L’AZIONE DI CLASSE PRIVATA Sommario: 1) introduzione; 2) Genesi storica. Cenni; 3) Legittimazione attiva e soggetti tutelati: a) I consumatori e gli utenti; b) gli investitori; 4) Legittimazione passiva e competenza territoriale; 5) le situazioni sostanziali protette; 6) L’accertamento della responsabilità e condanna al risarcimento del danno o alla restituzione di somme; 7) Le causae petendi dell’azione di classe: a) Contratti stipulati tra consumatori o utenti ed una medesima impresa anche ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cc; b) Responsabilità del produttore; c) Pratiche commerciali scorrette; d) Comportamenti anticoncorrenziali; 8) Il procedimento: a) La fase preliminare; b) Condizione di ammissibilità della domanda; c) La “opportuna pubblicità”; d) Il contenuto dell’ordinanza che ammette l’azione di classe; e) La sentenza; f) La fase di appello; 9) Le rinunce e le transazioni; 10) La mini retroattività; 11) Il sistema dell’opt-in: a) L’adozione del sistema dell’adesione: premessa; b) La natura dell’atto di adesione; c) Il contenuto e il termine per il deposito dell’atto di adesione; d) Pregi e difetti dell’opt-in; 12) Conclusione: i vantaggi dell’azione di classe. 1.Introduzione. Dopo anni di discussione in parlamento e di fermento dottrinario, il legislatore (a seguito di proposta partita dal Governo) è giunto ad elaborare una nuova azione processuale, lontana dai classici modelli di matrice romanistica tipici dei Paesi di civil law. Pochi, però, sanno che il problema di garantire una tutela ad una massa più o meno determinata di persone non nasce nell’era moderna, ma si era posto già nel diritto romano, trovando spesso soluzione nella c. d. actio popularis (D. 47, 23, 1) concessa civis et populo in difesa tanto delle res sacrae quanto delle res publicae. Tale azione costituiva una prima embrionale forma di coordinamento della promozione di valori superindividuali con l’iniziativa processuale privata. Inoltre, bisogna riconoscere che la tanto acclamata class action non è un istituto presente solo negli States, ma ormai da decenni è presente anche in Stati con Ordinamenti tipicamente di civil law: si pensi al Brasile in cui la Ação Civil Pública” (Azione Civile Pubblica) è presente sin dal 1985, o alla Francia in cui la action en representation conjonte (azione collettiva) è presente fin dal 1992 e così via. 1 Ormai è un istituto in piena diffusione, tanto è vero che la volontà del Commissario Europeo per la tutela dei consumatori, Meglena Kuneva, ha sottolineato la necessità di un intervento sistematico europeo in materia di class action a tutela dei consumatori. Infatti, nella Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo ed al Comitato economico e sociale europeo del 13 marzo 2007 dal titolo “Strategia per la politica dei consumatori dell’UE 2007-2013”, tra le azioni previste vi è quella diretta al miglioramento del controllo dell’applicazione e delle vie di ricorso con la creazione di meccanismi di ricorsi collettivi in caso di inadempimento della regolamentazione a tutela dei consumatori. Ritornando alla riforma italiana, occorre da subito fugare in radice un dubbio: questa azione è solo alternativa e sussidiaria a quella tradizionale individuale. Riprendendo una nota metafora utilizzata da un autorevole Maestro e studioso (Andrea Giussani), possiamo paragonare un simile strumento processuale alla possibilità, in una città il cui trasporto urbano sia compiuto solo dai taxi, di offrire anche il trasporto in autobus. Naturalmente chi parteciperà all’azione di classe non potrà più far valere i suoi diritti in via individuale. Il legislatore concede la possibilità al consumatore/utente di scelta fra due azioni, ma non concede una doppia tutela cumulativa. Procedendo con ordine, appare necessario sottolineare che con la legge del 23 luglio 2009 n. 99, pubblicata sulla GURI n. 176 del 31 luglio 2009, supp. Ord. N. 136, all’art. 49, il legislatore ha provveduto a sostituire integralmente l’art. 140 bis del Codice del Consumo (mai entrato in vigore), introducendo e disciplinando l’azione di classe, che è divenuta efficace il 1° gennaio 2010 per fatti commessi dal 15 agosto 2009 in poi. Di conseguenza anche il nostro Paese è entrato a far parte di quel novero di ordinamenti giuridici che al loro interno riconoscono una tutela risarcitoria in forma “aggregata” degli interessi limitati esclusivamente ai consumatori ed utenti. 2 L’introduzione delle cd class actions nell’area anglosassone (la definizione del termine class action appare per la prima volta negli Stati Uniti e risale alla Federal Equità Rule 38 del 1912, che ha ridisegnato l’istituto già ammesso dalle Corti americane sin dal 1842), secondo un illustre giurista costituisce l’evento più importante nel quadro della cultura giusprivatistica moderna (così, V. VIGORITI, «Class action e azione collettiva risarcitoria. La legittimazione ad agire», in Contr. e impr., n. 3/2008, pag. 731). L’introduzione di un’azione di classe ha il merito di assumere una pluralità di funzioni. In primis, come del resto è facilmente intuibile, essa rafforza la possibilità del singolo alla giustizia per le controversie di modico valore. Infatti, come ben sappiamo, nella controversie il “rischio” dell’azione ricade interamente sul singolo danneggiato. L’assunzione di tali rischi si giustifica solo in presenza di danni di non modesta entità, mentre nella maggior parte della volte l’effetto di comportamenti illeciti sulla massa dei consumatori è quello di produrre dei mass torts di lieve entità dal punto di vista individuale che non vale la pena dedurli in giudizio isolatamente. Pertanto, un’azione collettiva posta in essere tramite un’«aggregazione processuale» delle pretese individuali, come previsto dal neo art. 140 bis del Codice del Consumo, abbatte i costi e rappresenterebbe un buon rimedio idoneo a rimuovere le ragioni della rinuncia dei consumatori e degli utenti. Res sic stantibus il nuovo strumento perseguirebbe non solo finalità di efficienza ed economia processuale (un unico processo, anziché una costellazione di micro processi), ma anche risulterebbe utile a far emergere il contenzioso latente, di modico valore, che altrimenti resterebbe dietro le quinte e non avrebbe modo di manifestarsi a causa della sproporzione tra il valore della singola controversia e le spese per la procedura individuale diretta alla tutela giurisdizionale (così, R. CAPONI, «La riforma della «class action». Il nuovo testo dell’art. 140-bis cod. cons. nell’emendamento governativo», in www.judicium.it). 3 In secondo luogo, sotto un aspetto di analisi economica del diritto, questa nuova procedura fungerebbe da catalizzatore sotto il profilo della deterrenza e della prevenzione per la commissione di illeciti dannosi coinvolgenti una cerchia più o mano ampia di consumatori. Il timore di “subire” un’azione di classe, che se accolta potrebbe comportare oneri rilevanti a carico del responsabile, potrebbe spingere le imprese ad un maggior rispetto delle regole di correttezza e professionalità nei rapporti con i consumatori. È indubbio, tra l’altro, che l’apertura di un’azione collettiva potrebbe condizionare i comportamenti sul mercato delle azione (soprattutto di quelle quotate in borsa), questo potrebbe disincentivare gli imprenditori di porre in essere con un certa leggerezza comportamenti ed effettuare scelte incidenti sul piano economico e sociale che potrebbero ledere i diritti dei consumatori. 2.Genesi storica. Cenni. La storia di quella che in più occasioni (e un po’ da tutti) è stata chiamata class action nell’ordinamento italiano prende le mosse sin dal 2003, quando a seguito di un cartello anticoncorrenziale posto in essere dalle compagnie di assicurazione, che, dopo l’intervento dell’Autorità Antitrust (AGCM, provv. n. 8546 del 25 luglio 2000, sostanzialmente confermato da Tar Lazio, sent. n. 6139 del 05 luglio 2001 e dal Consiglio di Stato, sent. n. 2199 del 23 aprile 2002), scatenò un’alluvione di ricorsi, tanto da indurre il Governo ad intervenire con un decreto (DL 08 febbraio 2003, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge del 07 aprile 2003 n. 63) per modificare l’art. 113, comma 2 cpc, penalizzando tutti i cittadini intenzionati a promuovere azioni. La vicenda assunse un tale clamore popolare che necessitò un impegno politico da parte del Governo di intervenire per poter introdurre all’interno dell’Ordinamento giuridico italiano un nuovo strumento di tutela risarcitoria collettiva. Un impulso alla redazione di un testo legislativo riguardante l’azione collettiva venne dalla crisi finanziaria di alcuni grandi gruppi societari 4 italiani (si pensi ai crack finanziari di Cirio e Parmalat), dalla vicenda della svalutazione dei bonds emessi dallo Stato argentino ed altri tipi di investimenti che si sono rivelati delle vere e proprie truffe ai danni dei consumatori, come Bipop Carire, Finmatica, Fin Part, Cerreti per citarne solo alcuni, colpendo un elevato numero di risparmiatori ed investitori. Il primo significativo tentativo del Parlamento è avvenuto durante la XIV Legislatura. Il 21 luglio fu approvato dalla Camera dei Deputati il disegno di legge - frutto dell’unificazione dei DDl n. 3838/c (On. Bonito e altri) e n. 3839/c (On. Lettieri e altri) - n. 3058/S/14, che prevedeva “l’introduzione dell’azione di gruppo a tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti”. Questa iniziativa non prevedeva di istituire la figura giuridica delle azioni collettive, ma si limitava a modificare un articolo della Legge del 30 luglio 1998 n. 281 per introdurre “il risarcimento dei danni e la restituzione di somme dovute direttamente ai singoli consumatori e utenti interessati, in conseguenza di atti illeciti plurioffensivi…che ledono i diritti di una pluralità di consumatori ed utenti”. Tale Disegno presentava molte lacune, tanto è vero che, nonostante esso fu approvato quasi all’unanimità alla Camera dei Deputati, l’iter parlamentare si arenò al Senato a tal punto che non fu avviato nemmeno l’esame da parte delle Commissioni competenti. Successivamente nel corso della XV Legislatura il dibattito politico sull’introduzione di un’azione collettiva risarcitoria a tutela di diritti individuali omogenei divenne fervente dando luogo a ben nove proposte di legge in sede parlamentare. In ogni caso l’osservazione delle diverse proposte legislative presentate negli ultimi anni ha messo in evidenza la formazione di due diverse correnti di pensiero. Da un lato si possono scorgere coloro che sostengono l’introduzione di un’azione fortemente ispirata al modello statunitense dell’azione di classe: azione a legittimazione individuale, giudizio preventivo di ammissibilità, nomina del c.d. curatore amministrativo (es. AC n. 1330 – On.li Fabris-Satta; AC 1443 – On.li Poretti-Capezzone; AC 1834 – On. Pedica) – in nessuno dei quali, peraltro, si fa la minima menzione del termine class action (e tuttavia si usa in prestito “azione di 5 classe”) - e dall’altro coloro che propendono per l’introduzione di un’azione più rispettosa dei principi dell’Ordinamento italiano (es. AC 679 – Sen. Benvenuto; AC 1883 – On. Crapolicchio e altri; AC 1662 – On. Buemi e altri). Queste ultime sono tutte proposte che si limitano a segnare un’evoluzione dell’azione collettiva inibitoria di cui all’art. 140 Cod. del Cons., pur essendo denominate “class action” con una “non molto lodevole manifestazione di esagerato cosmopolitismo” (così S. Chiarloni al XXIII Convegno su “I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori, Courmayeur, 26-27/09/2008). Giorno 8 novembre 2007 la Commissione Giustizia del Senato, giungeva al traguardo di una elaborazione di un “testo base” frutto del lavoro pregresso delle precedente proposte di legge (emendamento 53.0.200, proposto dai senatori Manzione e Bordon). Le cronache parlamentari ci riferiscono che, avviate le consuete attività parlamentari per la legge finanziaria per l’anno 2008, veniva proposto il suo inserimento nel corso dei lavori innanzi alla Commissione giustizia, ma l’emendamento in un primo tempo fu respinto. Sta di fatto che l’emendamento 53.0.200 fu nuovamente riproposto e in sede di discussione della Finanziaria e, nonostante le forti pressioni per cancellare l’emendamento, il caso ha voluto che venisse approvato. Sembra che l’emendamento 53.0.200 sia stato approvato al Senato con un solo voto di scarto (158 favorevoli, 40 contrari e 116 astenuti, che al Senato valgono come contrari), tra maggioranza ed opposizione, dovuto ad un errore del Sen. Roberto Antonione di Forza Italia, il quale addirittura dichiarò alla stampa che la sua volontà era “di votare contro l’approvazione dell’emendamento” (cfr. www.corriere.it del 15 novembre 2007), tanto è vero che per redimersi dallo sbaglio aveva subito offerto al suo gruppo le dimissioni. Poiché il testo legislativo era stato oggetto di molte critiche, fu ulteriormente modificato tramite un emendamento governativo, venendo definitivamente approvato da entrambi i rami del Parlamento il 24 6 dicembre 2007 ed inserito nei commi dal 445 al 449 dell’art. 2 della Legge finanziaria per il 2008 (Legge 244/2007, pubblicata sulla GURI n. 300 del 28/12/2007 ). Stando al testo definitivamente approvato dal Parlamento l’azione collettiva risarcitoria avrebbe dovuto prendere il suo volo il 30 giugno 2008 (essendo il 180° giorno coincidente con sabato 28 giugno 2008). Solo che con DL 25 giugno 2008, n. 112 (pubblicato sulla GURI del 25 giugno 2008, n. 147), recante il titolo “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, all’art. 36 (rubricato class action), il Governo pensava bene di sostituire all’art. 2, comma 447 della Legge 24 dicembre 2007, n. 244, le parole “decorsi centottanta giorni” con le parole “decorso un anno”. Questo “anche al fine di individuare e coordinare specifici strumenti di tutela risarcitoria collettiva, anche in forma specifica nei confronti della pubbliche amministrazioni”. Giungeva così in dicembre, attraverso l'art. 19 del c.d. “decreto milleproroghe” (D.L. 30.12.2008, n. 207, “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti”, in G.U., 31.12.2008, n. 304), l'ulteriore rinvio, ancora per decreto, ancora con un provvedimento che si limitava a far slittare di altri sei mesi l'entrata in vigore della normativa sulle class action nulla dicendo circa le modifiche da introdurre. Slittamento che era stato già preannunciato nell’ottobre 2008 dal Ministro Scajola, il quale sosteneva che nemmeno entro gennaio 2009 si sarebbe fatto in tempo a modificare la norma “per apportare miglioramenti a garanzia di una migliore efficacia”. È stato stabilito, infatti, soltanto che le disposizioni dei commi 446-449 della legge finanziaria 2008 diventino efficaci «decorsi diciotto mesi» dall'entrata in vigore della legge finanziaria, ossia al 1.7.2009. All’approssimarsi della fatidica data del 01/07/2009, il Governo ha deciso di rinviare nuovamente la data di entrata in vigore dell’azione collettiva risarcitoria. Infatti all’art. 23, comma 16 del DL n. 78 del 2009, pubblicato sulla GURI n. 150 del 01/07/2009, riguardante “Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini della partecipazione italiana a missioni internazionali”, convertito con 7 modificazioni nella L. del 03/08/2009, n. 102, pubblicata sulla GURI del 04/08/2009, n. 179 ed entrato in vigore il 05/08/2009, il Governo ha provveduto a sostituire le parole “decorsi 18 mesi”, di cui all’art. 2, comma 447 della legge del 24/12/2007, n. 244, come da ultimo modificato dall’art. 19, del DL 30/12/2008 n. 207, convertito con modificazioni dalla Legge del 27/02/2009, n. 14, con le parole “ decorsi 24 mesi”. In altre parole e più semplicemente, l’applicazione dell’azione collettiva risarcitoria viene rinviata al 01/01/2010. Nulla viene, però, detto circa il contenuto dell’azione, che così rimane immodificato. Nel frattempo il DDL 1195-B, recante disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese è stato definitivamente approvato al Senato della Repubblica il 09/07/2009, divenendo così la Legge n. 99 del 23/07/2009, pubblicata sulla GURI n. 176 del 31/07/2009, Supplemento Ordinario n. 136. L’art. 49 della L. 99/2009 ha provveduto a sostituire integralmente l’art. 140-bis del Codice del Consumo (mai entrato in vigore). Non solo, ma l’art. 49 ha anticipato l’operatività della nuova “azione di classe” a dispetto della nuova proroga prevista nel DL 78/09. Infatti il secondo comma dell’art. 49 ha fatto slittare l’applicazione dell’azione di classe agli “illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge” (ossia considerata la vacatio legis dal 15/08/2009 in poi). Una formulazione, questa, che lascia pochi margini di dubbio sul momento di inizio dell’azionabilità dei diritti e che però entra in (apparente) conflitto con la proroga processuale al 01/01/2010 prevista dal DL 78/09. Il mancato coordinamento tra i due testi di legge provoca una separazione sostanziale e processuale della operatività dell’azione di classe, oltre che una finestra di retroattività: i danni patiti tra il 15/08/2009 e dicembre (compreso) 2010 potranno essere fatti valere in giudizio a partire dal 1° gennaio 2010. 3.Legittimazione attiva e soggetti tutelati. 8 Il testo dell’art. 140 bis al primo comma stabilisce che “ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni”. In altre parole la legittimazione attiva è riconosciuta in capo a colui che sostiene di essere titolare di un rapporto giuridico controverso, il quale può agire in assoluta autonomia per promuovere un’azione di classe oppure servirsi delle associazioni o dei comitati di cui fa parte. In considerazione all’impostazione dei numerosi progetti di legge portati all’esame del Parlamento, la nuova soluzione adottata, tuttavia si caratterizza per una sua certa originalità, risultato di una sintesi fra le più significative proposte promosse. Infatti, da un lato vi erano le proposte che tendevano ad americanizzare il sistema (On. Capezzone), configurando il potere di agire in capo a ciascun soggetto leso, dall’altro altri progetti (On. Benvenuto ed altri) che tendevano a restringere la legittimazione attiva alle sole associazioni dei consumatori. La preferenza concessa dal legislatore al privato sembra muovere dalla considerazione che solo un privato, per la sua qualità di membro della classe, possa dirsi in grado di offrire le più idonee garanzie di rappresentanza della medesima, a differenza di un’associazione di categoria che si troverebbe ad agire per la classe in una posizione di terzietà. La legittimazione attiva dei comitati, amplia notevolmente l’ambito di tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti. Infatti, come è noto il comitato può essere costituito sia per scopi occasionali o transeunti, sia per scopi occasionali o duraturi. I comitati, pertanto, anche se costituiti in forma associativa temporanea, con scopo occasionale, specifico e limitato, sono comunque legittimati ad agire con l’azione collettiva risarcitoria, se adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere (così, A. RICCIO, «L’azione collettiva risarcitoria non è, dunque, una class action», in Contratto e Impresa, n. 2, 2008, pag. 515). 