L’AZIONE DI CLASSE PRIVATA
Sommario: 1) introduzione; 2) Genesi storica. Cenni; 3) Legittimazione
attiva e soggetti tutelati: a) I consumatori e gli utenti; b) gli investitori; 4)
Legittimazione passiva e competenza territoriale; 5) le situazioni
sostanziali protette; 6) L’accertamento della responsabilità e condanna al
risarcimento del danno o alla restituzione di somme; 7) Le causae petendi
dell’azione di classe: a) Contratti stipulati tra consumatori o utenti ed una medesima
impresa anche ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cc; b) Responsabilità del produttore; c)
Pratiche commerciali scorrette; d) Comportamenti anticoncorrenziali; 8) Il
procedimento: a) La fase preliminare; b) Condizione di ammissibilità della domanda;
c) La “opportuna pubblicità”; d) Il contenuto dell’ordinanza che ammette l’azione di
classe; e) La sentenza; f) La fase di appello; 9) Le rinunce e le transazioni; 10) La
mini retroattività; 11) Il sistema dell’opt-in: a) L’adozione del sistema
dell’adesione: premessa; b) La natura dell’atto di adesione; c) Il contenuto e il termine per
il deposito dell’atto di adesione; d) Pregi e difetti dell’opt-in; 12) Conclusione: i
vantaggi dell’azione di classe.
1.Introduzione.
Dopo anni di discussione in parlamento e di fermento dottrinario, il
legislatore (a seguito di proposta partita dal Governo) è giunto ad
elaborare una nuova azione processuale, lontana dai classici modelli di
matrice romanistica tipici dei Paesi di civil law.
Pochi, però, sanno che il problema di garantire una tutela ad una massa
più o meno determinata di persone non nasce nell’era moderna, ma si era
posto già nel diritto romano, trovando spesso soluzione nella c. d. actio
popularis (D. 47, 23, 1) concessa civis et populo in difesa tanto delle res sacrae
quanto delle res publicae.
Tale azione costituiva una prima embrionale forma di coordinamento
della promozione di valori superindividuali con l’iniziativa processuale
privata.
Inoltre, bisogna riconoscere che la tanto acclamata class action non è un
istituto presente solo negli States, ma ormai da decenni è presente anche in
Stati con Ordinamenti tipicamente di civil law: si pensi al Brasile in cui la
Ação Civil Pública” (Azione Civile Pubblica) è presente sin dal 1985, o alla
Francia in cui la action en representation conjonte (azione collettiva) è
presente fin dal 1992 e così via.
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Ormai è un istituto in piena diffusione, tanto è vero che la volontà del
Commissario Europeo per la tutela dei consumatori, Meglena Kuneva, ha
sottolineato la necessità di un intervento sistematico europeo in materia di
class action a tutela dei consumatori.
Infatti, nella Comunicazione della Commissione al Consiglio, al
Parlamento Europeo ed al Comitato economico e sociale europeo del 13
marzo 2007 dal titolo “Strategia per la politica dei consumatori dell’UE
2007-2013”, tra le azioni previste vi è quella diretta al miglioramento del
controllo dell’applicazione e delle vie di ricorso con la creazione di
meccanismi di ricorsi collettivi in caso di inadempimento della
regolamentazione a tutela dei consumatori.
Ritornando alla riforma italiana, occorre da subito fugare in radice un
dubbio: questa azione è solo alternativa e sussidiaria a quella tradizionale
individuale.
Riprendendo una nota metafora utilizzata da un autorevole Maestro e
studioso (Andrea Giussani), possiamo paragonare un simile strumento
processuale alla possibilità, in una città il cui trasporto urbano sia
compiuto solo dai taxi, di offrire anche il trasporto in autobus.
Naturalmente chi parteciperà all’azione di classe non potrà più far valere i
suoi diritti in via individuale. Il legislatore concede la possibilità al
consumatore/utente di scelta fra due azioni, ma non concede una doppia
tutela cumulativa.
Procedendo con ordine, appare necessario sottolineare che con la legge del
23 luglio 2009 n. 99, pubblicata sulla GURI n. 176 del 31 luglio 2009, supp.
Ord. N. 136, all’art. 49, il legislatore ha provveduto a sostituire
integralmente l’art. 140 bis del Codice del Consumo (mai entrato in
vigore), introducendo e disciplinando l’azione di classe, che è divenuta
efficace il 1° gennaio 2010 per fatti commessi dal 15 agosto 2009 in poi.
Di conseguenza anche il nostro Paese è entrato a far parte di quel novero
di ordinamenti giuridici che al loro interno riconoscono una tutela
risarcitoria in forma “aggregata” degli interessi limitati esclusivamente ai
consumatori ed utenti.
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L’introduzione delle cd class actions nell’area anglosassone (la definizione
del termine class action appare per la prima volta negli Stati Uniti e risale
alla Federal Equità Rule 38 del 1912, che ha ridisegnato l’istituto già
ammesso dalle Corti americane sin dal 1842), secondo un illustre giurista
costituisce
l’evento
più
importante
nel
quadro
della
cultura
giusprivatistica moderna (così, V. VIGORITI, «Class action e azione
collettiva risarcitoria. La legittimazione ad agire», in Contr. e impr., n.
3/2008, pag. 731).
L’introduzione di un’azione di classe ha il merito di assumere una
pluralità di funzioni.
In primis, come del resto è facilmente intuibile, essa rafforza la possibilità
del singolo alla giustizia per le controversie di modico valore. Infatti, come
ben
sappiamo,
nella
controversie
il
“rischio”
dell’azione
ricade
interamente sul singolo danneggiato. L’assunzione di tali rischi si
giustifica solo in presenza di danni di non modesta entità, mentre nella
maggior parte della volte l’effetto di comportamenti illeciti sulla massa dei
consumatori è quello di produrre dei mass torts di lieve entità dal punto di
vista individuale che non vale la pena dedurli in giudizio isolatamente.
Pertanto, un’azione collettiva posta in essere tramite un’«aggregazione
processuale» delle pretese individuali, come previsto dal neo art. 140 bis
del Codice del Consumo, abbatte i costi e rappresenterebbe un buon
rimedio idoneo a rimuovere le ragioni della rinuncia dei consumatori e
degli utenti. Res sic stantibus il nuovo strumento perseguirebbe non solo
finalità di efficienza ed economia processuale (un unico processo, anziché
una costellazione di micro processi), ma anche risulterebbe utile a far
emergere il contenzioso latente, di modico valore, che altrimenti
resterebbe dietro le quinte e non avrebbe modo di manifestarsi a causa
della sproporzione tra il valore della singola controversia e le spese per la
procedura individuale diretta alla tutela giurisdizionale (così, R. CAPONI,
«La riforma della «class action». Il nuovo testo dell’art. 140-bis cod. cons.
nell’emendamento governativo», in www.judicium.it).
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In secondo luogo, sotto un aspetto di analisi economica del diritto, questa
nuova procedura fungerebbe da catalizzatore sotto il profilo della
deterrenza e della prevenzione per la commissione di illeciti dannosi
coinvolgenti una cerchia più o mano ampia di consumatori.
Il timore di “subire” un’azione di classe, che se accolta potrebbe
comportare oneri rilevanti a carico del responsabile, potrebbe spingere le
imprese ad un maggior rispetto delle regole di correttezza e
professionalità nei rapporti con i consumatori.
È indubbio, tra l’altro, che l’apertura di un’azione collettiva potrebbe
condizionare i comportamenti sul mercato delle azione (soprattutto di
quelle quotate in borsa), questo potrebbe disincentivare gli imprenditori
di porre in essere con un certa leggerezza comportamenti ed effettuare
scelte incidenti sul piano economico e sociale che potrebbero ledere i
diritti dei consumatori.
2.Genesi storica. Cenni.
La storia di quella che in più occasioni (e un po’ da tutti) è stata chiamata
class action nell’ordinamento italiano prende le mosse sin dal 2003, quando
a seguito di un cartello anticoncorrenziale posto in essere dalle compagnie
di assicurazione, che, dopo l’intervento dell’Autorità Antitrust (AGCM,
provv. n. 8546 del 25 luglio 2000, sostanzialmente confermato da Tar
Lazio, sent. n. 6139 del 05 luglio 2001 e dal Consiglio di Stato, sent. n. 2199
del 23 aprile 2002), scatenò un’alluvione di ricorsi, tanto da indurre il
Governo ad intervenire con un decreto (DL 08 febbraio 2003, n. 18,
convertito con modificazioni dalla legge del 07 aprile 2003 n. 63) per
modificare l’art. 113, comma 2 cpc, penalizzando tutti i cittadini
intenzionati a promuovere azioni. La vicenda assunse un tale clamore
popolare che necessitò un impegno politico da parte del Governo di
intervenire per poter introdurre all’interno dell’Ordinamento giuridico
italiano un nuovo strumento di tutela risarcitoria collettiva.
Un impulso alla redazione di un testo legislativo riguardante l’azione
collettiva venne dalla crisi finanziaria di alcuni grandi gruppi societari
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italiani (si pensi ai crack finanziari di Cirio e Parmalat), dalla vicenda della
svalutazione dei bonds emessi dallo Stato argentino ed altri tipi di
investimenti che si sono rivelati delle vere e proprie truffe ai danni dei
consumatori, come Bipop Carire, Finmatica, Fin Part, Cerreti per citarne
solo alcuni, colpendo un elevato numero di risparmiatori ed investitori.
Il primo significativo tentativo del Parlamento è avvenuto durante la XIV
Legislatura. Il 21 luglio fu approvato dalla Camera dei Deputati il disegno
di legge - frutto dell’unificazione dei DDl n. 3838/c (On. Bonito e altri) e n.
3839/c (On. Lettieri e altri) - n. 3058/S/14, che prevedeva “l’introduzione
dell’azione di gruppo a tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti”.
Questa iniziativa non prevedeva di istituire la figura giuridica delle azioni
collettive, ma si limitava a modificare un articolo della Legge del 30 luglio
1998 n. 281 per introdurre “il risarcimento dei danni e la restituzione di
somme dovute direttamente ai singoli consumatori e utenti interessati, in
conseguenza di atti illeciti plurioffensivi…che ledono i diritti di una
pluralità di consumatori ed utenti”. Tale Disegno presentava molte lacune,
tanto è vero che, nonostante esso fu approvato quasi all’unanimità alla
Camera dei Deputati, l’iter parlamentare si arenò al Senato a tal punto che
non fu avviato nemmeno l’esame da parte delle Commissioni competenti.
Successivamente nel corso della XV Legislatura il dibattito politico
sull’introduzione di un’azione collettiva risarcitoria a tutela di diritti
individuali omogenei divenne fervente dando luogo a ben nove proposte
di legge in sede parlamentare.
In ogni caso l’osservazione delle diverse proposte legislative presentate
negli ultimi anni ha messo in evidenza la formazione di due diverse
correnti di pensiero. Da un lato si possono scorgere coloro che sostengono
l’introduzione di un’azione fortemente ispirata al modello statunitense
dell’azione di classe: azione a legittimazione individuale, giudizio
preventivo di ammissibilità, nomina del c.d. curatore amministrativo (es.
AC n. 1330 – On.li Fabris-Satta; AC 1443 – On.li Poretti-Capezzone; AC
1834 – On. Pedica) – in nessuno dei quali, peraltro, si fa la minima
menzione del termine class action (e tuttavia si usa in prestito “azione di
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classe”) - e dall’altro coloro che propendono per l’introduzione di
un’azione più rispettosa dei principi dell’Ordinamento italiano (es. AC
679 – Sen. Benvenuto; AC 1883 – On. Crapolicchio e altri; AC 1662 – On.
Buemi e altri).
Queste ultime sono tutte proposte che si limitano a segnare un’evoluzione
dell’azione collettiva inibitoria di cui all’art. 140 Cod. del Cons., pur
essendo
denominate
“class
action” con una “non
molto
lodevole
manifestazione di esagerato cosmopolitismo” (così S. Chiarloni al XXIII
Convegno su “I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori,
Courmayeur, 26-27/09/2008).
Giorno 8 novembre 2007 la Commissione Giustizia del Senato, giungeva al
traguardo di una elaborazione di un “testo base” frutto del lavoro
pregresso delle precedente proposte di legge (emendamento 53.0.200,
proposto dai senatori Manzione e Bordon).
Le cronache parlamentari ci riferiscono che, avviate le consuete attività
parlamentari per la legge finanziaria per l’anno 2008, veniva proposto il
suo inserimento nel corso dei lavori innanzi alla Commissione giustizia,
ma l’emendamento in un primo tempo fu respinto.
Sta di fatto che l’emendamento 53.0.200 fu nuovamente riproposto e in
sede di discussione della Finanziaria e, nonostante le forti pressioni per
cancellare l’emendamento, il caso ha voluto che venisse approvato.
Sembra che l’emendamento 53.0.200 sia stato approvato al Senato con un
solo voto di scarto (158 favorevoli, 40 contrari e 116 astenuti, che al Senato
valgono come contrari), tra maggioranza ed opposizione, dovuto ad un
errore del Sen. Roberto Antonione di Forza Italia, il quale addirittura
dichiarò alla stampa che la sua volontà era “di votare contro
l’approvazione dell’emendamento” (cfr. www.corriere.it del 15 novembre
2007), tanto è vero che per redimersi dallo sbaglio aveva subito offerto al
suo gruppo le dimissioni.
Poiché il testo legislativo era stato oggetto di molte critiche, fu
ulteriormente modificato tramite un emendamento governativo, venendo
definitivamente approvato da entrambi i rami del Parlamento il 24
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dicembre 2007 ed inserito nei commi dal 445 al 449 dell’art. 2 della Legge
finanziaria per il 2008 (Legge 244/2007, pubblicata sulla GURI n. 300 del
28/12/2007 ). Stando al testo definitivamente approvato dal Parlamento
l’azione collettiva risarcitoria avrebbe dovuto prendere il suo volo il 30
giugno 2008 (essendo il 180° giorno coincidente con sabato 28 giugno
2008). Solo che con DL 25 giugno 2008, n. 112 (pubblicato sulla GURI del
25 giugno 2008, n. 147), recante il titolo “Disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione
della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, all’art. 36 (rubricato
class action), il Governo pensava bene di sostituire all’art. 2, comma 447
della Legge 24 dicembre 2007, n. 244, le parole “decorsi centottanta giorni”
con le parole “decorso un anno”. Questo “anche al fine di individuare e
coordinare specifici strumenti di tutela risarcitoria collettiva, anche in forma
specifica nei confronti della pubbliche amministrazioni”. Giungeva così in
dicembre, attraverso l'art. 19 del c.d. “decreto milleproroghe” (D.L.
30.12.2008, n. 207, “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e
disposizioni finanziarie urgenti”, in G.U., 31.12.2008, n. 304), l'ulteriore
rinvio, ancora per decreto, ancora con un provvedimento che si limitava a
far slittare di altri sei mesi l'entrata in vigore della normativa sulle class
action nulla dicendo circa le modifiche da introdurre.
Slittamento che era stato già preannunciato nell’ottobre 2008 dal Ministro
Scajola, il quale sosteneva che nemmeno entro gennaio 2009 si sarebbe
fatto in tempo a modificare la norma “per apportare miglioramenti a
garanzia di una migliore efficacia”. È stato stabilito, infatti, soltanto che le
disposizioni dei commi 446-449 della legge finanziaria 2008 diventino
efficaci «decorsi diciotto mesi» dall'entrata in vigore della legge
finanziaria, ossia al 1.7.2009. All’approssimarsi della fatidica data del
01/07/2009, il Governo ha deciso di rinviare nuovamente la data di
entrata in vigore dell’azione collettiva risarcitoria. Infatti all’art. 23,
comma 16 del DL n. 78 del 2009, pubblicato sulla GURI n. 150 del
01/07/2009, riguardante “Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini
della partecipazione italiana a missioni internazionali”, convertito con
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modificazioni nella L. del 03/08/2009, n. 102, pubblicata sulla GURI del
04/08/2009, n. 179 ed entrato in vigore il 05/08/2009, il Governo ha
provveduto a sostituire le parole “decorsi 18 mesi”, di cui all’art. 2, comma
447 della legge del 24/12/2007, n. 244, come da ultimo modificato dall’art.
19, del DL 30/12/2008 n. 207, convertito con modificazioni dalla Legge del
27/02/2009, n. 14, con le parole “ decorsi 24 mesi”. In altre parole e più
semplicemente, l’applicazione dell’azione collettiva risarcitoria viene
rinviata al 01/01/2010. Nulla viene, però, detto circa il contenuto
dell’azione, che così rimane immodificato.
Nel frattempo il DDL 1195-B, recante disposizioni per lo sviluppo e
l’internazionalizzazione delle imprese è stato definitivamente approvato
al Senato della Repubblica il 09/07/2009, divenendo così la Legge n. 99
del 23/07/2009, pubblicata sulla GURI n. 176 del 31/07/2009,
Supplemento Ordinario n. 136.
L’art. 49 della L. 99/2009 ha provveduto a sostituire integralmente l’art.
140-bis del Codice del Consumo (mai entrato in vigore). Non solo, ma
l’art. 49 ha anticipato l’operatività della nuova “azione di classe” a dispetto
della nuova proroga prevista nel DL 78/09. Infatti il secondo comma
dell’art. 49 ha fatto slittare l’applicazione dell’azione di classe agli “illeciti
compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”
(ossia considerata la vacatio legis dal 15/08/2009 in poi).
Una formulazione, questa, che lascia pochi margini di dubbio sul
momento di inizio dell’azionabilità dei diritti e che però entra in
(apparente) conflitto con la proroga processuale al 01/01/2010 prevista
dal DL 78/09.
Il mancato coordinamento tra i due testi di legge provoca una separazione
sostanziale e processuale della operatività dell’azione di classe, oltre che
una finestra di retroattività: i danni patiti tra il 15/08/2009 e dicembre
(compreso) 2010 potranno essere fatti valere in giudizio a partire dal 1°
gennaio 2010.
3.Legittimazione attiva e soggetti tutelati.
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Il testo dell’art. 140 bis al primo comma stabilisce che “ciascun componente
della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa,
può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento
del danno e alle restituzioni”.
In altre parole la legittimazione attiva è riconosciuta in capo a colui che
sostiene di essere titolare di un rapporto giuridico controverso, il quale
può agire in assoluta autonomia per promuovere un’azione di classe
oppure servirsi delle associazioni o dei comitati di cui fa parte.
In considerazione all’impostazione dei numerosi progetti di legge portati
all’esame del Parlamento, la nuova soluzione adottata, tuttavia si
caratterizza per una sua certa originalità, risultato di una sintesi fra le più
significative proposte promosse.
Infatti, da un lato vi erano le proposte che tendevano ad americanizzare il
sistema (On. Capezzone), configurando il potere di agire in capo a ciascun
soggetto leso, dall’altro altri progetti (On. Benvenuto ed altri) che
tendevano a restringere la legittimazione attiva alle sole associazioni dei
consumatori.
