prospetta
secondo uno schema circolare poiché i fondamenti della conoscenza sono nella
struttura della realtà che a sua volta determina le nostre possibilità e capacità
conoscitive. In altri termini la struttura ontologica fonda l'epistemologia che nello
stesso tempo è parte della struttura medesima. Con Ciliberto, anche Spruit nota il
carattere complesso del pensiero bruniano che spesso cerca una soluzione per i
probleme tradizionali mediante la radicalizzazione delle dottrine classiche.
Nell'ampiezza dei temi affrontati, cambia lo stile (in corrispondenza del contenuto e
dell'intendimento) che si serve di una terminologia di grandi sfumature. Infatti Bruno
ha consapevolezza della particolarità della sua filosofia rispetto alla tradizione, peraltro
da lui sempre liberamente usata, anche se non la considera un punto d' arrivo
definitivo poiché il tempo (analogamente allo spazio nella problemarica cosmologica)
non ha un centro; malgrado il suo carattere ciclico, esso non è immutabile poiché
conserva la possibilità della crescita. Per questo Bruno non può essere inteso sulla base
della sola tradizione dalla quale pure trae ispirazione ma dalla quale
contemporaneamente si distacca. Tuttavia Spruit invita a non trascurare le fonti che
danno struttura, significato e contenuto alle sue teorie e ai suoi concetti.
Infatti Bruno parte dal presupposto che ogni dottrina possa essere feconda: così egli
accetta i principi dell'avversario per poi trarre le proprie conclusioni secondo un
metodo di reductio ad absurdum. Si può così affermare che componga le proprie
teorie mediante la verifica delle tesi altrui, nella convinzione che le tradizioni, mai
escluse a priori, assumano un nuovo significato alla luce delle sue conclusioni (ciò vale
anche per quella ermetica il cui valore parodistico contenuto nel "De la causa" non è
riconosciuto dalla Yates). Così il Nolano è il primo autore che non sente il bisogno di
legittimare la propria filosofia sulla base di autori, scuole e tradizioni accreditate; per
questo egli si rivolge non a specialisti ma ad intellettuali di più ampia formazione
culturale. La sua è una filosofia aristocratica, esoterica; il suo pensiero è complesso
tanto da comprendere necessariamente anche aspetti contraddittori (che quindi non
costituiscono un limite da rimproverargli, come fa la Vedrine). Naturalmente la parte
più cospicua del lavoro di Spruit è costituita proprio dall'esame del problema della
conoscenza e delle sue condizioni ontologiche e psicologiche, che l'autore conduce
con estrema acribia collocandolo all'interno di un dibattito in cui intervengono
un'ampia gamma di autori (da Tommaso a Ficino, da Pico a Plotino, Pomponazzi ecc.)
i cui testi sono riportati e confrontati con alta competenza e finezza d'analisi. Da essa
si evince che la filosofia è contemplazione naturale dell'unità dell'universo in cui il
filosofo cerca il divino. A conclusione della sua indagine Spruit è disposto a
riconoscere in Bruno la permanenza di un aspetto trascendente della divinità, anche se
di essa il filosofo non si occupa: metafisicamente Dio e universo sono distinti, mentre
la loro unità si pone a livello fisico. Infatti se Dio garantisce l'unità dell'universo non si
può identificare con esso: come principio strutturale Dio rimane distinto da ciò che
unisce.