9 Nella precedente riforma dell’art. 140 bis, parte della dottrina aveva denunciato il pericolo non troppo lontano che gli enti esponenziali (unici legittimati attivi) avrebbero dato la loro preferenza solo a quei casi non tanto meritori di trovare tutela collettiva, ma piuttosto a quelli di elevata portata mediatica, tramite i quali con un elevato grado di certezza si sarebbero aumentate l’attitudine degli stessi enti ad accrescere prestigio e a raccogliere iscritti con l’intento ultimo di potenziare le loro capacità di influenzare l’esito dei futuri confronti con gli interlocutori politici (M. MANENTI E A. PALMIERI, «Azione risarcitoria collettiva: dove l’Italian style lascia a desiderare», in Danno e Resp., n. 7/2008, p. 737 e ss). Oggi, nonostante le modifiche introdotte dal legislatore e nonostante la possibilità data al singolo membro di promuovere l’azione di classe, si ritiene che i dubbi sollevati dalla precedente dottrina sulla bontà della norma siano ancora attuali. Non solo, ma la nuova norma si presta anche ad ampie critiche riguardanti l’assenza di incentivi all’esercizio dell’azione correlati alla fondatezza della domanda. In tale prospettiva, sembra che il legislatore se in un primo momento aveva ritenuto opportuno trasferire il problema dell’antieconomicità dell’iniziativa dal piano individuale a quello collettivo, ora pare che la patata bollente sia tornata nuovamente in mano al singolo componente della classe, il quale si trova di fronte ad una scelta: farsi promotore dell’azione, sobbarcandosi tutti gli oneri economici dell’azione, oppure (e penso che questa sarà la strada referenziale che i singoli seguiranno) affidarsi ad un ente collettivo, che, però, difficilmente possederà anche esso quella forza economica di dar luogo ad azioni incisive su ogni fondata doglianza del consumatore. Pertanto, l’asimmetria economica non è stata risolta dal legislatore, il quale non fornendo idonei incentivi ai promotori (privato o ente collettivo che sia), questi dovranno rinunciare all’azione o affrontare costi sproporzionati rispetto alle loro possibilità economiche. Infatti le azioni che verranno maggiormente tenute in considerazione dalle associazioni saranno quelle che susciteranno un maggiore effetto 10 mediatico sulla popolazione tanto da prevedere un numero elevato di adesioni. Tutte le altre azioni, sia pur fondate, probabilmente verranno lasciate nel dimenticatoio a causa del loro minore impatto sociale. Esaminiamo ora due figure che potrebbero creare problemi interpretativi: a) I consumatori e gli utenti. Il legislatore italiano ha ritenuto di introdurre non già un modello generale di azione di classe, adatta a garantire una forma di tutela giudiziaria indifferenziata, ma una ben più ristretta azione di classe che si pone l’obiettivo di tutelare i diritti risarcitori e/o restitutori di una ben limitata categoria di soggetti: i consumatori e gli utenti. L’art. 140-bis parlando esclusivamente di consumatori ed utenti, ha dato luogo a difficoltà interpretative ed a qualche ambiguità, vanificando le speranze da parte di tutti coloro che, prima di rendersi conto dell’effettiva portata della norma, avevano salutato con favore spropositato la nuova azione. La definizione dell’endiadi consumatore e/o utente fornita dall’art. 3, comma 1, del Codice del Consumo di primo acchito non pare lasciare scampo: si tratta soltanto di quella “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. Nozione, questa, di derivazione comunitaria, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE ulteriormente demarca negando la qualifica di consumatore alla persona fisica che agisca per scopi “misti” o istituisca rapporti anche solo in vista di un’attività professionale futura o per fini accessori all’attività di un professionista (cfr. le decisioni della Corte di Giustizia CE n. 464 del 20 gennaio 2005; Corte di Giustizia CE n. 541 del 22 novembre 2001; Corte di Giustizia CE n. 45 del 17 marzo 1998; Corte di Giustizia CE n. 269 del 3 luglio 1997). In realtà, oltre il riferimento al predetto art. 3 del codice del consumo, il concetto di utente non sembra essere definito a chiare lettera dalla legge, potendovi rientrare, in questa categoria, tutti coloro che utilizzano in base ad un contratto un servizio pubblico di rete (si pensi all’erogazione del 11 gas, acqua, luce, ecc.) od a un servizio privato di rete (si pensi la fornitura telefonica, i servizi di trasporto ecc). L’utenza è l’utilizzazione condivisa di un servizio collettivo continuativo, erogato dal servizio pubblico. L’art. 101 del Codice del Consumo garantisce all’utente il riconoscimento dei diritti previsti dalle Leggi dello Stato e delle Regioni, rinviando a tali leggi per la definizione. Per quanto riguarda la nozione del consumatore, invece, questa viene considerata in un’accezione lata, potendo sia rifarci, in riferimento alle pratiche commerciali scorrette, all’art. 5 del codice del consumo, che qualifica consumatore, ai fini informativi, la persona fisica destinataria delle informazioni commerciali e quindi colui che si trova in una fase antecedente all’operazione di acquisto di un bene, e sia, in riferimento alla pubblicità ingannevole, all’art. 18 del codice del consumo, considerandola come quel soggetto passivo dell’informazione pubblicitaria. Considerando la definizione offerta dall’art. 3 del Codice del Consumo, potrebbero rimare escluse dall’azione collettiva tutti quei casi che nascono in conseguenza non di un previo rapporto di consumo di beni o servizi attuale o potenziale. Potrebbero rimanere escluse dall’azione collettiva, ad esempio, le richieste risarcitorie proposte da (piccoli e medi) commercianti danneggiati da “comportamenti anticoncorrenziali della grande impresa fornitrice, quali accordi di cartello o abusi di posizione dominante (così F. AROSSA E G. ROSATO, «Dubbi sui diritti del consumatore», in Resp, e Risarc., n. 1, 2008, p. 26). Escluse dalla tutela collettiva appaiono, inoltre, tutte quelle categorie di danneggiati che sorgono solo in virtù di un fatto illecito altrui, come le vittime di un disastro di massa (si pensi all’inquinamento di una falda acquifera, dell’aria, del suolo, o a danni causati a seguito di esposizione a materiali cancerogeni), ma estranei ad un previo rapporto di consumo. Così come anche sembrano esclusi dalla categoria di soggetti tutelati i lavorati dipendenti di un’azienda, sia pure di grandi dimensioni (si pensi al caso di mancato rispetto delle norme sulla sicurezza nel lavoro). 12 L’azione collettiva rimane pertanto preclusa a coloro che, abitando nelle prossimità di uno stabilimento chimico, abbiano subito un danno a seguito della fuoriuscita nell’aria di gas tossici (cfr. S. MENCHINI, «La nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria», in www.judicium.it), perché qui è evidente che non sussiste alcun rapporto di consumo tra i danneggiati, vale a dire coloro che vivono nei pressi dell’industria che inquina e da cui non ricevono alcun servizio, ed il danneggiante, l’impresa che diffonde sostanze tossiche e che produce beni o servizi, i quali però non vengono offerti ai residenti nella zona in cui essa opera. Neppure sono tutelati i soggetti che, pur avendo subito i medesimi pregiudizi di un consumatore, in realtà abbiano posto in essere un contratto nell’esercizio della loro attività imprenditoriale o professionale (cfr L. PAURA, «Le azioni collettive (class action) tra formazioni sociali e solidarietà» in www.ibrademp.org.br). Si pensi a tutti quegli operatori commerciali che nei vari quartieri di Napoli e provincia sono stati danneggiati dalla mancata raccolta dei rifiuti. In breve, sono esclusi dalla tutela tutti coloro che fuoriescono dalla nozione di utente o consumatore. Pertanto, prima di poter supporre di poter dar luogo all’azione di classe occorre verificare se il soggetto che chiede tutela rientri o meno in tale categoria. A questo punto si auspica da parte delle Corti di legittimità e di merito l’abbandono di una interpretazione restrittiva della nozione di consumatore a favore di una nozione più lata in modo da far rientrare in tale definizione una più vasta categoria di soggetti tutelabili. Per esempio, stante la restrizione della protezione dell’azione di classe ai soli diritti dei consumatori, non si potrebbe far partecipare all’azione ex art. 140 bis i congiunti o i parenti dei consumatori quali eventuali vittime secondarie dell’evento dannoso che ha colpito il consumatore. È in questi casi che si spera ad un intervento da parte dell’organo giudiziario diretto a ripristinare una più equa giustizia sostanziale, perché altrimenti, res sic stantibus, i congiunti di consumatori danneggiati a seguito della difettosità di uno stock di prodotti, non possono avvalersi della tutela dell’azione di 13 classe, essendo costretti ad azionare un’azione ordinaria per ottenere un risarcimento dei danni, venendosi a creare una duplicità di azioni (diverse tra loro) per un medesimo fatto dannoso. È bene chiarire fin da subito che la condotta illecita deve essere plurioffensiva, nel senso che deve aggredire una serie posizioni sostanziali appartenenti a soggetti diversi, ma ben specifici: gli utenti o i consumatori. Questo ha fatto sì che parte della dottrina più attenta abbia iniziato a parlare di “mass tort consumeristico” (così C. CONSOLO, È legge la disposizione sull’azione collettiva risarcitoria;si è scelta la via svedese dello “opt-in” anziché quella danese dello “opt-out” e il filtro (“l’inutil precauzione”), in Corriere Giuridico, n. 1/2008, pag. 9). Tale limitazione di operatività dell’azione di classe ai rapporti tra consumatori ed imprenditori emerge da una serie di limitazioni: a) dalla collocazione dell’art. 140 bis all’interno del codice del consumo; b) dai presupposti dell’azione indicati dall’art. 140 bis; c) dalla titolarità della legittimazione attiva, che, da un lato, assume come referente il consumatore o l’utente o ancora l’associazione a cui dà mandato o il comitato cui partecipa, dall’altro, dalla titolarità della legittimazione passiva, ricadente in capo all’impresa. Tale rigida decisione in futuro non potrà che sollevare critiche, in quanto resterebbero privi di tutela una larga maggioranza di persone che si vedono impedite a promuovere un’azione collettiva per il semplice fatto che non rientrano nella nozione di consumatore all’interno del binomio consumatore/professionista, Basti pensare al caso in cui l’impresa, che inquinando la zona circostante la sua azienda, danneggia i residenti che non sono consumatori nemmeno potenziali, perché magari non sono destinatari del prodotto o perché esso viene commercializzato altrove. In questo esempio i danneggiati resterebbero privi di tutela collettiva. b) Gli investitori. 14 Degno di nota è il fatto che il legislatore non abbia previsto la possibilità per gli investitori di agire a tutela dei propri diritti nell’azione collettiva come autonomo gruppo di interesse. Non si sa bene se tale figura possa rientrare nella tutela collettiva dato che il credito al consumo è solo citato nel Codice, ma la sua disciplina è prevista dagli artt. 121 ss del Testo Unico Bancario (DLgs 385/1993), dove sono disciplinati i contratti bancari conclusi con il consumatore. Occorre, però, ricordare che la tutela collettiva degli investitori sui mercati finanziari era stata nel 2003, sull’onda degli scandali Cirio, dei bond argentini e Parmalat, una delle ragioni fondanti delle proposte di legge che avevano introdotto la tutela collettiva “in via generale” (Cfr. I. BUFACCHI, «La strada peggiore», Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2007, pp 1 e 14). Proprio alla luce delle recenti frodi si ritiene che l’inclusione degli investitori tra le categorie legittimate ad agire a tutela dei propri interessi tramite un’azione collettiva avrebbe potuto contribuire anche al ripristino della fiducia nel mercato con chiari effetti benefici all’economia in generale (così L. FERRARESE, «Le norme statunitensi sulle azioni collettive: analisi comparativa con la normativa italiana e spunti di riflessione», in La Resp. Civ., 2008, pag. 751). Però, nonostante nel progetto originario della riforma si faceva riferimento alla categoria degli investitori, nel testo originariamente licenziato dal Senato ed in quello attuale, tale riferimento è stato soppresso. Senza contare il fatto che i contratti per l’acquisto di servizi finanziari non sono disciplinati nel Codice del consumo, ma nel TUF (DLgs 58/98). Di solito l'investimento in strumenti finanziari è contraddistinto per la varietà dei tipi di investitori e le diverse scelte di investimento fanno venir meno un presupposto indispensabile per l'esercizio dell'azione collettiva, la serialità del danno (si veda M. PANUCCI, «La disciplina delle azioni collettive risarcitorie», in Fiscalità Finanza e Diritto d'Impresa, marzo 2008). Si sostiene che parte consistente della tutela del risparmiatore è inserita non nel codice del consumo, quanto piuttosto nel TUF (art. 32-bis, 15 introdotto dalla disciplina Mifid). Se così fosse, risulterebbe tuttavia evidente la esclusione dal perimetro di applicabilità della norma, posto che l’art. 32-bis del TUF riguarda al più l’azione collettiva inibitoria (injunctive class action), certo non quella risarcitoria (damages class action) oggetto dell’art. 140-bis del codice del consumo (così G. CARRIERO, «Responsabilità delle imprese e interessi collettivi: spunti di riflessione», Rivista di Diritto Pubblico italiano comunitario e comparato, n. 24 del 2008, pag. 1 ss.). Nondimeno occorre ribadire che il tema degli investimenti con tutte le problematiche che ha comportato è stato uno dei motivi di impulso della nascita dell'azione collettiva nel nostro Paese, pertanto appoggiare la tesi restrittiva, lasciando l'art. 140-bis fuori da questo ambito appare dar corso ad una miope intelligenza interpretativa. Secondo alcuni, questa tipologia di ipotesi, forzando un po’ la lettera della previsione normativa, potrebbe rientrare nelle pratiche commerciali scorrette, che vengono direttamente ad incidere sulla concorrenza tra mercato ed imprese (cfr. D. AMADEI, «L'azione di classe italiana per la tutela dei diritti individuali omogenei», in www.Judicium.it). Altri hanno sostenuto che “non si dovrebbero avere troppe difficoltà ad ammettere la tutela collettiva risarcitoria, per lo meno nei confronti delle imprese di investimento che si legano a consumatori di servizi finanziari, dal momento che tali rapporti non sembrano poter prescindere dall’impiego a monte di schemi di formazione del contratto imperniati su formulari. Utilizzo che in parte è consequenziale all’esigenza di adeguarsi a regole settoriali finalizzate a garantire la correttezza e la trasparenza dell’operazione” (così, A. PALMIERI, «La class action da danno finanziario», Danno e Responsabilità, n. 4/2009, pag. 382). Parte autorevole della dottrina ha sostenuto che la tesi per cui si esclude l’applicabilità della tutela collettiva ai risparmiatori in quanto i contratti “bancari/finanziari” sono estranei all’applicazione della normativa de qua data la sua collocazione nel Codice del Consumo, si può facilmente superare, perché l’art. 140 bis comma secondo considera anche materie o ambiti estranei al Codice del consumo, come la disciplina della 16 concorrenza e nello stesso tempo tutti questi rapporti si istituiscono mediante formulari o moduli. Non solo, ma anche la tesi, per cui tali contratti (bancari/finanziari) sono scritti da risparmiatori e non da consumatori in senso proprio e pertanto la tutela collettiva non può trovare applicazione, non può essere accolta. In effetti anche se l’art. 140 bis fa riferimento solo a consumatori ed utenti, nel codice del consumo sono state introdotte regole sulla conclusione telematica dei contratti aventi ad oggetto servizi finanziari, pertanto tale restrizione appare totalmente infondata se non per favorire il mondo degli imprenditori finanziari da future azioni collettive. Senza contare il fatto che il risparmiatore nella prassi è un consumatore di servizi finanziari (così G. ALPA, «L’azione collettiva risarcitoria. Alcune osservazioni di diritto sostanziale», in Il Corriere del Merito, n. 7, 2008, pag. 769). I dubbi interpretativi sul fatto che i rapporti tra emittenti ed investitori non siano compatibili con la tutela risarcitoria collettiva secondo alcuni (cfr. F. AROSSA, «Gli scomodi confini dell’azione collettiva risarcitoria all’italiana: diseconomie del suo ambito di applicazione», in Analisi Giuridica dell’Economia, I, 2008, pag. 38) non convincono e l’azione di classe può trovare la sua applicazione purché i contratti siano conclusi mediante moduli e formulari. Parte della dottrina (cfr. F. AROSSA, «Gli scomodi confini dell’azione collettiva risarcitoria all’italiana», op. cit., pag. 32) pur ammettendo che la tutela collettiva è esclusa agli investitori professionali in strumenti finanziari, creando di conseguenza una discriminazione rispetto ai retail investors, auspicano una un’applicazione estensiva a tutti gli investitori, in quanto solo così l’azione di classe può servire da stimolo alla crescita di un moderno mercato finanziario, “aumentandone la capacità di attrazione di capitali anche dall’estero” (così R. LENER «Le “class actions” scomparse», in Analisi Giuridica dell’Economia, I, 2006, pag. 136), così come è avvenuto in USA in cui la ratio delle class actions è anche quella di “incrementare l’effetto deterrente nei confronti dei soggetti potenzialmente in grado di porre in 17 essere delle frodi…nel mercato finanziario” (così E. BELLINI, «Class action e mercato finanziario: l’esperienza nordamericana», in Danno e Responsabilità, 2005, pag. 825). 4.Legittimazione passiva e competenza territoriale. Uno dei punti sui quali la normativa sull’azione collettiva risarcitoria farà più discutere riguarda l’individuazione della parte convenuta. Infatti l’art. 140-bis non fa alcun espresso riferimento nella individuazione della controparte processuale. Tuttavia la disposizione contiene degli espliciti riferimenti all’ “impresa” quale controparte processuale. Infatti questo lo si può desumere sia dal fatto che per individuare il foro territorialmente competente si fa espresso riferimento al “tribunale ordinario avente sede nel capoluogo di Regione in cui ha sede l’impresa” (quarto comma), sia al fatto che in più occasioni si fa riferimento all’impresa quale parte convenuta in tali simili azioni (secondo e quattordicesimo comma). L’impiego di un termine dalla connotazione esplicitamente economica e funzionale, secondo parte della dottrina, inserisce nel novero dei potenziali convenuti forme di organizzazioni giuridica diverse dalle società (si pensi ad esempio alle fondazioni bancarie, in quanto in concreto esercitanti un’attività di impresa, ai consorzi, ai gruppi di interesse economico europeo, alle associazioni o alle fondazioni private purché esercitanti imprese), nonché altri soggetti giuridici svolgenti un’attività d’impresa anche se non in forma collettiva (ad esempio gli imprenditori individuali). La scelta di tale termine è stato presumibilmente dettato dal lodevole scopo di estendere al di là delle sole società il campo di applicazione della futura procedura Più analiticamente il termine impresa (generico, ma sempre meglio del termine indefinito di “convenuto” utilizzato in alcuni progetti di legge presentati alla Camera di Deputati), viene inteso in senso restrittivo, richiamandosi esclusivamente alla nozione civilistica. 