La preferenza concessa dal legislatore al privato sembra muovere dalla
considerazione che solo un privato, per la sua qualità di membro della
classe, possa dirsi in grado di offrire le più idonee garanzie di
rappresentanza della medesima, a differenza di un’associazione di
categoria che si troverebbe ad agire per la classe in una posizione di
terzietà.
La legittimazione attiva dei comitati, amplia notevolmente l’ambito di
tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti. Infatti, come
è noto il comitato può essere costituito sia per scopi occasionali o
transeunti, sia per scopi occasionali o duraturi. I comitati, pertanto, anche
se costituiti in forma associativa temporanea, con scopo occasionale,
specifico e limitato, sono comunque legittimati ad agire con l’azione
collettiva risarcitoria, se adeguatamente rappresentativi degli interessi
collettivi fatti valere (così, A. RICCIO, «L’azione collettiva risarcitoria non è,
dunque, una class action», in Contratto e Impresa, n. 2, 2008, pag. 515).
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Nella precedente riforma dell’art. 140 bis, parte della dottrina aveva
denunciato il pericolo non troppo lontano che gli enti esponenziali (unici
legittimati attivi) avrebbero dato la loro preferenza solo a quei casi non
tanto meritori di trovare tutela collettiva, ma piuttosto a quelli di elevata
portata mediatica, tramite i quali con un elevato grado di certezza si
sarebbero aumentate l’attitudine degli stessi enti ad accrescere prestigio e
a raccogliere iscritti con l’intento ultimo di potenziare le loro capacità di
influenzare l’esito dei futuri confronti con gli interlocutori politici (M.
MANENTI E A. PALMIERI, «Azione risarcitoria collettiva: dove l’Italian style
lascia a desiderare», in Danno e Resp., n. 7/2008, p. 737 e ss).
Oggi, nonostante le modifiche introdotte dal legislatore e nonostante la
possibilità data al singolo membro di promuovere l’azione di classe, si
ritiene che i dubbi sollevati dalla precedente dottrina sulla bontà della
norma siano ancora attuali.
Non solo, ma la nuova norma si presta anche ad ampie critiche
riguardanti l’assenza di incentivi all’esercizio dell’azione correlati alla
fondatezza della domanda. In tale prospettiva, sembra che il legislatore se
in un primo momento aveva ritenuto opportuno trasferire il problema
dell’antieconomicità dell’iniziativa dal piano individuale a quello
collettivo, ora pare che la patata bollente sia tornata nuovamente in mano
al singolo componente della classe, il quale si trova di fronte ad una scelta:
farsi promotore dell’azione, sobbarcandosi tutti gli oneri economici
dell’azione, oppure (e penso che questa sarà la strada referenziale che i
singoli seguiranno) affidarsi ad un ente collettivo, che, però, difficilmente
possederà anche esso quella forza economica di dar luogo ad azioni
incisive
su
ogni
fondata
doglianza
del
consumatore.
Pertanto,
l’asimmetria economica non è stata risolta dal legislatore, il quale non
fornendo idonei incentivi ai promotori (privato o ente collettivo che sia),
questi dovranno rinunciare all’azione o affrontare costi sproporzionati
rispetto alle loro possibilità economiche.
Infatti le azioni che verranno maggiormente tenute in considerazione dalle
associazioni saranno quelle che susciteranno un maggiore effetto
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mediatico sulla popolazione tanto da prevedere un numero elevato di
adesioni. Tutte le altre azioni, sia pur fondate, probabilmente verranno
lasciate nel dimenticatoio a causa del loro minore impatto sociale.
Esaminiamo ora due figure che potrebbero creare problemi interpretativi:
a) I consumatori e gli utenti.
Il legislatore italiano ha ritenuto di introdurre non già un modello
generale di azione di classe, adatta a garantire una forma di tutela
giudiziaria indifferenziata, ma una ben più ristretta azione di classe che si
pone l’obiettivo di tutelare i diritti risarcitori e/o restitutori di una ben
limitata categoria di soggetti: i consumatori e gli utenti.
L’art. 140-bis parlando esclusivamente di consumatori ed utenti, ha dato
luogo a difficoltà interpretative ed a qualche ambiguità, vanificando le
speranze da parte di tutti coloro che, prima di rendersi conto dell’effettiva
portata della norma, avevano salutato con favore spropositato la nuova
azione.
La definizione dell’endiadi consumatore e/o utente fornita dall’art. 3,
comma 1, del Codice del Consumo di primo acchito non pare lasciare
scampo: si tratta soltanto di quella “persona fisica che agisce per scopi estranei
all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
Nozione, questa, di derivazione comunitaria, che la giurisprudenza della
Corte di Giustizia CE ulteriormente demarca negando la qualifica di
consumatore alla persona fisica che agisca per scopi “misti” o istituisca
rapporti anche solo in vista di un’attività professionale futura o per fini
accessori all’attività di un professionista (cfr. le decisioni della Corte di
Giustizia CE n. 464 del 20 gennaio 2005; Corte di Giustizia CE n. 541 del 22
novembre 2001; Corte di Giustizia CE n. 45 del 17 marzo 1998; Corte di
Giustizia CE n. 269 del 3 luglio 1997).
In realtà, oltre il riferimento al predetto art. 3 del codice del consumo, il
concetto di utente non sembra essere definito a chiare lettera dalla legge,
potendovi rientrare, in questa categoria, tutti coloro che utilizzano in base
ad un contratto un servizio pubblico di rete (si pensi all’erogazione del
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gas, acqua, luce, ecc.) od a un servizio privato di rete (si pensi la fornitura
telefonica, i servizi di trasporto ecc). L’utenza è l’utilizzazione condivisa di
un servizio collettivo continuativo, erogato dal servizio pubblico. L’art.
101 del Codice del Consumo garantisce all’utente il riconoscimento dei
diritti previsti dalle Leggi dello Stato e delle Regioni, rinviando a tali leggi
per la definizione.
Per quanto riguarda la nozione del consumatore, invece, questa viene
considerata in un’accezione lata, potendo sia rifarci, in riferimento alle
pratiche commerciali scorrette, all’art. 5 del codice del consumo, che
qualifica consumatore, ai fini informativi, la persona fisica destinataria
delle informazioni commerciali e quindi colui che si trova in una fase
antecedente all’operazione di acquisto di un bene, e sia, in riferimento alla
pubblicità ingannevole, all’art. 18 del codice del consumo, considerandola
come quel soggetto passivo dell’informazione pubblicitaria.
Considerando la definizione offerta dall’art. 3 del Codice del Consumo,
potrebbero rimare escluse dall’azione collettiva tutti quei casi che nascono
in conseguenza non di un previo rapporto di consumo di beni o servizi
attuale o potenziale.
Potrebbero rimanere escluse dall’azione collettiva, ad esempio, le richieste
risarcitorie proposte da (piccoli e medi) commercianti danneggiati da
“comportamenti anticoncorrenziali della grande impresa fornitrice, quali
accordi di cartello o abusi di posizione dominante (così F. AROSSA
E
G.
ROSATO, «Dubbi sui diritti del consumatore», in Resp, e Risarc., n. 1, 2008,
p. 26). Escluse dalla tutela collettiva appaiono, inoltre, tutte quelle
categorie di danneggiati che sorgono solo in virtù di un fatto illecito altrui,
come le vittime di un disastro di massa (si pensi all’inquinamento di una
falda acquifera, dell’aria, del suolo, o a danni causati a seguito di
esposizione a materiali cancerogeni), ma estranei ad un previo rapporto di
consumo. Così come anche sembrano esclusi dalla categoria di soggetti
tutelati i lavorati dipendenti di un’azienda, sia pure di grandi dimensioni
(si pensi al caso di mancato rispetto delle norme sulla sicurezza nel
lavoro).
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L’azione collettiva rimane pertanto preclusa a coloro che, abitando nelle
prossimità di uno stabilimento chimico, abbiano subito un danno a
seguito della fuoriuscita nell’aria di gas tossici (cfr. S. MENCHINI, «La
nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria», in www.judicium.it),
perché qui è evidente che non sussiste alcun rapporto di consumo tra i
danneggiati, vale a dire coloro che vivono nei pressi dell’industria che
inquina e da cui non ricevono alcun servizio, ed il danneggiante, l’impresa
che diffonde sostanze tossiche e che produce beni o servizi, i quali però
non vengono offerti ai residenti nella zona in cui essa opera.
Neppure sono tutelati i soggetti che, pur avendo subito i medesimi
pregiudizi di un consumatore, in realtà abbiano posto in essere un
contratto nell’esercizio della loro attività imprenditoriale o professionale
(cfr L. PAURA, «Le azioni collettive (class action) tra formazioni sociali e
solidarietà» in www.ibrademp.org.br). Si pensi a tutti quegli operatori
commerciali che nei vari quartieri di Napoli e provincia sono stati
danneggiati dalla mancata raccolta dei rifiuti.
In breve, sono esclusi dalla tutela tutti coloro che fuoriescono dalla
nozione di utente o consumatore. Pertanto, prima di poter supporre di
poter dar luogo all’azione di classe occorre verificare se il soggetto che
chiede tutela rientri o meno in tale categoria. A questo punto si auspica da
parte delle Corti di legittimità e di merito l’abbandono di una
interpretazione restrittiva della nozione di consumatore a favore di una
nozione più lata in modo da far rientrare in tale definizione una più vasta
categoria di soggetti tutelabili.
Per esempio, stante la restrizione della protezione dell’azione di classe ai
soli diritti dei consumatori, non si potrebbe far partecipare all’azione ex
art. 140 bis i congiunti o i parenti dei consumatori quali eventuali vittime
secondarie dell’evento dannoso che ha colpito il consumatore. È in questi
casi che si spera ad un intervento da parte dell’organo giudiziario diretto a
ripristinare una più equa giustizia sostanziale, perché altrimenti, res sic
stantibus, i congiunti di consumatori danneggiati a seguito della difettosità
di uno stock di prodotti, non possono avvalersi della tutela dell’azione di
13
classe, essendo costretti ad azionare un’azione ordinaria per ottenere un
risarcimento dei danni, venendosi a creare una duplicità di azioni (diverse
tra loro) per un medesimo fatto dannoso.
È bene chiarire fin da subito che la condotta illecita deve essere
plurioffensiva, nel senso che deve aggredire una serie posizioni sostanziali
appartenenti a soggetti diversi, ma ben specifici: gli utenti o i consumatori.
Questo ha fatto sì che parte della dottrina più attenta abbia iniziato a
parlare di “mass tort consumeristico” (così C. CONSOLO, È legge la
disposizione sull’azione collettiva risarcitoria;si è scelta la via svedese
dello “opt-in” anziché quella danese dello “opt-out” e il filtro (“l’inutil
precauzione”), in Corriere Giuridico, n. 1/2008, pag. 9).
Tale limitazione di operatività dell’azione di classe ai rapporti tra
consumatori ed imprenditori emerge da una serie di limitazioni: a) dalla
collocazione dell’art. 140 bis all’interno del codice del consumo; b) dai
presupposti dell’azione indicati dall’art. 140 bis; c) dalla titolarità della
legittimazione attiva, che, da un lato, assume come referente il
consumatore o l’utente o ancora l’associazione a cui dà mandato o il
comitato cui partecipa, dall’altro, dalla titolarità della legittimazione
passiva, ricadente in capo all’impresa.
Tale rigida decisione in futuro non potrà che sollevare critiche, in quanto
resterebbero privi di tutela una larga maggioranza di persone che si
vedono impedite a promuovere un’azione collettiva per il semplice fatto
che non rientrano nella nozione di consumatore all’interno del binomio
consumatore/professionista, Basti pensare al caso in cui l’impresa, che
inquinando la zona circostante la sua azienda, danneggia i residenti che
non sono consumatori nemmeno potenziali, perché magari non sono
destinatari del prodotto o perché esso viene commercializzato altrove. In
questo esempio i danneggiati resterebbero privi di tutela collettiva.
b) Gli investitori.
14
Degno di nota è il fatto che il legislatore non abbia previsto la possibilità
per gli investitori di agire a tutela dei propri diritti nell’azione collettiva
come autonomo gruppo di interesse.
Non si sa bene se tale figura possa rientrare nella tutela collettiva dato che
il credito al consumo è solo citato nel Codice, ma la sua disciplina è
prevista dagli artt. 121 ss del Testo Unico Bancario (DLgs 385/1993), dove
sono disciplinati i contratti bancari conclusi con il consumatore.
Occorre, però, ricordare che la tutela collettiva degli investitori sui mercati
finanziari era stata nel 2003, sull’onda degli scandali Cirio, dei bond
argentini e Parmalat, una delle ragioni fondanti delle proposte di legge
che avevano introdotto la tutela collettiva “in via generale” (Cfr. I.
BUFACCHI, «La strada peggiore», Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2007, pp 1 e
14).
Proprio alla luce delle recenti frodi si ritiene che l’inclusione degli
investitori tra le categorie legittimate ad agire a tutela dei propri interessi
tramite un’azione collettiva avrebbe potuto contribuire anche al ripristino
della fiducia nel mercato con chiari effetti benefici all’economia in
generale (così L. FERRARESE, «Le norme statunitensi sulle azioni collettive:
analisi comparativa con la normativa italiana e spunti di riflessione», in La
Resp. Civ., 2008, pag. 751).
Però, nonostante nel progetto originario della riforma si faceva riferimento
alla categoria degli investitori, nel testo originariamente licenziato dal
Senato ed in quello attuale, tale riferimento è stato soppresso.
Senza contare il fatto che i contratti per l’acquisto di servizi finanziari non
sono disciplinati nel Codice del consumo, ma nel TUF (DLgs 58/98).
Di solito l'investimento in strumenti finanziari è contraddistinto per la
varietà dei tipi di investitori e le diverse scelte di investimento fanno venir
meno un presupposto indispensabile per l'esercizio dell'azione collettiva,
la serialità del danno (si veda M. PANUCCI, «La disciplina delle azioni
collettive risarcitorie», in Fiscalità Finanza e Diritto d'Impresa, marzo 2008).
Si sostiene che parte consistente della tutela del risparmiatore è inserita
non nel codice del consumo, quanto piuttosto nel TUF (art. 32-bis,
15
introdotto dalla disciplina Mifid). Se così fosse, risulterebbe tuttavia
evidente la esclusione dal perimetro di applicabilità della norma, posto
che l’art. 32-bis del TUF riguarda al più l’azione collettiva inibitoria
(injunctive class action), certo non quella risarcitoria (damages class action)
oggetto dell’art. 140-bis del codice del consumo (così G. CARRIERO,
«Responsabilità delle imprese e interessi collettivi: spunti di riflessione»,
Rivista di Diritto Pubblico italiano comunitario e comparato, n. 24 del 2008,
pag. 1 ss.).
Nondimeno occorre ribadire che il tema degli investimenti con tutte le
problematiche che ha comportato è stato uno dei motivi di impulso della
nascita dell'azione collettiva nel nostro Paese, pertanto appoggiare la tesi
restrittiva, lasciando l'art. 140-bis fuori da questo ambito appare dar corso
ad una miope intelligenza interpretativa.
Secondo alcuni, questa tipologia di ipotesi, forzando un po’ la lettera della
previsione normativa, potrebbe rientrare nelle pratiche commerciali
scorrette, che vengono direttamente ad incidere sulla concorrenza tra
mercato ed imprese (cfr. D. AMADEI, «L'azione di classe italiana per la
tutela dei diritti individuali omogenei», in www.Judicium.it).
Altri hanno sostenuto che “non si dovrebbero avere troppe difficoltà ad
ammettere la tutela collettiva risarcitoria, per lo meno nei confronti delle imprese
di investimento che si legano a consumatori di servizi finanziari, dal momento che
tali rapporti non sembrano poter prescindere dall’impiego a monte di schemi di
formazione del contratto imperniati su formulari. Utilizzo che in parte è
consequenziale all’esigenza di adeguarsi a regole settoriali finalizzate a garantire
la correttezza e la trasparenza dell’operazione” (così, A. PALMIERI, «La class
action da danno finanziario», Danno e Responsabilità, n. 4/2009, pag. 382).
Parte autorevole della dottrina ha sostenuto che la tesi per cui si esclude
l’applicabilità della tutela collettiva ai risparmiatori in quanto i contratti
“bancari/finanziari” sono estranei all’applicazione della normativa de qua
data la sua collocazione nel Codice del Consumo, si può facilmente
superare, perché l’art. 140 bis comma secondo considera anche materie o
ambiti estranei al Codice del consumo, come la disciplina della
16
concorrenza e nello stesso tempo tutti questi rapporti si istituiscono
mediante formulari o moduli.
Non solo, ma anche la tesi, per cui tali contratti (bancari/finanziari) sono
scritti da risparmiatori e non da consumatori in senso proprio e pertanto
la tutela collettiva non può trovare applicazione, non può essere accolta.
In effetti anche se l’art. 140 bis fa riferimento solo a consumatori ed utenti,
nel codice del consumo sono state introdotte regole sulla conclusione
telematica dei contratti aventi ad oggetto servizi finanziari, pertanto tale
restrizione appare totalmente infondata se non per favorire il mondo degli
imprenditori finanziari da future azioni collettive.
Senza contare il fatto che il risparmiatore nella prassi è un consumatore di
servizi finanziari (così G. ALPA, «L’azione collettiva risarcitoria. Alcune
osservazioni di diritto sostanziale», in Il Corriere del Merito, n. 7, 2008, pag.
769).
I dubbi interpretativi sul fatto che i rapporti tra emittenti ed investitori
non siano compatibili con la tutela risarcitoria collettiva secondo alcuni
(cfr. F. AROSSA, «Gli scomodi confini dell’azione collettiva risarcitoria
all’italiana: diseconomie del suo ambito di applicazione», in Analisi
Giuridica dell’Economia, I, 2008, pag. 38) non convincono e l’azione di classe
può trovare la sua applicazione purché i contratti siano conclusi mediante
moduli e formulari.
Parte della dottrina (cfr. F. AROSSA, «Gli scomodi confini dell’azione
collettiva risarcitoria all’italiana», op. cit., pag. 32) pur ammettendo che la
tutela collettiva è esclusa agli investitori professionali in strumenti
finanziari, creando di conseguenza una discriminazione rispetto ai retail
investors, auspicano una un’applicazione estensiva a tutti gli investitori, in
quanto solo così l’azione di classe può servire da stimolo alla crescita di un
moderno mercato finanziario, “aumentandone la capacità di attrazione di
capitali anche dall’estero” (così R. LENER «Le “class actions” scomparse»,
in Analisi Giuridica dell’Economia, I, 2006, pag. 136), così come è avvenuto
in USA in cui la ratio delle class actions è anche quella di “incrementare
l’effetto deterrente nei confronti dei soggetti potenzialmente in grado di porre in
17
essere delle frodi…nel mercato finanziario” (così E. BELLINI, «Class action e
mercato
finanziario:
l’esperienza
nordamericana»,
in
Danno
e
Responsabilità, 2005, pag. 825).
4.Legittimazione passiva e competenza territoriale.
Uno dei punti sui quali la normativa sull’azione collettiva risarcitoria farà
più discutere riguarda l’individuazione della parte convenuta.