18 Tenendo conto di questa interpretazione restrittiva, ma anche più aderente al dettato normativo, si dovrebbe arrivare ad escludere, con una soluzione che senza dubbio farà discutere e che potrebbe dar vita a degli interventi della Corte Costituzionale sul mancato rispetto degli artt. 3, 24, 113 Cost., dalla disciplina dell’azione collettiva le Pubbliche Amministrazioni. Questa esclusione ci porta indietro nella storia giudiziaria della tutela dei diritti di almeno 10 anni, se si considera nel 1999 la Cassazione (Cass. Civ. SSUU, sentenza 26 marzo – 22 luglio 1999 n. 500) ha riconosciuto un diritto soggettivo al risarcimento dei danni derivanti da violazione di un interesse legittimo da parte della Pubblica Amministrazione. Res sic stantibus, sono escluse dalla tutela dell’azione collettiva risarcitoria tutte quelle ipotesi in cui la condotta illegittima della PA si ricolleghi ad un’ipotesi di responsabilità privata da illecito (si pensi all’eventuale corresponsabilità omissiva dell’Antitrust rispetto agli illeciti commessi da un’impresa quotata, o all’omessa vigilanza della Banca d’Italia rispetto agli illeciti perpetrati da un intermediario finanziario o da un istituto di credito). Per sfuggire alle maglie restrittive dell’interpretazione letterale dell’art. 140-bis, si ritiene che il termine “impresa” debba essere intesa in senso “comunitario” e non strettamente civilistico. Infatti, la dottrina comunitaria sostiene che nel sistema legislativo comunitario non esiste una definizione esplicita di impresa, ma di volta in volta si adotta una nozione flessibile e mutevole di tale nozione (crf. AFFERMI, «La nozione di impresa comunitaria» in Trattato di dir. Comm. e dir. Pubb. Econ. (Diretto da) Galgano, Vol. II, L’Impresa, Padova, p. 134), che deve essere letta alla luce dello specifico contesto normativo e della relativa ratio legis. Seguendo questa interpretazione ci rendiamo conto che il soggetto passivo dell’azione collettiva risarcitoria andrà a coincidere con quello di “professionista” adottato dal codice del consumo. 19 La figura del professionista è stata considerata in senso estensivo sia da parte della giurisprudenza che da parte della dottrina tanto da includervi non solo gli imprenditori intesi in senso tecnico, siano essi piccoli, grandi, commerciali o non commerciali, ma anche le imprese pubbliche e gli enti pubblici erogatori di servizi (così P. TROIANO, «Gli enti pubblici come “professionisti” e come “consumatori”» in Nuove Leggi Civ. comm., 1997, p. 850 ss; G. NEGRI, «Circolare di Confindustria interpreta la disciplina in vigore da fine giugno», in Il Sole 24 Ore del 21 marzo 2008, n. 80). In questa nozione estensiva nel target dell’azione di classe rientrerebbe anche la Pubblica Amministrazione (compresi gli Enti Territoriali) non solo quando questa svolge attività d’impresa nella forma di ente pubblico economico, ma in tutte quelle occasioni in cui figura come controparte di un rapporto di consumo e rientra nella nozione di professionista o di produttore. Pertanto, la stessa Pubblica Amministrazione dovrebbe rientrare nel perimetro dei soggetti passivi in tutti quei casi in cui opera come soggetto che fornisce beni o servizi. In questa accezione la scelta del legislatore italiano potrebbe apparire sana e non monca. Se così non fosse basti pensare al risultato a dir poco aberrante che si verrebbe a creare in caso dell’impossibilità di smaltire i rifiuti urbani, quando verranno promosse le prime azioni italiane propagandate da associazioni di tutela dell’ambiente o da comitati appositamente creati a risarcimento dei danni alla salute e all’ambiente provocati contro le (poco solventi) imprese pubbliche, private o miste addette alla raccolta e alla distribuzione o concentrazione dei rifiuti, anziché contro le deep pockets degli enti pubblici territoriali (in particolar modo Regioni, Province, Comuni) cui si deve attribuire la fonte della responsabilità (si pensi alla disastrosa situazione che ha interessato ultimamente la Regione Campania). Oggi questa disputa si è in parte sopita, a seguito dell’introduzione dell’azione di classe pubblica, chiamata così perché esperibile contro la 20 PA, ma non del tutto placata proprio perché l’azione collettiva pubblica non fornisce al cittadino gli stessi strumenti garantiti al consumatore, per esempio non viene concessa un’azione di risarcimento danni, ma solo finalizzata a far cessare la condotta pubblica lesiva entro un congruo termine e nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane assegnate alla PA (quindi senza ulteriori oneri per la finanza pubblica). Un discorso a parte meritano le autorità di supervisory. In relazione alle autorità esercenti funzioni di controllo (Banca d’Italia, Consob, Isvap, Covip, Antitrust) il Fondo monetario internazionale nell’ambito del suo “financial sector assestement program” per l’anno 2005 ha avuto modo di raccomandare l’Italia di tutelare le predette Autorità da iniziative giudiziarie mosse nei loro confronti (without fear of lawsuits). Di conseguenza il comma 6-bis dell’art. 24 della L. 28 dicembre 2005, n. 262 (cd legge sul risparmio), come modificata dal cd “decreto correttivo” di cui al DLgs 29 dicembre 2006 n. 303, detta una specifica disciplina risarcitoria per le autorità indipendenti operanti sul mercato finanziario. Prevede, infatti, che “nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo i componenti dei loro organi nonché i loro dipendenti rispondono dei danni cagionati da atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave”. Tale regime di responsabilità patrimoniale è stato introdotto su suggerimento del Fondo monetario internazionale allo scopo di circoscrivere l’esposizione risarcitoria degli indicati soggetti pubblici rinveniente dallo svolgimento delle delicate funzioni di supervisione loro conferite dall’ordinamento, coerentemente con le omologhe previsioni da tempo in essere presso altri importanti Paesi dell’Unione (cfr. G. CARRIERO, «La responsabilità civile delle autorità di vigilanza (in difesa del comma 6-bis art. 24 della Legge sulla tutela del risparmio)», in Foro Italiano, 2008, V, 221). Pertanto la vigenza della predetta normativa rende difficilmente applicabile l’azione di classe nei confronti delle autorità indipendenti operanti sul mercato finanziario. 21 Sulla competenza territoriale, l’art. 140-bis del Codice del Consumo prevede che è il “Tribunale ordinario del capoluogo della Regione in cui ha sede l’impresa convenuta” a risultare territorialmente competente nel conoscere le azioni collettive risarcitorie, prevedendo dei tribunali ad hoc per alcune Regioni in base allo schema che segue. Regione Tribunale competente Valle d'Aosta - Piemonte Torino Liguria Genova Lombardia Milano Veneto - Trentino Alto Adige - Venezia Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna Bologna Toscana Firenze Lazio - Marche - Abruzzo - Molise Roma Umbria Perugia Campania - Basilicata - Calabria Napoli Puglia Bari Sicilia Palermo Sardegna Cagliari Un problema da risolvere è se per “sede” dell’impresa debba intendersi quella legale o quella effettiva. È da escludere che il giudice compente sia esclusivamente quello della sede individuata dall’atto costitutivo, perché il legislatore non specifica se l’impresa convenuta sia dotata di una propria personalità giuridica o meno. Dalla lettura della norma è evidente che ci troviamo di fronte ad un foro speciale esclusivo, venendo di conseguenza a derogare sia il principio generale contenuto nel codice del Consumo all’art. 33 lett. u), in base al 22 quale nella cause che vedono come parte il consumatore, competente è il giudice del luogo in cui questi ha la sede o il domicilio, presumendo come vessatoria la clausola che statuisca una diversa località come sede del foro competente (principio consolidato anche dalla Cass. Civ. SSUU, 01 ottobre 2003, n. 14669 ed anche Cass. Civ. 06 settembre 2007, n. 18743). Problema di complessa soluzione è rappresentato dal fatto se l’impresa convenuta non ha la sede in Italia. La nuova normativa tace sul punto. Un noto giurista (Prof. Briguglio) durante un seminario tenuto a Pisa 29 aprile 2010 presso la Scuola Superiore Sant’Anna ha prospettato la seguente soluzione: innanzi tutto secondo i canoni del diritto internazionale privato occorre verificare se la giurisdizione è italiana. In caso di risposta positiva si applica la disposizione dell’art. 18, secondo comma cpc. Ora se il giudice del luogo in cui risiede l’attore coincide con le sedi giudiziarie elencate nel l’art. 140 bis, quarto comma, l’azione di classe può essere esperita, in caso contrario si dovrebbe negare la sua ammissibilità. 5.Le situazioni sostanziali protette. Art. 140 bis, primo comma: “I diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe, secondo le previsioni del presente articolo”. Per diritti individuali omogenei si devono intendere tutte quelle situazioni soggettive sostanziali individuali che possono essere unite in virtù della loro connessione per fattispecie costitutiva (o per titolo) o per identità delle questioni da risolvere. La dottrina parla in proposito di diritti isomorfi, omogenei, seriali per indicare tutti quei diritti individuali al risarcimento del danno o alla restituzione di somme di denaro, sorgenti da fatti, atti, negozi giuridici posti in essere da un soggetto che con il suo comportamento illegittimo ha causato l’evento lesivo (si cfr. S. MENCHINI, La tutela giurisdizionale dei diritti individuali omogenei: aspetti critici e prospettive ricostruttive», in Le azioni seriali, Atti del convegno di Pisa, 4 23 e 5 maggio 2007, in Quaderni de “Il giusto processo civile”, Napoli, 2008, § 4, pag. 55 ss). Pertanto i diritti tutelati nell’azione di classe non riguardano interessi diffusi o adespoti, bensì diritti soggettivi sul piano sostanziale i cui titolari sono soggetti individuati o individuabili, che possono far valere le loro pretese anche individualmente in separati processi. Non a caso il legislatore pone l’azione di classe come tutela suppletiva a quella classica ordinaria. Questa affermazione è confortata dalla presenza della congiunzione “anche” di cui al primo comma dell’art. 140 bis, lasciando intendere che l’azione di classe non è la sola via esclusiva per tutelare un diritto che già di per sé è singolarmente tutelabile in sede di processo ordinario con procedura ordinaria o speciale che sia. 6.L’accertamento della responsabilità e condanna al risarcimento del danno o alla restituzione di somme. Il vecchio testo dell’art. 140 bis del codice del consumo delineava un procedimento bifasico. Una prima fase era finalizzata all’accertamento della responsabilità dell’impresa per violazione dei singoli diritti individuali dei consumatori; una seconda in cui il singolo consumatore ed utente avevano la possibilità di ottenere la liquidazione del danno subito. La nuova disposizione dell’art. 140 bis, invece, non lascia spazio a dubbi perché il legislatore ha chiarito che l’azione di classe potrà essere azionata al fine di agire per l’accertamento della responsabilità e (conseguentemente) per la condanna al risarcimento del danno o alla ripetizione dell’indebito. Scelta questa da parte del legislatore da lodare, sia perché allontana dubbi interpretativi e sia perché tra le due scelte ha preferito quella da un lato più ovvia, dall’altro più ragionevole. Infatti, la dottrina ritiene che con l’azione di condanna, oltre all’accertamento della violazione del diritto, si chieda un quid pluris, che coincide con il bisogno di una tutela più incisiva, a causa del fatto che il diritto azionato è stato leso. 24 Inoltre, solo la sentenza di condanna costituisce titolo esecutivo, è un titolo adatto per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 2818 cc) ed è idonea a trasformare la prescrizione breve in prescrizione decennale (art. 2953 cc). Inoltre, occorre precisare che col termine “restituire” si intende “ristabilire le condizioni di fatto e di diritto che caratterizzavano la situazione del soggetto prima che un certo mutamento fosse intervenuto” (così. A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Milano, 1982, pag. 293, ripreso da L. DI NELLA, Profili sostanziali dell’azione collettiva: le pratiche commerciali scorrette e le condotte anticoncorrenziali, nella Relazione al Convegno tenutosi a Parma il 28/02/2008 col tema “l’azione collettiva: prime riflessioni”). Mentre la tutela risarcitoria reagisce contro il danno prodotto, neutralizzandone gli effetti in termini economici, quella restitutoria prescinde dal danno ed è rivolta a rimuovere “l’alterazione di una situazione di fatto e/o di diritto” ristabilendo la situazione originaria e l’ordine violato, consentendo ad esempio a chi ha effettuato un pagamento non dovuto di richiedere la restituzione di quanto pagato. (così A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, op. cit. pag. 294). 7.Le causae petendi dell'azione di classe. L'azione di classe è ammessa dalla legge per l'accertamento della responsabilità per la conseguente condanna al risarcimento del danno e/o alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti in relazione a: a) rapporti contrattuali conclusi da una pluralità di consumatori e utenti nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cc; b) diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette; 25 d) diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da comportamenti anticoncorrenziali. Tipizzando le causae pretendi, da un lato il legislatore è stato ingeneroso nell’escludere dal novero tutte quelle situazioni degne di tutela e derivanti da comportamenti rientranti negli illeciti di natura extracontattuale non specificatamente indicati nelle categorie sopra elencate, dall’altro è stato magnanimo nell’inserire nel numerus clausus situazioni (i comportamenti anticoncorrenziali) che, con la precedente norma di cui all’art. 140 bis potevano essere considerati rientranti negli atti illeciti aquiliani, ma che, se non specificati, sarebbero restati nella disciplina attuale senza ombra di dubbio fuori dalla tutela collettiva. Non solo, ma, rebus sic stantibus, rimangono fuori dal novero delle stesse, fattispecie che pure in altri ordinamenti hanno dato luogo a domande di massa: si pensi alle pretese risarcitorie per i pregiudizi derivanti da discriminazioni sessuali o razziali (sul luogo del lavoro e non). Poc’anzi si diceva che ognuno dei suddetti atti deve essere tale da violare “i diritti di una pluralità di consumatori o utenti”. Questo caratterizza il genoma delle situazioni sostanziali tutelabili nella sfera dell’azione collettiva. Non è, infatti, sufficiente una mera invalidità contrattuale, ovvero un generico atto illecito, contrattuale o aquiliano; è necessario che essi siano idonei a ripercuotersi su una pluralità di consumatori od utenti. In altre parole la condotta dell’imprenditore deve essere plurioffensiva, essa non deve limitarsi a colpire un solo soggetto, ma deve nuocere a più soggetti attraverso la conclusione di contratti invalidi. Chiariti questi aspetti preliminari, a questo punto procediamo con ordine ed analizziamo analiticamente i singoli casi per cui è prevista la tutela dell’azione di classe. a) Contratti stipulati tra consumatori o utenti ed una medesima impresa anche ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cc. Sotto la dicitura del vecchio testo dell’art. 140 bis l’aspetto della tutela contrattualistica pareva fortemente limitata. 26 Infatti, l’art. 140bis del Cod. del Cons., nel delineare la situazione sostanziale tutelabile, faceva riferimento soltanto ai rapporti sorti da contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 cc. e nulla più. Il mancato richiamo anche all’art. 1341 cc non faceva rientrare nella tutela quelle fattispecie rientranti semplicemente nelle condizioni generali di contratto. Non si capiva il perché di tale limitazione se non forse, come ipotizzato da qualcuno (cfr. F. RIZZO, Azione collettiva risarcitoria ed interessi tutelati, Napoli, 2008, pag. 201-202) per un motivo di ordine pratico: il giudizio che si sarebbe instaurato con l’azione collettiva è volto a verificare se il professionista abbia cagionato lo stesso danno ad una cerchia indeterminata di persone. E poiché ad oggetto dello stesso giudizio devono essere posti rapporti identici ed uniformi, nati cioè dallo stesso ed identico contratto, il legislatore aveva creduto bene di limitare la tutela tramite l’azione collettiva ai soli rapporti basati su un modulo contrattuale: in questo caso, si proponeva di raggiungere l’obbiettivo di semplificare l’identità di posizione tra i vari componenti della classe agente, essendo sufficiente il possesso del contratto seriale sottoscritto. Tanto è vero che con questa ipotesi il legislatore aveva voluto riferirsi a tutti quei casi in cui il contratto veniva concluso mediante moduli o formulari, meglio conosciuti come contratti per adesione, come per esempio i contratti stipulati nel settore della telefonia, dei servizi, delle assicurazioni, delle banche, servizi turistici. Sono contratti destinati a regolare una serie indefinita di rapporti, venendo predisposti unilateralmente da un contraente (quello economicamente più forte) (così Cass. Civ. 19 maggio 2006, n. 11757). Nell'ambito della pratica commerciale, infatti, la parte aderisce normalmente al contratto e si limita a sottoscrivere lo schema contrattuale gia predisposto dall'altra parte. É uno strumento da un lato che serve a snellire rapporti basati su relazioni commerciali standardizzate, dall'altro, se usato con spregiudicatezza, potrebbe rivelarsi una pesante “arma di 27 causazione di danno di massa” nei confronti degli ignari consumatori o utenti. Dubbi, dopo la sua formulazione, sono nati sull’effettiva portata cautelativa della norma, prospettandosi il rischio di escludere dalla tutela le small claims non consumeristiche o non derivanti da contratti di massa. Così operando, infatti, la norma tagliava fuori dalla sua tutela un elevato numero di fattispecie nelle quali una pluralità di consumatori avrebbe potuto subire lo stesso tipo di danno. C’era il non lontano rischio che si sarebbe potuta diffondere la prassi per cui i soggetti professionali sarebbero stati portati sempre più a non utilizzare moduli o formulari nella conclusione dei loro contratti standard, privilegiando il rinvio alle condizioni generali ex art. 1341 cc, ponendo così dei ripari per eventuali e possibili azioni collettive nei loro confronti. Si pensi alle conseguenze distorte che si sarebbero create quando avremmo visto permessa la tutela collettiva risarcitoria ai titolari di un abbonamento ad un servizio di trasporto (sottoscrittori di un modulo prestampato al momento della stipula dell’abbonamento), mentre l’avremmo vista negata ai semplici passeggeri occasionali di quel medesimo servizio, solo perché titolari di un mero biglietto di viaggio e soggetti solo all’art. 1341 cc, ossia alle condizioni generali di trasporto predisposte dal vettore. Pertanto, il legislatore, a seguito delle critiche mosse e sollevate dalla dottrina, si è reso conto che tutti i contratti conclusi verbalmente, o per facta concludentia, o mediante l’acquisto di un titolo di legittimazione, ma senza una sottoscrizione del relativo modulo predisposto unilateralmente non sarebbero rientrati nell’ambito della tutela dell’azione collettiva, come anche i contratti negoziati individualmente. Infatti, nella nuova formulazione dell’art. 140 bis, il legislatore è intervenuto integrando l’articolo inserendo tutti i contratti conclusi con la stessa impresa da parte di una pluralità di consumatori ed utenti, “inclusi” quelli conclusi ai sensi dell’art. 1341 e 1342 cc. Il legislatore ha voluto rimarcare l’inclusione delle ipotesi ex artt. 1341 e 1342 cc, in quanto in 28 entrambe le ipotesi sorge con maggiore forza l’esigenza di tutelare il contraente debole nell’ambito di quella che è stata definita “contrattazione asimettrica” (un particolare contributo in materia è dato da V. ROPPO, «Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale; genesi e sviluppo di un nuovo paradigma», in Riv. dir. priv., 2001, pag. 783 ss). È opinione condivisa quella secondo cui “la ratio del sistema delineata dal combinato disposto degli artt. 1341 e 1342 sia quella di tutelare la parte economicamente più debole” (così A. Di Majo, «Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto», in Riv. Dir. Comm., 1970, I, pag. 205). Entrambe le norme poi si caratterizzano per il fatto di coinvolgere un’ampia ed indeterminata cerchia di consumatori. Questo spiega l’espresso richiamo da parte del legislatore e il voler a tutti i costi evitare eventuali futuri dubbi sulla loro inclusione e tutela nell’azione di classe. b) Responsabilità del produttore. L’espressione generica utilizzata dal legislatore nel vecchio testo dell’art. 140 bis (“atti illeciti extracontrattuali”) richiamava di primo acchito tutte quelle fattispecie che almeno astrattamente ricadevano nell’art. 2043 cc. Il risarcimento di danni extracontrattuali era senza dubbio quella figura che più di ogni altra evocava le azioni collettive nord americane. A questo punto, è d’obbligo, per mettere in luce il differente ambito applicativo dell’azione di classe italiana, fare un piccolo accenno al sistema nord americano, nel quale si distinguono tre principali figure di mass torts: a) pollution mass torts; b) mass accidents; c) product liability mass torts (sul tema si vedano L. S. MULLENIX, Mass Tort Litigation: Cases and Materials, Eagan (MN) 2008, G. PONZANELLI, «Alcuni profili del risarcimento del danno nel contenzioso di massa», Riv. Dir. Civ., n. 3 del 2006, pag. 327; Id. «Mass Tort nel diritto italiano», in Responsabilità civile e previdenza, 1994, pag. 173). I pollution mass torts riguardano i casi in cui una sostanza inquinante danneggia più soggetti (si pensi all’inquinamento di una falda acquifera). 