Infatti l’art. 140-bis non fa alcun espresso riferimento nella individuazione
della controparte processuale. Tuttavia la disposizione contiene degli
espliciti riferimenti all’ “impresa” quale controparte processuale.
Infatti questo lo si può desumere sia dal fatto che per individuare il foro
territorialmente competente si fa espresso riferimento al “tribunale
ordinario avente sede nel capoluogo di Regione in cui ha sede l’impresa” (quarto
comma), sia al fatto che in più occasioni si fa riferimento all’impresa quale
parte convenuta in tali simili azioni (secondo e quattordicesimo comma).
L’impiego di un termine dalla connotazione esplicitamente economica e
funzionale, secondo parte della dottrina, inserisce nel novero dei
potenziali convenuti forme di organizzazioni giuridica diverse dalle
società (si pensi ad esempio alle fondazioni bancarie, in quanto in concreto
esercitanti un’attività di impresa, ai consorzi, ai gruppi di interesse
economico europeo, alle associazioni o alle fondazioni private purché
esercitanti imprese), nonché altri soggetti giuridici svolgenti un’attività
d’impresa anche se non in forma collettiva (ad esempio gli imprenditori
individuali).
La scelta di tale termine è stato presumibilmente dettato dal lodevole
scopo di estendere al di là delle sole società il campo di applicazione della
futura procedura
Più analiticamente il termine impresa (generico, ma sempre meglio del
termine indefinito di “convenuto” utilizzato in alcuni progetti di legge
presentati alla Camera di Deputati), viene inteso in senso restrittivo,
richiamandosi esclusivamente alla nozione civilistica.
18
Tenendo conto di questa interpretazione restrittiva, ma anche più
aderente al dettato normativo, si dovrebbe arrivare ad escludere, con una
soluzione che senza dubbio farà discutere e che potrebbe dar vita a degli
interventi della Corte Costituzionale sul mancato rispetto degli artt. 3, 24,
113
Cost.,
dalla
disciplina
dell’azione
collettiva
le
Pubbliche
Amministrazioni.
Questa esclusione ci porta indietro nella storia giudiziaria della tutela dei
diritti di almeno 10 anni, se si considera nel 1999 la Cassazione (Cass. Civ.
SSUU, sentenza 26 marzo – 22 luglio 1999 n. 500) ha riconosciuto un
diritto soggettivo al risarcimento dei danni derivanti da violazione di un
interesse legittimo da parte della Pubblica Amministrazione.
Res sic stantibus, sono escluse dalla tutela dell’azione collettiva risarcitoria
tutte quelle ipotesi in cui la condotta illegittima della PA si ricolleghi ad
un’ipotesi di responsabilità privata da illecito (si pensi all’eventuale
corresponsabilità omissiva dell’Antitrust rispetto agli illeciti commessi da
un’impresa quotata, o all’omessa vigilanza della Banca d’Italia rispetto
agli illeciti perpetrati da un intermediario finanziario o da un istituto di
credito).
Per sfuggire alle maglie restrittive dell’interpretazione letterale dell’art.
140-bis, si ritiene che il termine “impresa” debba essere intesa in senso
“comunitario” e non strettamente civilistico.
Infatti, la dottrina comunitaria sostiene che nel sistema legislativo
comunitario non esiste una definizione esplicita di impresa, ma di volta in
volta si adotta una nozione flessibile e mutevole di tale nozione (crf.
AFFERMI, «La nozione di impresa comunitaria» in Trattato di dir. Comm. e
dir. Pubb. Econ. (Diretto da) Galgano, Vol. II, L’Impresa, Padova, p. 134),
che deve essere letta alla luce dello specifico contesto normativo e della
relativa ratio legis.
Seguendo questa interpretazione ci rendiamo conto che il soggetto passivo
dell’azione collettiva risarcitoria andrà a coincidere con quello di
“professionista” adottato dal codice del consumo.
19
La figura del professionista è stata considerata in senso estensivo sia da
parte della giurisprudenza che da parte della dottrina tanto da includervi
non solo gli imprenditori intesi in senso tecnico, siano essi piccoli, grandi,
commerciali o non commerciali, ma anche le imprese pubbliche e gli enti
pubblici erogatori di servizi (così P. TROIANO, «Gli enti pubblici come
“professionisti” e come “consumatori”» in Nuove Leggi Civ. comm., 1997, p.
850 ss; G. NEGRI, «Circolare di Confindustria interpreta la disciplina in
vigore da fine giugno», in Il Sole 24 Ore del 21 marzo 2008, n. 80).
In questa nozione estensiva nel target dell’azione di classe rientrerebbe
anche la Pubblica Amministrazione (compresi gli Enti Territoriali) non
solo quando questa svolge attività d’impresa nella forma di ente pubblico
economico, ma in tutte quelle occasioni in cui figura come controparte di
un rapporto di consumo e rientra nella nozione di professionista o di
produttore.
Pertanto, la stessa Pubblica Amministrazione dovrebbe rientrare nel
perimetro dei soggetti passivi in tutti quei casi in cui opera come soggetto
che fornisce beni o servizi.
In questa accezione la scelta del legislatore italiano potrebbe apparire sana
e non monca.
Se così non fosse basti pensare al risultato a dir poco aberrante che si
verrebbe a creare in caso dell’impossibilità di smaltire i rifiuti urbani,
quando verranno promosse le prime azioni italiane propagandate da
associazioni di tutela dell’ambiente o da comitati appositamente creati a
risarcimento dei danni alla salute e all’ambiente provocati contro le (poco
solventi) imprese pubbliche, private o miste addette alla raccolta e alla
distribuzione o concentrazione dei rifiuti, anziché contro le deep pockets
degli enti pubblici territoriali (in particolar modo Regioni, Province,
Comuni) cui si deve attribuire la fonte della responsabilità (si pensi alla
disastrosa situazione che ha interessato ultimamente la Regione
Campania).
Oggi questa disputa si è in parte sopita, a seguito dell’introduzione
dell’azione di classe pubblica, chiamata così perché esperibile contro la
20
PA, ma non del tutto placata proprio perché l’azione collettiva pubblica
non fornisce al cittadino gli stessi strumenti garantiti al consumatore, per
esempio non viene concessa un’azione di risarcimento danni, ma solo
finalizzata a far cessare la condotta pubblica lesiva entro un congruo
termine e nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane
assegnate alla PA (quindi senza ulteriori oneri per la finanza pubblica).
Un discorso a parte meritano le autorità di supervisory. In relazione alle
autorità esercenti funzioni di controllo (Banca d’Italia, Consob, Isvap,
Covip, Antitrust) il Fondo monetario internazionale nell’ambito del suo
“financial sector assestement program” per l’anno 2005 ha avuto modo di
raccomandare l’Italia di tutelare le predette Autorità da iniziative
giudiziarie mosse nei loro confronti (without fear of lawsuits).
Di conseguenza il comma 6-bis dell’art. 24 della L. 28 dicembre 2005, n.
262 (cd legge sul risparmio), come modificata dal cd “decreto correttivo”
di cui al DLgs 29 dicembre 2006 n. 303, detta una specifica disciplina
risarcitoria per le autorità indipendenti operanti sul mercato finanziario.
Prevede, infatti, che “nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo i
componenti dei loro organi nonché i loro dipendenti rispondono dei
danni cagionati da atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa
grave”. Tale regime di responsabilità patrimoniale è stato introdotto su
suggerimento del Fondo monetario internazionale allo scopo di
circoscrivere l’esposizione risarcitoria degli indicati soggetti pubblici
rinveniente dallo svolgimento delle delicate funzioni di supervisione loro
conferite dall’ordinamento, coerentemente con le omologhe previsioni da
tempo in essere presso altri importanti Paesi dell’Unione (cfr. G.
CARRIERO, «La responsabilità civile delle autorità di vigilanza (in difesa
del comma 6-bis art. 24 della Legge sulla tutela del risparmio)», in Foro
Italiano, 2008, V, 221).
Pertanto la vigenza della predetta normativa rende difficilmente
applicabile l’azione di classe nei confronti delle autorità indipendenti
operanti sul mercato finanziario.
21
Sulla competenza territoriale, l’art. 140-bis
del Codice del Consumo
prevede che è il “Tribunale ordinario del capoluogo della Regione in cui ha sede
l’impresa convenuta” a risultare territorialmente competente nel conoscere
le azioni collettive risarcitorie, prevedendo dei tribunali ad hoc per alcune
Regioni in base allo schema che segue.
Regione
Tribunale competente
Valle d'Aosta - Piemonte
Torino
Liguria
Genova
Lombardia
Milano
Veneto - Trentino Alto Adige -
Venezia
Friuli Venezia Giulia
Emilia Romagna
Bologna
Toscana
Firenze
Lazio - Marche - Abruzzo - Molise Roma
Umbria
Perugia
Campania - Basilicata - Calabria
Napoli
Puglia
Bari
Sicilia
Palermo
Sardegna
Cagliari
Un problema da risolvere è se per “sede” dell’impresa debba intendersi
quella legale o quella effettiva. È da escludere che il giudice compente sia
esclusivamente quello della sede individuata dall’atto costitutivo, perché
il legislatore non specifica se l’impresa convenuta sia dotata di una
propria personalità giuridica o meno.
Dalla lettura della norma è evidente che ci troviamo di fronte ad un foro
speciale esclusivo, venendo di conseguenza a derogare sia il principio
generale contenuto nel codice del Consumo all’art. 33 lett. u), in base al
22
quale nella cause che vedono come parte il consumatore, competente è il
giudice del luogo in cui questi ha la sede o il domicilio, presumendo come
vessatoria la clausola che statuisca una diversa località come sede del foro
competente (principio consolidato anche dalla Cass. Civ. SSUU, 01 ottobre
2003, n. 14669 ed anche Cass. Civ. 06 settembre 2007, n. 18743).
Problema di complessa soluzione è rappresentato dal fatto se l’impresa
convenuta non ha la sede in Italia. La nuova normativa tace sul punto.
Un noto giurista (Prof. Briguglio) durante un seminario tenuto a Pisa 29
aprile 2010 presso la Scuola Superiore Sant’Anna ha prospettato la
seguente
soluzione:
innanzi
tutto
secondo
i
canoni
del
diritto
internazionale privato occorre verificare se la giurisdizione è italiana. In
caso di risposta positiva si applica la disposizione dell’art. 18, secondo
comma cpc. Ora se il giudice del luogo in cui risiede l’attore coincide con
le sedi giudiziarie elencate nel l’art. 140 bis, quarto comma, l’azione di
classe può essere esperita, in caso contrario si dovrebbe negare la sua
ammissibilità.
5.Le situazioni sostanziali protette.
Art. 140 bis, primo comma: “I diritti individuali omogenei dei consumatori e
degli utenti di cui al comma 2 sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe,
secondo le previsioni del presente articolo”.
Per diritti individuali omogenei si devono intendere tutte quelle situazioni
soggettive sostanziali individuali che possono essere unite in virtù della
loro connessione per fattispecie costitutiva (o per titolo) o per identità
delle questioni da risolvere. La dottrina parla in proposito di diritti
isomorfi, omogenei, seriali per indicare tutti quei diritti individuali al
risarcimento del danno o alla restituzione di somme di denaro, sorgenti da
fatti, atti, negozi giuridici posti in essere da un soggetto che con il suo
comportamento illegittimo ha causato l’evento lesivo (si cfr. S. MENCHINI,
La tutela giurisdizionale dei diritti individuali omogenei: aspetti critici e
prospettive ricostruttive», in Le azioni seriali, Atti del convegno di Pisa, 4
23
e 5 maggio 2007, in Quaderni de “Il giusto processo civile”, Napoli, 2008, § 4,
pag. 55 ss).
Pertanto i diritti tutelati nell’azione di classe non riguardano interessi
diffusi o adespoti, bensì diritti soggettivi sul piano sostanziale i cui titolari
sono soggetti individuati o individuabili, che possono far valere le loro
pretese anche individualmente in separati processi. Non a caso il
legislatore pone l’azione di classe come tutela suppletiva a quella classica
ordinaria. Questa affermazione è confortata dalla presenza della
congiunzione “anche” di cui al primo comma dell’art. 140 bis, lasciando
intendere che l’azione di classe non è la sola via esclusiva per tutelare un
diritto che già di per sé è singolarmente tutelabile in sede di processo
ordinario con procedura ordinaria o speciale che sia.
6.L’accertamento della responsabilità e condanna al risarcimento del
danno o alla restituzione di somme.
Il vecchio testo dell’art. 140 bis del codice del consumo delineava un
procedimento bifasico. Una prima fase era finalizzata all’accertamento
della responsabilità dell’impresa per violazione dei singoli diritti
individuali dei consumatori; una seconda in cui il singolo consumatore ed
utente avevano la possibilità di ottenere la liquidazione del danno subito.
La nuova disposizione dell’art. 140 bis, invece, non lascia spazio a dubbi
perché il legislatore ha chiarito che l’azione di classe potrà essere azionata
al
fine
di
agire
per
l’accertamento
della
responsabilità
e
(conseguentemente) per la condanna al risarcimento del danno o alla
ripetizione dell’indebito.
Scelta questa da parte del legislatore da lodare, sia perché allontana dubbi
interpretativi e sia perché tra le due scelte ha preferito quella da un lato
più ovvia, dall’altro più ragionevole.
Infatti, la dottrina ritiene che con l’azione di condanna, oltre
all’accertamento della violazione del diritto, si chieda un quid pluris, che
coincide con il bisogno di una tutela più incisiva, a causa del fatto che il
diritto azionato è stato leso.
24
Inoltre, solo la sentenza di condanna costituisce titolo esecutivo, è un titolo
adatto per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 2818 cc) ed è idonea a
trasformare la prescrizione breve in prescrizione decennale (art. 2953 cc).
Inoltre, occorre precisare che col termine “restituire” si intende “ristabilire
le condizioni di fatto e di diritto che caratterizzavano la situazione del
soggetto prima che un certo mutamento fosse intervenuto” (così. A. DI
MAJO, La tutela civile dei diritti, Milano, 1982, pag. 293, ripreso da L. DI
NELLA, Profili sostanziali dell’azione collettiva: le pratiche commerciali
scorrette e le condotte anticoncorrenziali, nella Relazione al Convegno
tenutosi a Parma il 28/02/2008 col tema “l’azione collettiva: prime
riflessioni”). Mentre la tutela risarcitoria reagisce contro il danno prodotto,
neutralizzandone gli effetti in termini economici, quella restitutoria
prescinde dal danno ed è rivolta a rimuovere “l’alterazione di una situazione
di fatto e/o di diritto” ristabilendo la situazione originaria e l’ordine violato,
consentendo ad esempio a chi ha effettuato un pagamento non dovuto di
richiedere la restituzione di quanto pagato. (così A. DI MAJO, La tutela
civile dei diritti, op. cit. pag. 294).
7.Le causae petendi dell'azione di classe.
L'azione di classe è ammessa dalla legge per l'accertamento della
responsabilità per la conseguente condanna al risarcimento del danno e/o
alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti in
relazione a:
a) rapporti contrattuali conclusi da una pluralità di consumatori e utenti
nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti
relativi a contratti stipulati ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cc;
b) diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato
prodotto nei confronti del relativo produttore anche a prescindere da un
diretto rapporto contrattuale;
c) diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi
consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette;
25
d) diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi
consumatori e utenti da comportamenti anticoncorrenziali.
Tipizzando le causae pretendi, da un lato il legislatore è stato ingeneroso
nell’escludere dal novero tutte quelle situazioni degne di tutela e derivanti
da comportamenti rientranti negli illeciti di natura extracontattuale non
specificatamente indicati nelle categorie sopra elencate, dall’altro è stato
magnanimo nell’inserire nel numerus clausus situazioni (i comportamenti
anticoncorrenziali) che, con la precedente norma di cui all’art. 140 bis
potevano essere considerati rientranti negli atti illeciti aquiliani, ma che, se
non specificati, sarebbero restati nella disciplina attuale senza ombra di
dubbio fuori dalla tutela collettiva.
Non solo, ma, rebus sic stantibus, rimangono fuori dal novero delle stesse,
fattispecie che pure in altri ordinamenti hanno dato luogo a domande di
massa: si pensi alle pretese risarcitorie per i pregiudizi derivanti da
discriminazioni sessuali o razziali (sul luogo del lavoro e non).
Poc’anzi si diceva che ognuno dei suddetti atti deve essere tale da violare
“i diritti di una pluralità di consumatori o utenti”. Questo caratterizza il
genoma delle situazioni sostanziali tutelabili nella sfera dell’azione
collettiva. Non è, infatti, sufficiente una mera invalidità contrattuale,
ovvero un generico atto illecito, contrattuale o aquiliano; è necessario che
essi siano idonei a ripercuotersi su una pluralità di consumatori od utenti.
In altre parole la condotta dell’imprenditore deve essere plurioffensiva,
essa non deve limitarsi a colpire un solo soggetto, ma deve nuocere a più
soggetti attraverso la conclusione di contratti invalidi.
Chiariti questi aspetti preliminari, a questo punto procediamo con ordine
ed analizziamo analiticamente i singoli casi per cui è prevista la tutela
dell’azione di classe.
a) Contratti stipulati tra consumatori o utenti ed una medesima impresa
anche ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cc.
Sotto la dicitura del vecchio testo dell’art. 140 bis l’aspetto della tutela
contrattualistica pareva fortemente limitata.
26
Infatti, l’art. 140bis del Cod. del Cons., nel delineare la situazione
sostanziale tutelabile, faceva riferimento soltanto ai rapporti sorti da
contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 cc. e nulla più.
Il mancato richiamo anche all’art. 1341 cc non faceva rientrare nella tutela
quelle fattispecie rientranti semplicemente nelle condizioni generali di
contratto.
Non si capiva il perché di tale limitazione se non forse, come ipotizzato da
qualcuno (cfr. F. RIZZO, Azione collettiva risarcitoria ed interessi tutelati,
Napoli, 2008, pag. 201-202) per un motivo di ordine pratico: il giudizio che
si sarebbe instaurato con l’azione collettiva è volto a verificare se il
professionista abbia cagionato lo stesso danno ad una cerchia indeterminata
di persone. E poiché ad oggetto dello stesso giudizio devono essere posti
rapporti identici ed uniformi, nati cioè dallo stesso ed identico contratto, il
legislatore aveva creduto bene di limitare la tutela tramite l’azione
collettiva ai soli rapporti basati su un modulo contrattuale: in questo caso,
si proponeva di raggiungere l’obbiettivo di semplificare l’identità di
posizione tra i vari componenti della classe agente, essendo sufficiente il
possesso del contratto seriale sottoscritto.
Tanto è vero che con questa ipotesi il legislatore aveva voluto riferirsi a
tutti quei casi in cui il contratto veniva concluso mediante moduli o
formulari, meglio conosciuti come contratti per adesione, come per
esempio i contratti stipulati nel settore della telefonia, dei servizi, delle
assicurazioni, delle banche, servizi turistici.
Sono contratti destinati a regolare una serie indefinita di rapporti,
venendo
predisposti
unilateralmente
da
un
contraente
(quello
economicamente più forte) (così Cass. Civ. 19 maggio 2006, n. 11757).
Nell'ambito
della
pratica
commerciale,
infatti,
la
parte
aderisce
normalmente al contratto e si limita a sottoscrivere lo schema contrattuale
gia predisposto dall'altra parte. É uno strumento da un lato che serve a
snellire rapporti basati su relazioni commerciali standardizzate, dall'altro,
se usato con spregiudicatezza, potrebbe rivelarsi una pesante “arma di
27
causazione di danno di massa” nei confronti degli ignari consumatori o
utenti.
Dubbi, dopo la sua formulazione, sono nati sull’effettiva portata
cautelativa della norma, prospettandosi il rischio di escludere dalla tutela
le small claims non consumeristiche o non derivanti da contratti di massa.
Così operando, infatti, la norma tagliava fuori dalla sua tutela un elevato
numero di fattispecie nelle quali una pluralità di consumatori avrebbe
potuto subire lo stesso tipo di danno. C’era il non lontano rischio che si
sarebbe potuta diffondere la prassi per cui i soggetti professionali
sarebbero stati portati sempre più a non utilizzare moduli o formulari
nella conclusione dei loro contratti standard, privilegiando il rinvio alle
condizioni generali ex art. 1341 cc, ponendo così dei ripari per eventuali e
possibili azioni collettive nei loro confronti.
Si pensi alle conseguenze distorte che si sarebbero create quando
avremmo visto permessa la tutela collettiva risarcitoria ai titolari di un
abbonamento ad un servizio di trasporto (sottoscrittori di un modulo
prestampato al momento della stipula dell’abbonamento), mentre
l’avremmo vista negata ai semplici passeggeri occasionali di quel
medesimo servizio, solo perché titolari di un mero biglietto di viaggio e
soggetti solo all’art. 1341 cc, ossia alle condizioni generali di trasporto
predisposte dal vettore.
Pertanto, il legislatore, a seguito delle critiche mosse e sollevate dalla
dottrina, si è reso conto che tutti i contratti conclusi verbalmente, o per
facta concludentia, o mediante l’acquisto di un titolo di legittimazione, ma
senza una sottoscrizione del relativo modulo predisposto unilateralmente
non sarebbero rientrati nell’ambito della tutela dell’azione collettiva, come
anche i contratti negoziati individualmente.
Infatti, nella nuova formulazione dell’art. 140 bis, il legislatore è
intervenuto integrando l’articolo inserendo tutti i contratti conclusi con la
stessa impresa da parte di una pluralità di consumatori ed utenti, “inclusi”
quelli conclusi ai sensi dell’art. 1341 e 1342 cc. Il legislatore ha voluto
rimarcare l’inclusione delle ipotesi ex artt. 1341 e 1342 cc, in quanto in
28
entrambe le ipotesi sorge con maggiore forza l’esigenza di tutelare il
contraente debole nell’ambito di quella che è stata definita “contrattazione
asimettrica” (un particolare contributo in materia è dato da V. ROPPO,
«Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con
asimmetria di potere contrattuale; genesi e sviluppo di un nuovo
paradigma», in Riv. dir. priv., 2001, pag. 783 ss).
È opinione condivisa quella secondo cui “la ratio del sistema delineata dal
combinato disposto degli artt. 1341 e 1342 sia quella di tutelare la parte
economicamente più debole” (così A. Di Majo, «Il controllo giudiziale delle
condizioni generali di contratto», in Riv. Dir. Comm., 1970, I, pag. 205).
Entrambe le norme poi si caratterizzano per il fatto di coinvolgere
un’ampia ed indeterminata cerchia di consumatori. Questo spiega
l’espresso richiamo da parte del legislatore e il voler a tutti i costi evitare
eventuali futuri dubbi sulla loro inclusione e tutela nell’azione di classe.
b) Responsabilità del produttore.
L’espressione generica utilizzata dal legislatore nel vecchio testo dell’art.
140 bis (“atti illeciti extracontrattuali”) richiamava di primo acchito tutte
quelle fattispecie che almeno astrattamente ricadevano nell’art. 2043 cc.
Il risarcimento di danni extracontrattuali era senza dubbio quella figura
che più di ogni altra evocava le azioni collettive nord americane.
A questo punto, è d’obbligo, per mettere in luce il differente ambito
applicativo dell’azione di classe italiana, fare un piccolo accenno al
sistema nord americano, nel quale si distinguono tre principali figure di
mass torts: a) pollution mass torts; b) mass accidents; c) product liability mass
torts (sul tema si vedano L. S. MULLENIX, Mass Tort Litigation: Cases and
Materials, Eagan (MN) 2008, G. PONZANELLI, «Alcuni profili del
risarcimento del danno nel contenzioso di massa», Riv. Dir. Civ., n. 3 del
2006, pag. 327; Id. «Mass Tort nel diritto italiano», in Responsabilità civile e
previdenza, 1994, pag. 173).
I pollution mass torts riguardano i casi in cui una sostanza inquinante
danneggia più soggetti (si pensi all’inquinamento di una falda acquifera).
29
In caso di mass accidents, la class action è esperibile quando il medesimo
evento dannoso ha cagionato danni ad una pluralità di persone (si pensi al
caso di incidente in una centrale nucleare). In caso di product liability mass
tort, invece, un medesimo danno provocato da un prodotto difettoso si
ripercuote su una serie di soggetti (si pensi all’ipotesi della costruzione e
diffusione sul mercato di pneumatici difettosi).
Già da questo breve richiamo alla legislazione americana ci si rende conto
del notevole restringimento operato dal legislatore italiano. Infatti, mentre
negli States chiunque può esperire un’azione collettiva, in Italia può
trovare tutela solo chi versi nella posizione giuridica di consumatore od
utente. Inoltre, a differenza della precedente versione dell’art. 140 bis, che
sia pur ristretta rispetto all’ambito operativo di quella americana ma
almeno richiamava non solo quelle situazioni in cui l’elemento della
colpevolezza funge da cardine del sistema risarcitorio, ma anche tutti quei
casi di strict liability, la formulazione attuale restringe notevolmente
l’ambito di applicazione riferendosi esclusivamente ai danni da prodotti
difettosi.
Anzi, a dire il vero, fu proprio pensando a tutte le ipotesi di responsabilità
oggettiva che una tutela più ampia aveva trovato spazio nella precedente
formulazione dell’art. 140 bis.
Basti pensare ai numerosi casi di responsabilità del danno derivante da
prodotti difettosi, ai casi di danni derivanti dall’uso di emoderivati o
dall’infezione da sangue per epatite o per il contagio da HIV, o si pensi ai
casi di danni subiti da soggetti sottoposti ad un trattamento sanitario
obbligatorio (es. vaccinazione) o ancora si pensi alla responsabilità
precontrattuale - sempreché la responsabilità precontrattuale venga
ricostruita, alla luce dell’opinione prevalente (ex pluribus F. BENFATTI, La
responsabilità precontrattuale, Milano, 1963, pag. 13 e 15; L. MENGONI,
«Sulla natura della responsabilità precontrattuale», in Riv. Dir. Comm.,
1956, II, pag. 365 e 370; C. M. BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano,
2000, pag. 157 e ss), come una responsabilità extracontrattuale e,
nonostante la stipula di un contratto valido, il contraente vittima
30
dell’illecito precontrattuale conservi il diritto di agire contro la sua
controparte - purché la condotta illecita nasca durante la fase delle
trattative o durante la conclusione del contratto ed il professionista si renda,
in questi momenti, responsabile precontrattualmente.
Simili tipologie di danno hanno dato luogo negli USA a clamorose class
action, Si pensi all’azione proposta nel 1965 contro un colosso della
produzione automobilistica per l’inaffidabilità e l’insicurezza di un
modello di auto prodotto; o al cosiddetto “agente orange” per gli ex
combattenti nella guerra del Vietnam; o ai danni provocati agli abitanti di
un paese della California per una falda acquifera inquinata.
In Italia ovviamente queste fattispecie avrebbero potuto dar luogo (e non
mi stanco mai di ripeterlo) ad una azione solo se il soggetto danneggiato si
fosse configurato con quello di utente o consumatore e quello
danneggiante con la figura di professionista/imprenditore, legati da un
rapporto di consumo.
Con la nuova formulazione dell’art. 140 bis il legislatore, come si è detto,
ha ulteriormente ristretto l’ambito applicativo della precedente norma,
garantendo l’esercizio dell’azione di classe solo nei casi di responsabilità
per danno da prodotti difettosi, “anche a prescindere (per fortuna) da un
diretto rapporto contrattuale” esistente tra consumatore e produttore.
La
giurisprudenza
e
la
dottrina
hanno
da
sempre
qualificato
espressamente la responsabilità per il difetto del prodotto in termini di
responsabilità extracontrattuale di natura oggettiva.
Rientrano in questa categoria tutti i danni dovuti a difetti di fabbricazione
del singolo esemplare (o di una serie di essi) e i difetti di progettazione che
riguardano le caratteristiche intrinseche del bene introdotto nel mercato.
La parte agente è obbligata a fornire prova, in sede processuale, sul fatto
che il prodotto è difettoso, sull’esistenza del danno subito e sulla presenza
del nesso eziologico tra il difetto e il danno subito. Dall’altro lato sul
produttore grava il maggior onere probatorio diretto a provare i fatti che
possono escludere la responsabilità nella causazione dell’evento dannoso.
31
Nulla la norma ci dice nel caso in cui il produttore non sia individuabile.
In questi casi si potrebbe prospettare, e sempre che non si voglia
propendere per l’applicazione dell’azione di classe, la responsabilità per
danno da prodotto difettoso ricadente sul fornitore che abbia provveduto
a distribuire il prodotto, a meno che il fornitore stesso non comunichi al
danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla richiesta (art. 116 del codice
del consumo), l’identità ed il domicilio del produttore o della persona che
gli ha fornito il prodotto.
c) Pratiche commerciali scorrette.
Con riferimento a tale terminologia il legislatore pare che abbia avuto in
mente la nozione contenuta nell’art. 20 del Codice del Consumo, a seguito
dell’ampio intervento legislativo posto in essere dal DLgs 02 agosto 2007,
n. 146 (Attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche
commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno), il quale
ha modificato gli articoli da 18 a 27 del Codice del Consumo.
Analizzando la norma, ci rendiamo conto che il legislatore ha posto in
essere
due
limiti
identificativi
alle
pratiche
tra
consumatori
e
professionisti, ossia devono qualificarsi commerciali e devono essere
scorrette.
La nozione di pratica commerciale è definita dall’art. 18, lett. d) del codice
del consumo, qualificandola come “qualsiasi azione, omissione, condotta o
dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la
commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in
relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.
È una nozione "estesissima" in quanto "include qualsiasi condotta che venga
posta in essere da un professionista che sia in relazione con la promozione, vendita
o fornitura di un prodotto" (Così G. DE CRISTOFARO, «Le pratiche
commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori: il DLgs
n. 146 del 2 agosto 2007, attuativo ella direttiva 2005/29/CE», in Studium
Iuris, 2007, pag. 1188; Id., «L’attuazione della direttiva nell’ordinamento
italiano: prospettive», in Le “pratiche commerciali sleali tra imprese e
32
consumatori”. La direttiva 205/29/CE e il diritto italiano, (a cura di) De
Cristofaro, Torino, 2007, pag. 47 ss).
Per stabilire se una “pratica commerciale” è anche scorretta, il codice del
consumo ci fornisce tre livelli di valutazione.
Il primo
di carattere
generale, il secondo si specifica in due sottocategorie: quelle ingannevoli e
quelle aggressive; infine il terzo, in cui viene indicata una lista in cui
determinate pratiche ingannevoli o aggressive sono da considerarsi in
ogni caso scorrette.
Pertanto al fine di valutare se una pratica commerciale sia scorretta si
dovrà verificare se questa è contemplata nelle “black list” di cui agli artt. 23
e 26 del codice del consumo; se così è, allora essa è qualificata
automaticamente scorretta. In caso contrario occorrerà verificare se essa
possa rientrare nella figura dell’azione (art. 21 del codice del consumo) od
omissione ingannevole (art. 22 del codice del consumo) ovvero rientri
nella pratica aggressiva (artt 24 e 25 del codice del consumo). In ultima
analisi e solo in caso di esito negativo
delle precedenti verifiche si
accerterà che la pratica possa o meno rientrare nell’ambito della clausola
generale di cui all’art. 20, comma 2 del codice del consumo).
La normativa verrà applicata alle pratiche commerciali scorrette tra
consumatori ed “imprese” poste in essere prima, durante e dopo
un’operazione commerciale (così l’art. 19, comma 1 del codice del
consumo) relativa ad un prodotto, riguardando tutte quelle attività
connesse alla commercializzazione del prodotto medesimo (pubblicità,
promozioni, offerte, preventivi, ecc.). Così operando il legislatore vuole
sanzionare tutte quelle condotte ingannevoli ed aggressive, e perciò
scorrette, che inducono il consumatore in errore o lo influenzano a tal
punto da fargli prendere una decisione commerciale anziché un’altra.
La ratio della norma consiste nel fatto di colpire certi comportamenti che,
influenzando
direttamente
il
mercato,
vedono
come
persona
maggiormente colpita, in quanto parte debole, il consumatore che chiude
il ciclo produttivo.
33
L’operatività della tutela collettiva in riferimento alle pratiche commerciali
scorrette potrebbe riguardare casi nei quali il professionista fornisca al
consumatore informazioni non corrispondenti al vero, ovvero pone in
essere una serie di comportamenti commerciali che inducono il
consumatore di media diligenza in errore sull’esistenza o la natura del
prodotto, la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, la composizione e così
via. Ancora si possono considerare scorrette quelle pratiche commerciali
in cui l’imprenditore ometta di indicare tutte quelle cautele da utilizzare
durante l’uso del prodotto, altrimenti nocivo o suscettibile di porre in
pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori/utilizzatori. Si pensi
ancora alle asimmetrie informative presenti tra il professionista e il
consumatore e non colmate dal primo dalla diffusione di una serie di
informazioni utili al consumatore al fine di fargli maturare una decisione
consapevole di natura commerciale, come anche una mendace, oscura,
ambigua informazione in merito ad un prodotto.
Non è difficile pensare che le pratiche commerciali scorrette poste in
essere nella maggior parte dei casi danno luogo a danni di piccola entità,
ma di larga diffusione. Nessun consumatore può avere sino ad ora
pensato di agire contro l’impresa fornitrice per i disagi causatigli da
condotte che hanno posto in essere pratiche commerciali scorrette.
Tuttavia gli artt. 18 e ss. non prevedono specifici rimedi per la tutela dei
diritti dei consumatori lesi dalle pratiche come qualificate e catalogate dal
Codice, ma una tutela giurisdizionale che fa riferimento anche all’art. 2598
cc (così art. 27 Cod. del Cons.).
È chiaro l’intento del legislatore comunitario che ha considerato tra le sue
prerogative primarie quella di colpire il comportamento scorretto del
professionista, lasciando liberi i consumatori ed utenti di ricorrere ai
rimedi generali del diritto contrattuale.
La tutela di questi interessi, qualora sia idonea ad incidere sulla volontà di
un numero elevato di consumatori, potrà divenire oggi effettiva grazie
all’azione di classe, allegando quale causa petendi la condotta contraria alla
legge, posta in essere dal professionista.
34
Non solo, ma si può anche iniziare a pensare ad azioni collettive in
relazione per esempio ai cosiddetti danni da fumo a causa di una omessa
o non corretta informazione da parte dell’impresa produttrice di tabacco,
o si pensi nella cattiva informazione data nella vendita di prodotti
farmaceutici, o ancora si pensi a quelle pratiche commerciali che in
relazione ai destinatari del prodotto pubblicizzato, possano minacciare la
loro salute e la loro sicurezza se adottate in maniera scorretta (si pensi a
giocattoli, prodotti dolciari, che apparentemente innocui, sono realizzate
con sostanze nocive per i loro utilizzatori).
d) Comportamenti anticoncorrenziali.
La
norma
fa
riferimento
in
modo
generico
a
comportamenti
anticoncorrenziali, senza specificare a chiare lettere in cosa essi debbano
concretizzarsi. L’ampio spettro normativo fa sì che vi rientri ogni atto che
si ponga in contrasto con le norme a tutela della concorrenza.
Il punto di riferimento nell’Ordinamento italiano per quanto riguarda la
tutela della concorrenza è dato dalla legge 10 ottobre 1990 n. 287 (Norme
per la tutela della concorrenza e del mercato), nella quale vengono
sanzionati solo le intese restrittive della libertà di concorrenza (art. 2), in
quanto ovviamente non tutte le intese vanno considerate automaticamente
restrittive della concorrenza, nonché gli abusi di posizione dominante
(art. 3) e le concentrazioni di imprese restrittive della libertà di
concorrenza (art. 6).
Occorre precisare che per impresa rilevante per le norme antitrust non è
quella che rientra nei requisiti di cui all’art. 2082 cc, ma viene intesa in una
accezione più lata, ossia è esistente ogni qualvolta un qualsiasi soggetto
svolga attività economica idonea a ridurre anche solo potenzialmente la
concorrenza sul mercato (cfr. R. PARDOLESI, Diritto antitrust italiano,
Bologna, 1993, pag. 198, il quale sostiene che la legge antitrust non si
occupa dell’intesa tra i barbieri del piccolo paese di Pescopagano).
La posizione dominante può essere definita come “una situazione di potenza
economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la
35
persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e ha la possibilità di
tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti,
dei suoi clienti, ed in ultima analisi, dei consumatori…Siffatta posizione, a
differenza di una situazione di monopolio o quasi monopolio, non esclude
l’esistenza di una concorrenza, ma pone l’impresa che la detiene in grado, se non
di decidere, almeno di influire notevolmente sul modo in cui si svolgerà detta
concorrenza e, comunque, di comportarsi sovente senza doverne tenere conto e
senza che, per questo, simile condotta le arrechi pregiudizio” (Corte di Giustizia
Europea, causa C-85/76, Hoffmann La Roche/Commissione, sentenza del
13 febbraio 1979).
Un’impresa è considerata in posizione dominante quando ha la capacità
di agire in maniera indipendente rispetto a tutti gli altri attori del mercato
su cui opera.
L'art. 3 della legge n. 287/90, che costituisce l'omologo nazionale dell'art.
86 del Trattato CE, come noto è ispirato dall’esigenza di intervenire nei
confronti di comportamenti restrittivi della concorrenza tenuti da imprese
in posizione dominante; esso formalizzerebbe una sorta di "codice di
comportamento" misurato su quelle imprese che godono di una certa
potenza economica sul mercato rilevante.
Secondo una formula oramai ricorrente in dottrina, l’art. 3 non vieta
l’esistenza in sé di una posizione dominante, aspetto oggettivo in quanto
lecito e determinato da una certa situazione di mercato, bensì il suo abuso,
che è un aspetto soggettivo e discorsivo dell’esistenza della posizione
dominante in quanto legato al comportamento dell’impresa in questione e
considerato illecito per gli effetti negativi che comporta sull’esercizio della
libera concorrenza; dunque, esso esprimerebbe non una volontà di
impedire - prevenendola - l’acquisizione di una posizione dominante o di
monopolio, ma piuttosto di impedire che di tale posizione si faccia un uso
che
sia
distorsivo
della
concorrenza,
sovracompetitivi.