29 In caso di mass accidents, la class action è esperibile quando il medesimo evento dannoso ha cagionato danni ad una pluralità di persone (si pensi al caso di incidente in una centrale nucleare). In caso di product liability mass tort, invece, un medesimo danno provocato da un prodotto difettoso si ripercuote su una serie di soggetti (si pensi all’ipotesi della costruzione e diffusione sul mercato di pneumatici difettosi). Già da questo breve richiamo alla legislazione americana ci si rende conto del notevole restringimento operato dal legislatore italiano. Infatti, mentre negli States chiunque può esperire un’azione collettiva, in Italia può trovare tutela solo chi versi nella posizione giuridica di consumatore od utente. Inoltre, a differenza della precedente versione dell’art. 140 bis, che sia pur ristretta rispetto all’ambito operativo di quella americana ma almeno richiamava non solo quelle situazioni in cui l’elemento della colpevolezza funge da cardine del sistema risarcitorio, ma anche tutti quei casi di strict liability, la formulazione attuale restringe notevolmente l’ambito di applicazione riferendosi esclusivamente ai danni da prodotti difettosi. Anzi, a dire il vero, fu proprio pensando a tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva che una tutela più ampia aveva trovato spazio nella precedente formulazione dell’art. 140 bis. Basti pensare ai numerosi casi di responsabilità del danno derivante da prodotti difettosi, ai casi di danni derivanti dall’uso di emoderivati o dall’infezione da sangue per epatite o per il contagio da HIV, o si pensi ai casi di danni subiti da soggetti sottoposti ad un trattamento sanitario obbligatorio (es. vaccinazione) o ancora si pensi alla responsabilità precontrattuale - sempreché la responsabilità precontrattuale venga ricostruita, alla luce dell’opinione prevalente (ex pluribus F. BENFATTI, La responsabilità precontrattuale, Milano, 1963, pag. 13 e 15; L. MENGONI, «Sulla natura della responsabilità precontrattuale», in Riv. Dir. Comm., 1956, II, pag. 365 e 370; C. M. BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, pag. 157 e ss), come una responsabilità extracontrattuale e, nonostante la stipula di un contratto valido, il contraente vittima 30 dell’illecito precontrattuale conservi il diritto di agire contro la sua controparte - purché la condotta illecita nasca durante la fase delle trattative o durante la conclusione del contratto ed il professionista si renda, in questi momenti, responsabile precontrattualmente. Simili tipologie di danno hanno dato luogo negli USA a clamorose class action, Si pensi all’azione proposta nel 1965 contro un colosso della produzione automobilistica per l’inaffidabilità e l’insicurezza di un modello di auto prodotto; o al cosiddetto “agente orange” per gli ex combattenti nella guerra del Vietnam; o ai danni provocati agli abitanti di un paese della California per una falda acquifera inquinata. In Italia ovviamente queste fattispecie avrebbero potuto dar luogo (e non mi stanco mai di ripeterlo) ad una azione solo se il soggetto danneggiato si fosse configurato con quello di utente o consumatore e quello danneggiante con la figura di professionista/imprenditore, legati da un rapporto di consumo. Con la nuova formulazione dell’art. 140 bis il legislatore, come si è detto, ha ulteriormente ristretto l’ambito applicativo della precedente norma, garantendo l’esercizio dell’azione di classe solo nei casi di responsabilità per danno da prodotti difettosi, “anche a prescindere (per fortuna) da un diretto rapporto contrattuale” esistente tra consumatore e produttore. La giurisprudenza e la dottrina hanno da sempre qualificato espressamente la responsabilità per il difetto del prodotto in termini di responsabilità extracontrattuale di natura oggettiva. Rientrano in questa categoria tutti i danni dovuti a difetti di fabbricazione del singolo esemplare (o di una serie di essi) e i difetti di progettazione che riguardano le caratteristiche intrinseche del bene introdotto nel mercato. La parte agente è obbligata a fornire prova, in sede processuale, sul fatto che il prodotto è difettoso, sull’esistenza del danno subito e sulla presenza del nesso eziologico tra il difetto e il danno subito. Dall’altro lato sul produttore grava il maggior onere probatorio diretto a provare i fatti che possono escludere la responsabilità nella causazione dell’evento dannoso. 31 Nulla la norma ci dice nel caso in cui il produttore non sia individuabile. In questi casi si potrebbe prospettare, e sempre che non si voglia propendere per l’applicazione dell’azione di classe, la responsabilità per danno da prodotto difettoso ricadente sul fornitore che abbia provveduto a distribuire il prodotto, a meno che il fornitore stesso non comunichi al danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla richiesta (art. 116 del codice del consumo), l’identità ed il domicilio del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto. c) Pratiche commerciali scorrette. Con riferimento a tale terminologia il legislatore pare che abbia avuto in mente la nozione contenuta nell’art. 20 del Codice del Consumo, a seguito dell’ampio intervento legislativo posto in essere dal DLgs 02 agosto 2007, n. 146 (Attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno), il quale ha modificato gli articoli da 18 a 27 del Codice del Consumo. Analizzando la norma, ci rendiamo conto che il legislatore ha posto in essere due limiti identificativi alle pratiche tra consumatori e professionisti, ossia devono qualificarsi commerciali e devono essere scorrette. La nozione di pratica commerciale è definita dall’art. 18, lett. d) del codice del consumo, qualificandola come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”. È una nozione "estesissima" in quanto "include qualsiasi condotta che venga posta in essere da un professionista che sia in relazione con la promozione, vendita o fornitura di un prodotto" (Così G. DE CRISTOFARO, «Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori: il DLgs n. 146 del 2 agosto 2007, attuativo ella direttiva 2005/29/CE», in Studium Iuris, 2007, pag. 1188; Id., «L’attuazione della direttiva nell’ordinamento italiano: prospettive», in Le “pratiche commerciali sleali tra imprese e 32 consumatori”. La direttiva 205/29/CE e il diritto italiano, (a cura di) De Cristofaro, Torino, 2007, pag. 47 ss). Per stabilire se una “pratica commerciale” è anche scorretta, il codice del consumo ci fornisce tre livelli di valutazione. Il primo di carattere generale, il secondo si specifica in due sottocategorie: quelle ingannevoli e quelle aggressive; infine il terzo, in cui viene indicata una lista in cui determinate pratiche ingannevoli o aggressive sono da considerarsi in ogni caso scorrette. Pertanto al fine di valutare se una pratica commerciale sia scorretta si dovrà verificare se questa è contemplata nelle “black list” di cui agli artt. 23 e 26 del codice del consumo; se così è, allora essa è qualificata automaticamente scorretta. In caso contrario occorrerà verificare se essa possa rientrare nella figura dell’azione (art. 21 del codice del consumo) od omissione ingannevole (art. 22 del codice del consumo) ovvero rientri nella pratica aggressiva (artt 24 e 25 del codice del consumo). In ultima analisi e solo in caso di esito negativo delle precedenti verifiche si accerterà che la pratica possa o meno rientrare nell’ambito della clausola generale di cui all’art. 20, comma 2 del codice del consumo). La normativa verrà applicata alle pratiche commerciali scorrette tra consumatori ed “imprese” poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale (così l’art. 19, comma 1 del codice del consumo) relativa ad un prodotto, riguardando tutte quelle attività connesse alla commercializzazione del prodotto medesimo (pubblicità, promozioni, offerte, preventivi, ecc.). Così operando il legislatore vuole sanzionare tutte quelle condotte ingannevoli ed aggressive, e perciò scorrette, che inducono il consumatore in errore o lo influenzano a tal punto da fargli prendere una decisione commerciale anziché un’altra. La ratio della norma consiste nel fatto di colpire certi comportamenti che, influenzando direttamente il mercato, vedono come persona maggiormente colpita, in quanto parte debole, il consumatore che chiude il ciclo produttivo. 33 L’operatività della tutela collettiva in riferimento alle pratiche commerciali scorrette potrebbe riguardare casi nei quali il professionista fornisca al consumatore informazioni non corrispondenti al vero, ovvero pone in essere una serie di comportamenti commerciali che inducono il consumatore di media diligenza in errore sull’esistenza o la natura del prodotto, la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, la composizione e così via. Ancora si possono considerare scorrette quelle pratiche commerciali in cui l’imprenditore ometta di indicare tutte quelle cautele da utilizzare durante l’uso del prodotto, altrimenti nocivo o suscettibile di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori/utilizzatori. Si pensi ancora alle asimmetrie informative presenti tra il professionista e il consumatore e non colmate dal primo dalla diffusione di una serie di informazioni utili al consumatore al fine di fargli maturare una decisione consapevole di natura commerciale, come anche una mendace, oscura, ambigua informazione in merito ad un prodotto. Non è difficile pensare che le pratiche commerciali scorrette poste in essere nella maggior parte dei casi danno luogo a danni di piccola entità, ma di larga diffusione. Nessun consumatore può avere sino ad ora pensato di agire contro l’impresa fornitrice per i disagi causatigli da condotte che hanno posto in essere pratiche commerciali scorrette. Tuttavia gli artt. 18 e ss. non prevedono specifici rimedi per la tutela dei diritti dei consumatori lesi dalle pratiche come qualificate e catalogate dal Codice, ma una tutela giurisdizionale che fa riferimento anche all’art. 2598 cc (così art. 27 Cod. del Cons.). È chiaro l’intento del legislatore comunitario che ha considerato tra le sue prerogative primarie quella di colpire il comportamento scorretto del professionista, lasciando liberi i consumatori ed utenti di ricorrere ai rimedi generali del diritto contrattuale. La tutela di questi interessi, qualora sia idonea ad incidere sulla volontà di un numero elevato di consumatori, potrà divenire oggi effettiva grazie all’azione di classe, allegando quale causa petendi la condotta contraria alla legge, posta in essere dal professionista. 34 Non solo, ma si può anche iniziare a pensare ad azioni collettive in relazione per esempio ai cosiddetti danni da fumo a causa di una omessa o non corretta informazione da parte dell’impresa produttrice di tabacco, o si pensi nella cattiva informazione data nella vendita di prodotti farmaceutici, o ancora si pensi a quelle pratiche commerciali che in relazione ai destinatari del prodotto pubblicizzato, possano minacciare la loro salute e la loro sicurezza se adottate in maniera scorretta (si pensi a giocattoli, prodotti dolciari, che apparentemente innocui, sono realizzate con sostanze nocive per i loro utilizzatori). d) Comportamenti anticoncorrenziali. La norma fa riferimento in modo generico a comportamenti anticoncorrenziali, senza specificare a chiare lettere in cosa essi debbano concretizzarsi. L’ampio spettro normativo fa sì che vi rientri ogni atto che si ponga in contrasto con le norme a tutela della concorrenza. Il punto di riferimento nell’Ordinamento italiano per quanto riguarda la tutela della concorrenza è dato dalla legge 10 ottobre 1990 n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), nella quale vengono sanzionati solo le intese restrittive della libertà di concorrenza (art. 2), in quanto ovviamente non tutte le intese vanno considerate automaticamente restrittive della concorrenza, nonché gli abusi di posizione dominante (art. 3) e le concentrazioni di imprese restrittive della libertà di concorrenza (art. 6). Occorre precisare che per impresa rilevante per le norme antitrust non è quella che rientra nei requisiti di cui all’art. 2082 cc, ma viene intesa in una accezione più lata, ossia è esistente ogni qualvolta un qualsiasi soggetto svolga attività economica idonea a ridurre anche solo potenzialmente la concorrenza sul mercato (cfr. R. PARDOLESI, Diritto antitrust italiano, Bologna, 1993, pag. 198, il quale sostiene che la legge antitrust non si occupa dell’intesa tra i barbieri del piccolo paese di Pescopagano). La posizione dominante può essere definita come “una situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la 35 persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti, ed in ultima analisi, dei consumatori…Siffatta posizione, a differenza di una situazione di monopolio o quasi monopolio, non esclude l’esistenza di una concorrenza, ma pone l’impresa che la detiene in grado, se non di decidere, almeno di influire notevolmente sul modo in cui si svolgerà detta concorrenza e, comunque, di comportarsi sovente senza doverne tenere conto e senza che, per questo, simile condotta le arrechi pregiudizio” (Corte di Giustizia Europea, causa C-85/76, Hoffmann La Roche/Commissione, sentenza del 13 febbraio 1979). Un’impresa è considerata in posizione dominante quando ha la capacità di agire in maniera indipendente rispetto a tutti gli altri attori del mercato su cui opera. L'art. 3 della legge n. 287/90, che costituisce l'omologo nazionale dell'art. 86 del Trattato CE, come noto è ispirato dall’esigenza di intervenire nei confronti di comportamenti restrittivi della concorrenza tenuti da imprese in posizione dominante; esso formalizzerebbe una sorta di "codice di comportamento" misurato su quelle imprese che godono di una certa potenza economica sul mercato rilevante. Secondo una formula oramai ricorrente in dottrina, l’art. 3 non vieta l’esistenza in sé di una posizione dominante, aspetto oggettivo in quanto lecito e determinato da una certa situazione di mercato, bensì il suo abuso, che è un aspetto soggettivo e discorsivo dell’esistenza della posizione dominante in quanto legato al comportamento dell’impresa in questione e considerato illecito per gli effetti negativi che comporta sull’esercizio della libera concorrenza; dunque, esso esprimerebbe non una volontà di impedire - prevenendola - l’acquisizione di una posizione dominante o di monopolio, ma piuttosto di impedire che di tale posizione si faccia un uso che sia distorsivo della concorrenza, sovracompetitivi. 