36
o
si
estraggano
profitti
Una posizione dominante può essere anche detenuta congiuntamente da
un gruppo di imprese, come accade in un mercato oligopolistico in cui i
fautori possono prevedere i comportamenti reciproci.
Si intende per concentrazione un'aggregazione di imprese mediante
fusione o incorporazione, la costituzione di aggregazioni su base
contrattuale (quali ad esempio le associazioni temporanee d'impresa o le
joint venture), la costituzione di consorzi per lo svolgimento di fasi
rilevanti delle imprese partecipanti ovvero ulteriori forme che favoriscano
la crescita dimensionale delle imprese.
Si può distinguere tra concentrazioni orizzontali e concentrazioni (o
integrazioni) verticali. Le prime hanno luogo quando un’impresa
acquisisce il controllo di un’altra impresa appartenente al medesimo
mercato rilevante, sia dal punto di vista merceologico che geografico: in
altri termini, si tratta dell’acquisizione del controllo di un concorrente.
Le concentrazioni verticali hanno invece luogo quando le due imprese non
appartengono allo stesso mercato prima della fusione, ma riguardano la
medesima filiera. Si possono definire inoltre forme di concentrazione
conglomerale, a seconda delle relazioni che intercorrono tra le imprese che
realizzano la concentrazione.
La legge (art. 6, L. 287/90) limita le possibilità di concentrazione tra
imprese dichiarando illegittime quelle che comportano la costituzione o il
rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale, tale da
limitare o comprimere, in modo sostanziale e durevole, la concorrenza.
Con il termine intesa ci si riferisce a qualsiasi accordo o pratica
concordante tra imprese. Il legislatore non ha voluto vietare tout court le
intese, ma solo quelle che abbiano per oggetto, o per l’effetto,
l’impedimento, la restrizione o la distorsione della concorrenza all’interno
del mercato nazionale, o in una sua parte rilevante.
L’accordo restrittivo della libertà di concorrenza è posto in essere da
almeno due soggetti, che rinunciano a competere fra loro in regime di
libera concorrenza. Con riguardo alla tipologia degli accordi, possiamo
distinguere tra accordi orizzontali (qualora vengano poste in essere da
37
imprese che operano nella stessa fase del processo economico e che si
impegnano a mantenere un medesimo comportamento, per esempio un
cartello sui prezzi da praticare) ed accordi verticali (conclusi da imprese
che, operando in stadi differenti, decidono di tenere un certo
comportamento, per esempio un accordo di vendita a prezzi imposti).
Tenuto conto di questa breve premessa, ci verrebbe da chiederci quali
comportamenti
anticoncorrenziali
potrebbero
invocare
gli
attori
dell’azione di classe, posto che tali comportamenti creerebbero un danno
diretto alle imprese concorrenti anziché alla platea dei consumatori e degli
utenti.
Questi dubbi possono essere ben presto dissolti se solo si dà una lettura ai
principi
espressi
dalla
giurisprudenza
di
legittimità,
che,
dopo
interpretazioni altalenanti, ha sostenuto che la L. 287/90 in materia di
antitrust: “non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti
del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla
conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno
specifico pregiudizio conseguente alla diminuzione di tale carattere” (Cass.
SSUU 04 febbraio 2005, n. 2207 in Foro It. 2005, I, c. 1014, con nota di A.
PALMIERI – R. PARDOLESI, «L’Antitrust per il benessere (e il risarcimento del
danno) dei consumatori»; nonché in Giur. It., 2005, p. 967, con nota di G.
CANALE, «I consumatori e la tutela antitrust»).
La Cassazione ha precisato che colui che subisce un danno da una
contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione
a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza (ad
esempio il consumatore) con gli autori di una collusione, ha a propria
disposizione l’azione individuale di cui all’art. 33 L. 287/90 con cui far
valere l’atto illecito ex art. 2043 cc commesso dal professionista.
Questo orientamento è stato subito recepito dalla giurisprudenza
successiva, la quale ha riconosciuto la legittimazione attiva all'esercizio
dell'azione prevista dall'art. 33 L. 10 ottobre 1990 n. 287 non solo agli
imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano
interesse alla conservazione del suo carattere competitivo e, quindi, anche
38
al consumatore finale, che subisce un danno derivante dalla contrattazione
che non ammette alternative per effetto di una collusione tra imprenditori
del settore (Così Cass. Civ. 28 ottobre 2005 n. 21081, in Giust. Civ., 2006, I,
p. 2051; Cass. Civ. 02/02/2007 n. 2305, in FI, 2007, 4, I, c. 1097).
Contrariamente a quanto ritenuto in passato, pertanto, la legge antitrust
non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del
mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante,
alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare
uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di
tale carattere. Il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto
al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene.
L’antitrust viene concepito come uno strumento di “libertà”: sia di libertà
di impresa, sia di libertà dei consumatori, sia, in una parola, di libertà dei
cittadini (così G. ROSSI, «Antitrust e teoria della giustizia», in Riv. Soc.,
1995, pag. 14, ma anche R. PARDOLESI, «Cartello e contratti dei
consumatori: da Leibniz a Sansone», in Foro It., 2004, I, c. 469 ss; B.
INZITARI, «Abuso di intesa anticoncorrenziale e legittimazione aquiliana
del consumatore per lesione della libertà negoziale», in Danno e Resp.,
2005, pag. 498 e ss).
In breve l’art. 140 bis del Cod. del Cons. riconosce a livello di diritto
positivo quell’impostazione secondo cui le norme a tutela della
concorrenza non rappresentano un mantello protettivo degli imprenditori
soltanto, ma anche legge di tutti i soggetti del mercato, consumatori
compresi.
In questa direzione si è collocata anche la CE sia con una Comunicazione
della Commissione, dal titolo “Una politica della concorrenza proattiva per
un’Europa competitiva”, la quale fra gli obbiettivi dell’ordinamento
comunitario pone anche “la migliore integrazione degli interessi dei
consumatori nel dispositivo di regolamentazione della concorrenza” (COM
(2004) del 20 aprile 2004), e sia tramite la pubblicazione di un Libro Bianco
il 02 aprile 2008 “in materia di risarcimento del danno per violazione delle
norme comunitarie antitrust” (COM (2008) 165), ove si afferma che “tutti i
39
cittadini e tutte le imprese che subiscono un danno a seguito di un’infrazione delle
norme antitrust comunitarie (artt. 81 e 82 del Trattato CE) devono poter
richiedere un risarcimento alla parte che ha causato il danno. Il diritto delle
vittime al risarcimento del danno è garantito dal diritto comunitario, come
affermato dalla Corte di Giustizia nel 2001 e 2006 (Causa C-453/99 e Cause
Riunite C-295-298/04)”.
Una rilevante pronuncia della Corte di Giustizia CE (Corte di Giustizia
CE, 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage c. Crehan, in acc., I, pag.
6297, commentata, tra altri,
da S. BASTIANON, «Intesa illecita e
risarcimento del danno a favore della parte debole», in Danno e Resp., 2001,
pag. 1151; G. ROSSI, «“Take Courage”! La Corte di Giustizia apre nuove
frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust», in Eur. Dir.
Priv., 2002, pag. 673), a cui poi ha fatto seguito una pronuncia delle Sezioni
Unite della Cassazione (Cass. SSUU 04 febbraio 2005, n. 2207), confermata
da una recente pronuncia (Cass. Civ. 02 febbraio 2007, n. 2305), ha recepito
la tesi in base alla quale un atto anticoncorrenziale provoca effetti negativi
nei confronti dei fruitori finali e che tali effetti, pertanto, sono sanzionabili
anche su iniziativa diretta dei consumatori.
L’art. 140 bis del Cod. del Cons. recepisce pienamente questo
orientamento.
Ciò nondimeno, occorre riconoscere che, pur in assenza di una norma di
carattere sostanziale che riconosca direttamente in capo al consumatore il
diritto ad una concorrenza effettiva e corretta, indispensabile per
assicurare il miglioramento qualitativo ed economico dei beni e servizi a
sua disposizione, il legislatore ha voluto garantire la protezione collettiva
dei consumatori vittime di condotte anticoncorrenziali, attribuendo ai
medesimi la facoltà di agire tramite l’azione di classe.
La restrizione della libertà di scelta dei prodotti disponibili subita dal
consumatore a seguito di un intesa illecita a monte costituisce un danno
ingiusto per i consumatori ai sensi dell'art. 2043 cc e come tale legittima a
richiedere il ristoro del pregiudizio derivante dal comportamento
anticoncorrenziale tenuto. Ciò significa che la violazione della disciplina
40
antimonopolistica altera il mercato e poiché il consumatore è il fruitore
finale del prodotto immesso sul mercato, ha il diritto di perseguire le
condotte anticoncorrenziali chiedendone i danni, ora anche tramite
l'azione collettiva.
Per essere precisi, nell’ambito dei comportamenti anticoncorrenziali
occorre annoverare non solo la L. 10 ottobre 1990, n. 287, posta a tutela
della concorrenza e del mercato, ma anche le norme sulla pubblicità in
genere (art. 1, comma 2, artt. 5, 6, 7 del DLgs 02 agosto 2007, n. 145), quelle
della pubblicità comparativa (art. 4 del DLgs 02 agosto 2007, n. 145) e
quelle sulla pubblicità ingannevole (art. 2, lett. b, art. 3 del DLgs 02 agosto
2007, n. 145). Quando una di queste norme viene violata provocando
anche un danno ai consumatori, questi potrebbero agire in via collettiva
facendo valere la condotta anticoncorrenziale illecita a causa della
violazione di norme poste espressamente a tutela dei professionisti, ma
che in ultima analisi tutelano il corretto funzionamento del mercato e
pertanto anche gli interessi dei consumatori.
Esperita l’azione collettiva, l’attore va incontro ad un onore probatorio
piuttosto gravoso in quanto dovrà dimostrare l’intesa vietata. Gli accordi
tra le imprese vengono ovviamente tenuti nascosti ed è una vera e propria
probatio diabolica fornire la prova di atti riservati e segreti.
È agevole notare la presenza di una asimmetria informativa che occorrerà
colmare con le dovute cautele per evitare gli effetti negativi di obblighi di
divulgazione eccessivamente ampi ed onerosi, in particolare il rischio di
abusi.
Qualcuno (cfr. F. RIZZO, Azione collettiva risarcitoria e interessi tutelati,
op. cit., pag. 303) a tal proposito, per aggirare questa difficoltà, ha proposto
di utilizzare il materiale probatorio raccolto dall’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato (AGCM) (nei casi in cui non costituisca segreto
di ufficio) ed il
provvedimento con cui viene accertata l’intesa,
costituendo, questi, “strumenti preziosi” per l’attore collettivo che agisce ex
art. 140 bis del Codice del Consumo.
41
Rebus
sic
stantibus
le
azioni
collettive
per
comportamenti
anticoncorrenziali potranno essere azionate solo a seguito dell’attività
istruttoria dell’AGCM e a seguito di un provvedimento che accerti la
condotta anticoncorrenziale da parte dell’impresa.
E questo potrebbe avere anche un senso se si considera che il comma 6
dell’art. 140 bis del Cod. del Cons. prevede che il giudice del processo
collettivo risarcitorio possa sospendere la pronuncia sull’ammissibilità
della domanda quando “ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti ad
un’autorità indipendente”.
Un brevissimo accenno va fatto anche all'apparente contrasto normativo
che si verrà a creare in quelle azioni collettive che hanno come causa
petendi atti di concorrenza sleale nel momento in cui si dovrà stabilire
l'organo giudiziario competente.
Infatti, la previsione dell'art. 140 bis, comma 4 è in contrasto con l'art. 33,
comma 2 L. 287/1990. La giurisprudenza (Cass. SSUU, 04 febbraio 2005, n.
2207, cit.) ritiene che, con riferimento all'azione individuale del
consumatore danneggiato da atti e comportamenti rientranti nella nozione
di concorrenza sleale, basata su intese, abuso di posizione dominante e
operazioni di concentrazione, questa vada proposta dinanzi alla Corte di
Appello competente per territorio, che decide in unico grado, in
conformità con il disposto dell'art. 33 L. 287/1990.
Contrasto apparente perchè si può ritenere che l'art. 140 bis prevalga
sull'art. 33 sia perchè il primo è temporalmente successivo al secondo, sia
perchè la sua applicazione è rivestita dal carattere di specialità. Parte
della dottrina sostiene che le due norme non entrano affatto in contrasto,
ma semmai si affiancano, essendo l’art 33 predisposto per l’azione
individuale, mentre l’art. 140 bis per il rimedio collettivo a seguito di
illecito anticoncorrenziale plurioffensivo (così F. RIZZO, Azione collettiva
risarcitoria e interessi tutelati, op. cit., pag. 299).
8.Il procedimento.
a) La fase preliminare.
42
La domanda si propone con atto di citazione dinanzi al Tribunale
territorialmente competente come in precedenza delineato.
Giova premettere che la normativa non contiene un espresso riferimento
alle norme processuali applicabili, a causa dei continui richiami al codice
di procedura civile. Appare, pertanto, inevitabile ritenere che nell'ipotesi
in cui alcuni aspetti del procedimento dell'azione collettiva non siano
espressamente disciplinati dall'art. 140bis del codice consumo, questi
saranno regolati dalle norme processuali del codice di rito.
Alla prima udienza, in cui potrà essere presente oltre l’attore e il
convenuto anche il pubblico ministero (il quale può intervenire, però,
limitatamente al giudizio di ammissibilità) il giudice, in composizione
collegiale, dopo aver valutato l’integrità del contraddittorio e le questioni
di rito di pronta soluzione (l’atto di citazione dovrà essere notificato
correttamente non solo al convenuto, ma anche al pm), decide con
ordinanza sull’ammissibilità della domanda, verificando in primis che non
sia in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente (es.
l’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza) o
un giudizio
davanti al giudice amministrativo su fatti rilevanti ai fini del proprio
decidere. È da notare come il legislatore in questi casi non ha predisposto
d’ufficio la sospensione, ma lo ha lasciato alla discrezionalità del giudice,
limitandosi solo a prevedere tale possibilità. L’organo giudicante dovrà
prendere in considerazione l’esistenza di un procedimento in seno ad una
autorità o innanzi al giudice amministrativo. È infatti sulla base della sua
rilevanza rispetto ai fatti di causa e delle possibili conseguenze sui diritti
rappresentati che deciderà, secondo il suo prudente apprezzamento,
sull’opportunità di sospendere il giudizio, rinviando di conseguenza,
almeno fino a quando l’autorità indipendente o il giudice amministrativo
pubblichino la loro decisione, la sua pronuncia sull’ammissibilità della
domanda.
Nulla il legislatore ha previsto nel caso in cui la decisione dell’autorità
amministrativa venisse impugnata dinanzi al giudice amministrativo: la
sospensiva dell’azione di classe, in questo caso, deve continuare? Se, come
43
sembra, la risposta è positiva, allora avremo di conseguenza un
differimento (“peraltro insensato posto che un’istruttoria amministrativa non
dovrebbe avere alcuna interferenza con una causa civile” – cfr. BERTUCCIMORETTI, «Class action all’amatriciana, dubbi e perplessità. Come agire», in
www.aduc.it) dell’azione collettiva per tempi assolutamente lunghissimi,
contraddicendo la stessa ratio dell’azione di classe, ideata per tutelare
diritti omogenei in tempi brevi.
Forse sarebbe stato meglio, come auspicato da parte della dottrina, invece
di consentire la sospensione dell’azione di classe, disporre l’esibizione di
documenti o richiedere informazioni agli organi di vigilanza senza
attendere la conclusione della loro fase istruttoria (così C. CONSOLO, in
Obbiettivo class action: l’azione collettiva risarcitoria, 2008, Milano, pag. 158, il
quale a sostegno della sua ipotesi riporta una sentenza di rito, in cui si
ammette che la prova del nesso eziologico tra illecito concorrenziale e
danno possa essere assolta tramite produzione in giudizio dei documenti
relativi agli accertamenti svolti dall’autorità garante per la concorrenza,
Corte di Appello di Napoli, sez. III, 12 luglio 2007). Il legislatore ha
stabilito che l’ordinanza che decide sull’ammissibilità è reclamabile
davanti alla Corte di Appello nel termine perentorio di 30 giorni dalla sua
comunicazione o notificazione se anteriore. Sul reclamo la corte di appello
in camera di consiglio decide entro 40 giorni dal deposito del ricorso.
Specularmene alla forma assunta dalla decisione del Tribunale, anche la
Corte di Appello decide con ordinanza.
Il legislatore ha specificato che il reclamo dell’ordinanza ammissiva non
sospende
il
procedimento
davanti
al
tribunale,
condividendo
quell’opinione dottrinale che, in analogia a quanto previsto dall'art. 279,
comma terzo cpc, propende per la non sospensione del processo. In questi
casi la sospensione può essere concessa solo in caso di pendenza del
ricorso in Cassazione contro il provvedimento emesso dalla Corte di
appello, in virtù dell'art. 129 bis disp. att. cpc.
In caso di ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’azione, l’attore
potrà impugnare il provvedimento in Corte di appello.
44
E qualora la corte di appello dovesse confermare l’inammissibilità della
domanda, in base al noto principio secondo cui ciò che rileva è il
contenuto del provvedimento e non la forma che questo assume (ossia
ordinanza), avendo la pronuncia della corte di appello contenuto decisorio
su “un cumulo di diritti soggettivi, quali quelli frutto delle varie adesioni
raccolte a quella data” (cfr. C. CONSOLO, È legge una disposizione
sull'azione collettiva risarcitoria, op. cit., pag. 7, ma v. anche Id., «Profili
Processuali Generali, rito applicabile e fase preliminare del c.d. “filtro”
giurisdizionale sulla ammissibilità dell’azione collettiva», in Obbiettivo
Class Action: l’azione collettiva risarcitoria, op. cit., pag. 159 e ss.), in
quanto statuisce sui diritti dei consumatori appartenenti alla classe,
sarebbe proponibile ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost.
Secondo altri (S. MENCHINI, La nuova azione collettiva, op. cit.), questo
rimedio straordinario non sarebbe esperibile atteso che se anche il
provvedimento avesse contenuto decisorio non è idoneo ad acquistare
l’autorità di cosa giudicata e pertanto non è da ritenersi definitivo.
Di conseguenza lo stesso ente attore “pur in assenza di elementi sopravvenuti,
può proporre una nuova istanza, sia deducendo nuove prove, sia allegando nuovi
fatti quantunque già esistenti, sia, più semplicemente, meglio configurando
l’azione in punto di diritto. L’ordinanza non ha la stabilità del giudicato e non
produce l’efficacia preclusiva del dedotto e del deducibile; essa non è definitiva, e,
di conseguenza, non è impugnabile di fronte alla Suprema Corte, con ricorso
straordinario” (così S. MENCHINI, op. cit.).