36 o si estraggano profitti Una posizione dominante può essere anche detenuta congiuntamente da un gruppo di imprese, come accade in un mercato oligopolistico in cui i fautori possono prevedere i comportamenti reciproci. Si intende per concentrazione un'aggregazione di imprese mediante fusione o incorporazione, la costituzione di aggregazioni su base contrattuale (quali ad esempio le associazioni temporanee d'impresa o le joint venture), la costituzione di consorzi per lo svolgimento di fasi rilevanti delle imprese partecipanti ovvero ulteriori forme che favoriscano la crescita dimensionale delle imprese. Si può distinguere tra concentrazioni orizzontali e concentrazioni (o integrazioni) verticali. Le prime hanno luogo quando un’impresa acquisisce il controllo di un’altra impresa appartenente al medesimo mercato rilevante, sia dal punto di vista merceologico che geografico: in altri termini, si tratta dell’acquisizione del controllo di un concorrente. Le concentrazioni verticali hanno invece luogo quando le due imprese non appartengono allo stesso mercato prima della fusione, ma riguardano la medesima filiera. Si possono definire inoltre forme di concentrazione conglomerale, a seconda delle relazioni che intercorrono tra le imprese che realizzano la concentrazione. La legge (art. 6, L. 287/90) limita le possibilità di concentrazione tra imprese dichiarando illegittime quelle che comportano la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale, tale da limitare o comprimere, in modo sostanziale e durevole, la concorrenza. Con il termine intesa ci si riferisce a qualsiasi accordo o pratica concordante tra imprese. Il legislatore non ha voluto vietare tout court le intese, ma solo quelle che abbiano per oggetto, o per l’effetto, l’impedimento, la restrizione o la distorsione della concorrenza all’interno del mercato nazionale, o in una sua parte rilevante. L’accordo restrittivo della libertà di concorrenza è posto in essere da almeno due soggetti, che rinunciano a competere fra loro in regime di libera concorrenza. Con riguardo alla tipologia degli accordi, possiamo distinguere tra accordi orizzontali (qualora vengano poste in essere da 37 imprese che operano nella stessa fase del processo economico e che si impegnano a mantenere un medesimo comportamento, per esempio un cartello sui prezzi da praticare) ed accordi verticali (conclusi da imprese che, operando in stadi differenti, decidono di tenere un certo comportamento, per esempio un accordo di vendita a prezzi imposti). Tenuto conto di questa breve premessa, ci verrebbe da chiederci quali comportamenti anticoncorrenziali potrebbero invocare gli attori dell’azione di classe, posto che tali comportamenti creerebbero un danno diretto alle imprese concorrenti anziché alla platea dei consumatori e degli utenti. Questi dubbi possono essere ben presto dissolti se solo si dà una lettura ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, che, dopo interpretazioni altalenanti, ha sostenuto che la L. 287/90 in materia di antitrust: “non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla diminuzione di tale carattere” (Cass. SSUU 04 febbraio 2005, n. 2207 in Foro It. 2005, I, c. 1014, con nota di A. PALMIERI – R. PARDOLESI, «L’Antitrust per il benessere (e il risarcimento del danno) dei consumatori»; nonché in Giur. It., 2005, p. 967, con nota di G. CANALE, «I consumatori e la tutela antitrust»). La Cassazione ha precisato che colui che subisce un danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza (ad esempio il consumatore) con gli autori di una collusione, ha a propria disposizione l’azione individuale di cui all’art. 33 L. 287/90 con cui far valere l’atto illecito ex art. 2043 cc commesso dal professionista. Questo orientamento è stato subito recepito dalla giurisprudenza successiva, la quale ha riconosciuto la legittimazione attiva all'esercizio dell'azione prevista dall'art. 33 L. 10 ottobre 1990 n. 287 non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo e, quindi, anche 38 al consumatore finale, che subisce un danno derivante dalla contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione tra imprenditori del settore (Così Cass. Civ. 28 ottobre 2005 n. 21081, in Giust. Civ., 2006, I, p. 2051; Cass. Civ. 02/02/2007 n. 2305, in FI, 2007, 4, I, c. 1097). Contrariamente a quanto ritenuto in passato, pertanto, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. L’antitrust viene concepito come uno strumento di “libertà”: sia di libertà di impresa, sia di libertà dei consumatori, sia, in una parola, di libertà dei cittadini (così G. ROSSI, «Antitrust e teoria della giustizia», in Riv. Soc., 1995, pag. 14, ma anche R. PARDOLESI, «Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone», in Foro It., 2004, I, c. 469 ss; B. INZITARI, «Abuso di intesa anticoncorrenziale e legittimazione aquiliana del consumatore per lesione della libertà negoziale», in Danno e Resp., 2005, pag. 498 e ss). In breve l’art. 140 bis del Cod. del Cons. riconosce a livello di diritto positivo quell’impostazione secondo cui le norme a tutela della concorrenza non rappresentano un mantello protettivo degli imprenditori soltanto, ma anche legge di tutti i soggetti del mercato, consumatori compresi. In questa direzione si è collocata anche la CE sia con una Comunicazione della Commissione, dal titolo “Una politica della concorrenza proattiva per un’Europa competitiva”, la quale fra gli obbiettivi dell’ordinamento comunitario pone anche “la migliore integrazione degli interessi dei consumatori nel dispositivo di regolamentazione della concorrenza” (COM (2004) del 20 aprile 2004), e sia tramite la pubblicazione di un Libro Bianco il 02 aprile 2008 “in materia di risarcimento del danno per violazione delle norme comunitarie antitrust” (COM (2008) 165), ove si afferma che “tutti i 39 cittadini e tutte le imprese che subiscono un danno a seguito di un’infrazione delle norme antitrust comunitarie (artt. 81 e 82 del Trattato CE) devono poter richiedere un risarcimento alla parte che ha causato il danno. Il diritto delle vittime al risarcimento del danno è garantito dal diritto comunitario, come affermato dalla Corte di Giustizia nel 2001 e 2006 (Causa C-453/99 e Cause Riunite C-295-298/04)”. Una rilevante pronuncia della Corte di Giustizia CE (Corte di Giustizia CE, 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage c. Crehan, in acc., I, pag. 6297, commentata, tra altri, da S. BASTIANON, «Intesa illecita e risarcimento del danno a favore della parte debole», in Danno e Resp., 2001, pag. 1151; G. ROSSI, «“Take Courage”! La Corte di Giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust», in Eur. Dir. Priv., 2002, pag. 673), a cui poi ha fatto seguito una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. SSUU 04 febbraio 2005, n. 2207), confermata da una recente pronuncia (Cass. Civ. 02 febbraio 2007, n. 2305), ha recepito la tesi in base alla quale un atto anticoncorrenziale provoca effetti negativi nei confronti dei fruitori finali e che tali effetti, pertanto, sono sanzionabili anche su iniziativa diretta dei consumatori. L’art. 140 bis del Cod. del Cons. recepisce pienamente questo orientamento. Ciò nondimeno, occorre riconoscere che, pur in assenza di una norma di carattere sostanziale che riconosca direttamente in capo al consumatore il diritto ad una concorrenza effettiva e corretta, indispensabile per assicurare il miglioramento qualitativo ed economico dei beni e servizi a sua disposizione, il legislatore ha voluto garantire la protezione collettiva dei consumatori vittime di condotte anticoncorrenziali, attribuendo ai medesimi la facoltà di agire tramite l’azione di classe. La restrizione della libertà di scelta dei prodotti disponibili subita dal consumatore a seguito di un intesa illecita a monte costituisce un danno ingiusto per i consumatori ai sensi dell'art. 2043 cc e come tale legittima a richiedere il ristoro del pregiudizio derivante dal comportamento anticoncorrenziale tenuto. Ciò significa che la violazione della disciplina 40 antimonopolistica altera il mercato e poiché il consumatore è il fruitore finale del prodotto immesso sul mercato, ha il diritto di perseguire le condotte anticoncorrenziali chiedendone i danni, ora anche tramite l'azione collettiva. Per essere precisi, nell’ambito dei comportamenti anticoncorrenziali occorre annoverare non solo la L. 10 ottobre 1990, n. 287, posta a tutela della concorrenza e del mercato, ma anche le norme sulla pubblicità in genere (art. 1, comma 2, artt. 5, 6, 7 del DLgs 02 agosto 2007, n. 145), quelle della pubblicità comparativa (art. 4 del DLgs 02 agosto 2007, n. 145) e quelle sulla pubblicità ingannevole (art. 2, lett. b, art. 3 del DLgs 02 agosto 2007, n. 145). Quando una di queste norme viene violata provocando anche un danno ai consumatori, questi potrebbero agire in via collettiva facendo valere la condotta anticoncorrenziale illecita a causa della violazione di norme poste espressamente a tutela dei professionisti, ma che in ultima analisi tutelano il corretto funzionamento del mercato e pertanto anche gli interessi dei consumatori. Esperita l’azione collettiva, l’attore va incontro ad un onore probatorio piuttosto gravoso in quanto dovrà dimostrare l’intesa vietata. Gli accordi tra le imprese vengono ovviamente tenuti nascosti ed è una vera e propria probatio diabolica fornire la prova di atti riservati e segreti. È agevole notare la presenza di una asimmetria informativa che occorrerà colmare con le dovute cautele per evitare gli effetti negativi di obblighi di divulgazione eccessivamente ampi ed onerosi, in particolare il rischio di abusi. Qualcuno (cfr. F. RIZZO, Azione collettiva risarcitoria e interessi tutelati, op. cit., pag. 303) a tal proposito, per aggirare questa difficoltà, ha proposto di utilizzare il materiale probatorio raccolto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) (nei casi in cui non costituisca segreto di ufficio) ed il provvedimento con cui viene accertata l’intesa, costituendo, questi, “strumenti preziosi” per l’attore collettivo che agisce ex art. 140 bis del Codice del Consumo. 41 Rebus sic stantibus le azioni collettive per comportamenti anticoncorrenziali potranno essere azionate solo a seguito dell’attività istruttoria dell’AGCM e a seguito di un provvedimento che accerti la condotta anticoncorrenziale da parte dell’impresa. E questo potrebbe avere anche un senso se si considera che il comma 6 dell’art. 140 bis del Cod. del Cons. prevede che il giudice del processo collettivo risarcitorio possa sospendere la pronuncia sull’ammissibilità della domanda quando “ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente”. Un brevissimo accenno va fatto anche all'apparente contrasto normativo che si verrà a creare in quelle azioni collettive che hanno come causa petendi atti di concorrenza sleale nel momento in cui si dovrà stabilire l'organo giudiziario competente. Infatti, la previsione dell'art. 140 bis, comma 4 è in contrasto con l'art. 33, comma 2 L. 287/1990. La giurisprudenza (Cass. SSUU, 04 febbraio 2005, n. 2207, cit.) ritiene che, con riferimento all'azione individuale del consumatore danneggiato da atti e comportamenti rientranti nella nozione di concorrenza sleale, basata su intese, abuso di posizione dominante e operazioni di concentrazione, questa vada proposta dinanzi alla Corte di Appello competente per territorio, che decide in unico grado, in conformità con il disposto dell'art. 33 L. 287/1990. Contrasto apparente perchè si può ritenere che l'art. 140 bis prevalga sull'art. 33 sia perchè il primo è temporalmente successivo al secondo, sia perchè la sua applicazione è rivestita dal carattere di specialità. Parte della dottrina sostiene che le due norme non entrano affatto in contrasto, ma semmai si affiancano, essendo l’art 33 predisposto per l’azione individuale, mentre l’art. 140 bis per il rimedio collettivo a seguito di illecito anticoncorrenziale plurioffensivo (così F. RIZZO, Azione collettiva risarcitoria e interessi tutelati, op. cit., pag. 299). 8.Il procedimento. a) La fase preliminare. 42 La domanda si propone con atto di citazione dinanzi al Tribunale territorialmente competente come in precedenza delineato. Giova premettere che la normativa non contiene un espresso riferimento alle norme processuali applicabili, a causa dei continui richiami al codice di procedura civile. Appare, pertanto, inevitabile ritenere che nell'ipotesi in cui alcuni aspetti del procedimento dell'azione collettiva non siano espressamente disciplinati dall'art. 140bis del codice consumo, questi saranno regolati dalle norme processuali del codice di rito. Alla prima udienza, in cui potrà essere presente oltre l’attore e il convenuto anche il pubblico ministero (il quale può intervenire, però, limitatamente al giudizio di ammissibilità) il giudice, in composizione collegiale, dopo aver valutato l’integrità del contraddittorio e le questioni di rito di pronta soluzione (l’atto di citazione dovrà essere notificato correttamente non solo al convenuto, ma anche al pm), decide con ordinanza sull’ammissibilità della domanda, verificando in primis che non sia in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente (es. l’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza) o un giudizio davanti al giudice amministrativo su fatti rilevanti ai fini del proprio decidere. È da notare come il legislatore in questi casi non ha predisposto d’ufficio la sospensione, ma lo ha lasciato alla discrezionalità del giudice, limitandosi solo a prevedere tale possibilità. L’organo giudicante dovrà prendere in considerazione l’esistenza di un procedimento in seno ad una autorità o innanzi al giudice amministrativo. È infatti sulla base della sua rilevanza rispetto ai fatti di causa e delle possibili conseguenze sui diritti rappresentati che deciderà, secondo il suo prudente apprezzamento, sull’opportunità di sospendere il giudizio, rinviando di conseguenza, almeno fino a quando l’autorità indipendente o il giudice amministrativo pubblichino la loro decisione, la sua pronuncia sull’ammissibilità della domanda. Nulla il legislatore ha previsto nel caso in cui la decisione dell’autorità amministrativa venisse impugnata dinanzi al giudice amministrativo: la sospensiva dell’azione di classe, in questo caso, deve continuare? Se, come 43 sembra, la risposta è positiva, allora avremo di conseguenza un differimento (“peraltro insensato posto che un’istruttoria amministrativa non dovrebbe avere alcuna interferenza con una causa civile” – cfr. BERTUCCIMORETTI, «Class action all’amatriciana, dubbi e perplessità. Come agire», in www.aduc.it) dell’azione collettiva per tempi assolutamente lunghissimi, contraddicendo la stessa ratio dell’azione di classe, ideata per tutelare diritti omogenei in tempi brevi. Forse sarebbe stato meglio, come auspicato da parte della dottrina, invece di consentire la sospensione dell’azione di classe, disporre l’esibizione di documenti o richiedere informazioni agli organi di vigilanza senza attendere la conclusione della loro fase istruttoria (così C. CONSOLO, in Obbiettivo class action: l’azione collettiva risarcitoria, 2008, Milano, pag. 158, il quale a sostegno della sua ipotesi riporta una sentenza di rito, in cui si ammette che la prova del nesso eziologico tra illecito concorrenziale e danno possa essere assolta tramite produzione in giudizio dei documenti relativi agli accertamenti svolti dall’autorità garante per la concorrenza, Corte di Appello di Napoli, sez. III, 12 luglio 2007). Il legislatore ha stabilito che l’ordinanza che decide sull’ammissibilità è reclamabile davanti alla Corte di Appello nel termine perentorio di 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione se anteriore. Sul reclamo la corte di appello in camera di consiglio decide entro 40 giorni dal deposito del ricorso. Specularmene alla forma assunta dalla decisione del Tribunale, anche la Corte di Appello decide con ordinanza. Il legislatore ha specificato che il reclamo dell’ordinanza ammissiva non sospende il procedimento davanti al tribunale, condividendo quell’opinione dottrinale che, in analogia a quanto previsto dall'art. 279, comma terzo cpc, propende per la non sospensione del processo. In questi casi la sospensione può essere concessa solo in caso di pendenza del ricorso in Cassazione contro il provvedimento emesso dalla Corte di appello, in virtù dell'art. 129 bis disp. att. cpc. In caso di ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’azione, l’attore potrà impugnare il provvedimento in Corte di appello. 44 E qualora la corte di appello dovesse confermare l’inammissibilità della domanda, in base al noto principio secondo cui ciò che rileva è il contenuto del provvedimento e non la forma che questo assume (ossia ordinanza), avendo la pronuncia della corte di appello contenuto decisorio su “un cumulo di diritti soggettivi, quali quelli frutto delle varie adesioni raccolte a quella data” (cfr. C. CONSOLO, È legge una disposizione sull'azione collettiva risarcitoria, op. cit., pag. 7, ma v. anche Id., «Profili Processuali Generali, rito applicabile e fase preliminare del c.d. “filtro” giurisdizionale sulla ammissibilità dell’azione collettiva», in Obbiettivo Class Action: l’azione collettiva risarcitoria, op. cit., pag. 159 e ss.), in quanto statuisce sui diritti dei consumatori appartenenti alla classe, sarebbe proponibile ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. Secondo altri (S. MENCHINI, La nuova azione collettiva, op. cit.), questo rimedio straordinario non sarebbe esperibile atteso che se anche il provvedimento avesse contenuto decisorio non è idoneo ad acquistare l’autorità di cosa giudicata e pertanto non è da ritenersi definitivo. Di conseguenza lo stesso ente attore “pur in assenza di elementi sopravvenuti, può proporre una nuova istanza, sia deducendo nuove prove, sia allegando nuovi fatti quantunque già esistenti, sia, più semplicemente, meglio configurando l’azione in punto di diritto. L’ordinanza non ha la stabilità del giudicato e non produce l’efficacia preclusiva del dedotto e del deducibile; essa non è definitiva, e, di conseguenza, non è impugnabile di fronte alla Suprema Corte, con ricorso straordinario” (così S. MENCHINI, op. cit.). Probabilmente questa seconda ipotesi è da preferire. Essa ha il vantaggio di consentire la definizione in tempi rapidi della questione relativa all’ammissibilità della domanda, senza dover attendere l’eventuale pronuncia della Cassazione, senza poi considerare che essa è fondata su una delibazione sommaria, pertanto si avrebbero seri problemi nel considerare l’ordinanza al pari di un provvedimento con stabilità del giudicato sostanziale. Infine, anche quando sia stata dichiarata in sede sommaria la manifesta infondatezza della domanda collettiva, nulla vieta ad altri soggetti 45 legittimati di riproporla sia allegando nuovi fatti, sia articolando nuove prove o producendo ulteriori prove precostituite. Con l’ordinanza di inammissibilità, il giudice dispone sulle spese, anche ai sensi dell’art. 96 cpc, e ordina la più opportuna pubblicità a cura e spese del soccombente. Questa disposizione sanzionatoria non era presente nel precedente testo dell’art. 140 bis e probabilmente appare un po’ eccessiva per il rinvio fatto all’art. 96 cpc, ma ha una sua logica se si guarda all'interesse della parte convenuta, ossia all’imprenditore che può trovarsi al centro dell’attenzione dei mass media a seguito della promozione una azione di classe (con possibili danni causati a seguito del crollo dei suoi titoli in borsa), che poi in realtà risulti essere inammissibile e magari in presenza di un suo promotore simulato da rintracciarsi in un suo diretto concorrente di mercato. Ecco allora che il rinvio all’art. 96 cpc e la pubblicità a spese del soccombente potrebbe risultare la giusta contromossa per ristabilire quell’equilibrio economico turbato in partenza tramite l’azione di classe. Tra l’alto l’art. 96 cpc è stato modificato dalla recente L. 69 del 18/06/2009, entrata in vigore il 04/07/2009, introducendo una terza e nuova fattispecie di responsabilità aggravata, in base alla quale il giudice in ogni caso può condannare la parte soccombente al pagamento a favore di controparte di una somma di denaro equitativamente determinata. Gli elementi innovativi rispetto alle fattispecie disciplinate nei primi due commi del medesimo articolo sono: 1) la ricorribilità a tale strumento sanzionatorio anche d’ufficio, senza la necessità di un’istanza di parte; 2) la previsione di una condanna a danni determinabile in via equitativa del tutto autonoma rispetto alle eventuali condanne intervenute a norma dei primi due commi. È chiaro l’intento del legislatore nel rafforzare le funzione deterrente per evitare l’instaurazione di evidentemente infondate. b) Condizioni di ammissibilità della domanda. 