Probabilmente questa seconda ipotesi è da preferire. Essa ha il vantaggio
di consentire la definizione in tempi rapidi della questione relativa
all’ammissibilità della domanda, senza dover attendere l’eventuale
pronuncia della Cassazione, senza poi considerare che essa è fondata su
una delibazione sommaria, pertanto si avrebbero seri problemi nel
considerare l’ordinanza al pari di un provvedimento con stabilità del
giudicato sostanziale.
Infine, anche quando sia stata dichiarata in sede sommaria la manifesta
infondatezza della domanda collettiva, nulla vieta ad altri soggetti
45
legittimati di riproporla sia allegando nuovi fatti, sia articolando nuove
prove o producendo ulteriori prove precostituite.
Con l’ordinanza di inammissibilità, il giudice dispone sulle spese, anche ai
sensi dell’art. 96 cpc, e ordina la più opportuna pubblicità a cura e spese
del soccombente.
Questa disposizione sanzionatoria non era presente nel precedente testo
dell’art. 140 bis e probabilmente appare un po’ eccessiva per il rinvio fatto
all’art. 96 cpc, ma ha una sua logica se si guarda all'interesse della parte
convenuta,
ossia
all’imprenditore
che
può
trovarsi
al
centro
dell’attenzione dei mass media a seguito della promozione una azione di
classe (con possibili danni causati a seguito del crollo dei suoi titoli in
borsa), che poi in realtà risulti essere inammissibile e magari in presenza
di un suo promotore simulato da rintracciarsi in un suo diretto
concorrente di mercato.
Ecco allora che il rinvio all’art. 96 cpc e la pubblicità a spese del
soccombente potrebbe risultare la giusta contromossa per ristabilire
quell’equilibrio economico turbato in partenza tramite l’azione di classe.
Tra l’alto l’art. 96 cpc è stato modificato dalla recente L. 69 del 18/06/2009,
entrata in vigore il 04/07/2009, introducendo una terza e nuova fattispecie
di responsabilità aggravata, in base alla quale il giudice in ogni caso può
condannare la parte soccombente al pagamento a favore di controparte di
una somma di denaro equitativamente determinata. Gli elementi
innovativi rispetto alle fattispecie disciplinate nei primi due commi del
medesimo articolo sono: 1) la ricorribilità a tale strumento sanzionatorio
anche d’ufficio, senza la necessità di un’istanza di parte; 2) la previsione di
una condanna a danni determinabile in via equitativa del tutto autonoma
rispetto alle eventuali condanne intervenute a norma dei primi due
commi. È chiaro l’intento del legislatore nel rafforzare le funzione
deterrente
per
evitare
l’instaurazione
di
evidentemente infondate.
b) Condizioni di ammissibilità della domanda.
46
cause
pretestuose
o
Nella fase iniziale del procedimento collettivo l'art. 140 bis del Codice del
consumo ha stabilito quattro figure specifiche di condizione per
l'ammissibilità dell'azione.
Come
anche
l’accertamento
il
testo
della
dell’esistenza
nuova
delle
normativa
condizioni
lascia
dell’azione
intendere,
avviene
preliminarmente all’esame del merito e la loro mancanza è rilevabile
anche d’ufficio ed impedisce la prosecuzione del giudizio.
Ovviamente le figure tipizzate di ammissibilità dell’azione di classe si
affiancano alle condizioni generali come ad esempio l’interesse ad agire e
la legittimazione.
In particolare si tratta di:
i)
manifesta infondatezza della domanda;
ii)
esistenza di eventuali conflitti di interessi;
iii)
mancanza di identità dei diritti tutelabili ai sensi del secondo comma
dell’art. 140 bis;
iv)
mancanza da parte del proponente l’azione di classe di curare
adeguatamente l’interesse della classe.
Tale sistema ci riporta alla memoria il sistema del modello statunitense
della certification: all’inizio del processo in un’udienza ad hoc il giudice nel
suo ampio potere discrezionale valuta se l’azione promossa abbia tutti i
requisiti richiesti dalla Rule 23 e, pertanto, possa considerarsi come azione
di classe.
Si tratta di strumenti di economia processuale che mirano a bloccare ab
initio procedimenti affetti da vizi idonei ad inficiare l'intera azione
collettiva risarcitoria.
Così facendo il legislatore ha introdotto una sorta di filtro giurisdizionale
all’esercizio dell’azione, nel tentativo di prevenire domande temerarie,
infondate o pretestuose, con l’intento di scongiurare il rischio del diffuso
fenomeno tipico dell’esperienza americana, ove, con riferimento a talune
class actions, si è impiegata l’espressione di “blackmail settlements” (ossia
“ricatti legalizzati”, si cfr. a tal proposito HAY e ROSENBERG, «“Sweetheart”
and “Blackmail” Settlements in Class Action: Reality and Remedy», 75,
47
Notre Dame L. Rev., 2000, 1377, 1389, i quali richiamano un importante
procedimento in cui il giudice ha scritto: “la forte pressione che deriva dalla
certificazione della classe equivale a un legal blackmail”, così in Castano V.
American Tabacco Co., 84 F.3d 734, 746 - 5th Cir. 1996).
i)
Valutazione di non manifesta infondatezza.
Con riguardo alla “non manifesta infondatezza della domanda” il giudice
non dovrebbe verificare gli elementi costitutivi della domanda, bensì la
ricorrenza dei presupposti per dar luogo alla tutela collettiva. É chiaro che
il giudice è chiamato ad una cognizione sommaria, allo stato degli atti,
circa la sussistenza di un fumus boni juris. In altre parole il giudice, senza
addentrarsi nel merito (pena una duplicazione del giudizio relativo alla
sussistenza della responsabilità), dovrà fornire un giudizio di stampo
probabilistico sull'ipotetica accoglibilità della domanda, limitandosi a
rigettare, ritenendo inammissibili, le domande che ictu oculi ritiene
infondate.
Scendendo nel concreto il giudice dovrà valutare in primis se il
danneggiante rientra nella figura di impresa; se la sede dell'impresa
rientra in base al comma 4 dell’art. 140 bis nel territorio compreso
all'interno della sua giurisdizione; se i soggetti richiedenti la tutela
possono essere qualificati come consumatori od utenti; se la patologia del
rapporto tra i predetti soggetti sia nato all'interno di un rapporto di
consumo. Inoltre, il giudice dovrà verificare, se il presunto danno rientra
nell'ambito di una delle situazioni descritte nel secondo comma dell’art.
140 bis.
Non è necessario stabilire, in altri termini, se l’imprenditore, sia pure in
modo sommario, sia responsabile o meno dell’illecito e quindi tenuto a
risarcire il danno prodotto. Il giudizio di ammissibilità non ha come
oggetto l’esistenza o meno degli elementi costitutivi dell’illecito, ma solo la
ricorrenza o meno dei presupposti per poter attivare la tutela collettiva,
pena una inspiegabile e defatigatoria duplicazione del giudizio relativo
alla sussistenza della responsabilità.
48
Pertanto la pretesa dell’attore dovrebbe essere ammessa allorché le
allegazioni di parte attrice risultino idonee a giustificare l’accoglimento
della domanda, sempre che ovviamente non palesino la temerarietà e
l’infondatezza dell’azione.
ii) La valutazione del conflitto di interessi.
Altro giudizio rientrante nella valutazione di ammissibilità dell'azione è la
mancanza di un conflitto di interessi.
Il conflitto di interesse può sussistere tra l’ente collettivo e i singoli utenti o
consumatori e comunque mira ad evitare che il proponente l’azione di
classe sia portatore di situazioni soggettive che possono in qualche modo
essere confliggenti con quelle che il medesimo pubblicamente si fa
portatore e rappresenta.
La ratio di questa previsione è quella di garantire un’azione di classe
trasparente ed orientata al solo scopo di tutelare gli interessi degli utenti e
dei consumatori e non strumentalizzata da terzi per fini diversi da quelli
per cui è stata prevista. Si vogliono evitare, infatti, possibili collusioni tra
la parte danneggiante e il proponente che si fa portatore degli interessi dei
consumatori e degli utenti appartenenti alla medesima classe.
Si teme che l’imprenditore danneggiante possa interferire nell’esercizio
corretto dell’azione ponendo in essere degli accordi con il proponente a
danno dell’intera classe dei consumatori od utenti.
iii) Identità dei diritti individuali.
La domanda è dichiarata inammissibile quando il giudice non individua
l’identità dei diritti individuali oggetto dell’azione di classe.
Ciò si verificherà ogni qual volta l’azione promossa difetti del profilo di
serialità in riferimento alla diffusione del servizio prestato dall’impresa
convenuta e al carattere isomorfo dei diritti lesi. In questo caso il giudice
non è chiamato a giudicare l’esistenza dei diritti individuali oggetto
dell’azione di classe, ma solamente l’uniformità dei diritti individuali e la
compatibilità della domanda con le fattispecie cui l’art. 140 bis secondo
comma assicura protezione.
49
Il giudice dovrà, pertanto, verificare che gli appartenenti alla classe
devono essere titolari di situazioni giuridiche controverse, la cui
soluzione dipenda dalla decisione di medesime questioni di fatto e di
diritto.
iv) Adeguata tutela degli interessi della classe.
Infine nel giudizio di ammissibilità il giudice dovrà valutare se il
proponente l’azione di classe è in grado di curare adeguatamente
l’interesse della classe.
Il criterio dell’adeguata tutela sembra richiamare l’omologo criterio
della adeguacy of representation prevista dalla Rule 23 delle Federal Rules
of Civil Procedure, ossia la capacità dell’attore di curare adeguatamente
l’interesse della classe.
c) La “opportuna pubblicità”.
Se il tribunale ritiene ammissibile la domanda, ai sensi dell'art. 140 bis,
comma 9, “fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della
tempestiva adesione degli appartenenti alla classe”.
Il legislatore non ha disciplinato forme stabilite a priori di pubblicità.
Si ritiene che oltre a potersi servire dei tradizionali mezzi di diffusione
caratterizzati dai mass media (stampa, radio, televisione), per poter
effettuare la pubblicità, il proponente potrà servirsi di siti internet,
posta, ma anche tramite la notificazione per pubblici proclami ai sensi
dell'art. 150 cpc.
Nonostante questa precisazione nel nuovo testo sia sparita, si deve
ritenere ugualmente che nella pubblicità sull'azione collettiva devono
essere resi noti tutti i tratti salienti della procedura in atto, ossia:
1) i dati identificativi del soggetto proponente;
2) il contenuto della domanda;
3) i dati identificativi del legittimato passivo;
4) il petitum;
5) la causa petendi;
6) il nome del difensore che ha ricevuto l'incarico;
50
5) quali sono gli effetti giuridici derivanti dall'adesione;
6) l’indicazione del termine ultimo entro il quale poter aderire.
La pubblicità costituisce l'elemento essenziale di ogni azione collettiva
per consentire ad altri consumatori o utenti che si trovino in situazioni
analoghe, di aderire al giudizio.
Le spese della pubblicità sono a carico dell'attore e questo sia perchè
l'onere della pubblicità incombe su chi se ne giova e sia perchè, essendo
nella fase istruttoria, è corretto non onerare di una tale spese (a volte
anche onerosa) quella parte (l'impresa) che ancora non è stata dichiarata
responsabile.
Se è vero che la nuova norma ha arricchito il dettato normativo
riguardante la pubblicità, dedicandogli addirittura un intero comma,
però ha affidato al giudice il compito di stabilire il contenuto e le
modalità della pubblicità.
Considerata la delicatezza dello strumento pubblicitario il legislatore
avrebbe potuto prevedere legislativamente (magari tramite fonte
regolamentare) gli strumenti per realizzare finalità informative tali da
consentire l’adeguata conoscenza dell’azione di classe.
In mancanza di una regolamentazione specifica si potrebbe favorire la
promozione di campagne pubblicitarie particolarmente aggressive e
denigratorie nei confronti delle imprese che potrebbero dar luogo a
delle ripercussioni talmente negative sul piano dell'immagine che
potrebbero comportare un dissesto finanziario di gravi proporzioni per
l'impresa colpita.
Lo strumento pubblicitario è molto delicato, specialmente se la
domanda collettiva viene poi rigettata. A seconda delle forme di
pubblicità adottate, i danni arrecati nel frattempo all’immagine
dell’impresa convenuta possono essere notevoli.
Una nota positiva è da attribuire al legislatore, il quale ha provveduto
ad introdurre una pubblicità anche nel caso in cui la domanda collettiva
viene respinta in quanto ritenuta inammissibile, questo al fine di
51
ripristinare (quanto meno parzialmente) i danni (soprattutto di
immagine), medio tempore, arrecati all'impresa.
Il legislatore attribuisce quindi un peso notevole all’istituto della
pubblicità, tanto è vero che, a differenza del vecchio testo dell’art. 140
bis, ha predisposto che la sua esecuzione è considerata come condizione
di procedibilità della domanda. Il difetto di tale condizione di
procedibilità potrà essere eccepito dall'impresa convenuta o d'ufficio
dal tribunale.
In altre parole non eseguire la pubblicità o eseguirla non correttamente,
non rispettando i termini e le modalità dettati dal tribunale non
comporta effetti sostanziali sfavorevoli, ma semplicemente l’azione
viene bloccata dal giudice in attesa che la pubblicità venga nuovamente
eseguita. Il giudice, pertanto, non ha il potere di sospendere il giudizio,
ma può solo differire l’udienza al fine di consentire che la pubblicità
venga realizzata correttamente.
Ricordo fin d’ora che il legislatore ha posto il limite di 120 giorni dalla
scadenza del termine per l'esecuzione della pubblicità per poter aderire
all'azione
di
classe;
con
lo
spirare
del
quale
si
determina
l'improponibilità di ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei
confronti della stessa impresa.
d) Il contenuto dell'ordinanza che ammette l'azione di classe.
Il tribunale, con l'ordinanza con cui ammette l'azione, determina altresì
il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio,
l'equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o
successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il
tribunale prescrive anche le misure idonee ad evitare ripetizioni o
complicazioni nella presentazione di prove o argomenti, regola nel
modo che ritiene più opportuno l'istruzione probatoria e disciplina ogni
altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al
contraddittorio.
52
Nel caso invece in cui il tribunale valuta l'azione ammissibile, con la
stessa ordinanza, dà inizio al relativo procedimento.
L'ordinanza con cui viene ammessa l'azione di classe ha un contenuto
ampio che disciplina sia gli aspetti sostanziali che quelli procedurali.
In particolare spetta al tribunale:
(i) determinare il corso della procedura in modo che sia assicurata
l'equa, efficace e sollecita gestione del processo, nel rispetto del
contraddittorio. Il tribunale dovrà gestire tutte le attività di causa in
tempi brevi, ad esempio fissando in anticipo un calendario delle
udienze con le relative attività, cercando di sfruttare al meglio ogni
udienza, evitando di convocare le parti per dei meri rinvii, nonché
pronunciando i provvedimenti e le decisioni in tempi ristretti. Il tutto
deve essere effettuato rispettando il diritto di difesa delle parti e,
quindi, senza danneggiare la loro possibilità di agire in giudizio per la
tutela dei loro interessi.
(ii) prescrivere le misure idonee ad evitare indebite ripetizioni o
complicazioni nella presentazione di prove o argomenti che, al
contrario, comportano un dilungarsi eccessivo della fase istruttoria del
processo.
(iii) regolare l'istruzione probatoria nel modo che ritiene più opportuno.
Il tribunale ammetterà solo le prove testimoniali rilevanti e valuterà
quando sia più conveniente avvalersi della testimonianza scritta
rispetto a quella orale, evitando così perdite di tempo dovute
all'escussione di testi le cui testimonianze spesso si rilevano non
necessarie.
(iv) disciplinare ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non
essenziale al contraddittorio.
L'ordinanza che contiene tali determinazioni, e che in base alle regole
generali del codice di procedura civile è un atto succintamente
motivato, può essere sia quella con cui viene ammessa l'azione di classe,
53
sia un'altra successiva ordinanza del tribunale, che può essere
modificata o revocata in ogni tempo.
e) La sentenza.
Terminata la fase istruttoria e dopo la precisazione delle conclusioni il
tribunale trattiene la causa in decisione.
La norma stabilisce infatti che se il tribunale accoglie la domanda
emette una sentenza di condanna con la quale "liquida ai sensi dell'art.
1226 del codice di procedura civile, le somme definitive dovute a coloro che
hanno aderito all'azione", oppure "stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per
la liquidazione di dette somme".
Si tratta, pertanto, di una vera e propria sentenza di condanna, con la
quale il tribunale non si limita all'accertamento dei diritti individuali,
ma dispone che l'impresa soccombente esegua una prestazione, ossia il
pagamento di una somma nei confronti di ciascun consumatore/utente
aderente.
Quando il danno però non può essere determinato nel suo preciso
ammontare, il tribunale dovrà effettuare una liquidazione in base ad
una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 del codice civile.
E' importante a tale proposito rilevare che la liquidazione equitativa del
danno non potrà mai giungere alla configurazione ed alla conseguente
condanna di un danno cosiddetto punitivo il quale, come previsto dalla
class action statunitense, consiste in una condanna al pagamento di
somme di danaro aventi natura appunto punitiva, a causa della gravità
dell'illecito
commesso,
completamente
slegata
dalla
natura
compensativa dei danni realmente sofferti dal consumatore o utente.
La normativa italiana, al contrario, non prevede alcun danno punitivo e
in caso di vittoria dei consumatori o utenti, a questi spetterà solo il
risarcimento del danno che gli stessi avranno dimostrato di aver subito.
Il tema della liquidazione del danno risarcibile costituisce, in ogni caso,
uno degli aspetti più delicati dell'azione collettiva, in quanto anche se la
maggior parte delle volte l'illecito lede una pluralità di soggetti in modo
54
identico, causando a tutti un identico danno, prevalentemente
l'incidenza dell'illecito sul patrimonio delle vittime è diversificata.
In questo ultimo caso, pertanto, il tribunale del processo collettivo si
limiterà ad indicare un criterio di calcolo, essendo contrario ai principi
di efficienza e di economia processuale una valutazione specifica per
ciascun aderente.
In deroga alla regola generale del codice di procedura civile in base alla
quale la sentenza di primo grado è immediatamente esecutiva, l'art.
140bis, comma dodicesimo, codice del consumo, stabilisce che la
sentenza emessa al termine del giudizio collettivo diviene esecutiva
solo dopo 180 giorni dalla pubblicazione.
I pagamenti delle somme dovute effettuati durante tale periodo che
potremmo definire di "sospensione" dell'esecutività della sentenza, sono
esenti da ogni diritto e incremento, anche per gli accessori di legge
maturati dopo la pubblicazione della sentenza. L'obiettivo di tale
previsione è evidentemente quello di incentivare l'impresa soccombente
all'adempimento spontaneo alla sentenza di condanna (così R. CAPONI,
La riforma della class action., op. cit., pag. 15).
In ogni caso la sentenza può essere appellata negli ordinari termini
previsti dal codice di procedura civile, e cioè entro trenta giorni dalla
notificazione della sentenza o entro sei mesi dalla sua pubblicazione. In
questo modo viene tutelato ad ogni consumatore o utente il diritto del
doppio grado di giudizio.
f) La fase di appello.
Una volta che la sentenza di primo grado diviene esecutiva, l'impresa
soccombente, nel caso in cui decida di impugnare la sentenza può
preliminarmente, nel relativo atto di citazione in appello, chiedere alla
Corte d'Appello di sospenderne l'esecutività (Cfr. art. 140bis, comma
tredicesimo, codice del consumo).
Nell'ambito però delle azioni di classe la Corte d'Appello nel decidere
sull'istanza di sospensione, a differenza di quanto accade negli ordinari
55
procedimenti civili, dovrà tenere conto oltre che dei criteri previsti dal
codice di procedura civile, ovvero della sussistenza dei gravi e fondati
motivi anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle
parti, anche di quelle condizioni proprie dell'azione collettiva e
disciplinate dall'art.140bis codice del consumo, al comma tredicesimo.
La Corte d'Appello dovrà, infatti, valutare l'entità complessiva della
somma che l'impresa è tenuta a pagare, il numero dei creditori e la
difficoltà di un'eventuale ripetizione degli importi, nel caso in cui
l'impugnazione fosse accolta. Può infatti risultare complicato, se non
impossibile, per un'impresa che abbia pagato una moltitudine di
consumatori sulla base della sentenza di primo grado, ottenere poi la
restituzione delle somme se la Corte d'appello decide la causa
diversamente.
Da ultimo, quando la Corte d'Appello sospende l'esecutività della
sentenza di primo grado, può anche disporre che fino al passaggio in
giudicato della sentenza stessa, la somma complessiva dovuta
dall'impresa venga depositata e resti vincolata nelle forme più
opportune.
Ovviamente, la sentenza emessa dalla Corte di Appello sarà poi
soggetta al possibile naturale gravame di fronte alla Corte di
Cassazione, in base agli ordinari principi stabiliti dal codice di
procedura civile.
9.Le rinunce e le transazioni.
Segue la regola dell'opt-in anche la definizione del giudizio in via
transattiva. Infatti, ai sensi del comma quindicesimo dell'art. 140bis
codice del consumo, "le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non
pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente
consentito".
L'azione collettiva risarcitoria può conseguire il massimo di efficienza
se si conclude con una transazione collettiva, quando l'andamento del
processo, vicino alla prospettiva di una pronuncia di condanna, induca
56
il convenuto a proporre anticipatamente il pagamento di una somma ai
soggetti lesi a definitiva composizione della controversia.
Si ritiene, in ogni caso, che il consenso alla transazione possa essere
espresso dagli aderenti all'azione collettiva non solo in via preventiva,
ma anche mediante successiva ratifica.
Le rinunce e le transazioni avvengono solo nell'ambito del processo e
sono di natura collettiva, la negoziazione non avviene tra l'impresa
convenuta e il singolo consumatore, bensì tra l'impresa e il
rappresentante della classe.
In ogni caso, le rinunce e le transazioni intervenute tra l'attore collettivo
e il convenuto non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi
abbiano espressamente consentito o che non le abbiano ratificate.
Il rappresentante della classe può quindi disporre dei diritti di credito
degli aderenti dedotti in giudizio soltanto in presenza di un consenso
espresso del singolo aderente sul contenuto e pertanto sulla
convenienza economica della proposta di accordo conciliativo.
La previsione in sede transattiva dell'esercizio di un opt-in, ulteriore
rispetto a quello manifestato con l'adesione all'azione, può forse
rappresentare un ostacolo alla integrale definizione della controversia
nei confronti di tutti gli aderenti e pone anche l'ulteriore problema della
individuazione di un efficiente, ma non oneroso, meccanismo di
notifica della proposta agli aderenti. Di conseguenza, la comunicazione
a mezzo posta a tutti gli aderenti potrebbe essere eccessivamente
onerosa e un'efficace soluzione sarebbe la realizzazione della
notificazione a mezzo posta elettronica (così F. SANTAGADA, «La
conciliazione dell'azione collettiva risarcitoria: note a margine di una
proposta di riforma dell'art. 140bis cod. Consumo», in www.judicium.it,
pag. 6, e G. P. MILLER, «Punti cardine in tema di class action negli Stati
Uniti e in Italia», in Analisi Giuridica dell’Economia, (a cura di) R. LENER E
M. RESCIGNO, 2008, p. 220).
Naturalmente i diritti degli aderenti restano salvi nei casi di estinzione
del giudizio o di chiusura anticipata del processo. In queste ipotesi si
57
ripristina in capo ai singoli la facoltà di agire in via individuale per far
valere le proprie pretese risarcitorie.
10.La mini retroattività.
Una delle questioni più dibattute fino alla nuova formulazione dell’art.
140 bis, è stata quella di considerare retroattiva o meno la nuova azione
collettiva.
Il legislatore è intervenuto nel 2009 sull’azione collettiva in due tempi,
sia pure a breve distanza di tempo.
Con il DL n. 78 del 2009, pubblicato sulla GURI n. 150 del 01/07/2009,
convertito con modificazioni nella L. del 03/08/2009, n. 102, pubblicata
sulla GURI del 04/08/2009, n. 179 ed entrato in vigore il 05/08/2009, il
Governo ha provveduto a sostituire le parole “decorsi 18 mesi”, di cui
all’art. 2, comma 447 della legge del 24/12/2007, n. 244, come da ultimo
modificato dall’art. 19, del DL 30/12/2008 n. 207, convertito con
modificazioni dalla Legge del 27/02/2009, n. 14, con le parole “ decorsi
24 mesi”, rinviando, l’applicazione dell’azione collettiva risarcitoria
(vecchio testo dell’art. 140 bis del codice del consumo) al 01 gennaio
2010.
Nel frattempo dal Parlamento è stata definitivamente approvata la
Legge n. 99 del 23/07/2009, pubblicata sulla GURI n. 176 del
31/07/2009, Supplemento Ordinario n. 136 ed entrata in vigore il
15/08/2009, dove l’art. 49 ha provveduto a sostituire integralmente
l’art. 140bis del Codice del Consumo (mai entrato in vigore), dettando
una nuova e completamente rivisitata disciplina dell’azione collettiva,
modificandone addirittura il nome da “azione collettiva risarcitoria” in
“azione di classe”.
È proprio con la L. 99/09 che il legislatore ha pensato bene di limitare la
portata applicativa nel tempo della nuova azione di classe.
Da un punto di vista della teoria generale del diritto con attenzione
all’efficacia nel tempo di una norma si suole effettuare una tripartizione
tra norme ad efficacia retroattiva, norme ad efficacia immediata e
58
norme ad efficacia differita. In relazione alle tre fasi si individuano tre
posizioni per l’applicazione della norma nel tempo.
L’effetto retroattivo, allorché la norma trova applicazione per fatti
accaduti nel passato; effetto immediato, la sua applicazione riguarda il
presente; effetto differito, la sua applicazione è rimandata al futuro.
A questo si dovrà aggiungere che in mancanza di riferimenti legislativi,
per stabilire i tempi di applicazione di una norma, gli orientamenti
giurisprudenziali e dottrinali consolidati distinguevano tra norme a
carattere sostanziale e norme a carattere processuale. Solo per queste
ultime si applica il principio del tempus regit actum e pertanto hanno
portata retroattiva per fatti accaduti in passato.
Premessa questa breve, ma essenziale, precisazione, è doveroso
ricordare che con la precedente formulazione dell’art. 140 bis, nel
silenzio del legislatore, era sorto il problema dell’efficacia applicativa
della norma nel tempo.
Il problema per la verità era venuto a galla quando l’Adusbef
(associazione a difesa dei servizi bancari e finanziari, facenti parte del
CNCU), aveva annunciato (Comunicato Adusbef del 28 gennaio 2008 in
www.adusbef.it) di voler porre in essere un’azione collettiva per la
dichiarazione
dell’illegittimità
costituzionale
dell’anatocismo
trimestrale e sul diritto del titolare del conto corrente ad ottenere la
restituzione dell’indebito.
Appariva evidente che i commentatori più vicini all’area dei
consumatori
sostenevano
che
la
norma,
essendo
di
carattere
processuale, poteva dare luogo anche ad azioni per i fatti accaduti in
passato come i crack finanziari Ciro, Parmalat, etc.
Altri, invece, si opponevano fermamente a quella che è stata definita
anche dai mass media come retroattività della class action, ostandovi
ragioni essenzialmente riconducibili alla certezza acquisita dei rapporti
giuridici, con la necessità di garantire l’impresa da esposizioni
contenziose assolutamente imprevedibili al momento in cui sono state
effettuate alcune scelte di carattere gestionale od operativo. A questo
59
occorre aggiungere l’assoluta novità dell’istituto, la difficoltà di
prevederne con precisione il funzionamento nella fase iniziale, gli
eventuali rischi di abusi e strumentalizzazioni e la funzione anche
deterrente e preventiva del nuovo strumento di tutela collettiva, tutte
circostanze che suggerivano univocamente che esso non potesse trovare
applicazione anche per fatti pregressi.
Il legislatore nel formulare il nuovo art. 140 bis al quindicesimo comma,
secondo periodo ha stabilito che l’azione di classe si applica agli illeciti
compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della L. 99/09,
ossia per quelli commessi dal 15 agosto 2009 in poi.
Pertanto, il legislatore, non intaccando la lunga vacatio dettata dalla
innovatività dei meccanismi processuali, ha esplicitamente stabilito la
regola della non retroattività dell’azione di classe. L’azione di classe
non è possibile azionarla per illeciti precedenti al 15 agosto2009, anche
se poi gli effetti dannosi si producono successivamente all’entrata in
vigore della L. 99/09.
Questa scelta del legislatore è stata oggetto di alcune critiche, arrivate
anche da autorevoli soggetti, come il presidente dell’Atitrust, Antonio
Catricalà, che ha definito la non retroattività dell’azione di classe come
una “scelta politica”, aggiungendo: “Sarebbe stato opportuno che i principi
fossero quelli del codice civile, cioè i diritti che non sono prescritti sono
azionabili” (così A. Catricalà, Il Sole 24 Ore del 10/07/2009).
Se la scelta del legislatore sia stata il risultato di forti pressioni da parte
della lobby degli imprenditori, o se sia stata il raggiungimento di un
punto di equilibrio normativo per garantire certezza ai rapporti
giuridici, è difficile saperlo; sta di fatto che una scelta è stata presa ed è
difficile modificarla stante la sua appartenenza alla piena e totale
discrezionalità del legislatore.
11.Il sistema dell’opt-in.
a) L’adozione del sistema dell’adesione: premessa.
60
I singoli consumatori lesi diversi dal proponente l’azione di classe per
far valere le loro ragioni al suo interno possono aderire alla domanda
dell’azione di classe .
L’atto di adesione ha una duplice valenza: a livello processuale perché
diretto a far propria l’azione collettiva coltivata da altri e così
implicitamente rinunciando al diritto di azione individuale; a livello
sostanziale in quanto interrompe la prescrizione.
La ratio dell'introduzione del meccanismo dell’adesione nel nostro
sistema trova le sue fondamenta da un lato nel fatto di evitare l'accesso
alla giustizia tramite iniziative individuali seriali pressoché identiche
con un conseguente aggravio del sistema giudiziario comportanti la
congestione delle aule di giustizia; dall’altro consentire ad un largo
numero di consumatori di essere risarciti senza dar luogo a singoli
processi seriali onerosi ed economicamente gravosi.
Il terzo comma dell'art. 140 bis stabilisce: “I consumatori e utenti che
intendono avvalersi della tutela di cui al presente articolo aderiscono all’azione
di classe, senza ministero di difensore…L’atto di adesione, contenente oltre
all’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto
valere con la relativa documentazione probatoria, è depositato in cancelleria,
anche tramite l’attore, nel termine di cui al comma 9, lettera b)”.
Come possiamo notare leggendo il predetto comma il legislatore
italiano ha deciso di prediligere il meccanismo dell'opt-in, anziché
dell'opt-out.
Pertanto vi è la necessità per il consumatore od utente che intenda
giovarsi degli effetti della sentenza della procedura dell'azione
collettiva instaurata, di manifestare una espressa volontà di adesione
(opt-in right).
La scelta di uno dei due meccanismi ha dato luogo a lunghi dibattiti
dottrinali, ma alla fine si optò per la facoltà dell’opt-in, con la
giustificazione che questa scelta era meglio in sintonia con il dettato
costituzionale (art. 24 Cost.) e con la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (art. 6 Cedu) rispetto al meccanismo dell’opt-out.
61
Il meccanismo della class action americana, che prevede il meccanismo
dell'opt-out (salvo qualche eccezione nel diritto del lavoro), ha fatto
sollevare aspre polemiche (ex multis P. RESCIGNO, «Sulla compatibilità
tra il modello processuale della class action, op. cit., pag. 2227) tanto da
escluderla per incompatibilità con gli istituti del nostro sistema
normativo.
Il sistema dell’opt-out costituisce tendenzialmente la regola non solo
negli States, ma anche in Canada, Australia ed Israele.
Il sistema dell’opt-in è al contrario prevalente, sia pure con sfumature
diverse, in Francia (anche se le più recenti proposte di legge quali
Montebourg, Desallangre e Terrade hanno invece chiaramente optato
per il meccanismo dell’opt-out), Regno Unito, Svezia, Finlandia,
Germania, Spagna.
Mentre altri Paesi ancora hanno adottato forme parziali del sistema optout: Danimarca, Portogallo, Norvegia, Paesi Bassi.
Con il sistema dell’adesione l’intento del legislatore è quello di
concedere la possibilità ai consumatori ed utenti, i cui diritti lesi sono
oggetto di richiesta risarcitoria o restitutoria dell'azione collettiva, di
aderire alla procedura collettiva in alternativa, quindi senza escluderla,
a quella della azione giudiziaria individuale. Questo ha fatto sì che
alcuni commentatori sostenessero che l'azione in forma collettiva avesse
creato una nuova figura di litisconsorzio facoltativo che si può definire
“aggregato” perchè darebbe luogo ad una aggregazione di azioni seriali
(le adesioni, appunto) e pertanto “l'azione collettiva si esaurisce nel cumulo
e nella gestione congiunta delle azioni individuali degli aderenti ad opera
dell'attore” (così R. CAPONI, Litisconsorzio “aggregato”. L’azione
rsarcitoria in forma collettiva dei consumatori, in www.judicium.it).
Infatti l'art. 140, terzo comma, così recita: “L’adesione comporta rinuncia a
ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo,
salvo quanto previsto dal comma 15”. Di conseguenza in caso di rigetto
della domanda coloro che hanno aderito all'azione collettiva risarcitoria
non potranno proporre la medesima domanda oggetto dell'azione
62
collettiva in forma individuale. D'altra parte chi, invece, non ha aderito
all'azione collettiva non è vincolato dagli effetti della sentenza.
Infatti, chi non aderisce se da un lato non usufruisce degli effetti positivi
della statuizione, dall'altro lato, non essendo investito dagli effetti della
sentenza, può proporre solo un’azione individuale, essendo preclusa ai
sensi del comma 14, ogni altra azione di classe avente il medesimo
oggetto di quella già promossa e diretta nei confronti della medesima
impresa.
Per quanto riguarda invece i requisiti che l'atto di adesione deve
possedere, l'unico requisito imprescindibile, in quanto legislativamente
previsto, è la forma scritta. Questo è una chiara conseguenza sia del
fatto che l’adesione dovrà contenere una serie di requisiti che
comportano necessariamente la forma scritta, come l’elezione del
domicilio, gli elementi costitutivi del diritto, sia del fatto che il
legislatore dichiara che l’atto dovrà essere “depositato”, lasciando
intendere tale forma obbligata.
b) La natura dell’atto di adesione.
L’adesione non può essere inserita formalmente in alcun atto giudiziale
(art. 121 e 125 cpc), da depositarsi nel corso del giudizio di primo grado,
anzi è escluso a chiare lettere anche la necessità di una difesa tramite
l’ausilio di un difensore.
L’atto di adesione, a parere di un noto giurista, che si può condividere a
pieno, “non dà luogo ad alcuna forma di intervento nel processo, né ad alcuna
autentica forma di domanda giudiziale, né ad alcuna assunzione di un ruolo di
parte formale…pur avendo la funzione di tutelare nel processo ulteriori singoli
crediti, non è alcunché di strutturalmente simile a una domanda giudiziale e
non rende soggettivamente o oggettivamente cumulabile il giudizio” (C.
CONSOLO, Obbiettivo Class Action: l’azione collettiva risarcitoria, op.
cit., pag. 185).
Né possiamo supporre che l’atto di adesione possa far accrescere lo jus
postulandi del difensore della parte attrice, in quanto non è un atto
63
idoneo a far instaurare un rapporto d’opera con il professionista, che
obbligherebbe di conseguenza l’aderente a retribuirlo con conseguente
attribuzione di tutti quei diritti che un mandato ad litem invece
conferisce al mandante. L’aderente non è una parte processuale e
questo spiega il motivo perché il convenuto non può esercitare nei suoi
confronti domande riconvenzionali.
Proprio perché l’aderente non viene considerato una vera e propria
parte processuale, il legislatore si preoccupa di salvaguardare gli
interessi del medesimo che altrimenti verrebbero pregiudicati dalle
scelte egoistiche del proponente l’azione di classe.
Infatti, nel comma 15 primo periodo dell’art. 140 bis si stabilisce che le
rinunce e le transazioni intervenute tra le parti (processuali) non
pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente
consentito. Di tal modo sono fatti salvi gli stessi diritti nel caso sia di
estinzione del processo, sia nel caso di chiusura anticipata del
medesimo.
Secondo alcuni codesta adesione viene concepita dalla legge come una
peculiare manifestazione di volontà di inclusione nel “gruppo”, più
specificamente ancora quale richiesta all’attore di “sostituirsi” a sé
stesso nel far valere il proprio credito in seno all’azione collettiva;
“questa previsione normativa va quindi ricondotta nel perimetro di
figure tassative ed in qualche modo eccezionali cui fa riferimento l’art.
81 cpc” (così C. CONSOLO, in Obbiettivo class action, op. cit., p. 186).
Secondo altri tra il promotore dell’azione collettiva e l’aderente sorge
un rapporto obbligatorio, fondato su un contratto peculiarissimo che si
può qualificare come mandato con rappresentanza (così R. CAPONI, La
riforma della “class action”, op. cit.). A conforto della sua opinione,
l’illustre giurista sostiene che lo stesso art. 140 bis al primo comma
qualifica in termini di mandato il rapporto tra il promotore e l’aderente
quando il primo sia un’associazione, ma il discorso non cambia quando
il promotore sia un singolo componente della classe.
64
Inoltre dal punto di vista processuale l’adesione non abilita ad alcuna
attività, conferendo soltanto poteri di controllo; gli aderenti non sono
dotati del potere di impugnare la sentenza, alla quale l’ente abbia fatto
acquiescenza.