46 cause pretestuose o Nella fase iniziale del procedimento collettivo l'art. 140 bis del Codice del consumo ha stabilito quattro figure specifiche di condizione per l'ammissibilità dell'azione. Come anche l’accertamento il testo della dell’esistenza nuova delle normativa condizioni lascia dell’azione intendere, avviene preliminarmente all’esame del merito e la loro mancanza è rilevabile anche d’ufficio ed impedisce la prosecuzione del giudizio. Ovviamente le figure tipizzate di ammissibilità dell’azione di classe si affiancano alle condizioni generali come ad esempio l’interesse ad agire e la legittimazione. In particolare si tratta di: i) manifesta infondatezza della domanda; ii) esistenza di eventuali conflitti di interessi; iii) mancanza di identità dei diritti tutelabili ai sensi del secondo comma dell’art. 140 bis; iv) mancanza da parte del proponente l’azione di classe di curare adeguatamente l’interesse della classe. Tale sistema ci riporta alla memoria il sistema del modello statunitense della certification: all’inizio del processo in un’udienza ad hoc il giudice nel suo ampio potere discrezionale valuta se l’azione promossa abbia tutti i requisiti richiesti dalla Rule 23 e, pertanto, possa considerarsi come azione di classe. Si tratta di strumenti di economia processuale che mirano a bloccare ab initio procedimenti affetti da vizi idonei ad inficiare l'intera azione collettiva risarcitoria. Così facendo il legislatore ha introdotto una sorta di filtro giurisdizionale all’esercizio dell’azione, nel tentativo di prevenire domande temerarie, infondate o pretestuose, con l’intento di scongiurare il rischio del diffuso fenomeno tipico dell’esperienza americana, ove, con riferimento a talune class actions, si è impiegata l’espressione di “blackmail settlements” (ossia “ricatti legalizzati”, si cfr. a tal proposito HAY e ROSENBERG, «“Sweetheart” and “Blackmail” Settlements in Class Action: Reality and Remedy», 75, 47 Notre Dame L. Rev., 2000, 1377, 1389, i quali richiamano un importante procedimento in cui il giudice ha scritto: “la forte pressione che deriva dalla certificazione della classe equivale a un legal blackmail”, così in Castano V. American Tabacco Co., 84 F.3d 734, 746 - 5th Cir. 1996). i) Valutazione di non manifesta infondatezza. Con riguardo alla “non manifesta infondatezza della domanda” il giudice non dovrebbe verificare gli elementi costitutivi della domanda, bensì la ricorrenza dei presupposti per dar luogo alla tutela collettiva. É chiaro che il giudice è chiamato ad una cognizione sommaria, allo stato degli atti, circa la sussistenza di un fumus boni juris. In altre parole il giudice, senza addentrarsi nel merito (pena una duplicazione del giudizio relativo alla sussistenza della responsabilità), dovrà fornire un giudizio di stampo probabilistico sull'ipotetica accoglibilità della domanda, limitandosi a rigettare, ritenendo inammissibili, le domande che ictu oculi ritiene infondate. Scendendo nel concreto il giudice dovrà valutare in primis se il danneggiante rientra nella figura di impresa; se la sede dell'impresa rientra in base al comma 4 dell’art. 140 bis nel territorio compreso all'interno della sua giurisdizione; se i soggetti richiedenti la tutela possono essere qualificati come consumatori od utenti; se la patologia del rapporto tra i predetti soggetti sia nato all'interno di un rapporto di consumo. Inoltre, il giudice dovrà verificare, se il presunto danno rientra nell'ambito di una delle situazioni descritte nel secondo comma dell’art. 140 bis. Non è necessario stabilire, in altri termini, se l’imprenditore, sia pure in modo sommario, sia responsabile o meno dell’illecito e quindi tenuto a risarcire il danno prodotto. Il giudizio di ammissibilità non ha come oggetto l’esistenza o meno degli elementi costitutivi dell’illecito, ma solo la ricorrenza o meno dei presupposti per poter attivare la tutela collettiva, pena una inspiegabile e defatigatoria duplicazione del giudizio relativo alla sussistenza della responsabilità. 48 Pertanto la pretesa dell’attore dovrebbe essere ammessa allorché le allegazioni di parte attrice risultino idonee a giustificare l’accoglimento della domanda, sempre che ovviamente non palesino la temerarietà e l’infondatezza dell’azione. ii) La valutazione del conflitto di interessi. Altro giudizio rientrante nella valutazione di ammissibilità dell'azione è la mancanza di un conflitto di interessi. Il conflitto di interesse può sussistere tra l’ente collettivo e i singoli utenti o consumatori e comunque mira ad evitare che il proponente l’azione di classe sia portatore di situazioni soggettive che possono in qualche modo essere confliggenti con quelle che il medesimo pubblicamente si fa portatore e rappresenta. La ratio di questa previsione è quella di garantire un’azione di classe trasparente ed orientata al solo scopo di tutelare gli interessi degli utenti e dei consumatori e non strumentalizzata da terzi per fini diversi da quelli per cui è stata prevista. Si vogliono evitare, infatti, possibili collusioni tra la parte danneggiante e il proponente che si fa portatore degli interessi dei consumatori e degli utenti appartenenti alla medesima classe. Si teme che l’imprenditore danneggiante possa interferire nell’esercizio corretto dell’azione ponendo in essere degli accordi con il proponente a danno dell’intera classe dei consumatori od utenti. iii) Identità dei diritti individuali. La domanda è dichiarata inammissibile quando il giudice non individua l’identità dei diritti individuali oggetto dell’azione di classe. Ciò si verificherà ogni qual volta l’azione promossa difetti del profilo di serialità in riferimento alla diffusione del servizio prestato dall’impresa convenuta e al carattere isomorfo dei diritti lesi. In questo caso il giudice non è chiamato a giudicare l’esistenza dei diritti individuali oggetto dell’azione di classe, ma solamente l’uniformità dei diritti individuali e la compatibilità della domanda con le fattispecie cui l’art. 140 bis secondo comma assicura protezione. 49 Il giudice dovrà, pertanto, verificare che gli appartenenti alla classe devono essere titolari di situazioni giuridiche controverse, la cui soluzione dipenda dalla decisione di medesime questioni di fatto e di diritto. iv) Adeguata tutela degli interessi della classe. Infine nel giudizio di ammissibilità il giudice dovrà valutare se il proponente l’azione di classe è in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Il criterio dell’adeguata tutela sembra richiamare l’omologo criterio della adeguacy of representation prevista dalla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure, ossia la capacità dell’attore di curare adeguatamente l’interesse della classe. c) La “opportuna pubblicità”. Se il tribunale ritiene ammissibile la domanda, ai sensi dell'art. 140 bis, comma 9, “fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe”. Il legislatore non ha disciplinato forme stabilite a priori di pubblicità. Si ritiene che oltre a potersi servire dei tradizionali mezzi di diffusione caratterizzati dai mass media (stampa, radio, televisione), per poter effettuare la pubblicità, il proponente potrà servirsi di siti internet, posta, ma anche tramite la notificazione per pubblici proclami ai sensi dell'art. 150 cpc. Nonostante questa precisazione nel nuovo testo sia sparita, si deve ritenere ugualmente che nella pubblicità sull'azione collettiva devono essere resi noti tutti i tratti salienti della procedura in atto, ossia: 1) i dati identificativi del soggetto proponente; 2) il contenuto della domanda; 3) i dati identificativi del legittimato passivo; 4) il petitum; 5) la causa petendi; 6) il nome del difensore che ha ricevuto l'incarico; 50 5) quali sono gli effetti giuridici derivanti dall'adesione; 6) l’indicazione del termine ultimo entro il quale poter aderire. La pubblicità costituisce l'elemento essenziale di ogni azione collettiva per consentire ad altri consumatori o utenti che si trovino in situazioni analoghe, di aderire al giudizio. Le spese della pubblicità sono a carico dell'attore e questo sia perchè l'onere della pubblicità incombe su chi se ne giova e sia perchè, essendo nella fase istruttoria, è corretto non onerare di una tale spese (a volte anche onerosa) quella parte (l'impresa) che ancora non è stata dichiarata responsabile. Se è vero che la nuova norma ha arricchito il dettato normativo riguardante la pubblicità, dedicandogli addirittura un intero comma, però ha affidato al giudice il compito di stabilire il contenuto e le modalità della pubblicità. Considerata la delicatezza dello strumento pubblicitario il legislatore avrebbe potuto prevedere legislativamente (magari tramite fonte regolamentare) gli strumenti per realizzare finalità informative tali da consentire l’adeguata conoscenza dell’azione di classe. In mancanza di una regolamentazione specifica si potrebbe favorire la promozione di campagne pubblicitarie particolarmente aggressive e denigratorie nei confronti delle imprese che potrebbero dar luogo a delle ripercussioni talmente negative sul piano dell'immagine che potrebbero comportare un dissesto finanziario di gravi proporzioni per l'impresa colpita. Lo strumento pubblicitario è molto delicato, specialmente se la domanda collettiva viene poi rigettata. A seconda delle forme di pubblicità adottate, i danni arrecati nel frattempo all’immagine dell’impresa convenuta possono essere notevoli. Una nota positiva è da attribuire al legislatore, il quale ha provveduto ad introdurre una pubblicità anche nel caso in cui la domanda collettiva viene respinta in quanto ritenuta inammissibile, questo al fine di 51 ripristinare (quanto meno parzialmente) i danni (soprattutto di immagine), medio tempore, arrecati all'impresa. Il legislatore attribuisce quindi un peso notevole all’istituto della pubblicità, tanto è vero che, a differenza del vecchio testo dell’art. 140 bis, ha predisposto che la sua esecuzione è considerata come condizione di procedibilità della domanda. Il difetto di tale condizione di procedibilità potrà essere eccepito dall'impresa convenuta o d'ufficio dal tribunale. In altre parole non eseguire la pubblicità o eseguirla non correttamente, non rispettando i termini e le modalità dettati dal tribunale non comporta effetti sostanziali sfavorevoli, ma semplicemente l’azione viene bloccata dal giudice in attesa che la pubblicità venga nuovamente eseguita. Il giudice, pertanto, non ha il potere di sospendere il giudizio, ma può solo differire l’udienza al fine di consentire che la pubblicità venga realizzata correttamente. Ricordo fin d’ora che il legislatore ha posto il limite di 120 giorni dalla scadenza del termine per l'esecuzione della pubblicità per poter aderire all'azione di classe; con lo spirare del quale si determina l'improponibilità di ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa. d) Il contenuto dell'ordinanza che ammette l'azione di classe. Il tribunale, con l'ordinanza con cui ammette l'azione, determina altresì il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l'equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive anche le misure idonee ad evitare ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti, regola nel modo che ritiene più opportuno l'istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. 52 Nel caso invece in cui il tribunale valuta l'azione ammissibile, con la stessa ordinanza, dà inizio al relativo procedimento. L'ordinanza con cui viene ammessa l'azione di classe ha un contenuto ampio che disciplina sia gli aspetti sostanziali che quelli procedurali. In particolare spetta al tribunale: (i) determinare il corso della procedura in modo che sia assicurata l'equa, efficace e sollecita gestione del processo, nel rispetto del contraddittorio. Il tribunale dovrà gestire tutte le attività di causa in tempi brevi, ad esempio fissando in anticipo un calendario delle udienze con le relative attività, cercando di sfruttare al meglio ogni udienza, evitando di convocare le parti per dei meri rinvii, nonché pronunciando i provvedimenti e le decisioni in tempi ristretti. Il tutto deve essere effettuato rispettando il diritto di difesa delle parti e, quindi, senza danneggiare la loro possibilità di agire in giudizio per la tutela dei loro interessi. (ii) prescrivere le misure idonee ad evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti che, al contrario, comportano un dilungarsi eccessivo della fase istruttoria del processo. (iii) regolare l'istruzione probatoria nel modo che ritiene più opportuno. Il tribunale ammetterà solo le prove testimoniali rilevanti e valuterà quando sia più conveniente avvalersi della testimonianza scritta rispetto a quella orale, evitando così perdite di tempo dovute all'escussione di testi le cui testimonianze spesso si rilevano non necessarie. (iv) disciplinare ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. L'ordinanza che contiene tali determinazioni, e che in base alle regole generali del codice di procedura civile è un atto succintamente motivato, può essere sia quella con cui viene ammessa l'azione di classe, 53 sia un'altra successiva ordinanza del tribunale, che può essere modificata o revocata in ogni tempo. e) La sentenza. Terminata la fase istruttoria e dopo la precisazione delle conclusioni il tribunale trattiene la causa in decisione. La norma stabilisce infatti che se il tribunale accoglie la domanda emette una sentenza di condanna con la quale "liquida ai sensi dell'art. 1226 del codice di procedura civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all'azione", oppure "stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme". Si tratta, pertanto, di una vera e propria sentenza di condanna, con la quale il tribunale non si limita all'accertamento dei diritti individuali, ma dispone che l'impresa soccombente esegua una prestazione, ossia il pagamento di una somma nei confronti di ciascun consumatore/utente aderente. Quando il danno però non può essere determinato nel suo preciso ammontare, il tribunale dovrà effettuare una liquidazione in base ad una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 del codice civile. E' importante a tale proposito rilevare che la liquidazione equitativa del danno non potrà mai giungere alla configurazione ed alla conseguente condanna di un danno cosiddetto punitivo il quale, come previsto dalla class action statunitense, consiste in una condanna al pagamento di somme di danaro aventi natura appunto punitiva, a causa della gravità dell'illecito commesso, completamente slegata dalla natura compensativa dei danni realmente sofferti dal consumatore o utente. La normativa italiana, al contrario, non prevede alcun danno punitivo e in caso di vittoria dei consumatori o utenti, a questi spetterà solo il risarcimento del danno che gli stessi avranno dimostrato di aver subito. Il tema della liquidazione del danno risarcibile costituisce, in ogni caso, uno degli aspetti più delicati dell'azione collettiva, in quanto anche se la maggior parte delle volte l'illecito lede una pluralità di soggetti in modo 54 identico, causando a tutti un identico danno, prevalentemente l'incidenza dell'illecito sul patrimonio delle vittime è diversificata. In questo ultimo caso, pertanto, il tribunale del processo collettivo si limiterà ad indicare un criterio di calcolo, essendo contrario ai principi di efficienza e di economia processuale una valutazione specifica per ciascun aderente. In deroga alla regola generale del codice di procedura civile in base alla quale la sentenza di primo grado è immediatamente esecutiva, l'art. 140bis, comma dodicesimo, codice del consumo, stabilisce che la sentenza emessa al termine del giudizio collettivo diviene esecutiva solo dopo 180 giorni dalla pubblicazione. I pagamenti delle somme dovute effettuati durante tale periodo che potremmo definire di "sospensione" dell'esecutività della sentenza, sono esenti da ogni diritto e incremento, anche per gli accessori di legge maturati dopo la pubblicazione della sentenza. L'obiettivo di tale previsione è evidentemente quello di incentivare l'impresa soccombente all'adempimento spontaneo alla sentenza di condanna (così R. CAPONI, La riforma della class action., op. cit., pag. 15). In ogni caso la sentenza può essere appellata negli ordinari termini previsti dal codice di procedura civile, e cioè entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza o entro sei mesi dalla sua pubblicazione. In questo modo viene tutelato ad ogni consumatore o utente il diritto del doppio grado di giudizio. f) La fase di appello. Una volta che la sentenza di primo grado diviene esecutiva, l'impresa soccombente, nel caso in cui decida di impugnare la sentenza può preliminarmente, nel relativo atto di citazione in appello, chiedere alla Corte d'Appello di sospenderne l'esecutività (Cfr. art. 140bis, comma tredicesimo, codice del consumo). Nell'ambito però delle azioni di classe la Corte d'Appello nel decidere sull'istanza di sospensione, a differenza di quanto accade negli ordinari 55 procedimenti civili, dovrà tenere conto oltre che dei criteri previsti dal codice di procedura civile, ovvero della sussistenza dei gravi e fondati motivi anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti, anche di quelle condizioni proprie dell'azione collettiva e disciplinate dall'art.140bis codice del consumo, al comma tredicesimo. La Corte d'Appello dovrà, infatti, valutare l'entità complessiva della somma che l'impresa è tenuta a pagare, il numero dei creditori e la difficoltà di un'eventuale ripetizione degli importi, nel caso in cui l'impugnazione fosse accolta. Può infatti risultare complicato, se non impossibile, per un'impresa che abbia pagato una moltitudine di consumatori sulla base della sentenza di primo grado, ottenere poi la restituzione delle somme se la Corte d'appello decide la causa diversamente. Da ultimo, quando la Corte d'Appello sospende l'esecutività della sentenza di primo grado, può anche disporre che fino al passaggio in giudicato della sentenza stessa, la somma complessiva dovuta dall'impresa venga depositata e resti vincolata nelle forme più opportune. Ovviamente, la sentenza emessa dalla Corte di Appello sarà poi soggetta al possibile naturale gravame di fronte alla Corte di Cassazione, in base agli ordinari principi stabiliti dal codice di procedura civile. 9.Le rinunce e le transazioni. Segue la regola dell'opt-in anche la definizione del giudizio in via transattiva. Infatti, ai sensi del comma quindicesimo dell'art. 140bis codice del consumo, "le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito". L'azione collettiva risarcitoria può conseguire il massimo di efficienza se si conclude con una transazione collettiva, quando l'andamento del processo, vicino alla prospettiva di una pronuncia di condanna, induca 56 il convenuto a proporre anticipatamente il pagamento di una somma ai soggetti lesi a definitiva composizione della controversia. Si ritiene, in ogni caso, che il consenso alla transazione possa essere espresso dagli aderenti all'azione collettiva non solo in via preventiva, ma anche mediante successiva ratifica. Le rinunce e le transazioni avvengono solo nell'ambito del processo e sono di natura collettiva, la negoziazione non avviene tra l'impresa convenuta e il singolo consumatore, bensì tra l'impresa e il rappresentante della classe. In ogni caso, le rinunce e le transazioni intervenute tra l'attore collettivo e il convenuto non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi abbiano espressamente consentito o che non le abbiano ratificate. Il rappresentante della classe può quindi disporre dei diritti di credito degli aderenti dedotti in giudizio soltanto in presenza di un consenso espresso del singolo aderente sul contenuto e pertanto sulla convenienza economica della proposta di accordo conciliativo. La previsione in sede transattiva dell'esercizio di un opt-in, ulteriore rispetto a quello manifestato con l'adesione all'azione, può forse rappresentare un ostacolo alla integrale definizione della controversia nei confronti di tutti gli aderenti e pone anche l'ulteriore problema della individuazione di un efficiente, ma non oneroso, meccanismo di notifica della proposta agli aderenti. Di conseguenza, la comunicazione a mezzo posta a tutti gli aderenti potrebbe essere eccessivamente onerosa e un'efficace soluzione sarebbe la realizzazione della notificazione a mezzo posta elettronica (così F. SANTAGADA, «La conciliazione dell'azione collettiva risarcitoria: note a margine di una proposta di riforma dell'art. 140bis cod. Consumo», in www.judicium.it, pag. 6, e G. P. MILLER, «Punti cardine in tema di class action negli Stati Uniti e in Italia», in Analisi Giuridica dell’Economia, (a cura di) R. LENER E M. RESCIGNO, 2008, p. 220). Naturalmente i diritti degli aderenti restano salvi nei casi di estinzione del giudizio o di chiusura anticipata del processo. In queste ipotesi si 57 ripristina in capo ai singoli la facoltà di agire in via individuale per far valere le proprie pretese risarcitorie. 10.La mini retroattività. Una delle questioni più dibattute fino alla nuova formulazione dell’art. 140 bis, è stata quella di considerare retroattiva o meno la nuova azione collettiva. Il legislatore è intervenuto nel 2009 sull’azione collettiva in due tempi, sia pure a breve distanza di tempo. Con il DL n. 78 del 2009, pubblicato sulla GURI n. 150 del 01/07/2009, convertito con modificazioni nella L. del 03/08/2009, n. 102, pubblicata sulla GURI del 04/08/2009, n. 179 ed entrato in vigore il 05/08/2009, il Governo ha provveduto a sostituire le parole “decorsi 18 mesi”, di cui all’art. 2, comma 447 della legge del 24/12/2007, n. 244, come da ultimo modificato dall’art. 19, del DL 30/12/2008 n. 207, convertito con modificazioni dalla Legge del 27/02/2009, n. 14, con le parole “ decorsi 24 mesi”, rinviando, l’applicazione dell’azione collettiva risarcitoria (vecchio testo dell’art. 140 bis del codice del consumo) al 01 gennaio 2010. Nel frattempo dal Parlamento è stata definitivamente approvata la Legge n. 99 del 23/07/2009, pubblicata sulla GURI n. 176 del 31/07/2009, Supplemento Ordinario n. 136 ed entrata in vigore il 15/08/2009, dove l’art. 49 ha provveduto a sostituire integralmente l’art. 140bis del Codice del Consumo (mai entrato in vigore), dettando una nuova e completamente rivisitata disciplina dell’azione collettiva, modificandone addirittura il nome da “azione collettiva risarcitoria” in “azione di classe”. È proprio con la L. 99/09 che il legislatore ha pensato bene di limitare la portata applicativa nel tempo della nuova azione di classe. Da un punto di vista della teoria generale del diritto con attenzione all’efficacia nel tempo di una norma si suole effettuare una tripartizione tra norme ad efficacia retroattiva, norme ad efficacia immediata e 58 norme ad efficacia differita. In relazione alle tre fasi si individuano tre posizioni per l’applicazione della norma nel tempo. L’effetto retroattivo, allorché la norma trova applicazione per fatti accaduti nel passato; effetto immediato, la sua applicazione riguarda il presente; effetto differito, la sua applicazione è rimandata al futuro. A questo si dovrà aggiungere che in mancanza di riferimenti legislativi, per stabilire i tempi di applicazione di una norma, gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali consolidati distinguevano tra norme a carattere sostanziale e norme a carattere processuale. Solo per queste ultime si applica il principio del tempus regit actum e pertanto hanno portata retroattiva per fatti accaduti in passato. Premessa questa breve, ma essenziale, precisazione, è doveroso ricordare che con la precedente formulazione dell’art. 140 bis, nel silenzio del legislatore, era sorto il problema dell’efficacia applicativa della norma nel tempo. Il problema per la verità era venuto a galla quando l’Adusbef (associazione a difesa dei servizi bancari e finanziari, facenti parte del CNCU), aveva annunciato (Comunicato Adusbef del 28 gennaio 2008 in www.adusbef.it) di voler porre in essere un’azione collettiva per la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’anatocismo trimestrale e sul diritto del titolare del conto corrente ad ottenere la restituzione dell’indebito. Appariva evidente che i commentatori più vicini all’area dei consumatori sostenevano che la norma, essendo di carattere processuale, poteva dare luogo anche ad azioni per i fatti accaduti in passato come i crack finanziari Ciro, Parmalat, etc. Altri, invece, si opponevano fermamente a quella che è stata definita anche dai mass media come retroattività della class action, ostandovi ragioni essenzialmente riconducibili alla certezza acquisita dei rapporti giuridici, con la necessità di garantire l’impresa da esposizioni contenziose assolutamente imprevedibili al momento in cui sono state effettuate alcune scelte di carattere gestionale od operativo. A questo 59 occorre aggiungere l’assoluta novità dell’istituto, la difficoltà di prevederne con precisione il funzionamento nella fase iniziale, gli eventuali rischi di abusi e strumentalizzazioni e la funzione anche deterrente e preventiva del nuovo strumento di tutela collettiva, tutte circostanze che suggerivano univocamente che esso non potesse trovare applicazione anche per fatti pregressi. Il legislatore nel formulare il nuovo art. 140 bis al quindicesimo comma, secondo periodo ha stabilito che l’azione di classe si applica agli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della L. 99/09, ossia per quelli commessi dal 15 agosto 2009 in poi. Pertanto, il legislatore, non intaccando la lunga vacatio dettata dalla innovatività dei meccanismi processuali, ha esplicitamente stabilito la regola della non retroattività dell’azione di classe. L’azione di classe non è possibile azionarla per illeciti precedenti al 15 agosto2009, anche se poi gli effetti dannosi si producono successivamente all’entrata in vigore della L. 99/09. Questa scelta del legislatore è stata oggetto di alcune critiche, arrivate anche da autorevoli soggetti, come il presidente dell’Atitrust, Antonio Catricalà, che ha definito la non retroattività dell’azione di classe come una “scelta politica”, aggiungendo: “Sarebbe stato opportuno che i principi fossero quelli del codice civile, cioè i diritti che non sono prescritti sono azionabili” (così A. Catricalà, Il Sole 24 Ore del 10/07/2009). Se la scelta del legislatore sia stata il risultato di forti pressioni da parte della lobby degli imprenditori, o se sia stata il raggiungimento di un punto di equilibrio normativo per garantire certezza ai rapporti giuridici, è difficile saperlo; sta di fatto che una scelta è stata presa ed è difficile modificarla stante la sua appartenenza alla piena e totale discrezionalità del legislatore. 11.Il sistema dell’opt-in. a) L’adozione del sistema dell’adesione: premessa. 60 I singoli consumatori lesi diversi dal proponente l’azione di classe per far valere le loro ragioni al suo interno possono aderire alla domanda dell’azione di classe . L’atto di adesione ha una duplice valenza: a livello processuale perché diretto a far propria l’azione collettiva coltivata da altri e così implicitamente rinunciando al diritto di azione individuale; a livello sostanziale in quanto interrompe la prescrizione. La ratio dell'introduzione del meccanismo dell’adesione nel nostro sistema trova le sue fondamenta da un lato nel fatto di evitare l'accesso alla giustizia tramite iniziative individuali seriali pressoché identiche con un conseguente aggravio del sistema giudiziario comportanti la congestione delle aule di giustizia; dall’altro consentire ad un largo numero di consumatori di essere risarciti senza dar luogo a singoli processi seriali onerosi ed economicamente gravosi. Il terzo comma dell'art. 140 bis stabilisce: “I consumatori e utenti che intendono avvalersi della tutela di cui al presente articolo aderiscono all’azione di classe, senza ministero di difensore…L’atto di adesione, contenente oltre all’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto valere con la relativa documentazione probatoria, è depositato in cancelleria, anche tramite l’attore, nel termine di cui al comma 9, lettera b)”. Come possiamo notare leggendo il predetto comma il legislatore italiano ha deciso di prediligere il meccanismo dell'opt-in, anziché dell'opt-out. Pertanto vi è la necessità per il consumatore od utente che intenda giovarsi degli effetti della sentenza della procedura dell'azione collettiva instaurata, di manifestare una espressa volontà di adesione (opt-in right). La scelta di uno dei due meccanismi ha dato luogo a lunghi dibattiti dottrinali, ma alla fine si optò per la facoltà dell’opt-in, con la giustificazione che questa scelta era meglio in sintonia con il dettato costituzionale (art. 24 Cost.) e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 6 Cedu) rispetto al meccanismo dell’opt-out. 61 Il meccanismo della class action americana, che prevede il meccanismo dell'opt-out (salvo qualche eccezione nel diritto del lavoro), ha fatto sollevare aspre polemiche (ex multis P. RESCIGNO, «Sulla compatibilità tra il modello processuale della class action, op. cit., pag. 2227) tanto da escluderla per incompatibilità con gli istituti del nostro sistema normativo. Il sistema dell’opt-out costituisce tendenzialmente la regola non solo negli States, ma anche in Canada, Australia ed Israele. Il sistema dell’opt-in è al contrario prevalente, sia pure con sfumature diverse, in Francia (anche se le più recenti proposte di legge quali Montebourg, Desallangre e Terrade hanno invece chiaramente optato per il meccanismo dell’opt-out), Regno Unito, Svezia, Finlandia, Germania, Spagna. Mentre altri Paesi ancora hanno adottato forme parziali del sistema optout: Danimarca, Portogallo, Norvegia, Paesi Bassi. Con il sistema dell’adesione l’intento del legislatore è quello di concedere la possibilità ai consumatori ed utenti, i cui diritti lesi sono oggetto di richiesta risarcitoria o restitutoria dell'azione collettiva, di aderire alla procedura collettiva in alternativa, quindi senza escluderla, a quella della azione giudiziaria individuale. Questo ha fatto sì che alcuni commentatori sostenessero che l'azione in forma collettiva avesse creato una nuova figura di litisconsorzio facoltativo che si può definire “aggregato” perchè darebbe luogo ad una aggregazione di azioni seriali (le adesioni, appunto) e pertanto “l'azione collettiva si esaurisce nel cumulo e nella gestione congiunta delle azioni individuali degli aderenti ad opera dell'attore” (così R. CAPONI, Litisconsorzio “aggregato”. L’azione rsarcitoria in forma collettiva dei consumatori, in www.judicium.it). Infatti l'art. 140, terzo comma, così recita: “L’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo, salvo quanto previsto dal comma 15”. Di conseguenza in caso di rigetto della domanda coloro che hanno aderito all'azione collettiva risarcitoria non potranno proporre la medesima domanda oggetto dell'azione 62 collettiva in forma individuale. D'altra parte chi, invece, non ha aderito all'azione collettiva non è vincolato dagli effetti della sentenza. Infatti, chi non aderisce se da un lato non usufruisce degli effetti positivi della statuizione, dall'altro lato, non essendo investito dagli effetti della sentenza, può proporre solo un’azione individuale, essendo preclusa ai sensi del comma 14, ogni altra azione di classe avente il medesimo oggetto di quella già promossa e diretta nei confronti della medesima impresa. Per quanto riguarda invece i requisiti che l'atto di adesione deve possedere, l'unico requisito imprescindibile, in quanto legislativamente previsto, è la forma scritta. Questo è una chiara conseguenza sia del fatto che l’adesione dovrà contenere una serie di requisiti che comportano necessariamente la forma scritta, come l’elezione del domicilio, gli elementi costitutivi del diritto, sia del fatto che il legislatore dichiara che l’atto dovrà essere “depositato”, lasciando intendere tale forma obbligata. b) La natura dell’atto di adesione. L’adesione non può essere inserita formalmente in alcun atto giudiziale (art. 121 e 125 cpc), da depositarsi nel corso del giudizio di primo grado, anzi è escluso a chiare lettere anche la necessità di una difesa tramite l’ausilio di un difensore. L’atto di adesione, a parere di un noto giurista, che si può condividere a pieno, “non dà luogo ad alcuna forma di intervento nel processo, né ad alcuna autentica forma di domanda giudiziale, né ad alcuna assunzione di un ruolo di parte formale…pur avendo la funzione di tutelare nel processo ulteriori singoli crediti, non è alcunché di strutturalmente simile a una domanda giudiziale e non rende soggettivamente o oggettivamente cumulabile il giudizio” (C. CONSOLO, Obbiettivo Class Action: l’azione collettiva risarcitoria, op. cit., pag. 185). Né possiamo supporre che l’atto di adesione possa far accrescere lo jus postulandi del difensore della parte attrice, in quanto non è un atto 63 idoneo a far instaurare un rapporto d’opera con il professionista, che obbligherebbe di conseguenza l’aderente a retribuirlo con conseguente attribuzione di tutti quei diritti che un mandato ad litem invece conferisce al mandante. L’aderente non è una parte processuale e questo spiega il motivo perché il convenuto non può esercitare nei suoi confronti domande riconvenzionali. Proprio perché l’aderente non viene considerato una vera e propria parte processuale, il legislatore si preoccupa di salvaguardare gli interessi del medesimo che altrimenti verrebbero pregiudicati dalle scelte egoistiche del proponente l’azione di classe. Infatti, nel comma 15 primo periodo dell’art. 140 bis si stabilisce che le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti (processuali) non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito. Di tal modo sono fatti salvi gli stessi diritti nel caso sia di estinzione del processo, sia nel caso di chiusura anticipata del medesimo. Secondo alcuni codesta adesione viene concepita dalla legge come una peculiare manifestazione di volontà di inclusione nel “gruppo”, più specificamente ancora quale richiesta all’attore di “sostituirsi” a sé stesso nel far valere il proprio credito in seno all’azione collettiva; “questa previsione normativa va quindi ricondotta nel perimetro di figure tassative ed in qualche modo eccezionali cui fa riferimento l’art. 81 cpc” (così C. CONSOLO, in Obbiettivo class action, op. cit., p. 186). Secondo altri tra il promotore dell’azione collettiva e l’aderente sorge un rapporto obbligatorio, fondato su un contratto peculiarissimo che si può qualificare come mandato con rappresentanza (così R. CAPONI, La riforma della “class action”, op. cit.). A conforto della sua opinione, l’illustre giurista sostiene che lo stesso art. 140 bis al primo comma qualifica in termini di mandato il rapporto tra il promotore e l’aderente quando il primo sia un’associazione, ma il discorso non cambia quando il promotore sia un singolo componente della classe. 64 Inoltre dal punto di vista processuale l’adesione non abilita ad alcuna attività, conferendo soltanto poteri di controllo; gli aderenti non sono dotati del potere di impugnare la sentenza, alla quale l’ente abbia fatto acquiescenza. In questi casi è stato sostenuto che il rapporto che lega il proponente con l’aderente si fonda su un contratto di mandato con rappresentanza che conferisce il potere all’agente di compiere tutti quegli atti necessari per giungere alla sentenza in favore degli aderenti. L’applicazione diretta ed analogica delle norme sul mandato consente di avere una base normativa per risolvere tutta una serie di problemi che possono sorgere tra attore ed aderenti. La conclusione del contratto di gestione del processo litisconsortile aggregato è promossa da una iniziativa del singolo consumatore, che rende nota alla cerchia dei soggetti titolari dei diritti, di cui il medesimo afferma la lesione, la presenza di un’azione risarcitoria in forma collettiva, proponendosi come mandatario ed eventualmente raccogliendo le adesioni (così R. CAPONI, «Litisconsorzio aggregato», op. cit.). In ogni caso è senza dubbio un atto processualmente atipico, complesso e costituisce una autentica novità nel nostro panorama legislativo ed ogni tentativo di ricondurlo a schemi di diritto processuale o di diritto sostanziale potrebbe dar luogo a risultati poco apprezzabili. Anche se esso è formalmente unitario, nasconde almeno due aspetti: il primo è il conferimento di un mandato sia pure implicito all’attore nella gestione della lite collettiva che lo riguarda ed interessa; il secondo sembra esplicare gli effetti di un’azione processuale nei confronti dell’impresa convenuta portando con sé tutte le conseguenze sostanziali e processuali che l’esercizio di tale azione comporta. Nel primo senso sembra optare il fatto che l’aderente non è difeso da un difensore tecnico, acquista la qualità di parte del processo solo in senso sostanziale, può depositare l’atto anche tramite l’attore, non compie atti processuali, deve sperare in una buona conduzione della causa da parte 65 dell’attore al quale non può sostituirsi, non subisce gli effetti del processo in termini di spese. Nel secondo senso possiamo far prevalere il fatto che l’adesione porta con sé l’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione, che decorre non dalla nascita della litispendenza, bensì dal deposito dell’atto di adesione in cancelleria, che potrà avvenire – e normalmente possiamo fin da ora prevedere che avverrà – tramite l’attore, entro il termine fissato dal giudice ai sensi dell’art. 140 bis, comma 9, lettera b). c) Il contenuto e il termine per il deposito dell’atto di adesione. Per quanto riguarda il suo contenuto l’atto di adesione deve indicare le generalità dell’aderente e l’elezione del suo domicilio; inoltre, poiché è necessaria l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto, sembra necessaria anche l'indicazione del rapporto contrattuale intercorso con l'impresa contro la quale l'azione è stata intrapresa ovvero, l'evento imputabile all'impresa su cui si ritiene fondarsi il credito dell'aderente, questo ai fini di una valutazione da parte del giudice e della controparte. La norma, inoltre, specifica che all'atto di adesione il singolo consumatore od utente deve allegare la documentazione probatoria relativi alla propria posizione soggettiva processuale. Tale allegazione è stata ritenuta necessaria dal legislatore, in quanto la pretesa risarcitoria o restitutoria degli aderenti costituisce oggetto della pronuncia giudiziale. Il giudice per giungere a tale risultato per ogni singolo aderente deve risolvere il problema del nesso causale tra l'illecito e il danno e successivamente della determinazione della quantificazione del danno. Per tale ragione è previsto che, ovviamente, tutta la documentazione probatoria dei singoli vada depositata in giudizio unitamente all'atto di adesione. L’aderente deve depositare il suo atto in cancelleria entro il termine perentorio di cui al comma 9 lettera b), ossia entro un termine fissato 66 dal giudice, non superiore a 120 giorni, decorrenti dalla scadenza del termine assegnato all’attore per eseguire la pubblicità dell’azione di classe. d) Pregi e difetti dell’opt-in. Quali sono i benefici del sistema dell’opt-in? È evidente che il sistema adottato dall’Italia assicura che i membri della categoria possono liberamente decidere di prendere parte all’azione collettiva. Inoltre il consumatore che esercita la scelta di opt-in ha il vantaggio, a costo zero o davvero irrisorio, di garantirsi qualunque risarcimento che potrebbe derivare dall’azione collettiva. È vero che il consumatore perde il diritto di instaurare un autonomo processo, ma i benefici di tale rinuncia sono davvero inferiori (almeno potenzialmente) rispetto a quelli prodotti con l’adesione. Infatti il principio che sorregge l’azione collettiva è quello di fornire una tutela rapida ed efficace per i small claims, a fronte invece di un processo instaurato dal singolo lungo, costoso e dal risultato incerto. Dall’altro lato della medaglia il sistema di otp-in porta con sé alcune problematiche. La prima, che può essere rilevata, riguarda la mancanza da parte dell’impresa convenuta di una visione globale dell’intero contenzioso che la vede partecipe dal lato passivo. Infatti, è probabile che molti membri della “classe” non esercitino il diritto di opt-in e pertanto il convenuto potrebbe dover affrontare la prospettiva di una molteplicità di autonomi giudizi. Questo chiaramente ha un peso determinante nella previsione di un’analisi di gestione costi di un’impresa, la quale per evitare una probabile crisi strutturale si vedrà costretta a dirottare suoi investimenti più del dovuto nella prevenzione, Una delle critiche a cui prestava il fianco facilmente il sistema dell’opt-in che si voleva adottare in Italia riguardava proprio la possibilità concessa al singolo di aderire fino all’udienza di precisazione delle conclusioni del grado di appello. Per 67 fortuna, come visto, il legislatore nel nuovo testo ha fissato un termine sufficientemente anticipato rispetto all’udienza di precisazione delle conclusioni. Questo consente al giudice di condurre il processo nel pieno della consapevolezza e alla controparte di verificare il numero degli aderenti. La tempestiva identificazione del numero degli aderenti è utile sia per consentire all’impresa convenuta di proporre eventuali eccezioni personali (prescrizione, transazioni, compensazioni, etc.) rispetto ai singoli aderenti, sia per una verifica effettiva dei presupposti per la restituzione o il risarcimento del danno e per una tempestiva quantificazione del danno. Da tutto questo però risulta un contraddittorio monco, in quanto se da un lato il giudice dovrebbe consentire al convenuto, tramite il deposito di memorie integrative e relativi allegati, la prova dell’avvenuta prescrizione, transazione o compensazione, dall’altro abbiano l’inclusione nell’azione di classe di soggetti, gli aderenti appunto, che non partecipano processualmente all’azione collettiva e pertanto viene precluso loro la possibilità di difendersi sulle eventuali eccezioni sollevate dal difensore dell’impresa citata in causa. La precedente scelta adottata dal legislatore italiano di allungare al massimo i tempi di adesione all’interno dell’azione collettiva poteva trovare la sua giustificazione nel fatto di dare la possibilità al maggior numero di consumatori appartenenti alla medesima categoria di poter partecipare all’azione, controbilanciando, almeno in parte, la posizione di debolezza di questi soggetti rispetto alla controparte. Da dove nasceva questa preoccupazione? Era priva di fondamento? Pare di no! Per dare una risposta alle suddette domande occorre prendere in considerazione uno studio scientifico portato avanti da Eisenberg e Miller (cfr. T. EISINBERG e G .MILLER, «The Role of Opt-Outs and Objectors» in Class Action Litigation: Theoretical and Empirical Isssues, in Vanderbilt Law Review, 2004, 57, pag. 1529) in cui si riporta che l’inerzia (leggi optout) prevale sull’interesse personale a partecipare nel processo (leggi opt-in). 68 Nello studio è emerso che in tutte le class action in cui è intervenuta la conciliazione negli USA in un periodo di riferimento di dieci anni, il tasso di opt-out era stato inferiore allo 0,2%: ossia solo 2 soggetti su mille lo avevano esercitato. Questo vuol dire che raramente i membri della classe esercitano l’opt-out dalla class action anche quando viene dato loro la possibilità di farlo. Tra l’altro non occorrerà certo un’approfondita analisi per capire che il consumatore (americano) preferisce esercitare collettivamente un diritto di valore modesto, ma reale, piuttosto che esercitare un’azione individuale, molto costosa Sempre in base a questo studio effettuato nell’esperienza americana, nelle class actions in materia lavoristica (Fair Labor Standards Act, l’Equal Pay Act e l’Age Discrimination in Employment Act), in cui si prevede la procedura di opt-in anziché opt-out, a seguito di un’analisi effettuata sui casi conosciuti, si è scoperto che solo il 50% dei membri della categoria esercitano l’opt-in Il dato statistico non è da sottovalutare, soprattutto se si tiene conto che le class action nel settore del lavoro riguardano un numero ben determinato e ristretto di soggetti che sono raggruppati dallo svolgimento di una comune mansione di lavoro; pertanto non solo vi è una maggiore diffusione e conoscibilità dell’azione promossa, ma, essendo maggiore il risarcimento spettante ai singoli individui, vi è un maggiore interesse a partecipare. Di conseguenza ci si aspetterebbe percentuali di partecipazione sicuramente maggiori nelle class action riguardanti controversie in materia lavoristica. A questo punto il dubbio sorge spontaneo: se negli USA, nei casi in cui si esercita la procedura di opt-in, in cui si dovrebbe avere un alto livello di interesse di partecipazione, il tasso di adesione è interno al 50%, ossia ben al di sotto del limite auspicabile, in Italia, dove vige la procedura di opt-in e nella maggior parte dei casi non si ha un alto interesse a partecipare (ossia si agisce per ottenere solo un risarcimento esiguo), a quanto potrà ammontare il tasso di adesione? 69 Non solo, in un altro recente studio portato avanti da Cox e Thomas (cfr. J. D. COX e R. S. THOMAS, «Letting Billions Slip Through your fingers: Empirical Evidence and Legal Implications of the Failure of Financial Institutions to Partecipate» in Securities Class Actions Settlements, in Stanford Law Review, 2005, 58, pag. 411) si è scoperto che nella maggior parte delle conciliazioni sulle class actions americane, in cui gli attori hanno bisogno di esercitare un opt-in per poter far parte della fase di conciliazione tramite un claim administrator che amministri la controversia per poter ottenere un risarcimento, i tassi di adesione erano di gran lunga inferiori al 50% anche quando erano in ballo significative somme di denaro. Percentuali così basse non si sono riscontrate solo nel caso di risarcimenti sotto forma di coupons (ossia buoni sconto, o agevolazioni di varie forme), ma anche quando il risarcimento aveva per oggetto una somma di denaro erogato a mezzo di assegno bancario. Rebus sic stantibus, probabilmente un sistema più vicino a quello statunitense di opt-out sarebbe stato più efficiente nel coinvolgere un più ampio numero di membri della classe e sarebbe stato più funzionale anche nei confronti del convenuto, che avrebbe potuto affrontare un processo unitario anziché frammentario. In Italia sta progredendo la consapevolezza che l’opt-out non incontra ostacoli di ordine costituzionale almeno nelle small claims, in quanto hanno un valore talmente basso che potessero essere portate all’attenzione delle corti solo tramite le azioni di classe. Si potrebbero porre dei paletti per individuare un confine, affidando l’individuazione del valore massimo al giudice, come succede in Danimarca, oppure al legislatore, come era previsto in una proposta legislativa francese poi abbandonata. A tal proposito merita richiamo un provvedimento del Tribunale di Roma, il quale investito da un ricorso cautelare ex art. 140, comma 8 del codice del consumo e promosso da un’associazione dei consumatori, emetteva contro una pay Tv un provvedimento di condanna a restituire 70 agli abbonati le somme di denaro, indebitamente percepite rispetto alle pattuizioni contrattuali, per l’automatico invio di una nuova rivista con i programmi televisivi (cfr. Trib. Roma, 30 aprile 2008, in FI, 2008, I, c. 2679). 12.Conclusione: i Vantaggi dell’azione di classe. Considerando le esperienze straniere ed in primo luogo quella statunitense, possiamo, ragionando in un’ottica prognostica, ipotizzare numerosi vantaggi di non poco conto in capo ai beneficiari del nuovo strumento di tutela collettiva. In primo luogo la dottrina (si veda S. MICONI, «La “class action” nell’ordinamento italiano: sintesi di una trasformazione», in La Resp. Civ., n. 8 del 2008, pag. 679) ha sostenuto che la nuova azione sia fonte di una maggiore effettività di tutela. Si deve riconoscere che non si possa parlare di effettività di tutela quando gli strumenti processuali non rendono conveniente, a seguito di un’analisi costi/benefici, agire in giudizio per richiedere la riparazione di un danno o quando il singolo valuta defatigante promuovere un’azione legale nei confronti della grande impresa, poiché è consapevole dello squilibrio processuale esistente tra loro. Pertanto, nella maggior parte dei casi, tranne rarissime eccezioni, il tutto si è tradotto in un abbandono iniziale a far valere i propri diritti in sede giudiziaria proprio perché la lotta impari avrebbe comportato inevitabilmente una sconfitta. Tale situazione è ancora più accentuata nei danni di massa di piccola entità in relazione ai singoli danneggiati, tale da scoraggiare un’azione legale dagli esiti incerti e dagli alti costi per poterla intraprendere. Questo ragionamento porta con sé la conseguenza di lasciare insoddisfatto il singolo, il quale, pur nella previsione astratta di una tutela dei suoi diritti, si vede “costretto” a desistere dall'intraprendere un percorso giudiziario in quanto esso comporterebbe dei costi 71 superiori rispetto ai benefici che il medesimo potrebbe trarre in caso di vittoria. L’azione di classe si propone, invece, come suo obbiettivo primario quello di ridurre fortemente il divario esistente tra le parti, garantendo un “effettivo e reale” accesso alla giustizia anche per le pretese di modesta entità (cd small claims). Infatti, la conseguenza di tale istituto è il verificarsi del “judicial economy effect” (così B. BERNSTEIN, »«Judicial Economy and Class Action», in Journal of Legal Studies, vol. 7, 1978, pag. 349-370), vale a dire l’effetto prodotto dal sistema della rappresentanza indiretta, che sfocia in forme aggregate di domande e di procedimenti giudiziari, comportando l’abbattimento di costi grazie al frazionamento delle spese del contenzioso per una moltitudine di soggetti, venendo di conseguenza a colmare quello squilibrio esistente ante causa tra danneggiante e danneggiato. In quest'ottica l'azione di classe costituirebbe un valido strumento per garantire un'effettiva protezione di situazioni e di interessi comuni a diverse categorie di soggetti, che si vedono concentrati in un unico contesto processuale l'accertamento di illeciti idonei a provocare un danno diffuso nella collettività. Un'altra funzione del nuovo mezzo di tutela consiste proprio nel cercare di diminuire il numero delle cause, concentrandole in un unico processo, evitando l'effetto floodgate, ossia il congestionamento dei Tribunali, e favorendo, inoltre, il principio di economia processuale. Non solo, il legislatore ha pensato bene di ridurre ulteriormente la competenza territoriale. Come visto, se nel precedente art. 140 bis Cod. del Cons. il legislatore identificava come giudice competente quello nella cui giurisdizione aveva la sede dell'impresa, nella nuova elaborazione dell'art. 140 bis restringe ulteriormente i Tribunali territorialmente compenti per garantire una maggiore uniformità della tutela di posizioni giuridiche analoghe tramite l'unicità del giudicato. 72 Così operando si evita di avere per fatti analoghi differenti decisioni, in tempi diversi, probabilmente anche in conflitto fra loro L'effetto senza dubbio più importante che dovrebbe far salutare con una certa positività questo nuovo strumento processuale è quello che si potrebbe esercitare sulla deterrenza. Vale a dire, l'ottica in cui fu realizzato il contenuto del nuovo art. 140 bis, non fu quella di porre rimedio a situazioni pregresse (come la maggior parte dei giusconsumeristi sperava), ma di evitare la formazione di eventi futuri lesivi dei diritti di un numero più o meno definito, ma ampio, di consumatori od utenti. Questo lo si deduce dal quindicesimo comma, laddove il legislatore ha previsto l'applicazione della norma solo per i fatti accaduti dopo il 14 agosto 2009. L'effetto deterrente comporta una forte dissuasione nel porre in essere comportamenti illeciti nella prospettiva dell'elevato onere che potrebbe derivare all'impresa dall'esercizio di un'azione di classe da parte dei consumatori/utenti. Probabilmente l’effetto avrebbe prodotto una maggiore incisione se il legislatore avesse previsto (come negli USA) “un’indennità punitiva”, secondo cui, una volta accertata la responsabilità dell’impresa, il giudice avrebbe avuto la possibilità di stabilire un risarcimento molto più alto del danno reale subito dal danneggiato, attribuito e rapportato magari in ragione alla gravità della condotta dell’autore dell’illecito e all’ampiezza del danno provocato. Il risarcimento complessivo, in tal caso, avrebbe assunto la duplice finalità sia di riparare i danni subiti dalla parte lesa e sia di scoraggiare futuri comportamenti illeciti da parte delle imprese. I punitive damages, però, non sono stati recepiti dal legislatore italiano in quanto tale istituto risulta incompatibile con il nostro ordinamento, che assegna alla responsabilità civile funzioni esclusivamente compensative, escludendo qualsiasi forma di lucro da parte del danneggiato a seguito del danno subito. 73 Quindi, il giudizio sulla disciplina dell'azione collettiva risarcitoria, così come si presenta sulla base dell'emendamento governativo, è sostanzialmente positivo. In ogni caso, si è ancora lontani dal modello fortunato e tanto ben voluto della class action statunitense. Negli Stati Uniti il sistema della giustizia civile è ritenuto un importante elemento per regolare le condotte sociali ed economiche, nonché come unico strumento di compensazione dei pregiudizi economici subiti in conseguenza di incidenti. Al contrario, negli ordinamenti europei, prevale ancora la concezione che il processo civile raggiunga il suo scopo nella definizione di controversie interindividuali e vi è ancora una certa resistenza a intraprendere iniziative giudiziarie private per conseguire obiettivi di politica pubblica e per regolare condotte ad impatto collettivo (così, MURRAY STÜRNER, German Civil Justice, Durham, 2004, p. 572). Le cifre da capogiro raggiunte negli USA, difficilmente potranno essere richieste, nonché riconosciute, nel nostro Paese, sia perché nella determinazione del quantum manca un aspetto peculiare rappresentato dai punitive damages, sia perché manca uno spirito giudiziale di riconoscere un compenso del difensore basato sul time-sheet. Cosa che, invece, accade negli Usa. Per esempio nel caso Enron (multinazionale americana fallita nel 2002), il giudice Melinda Harmon ha stabilito un vero e proprio record nella storia della class action, attribuendo una parcella di 688 milioni di dollari agli avvocati che hanno difeso gli interessi degli azionisti della Enron. Secondo i calcoli del giudice adito lo studio legale Coughlin Stoia Geller Rudman & Robbins avrebbe lavorato sul caso 289.593,35 ore, a un rate orario di 456 dollari (TOP LEGAL n. 11/2008 pag. 74). In Italia una liquidazione di spese legali avvicinabile ad una simile soglia non è neppure pensabile, nemmeno nella mente degli avvocati più fantasiosi. 74 Inoltre, ci viene da chiedersi se il legislatore, preso dal disciplinare solo l’aspetto relativo al contenzioso, non abbia tralasciato e dimenticato l’esigenza di prevenire la fase giudiziale, tramite il ricorso alle ADR (Alternative Dispute Resolution), in particolare a sistemi come la conciliazione e la mediazione, come meccanismi predisposti a comporre la lite nella fase anteriore all’azione di classe. La funzione dei sistemi di ADR è esplicitamente ammessa dall’art. 141 del Codice del Consumo, il quale stabilisce la non vessatorietà delle clausole contrattuali aventi ad oggetto il ricorso ad organismi di composizione extragiudiziale delle liti, purchè si conformino ai principi e alle disposizioni della Commissione europea contenuti nelle raccomandazioni 98/257/CE e 2001/310/CE. Queste procedure, in ogni caso, non eliminano la possibilità al consumatore di adire la magistratura ordinaria qualunque sia l’esito della composizione extragiudiziale della controversia. Probabilmente un’estensione legislativa di un ADR all’azione di classe, non potrebbe che portare risultati positivi, salvo poi risolvere a priori la questione dell’estensione o meno dell’efficacia erga omnes della transazione e le sue modalità applicative. Ad ogni buon modo, questo percorso, sperimentato in Italia con soddisfazione sia da parte di imprese e sia da parte dei consumatori, dopo qualche iniziale scetticismo, ha dato ottimi risultati e per tale ragione avrebbe potuto essere una soluzione “tampone” o comunque transitoria di medio o lungo periodo in attesa di soluzioni uniformi a livello europeo. Nel frattempo la medesima Commissione europea, ha invitato gli Stati membri ad introdurre meccanismi di aggregazione capaci di “elaborare norme procedurali che incoraggino le transazioni, como modo per ridurre i costi” e per agevolare “la rapida risoluzione delle controversie” (così nel White Paper, COM/2008/165 del 02 aprile 2008). Per esempio nel settore finanziario il Conciliatore bancario, oltre all’Ombudsman, dando facoltà alla clientela di utilizzare sistemi alternativi a quelli giudiziali, si sono raggiunti risultati satisfattivi 75 eccellenti (si cfr. l’art. 128bis del TUB e, per le controversie aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari, l’art. 27 della legge sul risparmio e il relativo DLgs n. 179 del 8 ottobre 2007.). Senza poi dimenticare che accanto a procedure facoltative, vi sussistono procedure conciliative obbligatorie da esperire, la cui inosservanza viene qualificata come causa di improcedibilità dell’azione giudiziaria (così dispone l’art. 1, comma 11 L. 249/1997, per le controversie tra utenti e fornitori del servizio di telecomunicazioni). Queste procedure hanno aiutato ad evitare l’aumento di nuove cause giudiziali con conseguente congestionamento delle aule di giustizia ed hanno assicurato rapidità, economicità della soluzione delle controversie ed effettività della tutela del cliente. Allora ci si chiede perché non introdurre nell’ambito dell’azione di classe un ricorso preventivo agli organismi di risoluzione stragiudiziale? Tra l’altro un sistema improntato sul raggiungimento di accordi transattivi nel rispetto dei principi di giustizia ed equità, a dispetto di quanto si possa pensare, potrebbe essere un affidabile strumento di deterrenza per le imprese, di tutela per i consumatori/utenti e di utilità per l’intera collettiva, la quale non si vedrà privata di parte delle risorse dell’apparato della giustizia che possono, invece, essere impiegate per decongestionare le già affollate aule di giustizia. Attualmente, purtroppo, dobbiamo prendere atto che il legislatore non ha previsto una disciplina di composizione stragiudiziale nell’azione di classe. Sembra che il legislatore abbia perso un’occasione per disciplinare ed introdurre una conciliazione collettiva, che sarebbe stata un valido strumento per rendere l’azione di classe davvero efficiente sotto l’ottica giuridico-economica. Anzi, semmai, è il caso di chiedersi se la scelta legislativa sia controproducente per i consumatori, tanto da dar luogo allo stesso effetto che produce una pietra lanciata in uno stagno: un effetto 76 fragoroso nell’immediato con una moltitudine di onde che si susseguono ravvicinate l’una all’altra, causato dall’impatto della medesima nello specchio di acqua, ma che, in un tempo più o meno breve, spariranno tutte facendo ritornare la calma di prima (immagine tratta da Nikolaj Vasil'evic Gogol'). Fuor di metafora, abbiamo la sensazione che l’azione di classe, sia pur migliorata, rispetto alla sua veste iniziale, possa dar luogo a numerosi processi collettivi nell’immediato, i quali, conoscendo i tempi della giustizia italiana, potrebbero “arenarsi” a discapito del principio di efficienza e di giustizia che, trattandosi di consumatori, dovrebbe a maggior ragione essere garantito e tutelato. 77