In questi casi è stato sostenuto che il rapporto che lega il proponente
con l’aderente si fonda su un contratto di mandato con rappresentanza
che conferisce il potere all’agente di compiere tutti quegli atti necessari
per giungere alla sentenza in favore degli aderenti.
L’applicazione diretta ed analogica delle norme sul mandato consente
di avere una base normativa per risolvere tutta una serie di problemi
che possono sorgere tra attore ed aderenti. La conclusione del contratto
di gestione del processo litisconsortile aggregato è promossa da una
iniziativa del singolo consumatore, che rende nota alla cerchia dei
soggetti titolari dei diritti, di cui il medesimo afferma la lesione, la
presenza di un’azione risarcitoria in forma collettiva, proponendosi
come mandatario ed eventualmente raccogliendo le adesioni (così R.
CAPONI, «Litisconsorzio aggregato», op. cit.).
In ogni caso è senza dubbio un atto processualmente atipico, complesso
e costituisce una autentica novità nel nostro panorama legislativo ed
ogni tentativo di ricondurlo a schemi di diritto processuale o di diritto
sostanziale potrebbe dar luogo a risultati poco apprezzabili. Anche se
esso è formalmente unitario, nasconde almeno due aspetti: il primo è il
conferimento di un mandato sia pure implicito all’attore nella gestione
della lite collettiva che lo riguarda ed interessa; il secondo sembra
esplicare gli effetti di un’azione processuale nei confronti dell’impresa
convenuta portando con sé tutte le conseguenze sostanziali e
processuali che l’esercizio di tale azione comporta.
Nel primo senso sembra optare il fatto che l’aderente non è difeso da un
difensore tecnico, acquista la qualità di parte del processo solo in senso
sostanziale, può depositare l’atto anche tramite l’attore, non compie atti
processuali, deve sperare in una buona conduzione della causa da parte
65
dell’attore al quale non può sostituirsi, non subisce gli effetti del
processo in termini di spese.
Nel secondo senso possiamo far prevalere il fatto che l’adesione porta
con sé l’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione, che decorre
non dalla nascita della litispendenza, bensì dal deposito dell’atto di
adesione in cancelleria, che potrà avvenire – e normalmente possiamo
fin da ora prevedere che avverrà – tramite l’attore, entro il termine
fissato dal giudice ai sensi dell’art. 140 bis, comma 9, lettera b).
c) Il contenuto e il termine per il deposito dell’atto di adesione.
Per quanto riguarda il suo contenuto l’atto di adesione deve indicare le
generalità dell’aderente e l’elezione del suo domicilio; inoltre, poiché è
necessaria l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto, sembra
necessaria anche l'indicazione del rapporto contrattuale intercorso con
l'impresa contro la quale l'azione è stata intrapresa ovvero, l'evento
imputabile all'impresa su cui si ritiene fondarsi il credito dell'aderente,
questo ai fini di una valutazione da parte del giudice e della
controparte.
La norma, inoltre, specifica che all'atto di adesione il singolo
consumatore od utente deve allegare la documentazione probatoria
relativi alla propria posizione soggettiva processuale.
Tale allegazione è stata ritenuta necessaria dal legislatore, in quanto la
pretesa risarcitoria o restitutoria degli aderenti costituisce oggetto della
pronuncia giudiziale.
Il giudice per giungere a tale risultato per ogni singolo aderente deve
risolvere il problema del nesso causale tra l'illecito e il danno e
successivamente della determinazione della quantificazione del danno.
Per tale ragione è previsto che, ovviamente, tutta la documentazione
probatoria dei singoli vada depositata in giudizio unitamente all'atto di
adesione.
L’aderente deve depositare il suo atto in cancelleria entro il termine
perentorio di cui al comma 9 lettera b), ossia entro un termine fissato
66
dal giudice, non superiore a 120 giorni, decorrenti dalla scadenza del
termine assegnato all’attore per eseguire la pubblicità dell’azione di
classe.
d) Pregi e difetti dell’opt-in.
Quali sono i benefici del sistema dell’opt-in?
È evidente che il sistema adottato dall’Italia assicura che i membri della
categoria possono liberamente decidere di prendere parte all’azione
collettiva.
Inoltre il consumatore che esercita la scelta di opt-in ha il vantaggio, a
costo zero o davvero irrisorio, di garantirsi qualunque risarcimento che
potrebbe derivare dall’azione collettiva. È vero che il consumatore
perde il diritto di instaurare un autonomo processo, ma i benefici di tale
rinuncia sono davvero inferiori (almeno potenzialmente) rispetto a
quelli prodotti con l’adesione.
Infatti il principio che sorregge l’azione collettiva è quello di fornire una
tutela rapida ed efficace per i small claims, a fronte invece di un processo
instaurato dal singolo lungo, costoso e dal risultato incerto.
Dall’altro lato della medaglia il sistema di otp-in porta con sé alcune
problematiche.
La prima, che può essere rilevata, riguarda la mancanza da parte
dell’impresa convenuta di una visione globale dell’intero contenzioso
che la vede partecipe dal lato passivo.
Infatti, è probabile che molti membri della “classe” non esercitino il
diritto di opt-in e pertanto il convenuto potrebbe dover affrontare la
prospettiva di una molteplicità di autonomi giudizi.
Questo chiaramente ha un peso determinante nella previsione di
un’analisi di gestione costi di un’impresa, la quale per evitare una
probabile crisi strutturale si vedrà costretta a dirottare suoi investimenti
più del dovuto nella prevenzione, Una delle critiche a cui prestava il
fianco facilmente il sistema dell’opt-in che si voleva adottare in Italia
riguardava proprio la possibilità concessa al singolo di aderire fino
all’udienza di precisazione delle conclusioni del grado di appello. Per
67
fortuna, come visto, il legislatore nel nuovo testo ha fissato un termine
sufficientemente anticipato rispetto all’udienza di precisazione delle
conclusioni. Questo consente al giudice di condurre il processo nel
pieno della consapevolezza e alla controparte di verificare il numero
degli aderenti. La tempestiva identificazione del numero degli aderenti
è utile sia per consentire all’impresa convenuta di proporre eventuali
eccezioni personali (prescrizione, transazioni, compensazioni, etc.)
rispetto ai singoli aderenti, sia per una verifica effettiva dei presupposti
per la restituzione o il risarcimento del danno e per una tempestiva
quantificazione del danno.
Da tutto questo però risulta un contraddittorio monco, in quanto se da
un lato il giudice dovrebbe consentire al convenuto, tramite il deposito
di memorie integrative e relativi allegati, la prova dell’avvenuta
prescrizione,
transazione
o
compensazione,
dall’altro
abbiano
l’inclusione nell’azione di classe di soggetti, gli aderenti appunto, che
non partecipano processualmente all’azione collettiva e pertanto viene
precluso loro la possibilità di difendersi sulle eventuali eccezioni
sollevate dal difensore dell’impresa citata in causa.
La precedente scelta adottata dal legislatore italiano di allungare al
massimo i tempi di adesione all’interno dell’azione collettiva poteva
trovare la sua giustificazione nel fatto di dare la possibilità al maggior
numero di consumatori appartenenti alla medesima categoria di poter
partecipare all’azione, controbilanciando, almeno in parte, la posizione
di debolezza di questi soggetti rispetto alla controparte. Da dove
nasceva questa preoccupazione? Era priva di fondamento? Pare di no!
Per dare una risposta alle suddette domande occorre prendere in
considerazione uno studio scientifico portato avanti da Eisenberg e
Miller (cfr. T. EISINBERG e G .MILLER, «The Role of Opt-Outs and Objectors»
in Class Action Litigation: Theoretical and Empirical Isssues, in Vanderbilt
Law Review, 2004, 57, pag. 1529) in cui si riporta che l’inerzia (leggi optout) prevale sull’interesse personale a partecipare nel processo (leggi
opt-in).
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Nello studio è emerso che in tutte le class action in cui è intervenuta la
conciliazione negli USA in un periodo di riferimento di dieci anni, il
tasso di opt-out era stato inferiore allo 0,2%: ossia solo 2 soggetti su mille
lo avevano esercitato. Questo vuol dire che raramente i membri della
classe esercitano l’opt-out dalla class action anche quando viene dato loro
la possibilità di farlo. Tra l’altro non occorrerà certo un’approfondita
analisi per capire che il consumatore (americano) preferisce esercitare
collettivamente un diritto di valore modesto, ma reale, piuttosto che
esercitare un’azione individuale, molto costosa
Sempre in base a questo studio effettuato nell’esperienza americana,
nelle class actions in materia lavoristica (Fair Labor Standards Act, l’Equal
Pay Act e l’Age Discrimination in Employment Act), in cui si prevede la
procedura di opt-in anziché opt-out, a seguito di un’analisi effettuata sui
casi conosciuti, si è scoperto che solo il 50% dei membri della categoria
esercitano l’opt-in
Il dato statistico non è da sottovalutare, soprattutto se si tiene conto che
le class action nel settore del lavoro riguardano un numero ben
determinato e ristretto di soggetti che sono raggruppati dallo
svolgimento di una comune mansione di lavoro; pertanto non solo vi è
una maggiore diffusione e conoscibilità dell’azione promossa, ma,
essendo maggiore il risarcimento spettante ai singoli individui, vi è un
maggiore interesse a partecipare.
Di conseguenza ci si aspetterebbe percentuali di partecipazione
sicuramente maggiori nelle class action riguardanti controversie in
materia lavoristica.
A questo punto il dubbio sorge spontaneo: se negli USA, nei casi in cui
si esercita la procedura di opt-in, in cui si dovrebbe avere un alto livello
di interesse di partecipazione, il tasso di adesione è interno al 50%, ossia
ben al di sotto del limite auspicabile, in Italia, dove vige la procedura di
opt-in e nella maggior parte dei casi non si ha un alto interesse a
partecipare (ossia si agisce per ottenere solo un risarcimento esiguo), a
quanto potrà ammontare il tasso di adesione?
69
Non solo, in un altro recente studio portato avanti da Cox e Thomas
(cfr. J. D. COX e R. S. THOMAS, «Letting Billions Slip Through your
fingers: Empirical Evidence and Legal Implications of the Failure of
Financial Institutions to Partecipate» in Securities Class Actions
Settlements, in Stanford Law Review, 2005, 58, pag. 411) si è scoperto che
nella maggior parte delle conciliazioni sulle class actions americane, in
cui gli attori hanno bisogno di esercitare un opt-in per poter far parte
della fase di conciliazione tramite un claim administrator che amministri
la controversia per poter ottenere un risarcimento, i tassi di adesione
erano di gran lunga inferiori al 50% anche quando erano in ballo
significative somme di denaro.
Percentuali così basse non si sono riscontrate solo nel caso di
risarcimenti sotto forma di coupons (ossia buoni sconto, o agevolazioni
di varie forme), ma anche quando il risarcimento aveva per oggetto una
somma di denaro erogato a mezzo di assegno bancario.
Rebus sic stantibus, probabilmente un sistema
più vicino a quello
statunitense di opt-out sarebbe stato più efficiente nel coinvolgere un
più ampio numero di membri della classe e sarebbe stato più funzionale
anche nei confronti del convenuto, che avrebbe potuto affrontare un
processo unitario anziché frammentario.
In Italia sta progredendo la consapevolezza che l’opt-out non incontra
ostacoli di ordine costituzionale almeno nelle small claims, in quanto
hanno un valore talmente basso che potessero essere portate
all’attenzione delle corti solo tramite le azioni di classe.
Si potrebbero porre dei paletti per individuare un confine, affidando
l’individuazione del valore massimo
al giudice, come succede in
Danimarca, oppure al legislatore, come era previsto in una proposta
legislativa francese poi abbandonata.
A tal proposito merita richiamo un provvedimento del Tribunale di
Roma, il quale investito da un ricorso cautelare ex art. 140, comma 8 del
codice del consumo e promosso da un’associazione dei consumatori,
emetteva contro una pay Tv un provvedimento di condanna a restituire
70
agli abbonati le somme di denaro, indebitamente percepite rispetto alle
pattuizioni contrattuali, per l’automatico invio di una nuova rivista con
i programmi televisivi (cfr. Trib. Roma, 30 aprile 2008, in FI, 2008, I, c.
2679).
12.Conclusione: i Vantaggi dell’azione di classe.
Considerando le esperienze straniere ed in primo luogo quella
statunitense, possiamo, ragionando in un’ottica prognostica, ipotizzare
numerosi vantaggi di non poco conto in capo ai beneficiari del nuovo
strumento di tutela collettiva.
In primo luogo la dottrina (si veda S. MICONI, «La “class action”
nell’ordinamento italiano: sintesi di una trasformazione», in La Resp.
Civ., n. 8 del 2008, pag. 679) ha sostenuto che la nuova azione sia fonte
di una maggiore effettività di tutela.
Si deve riconoscere che non si possa parlare di effettività di tutela
quando gli strumenti processuali non rendono conveniente, a seguito di
un’analisi costi/benefici, agire in giudizio per richiedere la riparazione
di un danno o quando il singolo valuta defatigante promuovere
un’azione legale nei confronti della grande impresa, poiché è
consapevole dello squilibrio processuale esistente tra loro. Pertanto,
nella maggior parte dei casi, tranne rarissime eccezioni, il tutto si è
tradotto in un abbandono iniziale a far valere i propri diritti in sede
giudiziaria proprio perché la lotta impari avrebbe comportato
inevitabilmente una sconfitta.
Tale situazione è ancora più accentuata nei danni di massa di piccola
entità in relazione ai singoli danneggiati, tale da scoraggiare un’azione
legale dagli esiti incerti e dagli alti costi per poterla intraprendere.
Questo ragionamento porta con sé la conseguenza di lasciare
insoddisfatto il singolo, il quale, pur nella previsione astratta di una
tutela dei suoi diritti, si vede “costretto” a desistere dall'intraprendere
un percorso giudiziario in quanto esso comporterebbe dei costi
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superiori rispetto ai benefici che il medesimo potrebbe trarre in caso di
vittoria.
L’azione di classe si propone, invece, come suo obbiettivo primario
quello di ridurre fortemente il divario esistente tra le parti, garantendo
un “effettivo e reale” accesso alla giustizia anche per le pretese di
modesta entità (cd small claims).
Infatti, la conseguenza di tale istituto è il verificarsi del “judicial economy
effect” (così B. BERNSTEIN, »«Judicial Economy and Class Action», in
Journal of Legal Studies, vol. 7, 1978, pag. 349-370), vale a dire l’effetto
prodotto dal sistema della rappresentanza indiretta, che sfocia in forme
aggregate di domande e di procedimenti giudiziari, comportando
l’abbattimento di costi grazie al frazionamento delle spese del
contenzioso per una moltitudine di soggetti, venendo di conseguenza a
colmare quello squilibrio esistente ante causa tra danneggiante e
danneggiato.
In quest'ottica l'azione di classe costituirebbe un valido strumento per
garantire un'effettiva protezione di situazioni e di interessi comuni a
diverse categorie di soggetti, che si vedono concentrati in un unico
contesto processuale l'accertamento di illeciti idonei a provocare un
danno diffuso nella collettività.
Un'altra funzione del nuovo mezzo di tutela consiste proprio nel
cercare di diminuire il numero delle cause, concentrandole in un unico
processo, evitando l'effetto floodgate, ossia il congestionamento dei
Tribunali, e favorendo, inoltre, il principio di economia processuale.
Non solo, il legislatore ha pensato bene di ridurre ulteriormente la
competenza territoriale. Come visto, se nel precedente art. 140 bis Cod.
del Cons. il legislatore identificava come giudice competente quello
nella cui giurisdizione
aveva la sede dell'impresa, nella nuova
elaborazione dell'art. 140 bis restringe ulteriormente
i Tribunali
territorialmente compenti per garantire una maggiore uniformità della
tutela di posizioni giuridiche analoghe tramite l'unicità del giudicato.
72
Così operando si evita di avere per fatti analoghi differenti decisioni, in
tempi diversi, probabilmente anche in conflitto fra loro L'effetto senza
dubbio più importante che dovrebbe far salutare con una certa
positività questo nuovo strumento processuale è quello che si potrebbe
esercitare sulla deterrenza. Vale a dire, l'ottica in cui fu realizzato il
contenuto del nuovo art. 140 bis, non fu quella di porre rimedio a
situazioni pregresse (come la maggior parte dei giusconsumeristi
sperava), ma di evitare la formazione di eventi futuri lesivi dei diritti di
un numero più o meno definito, ma ampio, di consumatori od utenti.
Questo lo si deduce dal quindicesimo comma, laddove il legislatore ha
previsto l'applicazione della norma solo per i fatti accaduti dopo il 14
agosto 2009.
L'effetto deterrente comporta una forte dissuasione nel porre in essere
comportamenti illeciti nella prospettiva dell'elevato onere che potrebbe
derivare all'impresa dall'esercizio di un'azione di classe da parte dei
consumatori/utenti.
Probabilmente l’effetto avrebbe prodotto una maggiore incisione se il
legislatore avesse previsto (come negli USA) “un’indennità punitiva”,
secondo cui, una volta accertata la responsabilità dell’impresa, il
giudice avrebbe avuto la possibilità di stabilire un risarcimento molto
più alto del danno reale subito dal danneggiato, attribuito e rapportato
magari in ragione alla gravità della condotta dell’autore dell’illecito e
all’ampiezza del danno provocato.
Il risarcimento complessivo, in tal caso, avrebbe assunto la duplice
finalità sia di riparare i danni subiti dalla parte lesa e sia di scoraggiare
futuri comportamenti illeciti da parte delle imprese.
I punitive damages, però, non sono stati recepiti dal legislatore italiano in
quanto tale istituto risulta incompatibile con il nostro ordinamento, che
assegna
alla
responsabilità
civile
funzioni
esclusivamente
compensative, escludendo qualsiasi forma di lucro da parte del
danneggiato a seguito del danno subito.
73
Quindi, il giudizio sulla disciplina dell'azione collettiva risarcitoria, così
come si presenta sulla base dell'emendamento governativo, è
sostanzialmente positivo.
In ogni caso, si è ancora lontani dal modello fortunato e tanto ben
voluto della class action statunitense.
Negli Stati Uniti il sistema della giustizia civile è ritenuto un importante
elemento per regolare le condotte sociali ed economiche, nonché come
unico strumento di compensazione dei pregiudizi economici subiti in
conseguenza di incidenti.
Al contrario, negli ordinamenti europei, prevale ancora la concezione
che il processo civile raggiunga il suo scopo nella definizione di
controversie interindividuali e vi è ancora una certa resistenza a
intraprendere iniziative giudiziarie private per conseguire obiettivi di
politica pubblica e per regolare condotte ad impatto collettivo (così,
MURRAY STÜRNER, German Civil Justice, Durham, 2004, p. 572).
Le cifre da capogiro raggiunte negli USA, difficilmente potranno essere
richieste, nonché riconosciute, nel nostro Paese, sia perché nella
determinazione del quantum manca un aspetto peculiare rappresentato
dai punitive damages, sia perché manca uno spirito giudiziale di
riconoscere un compenso del difensore basato sul time-sheet.
Cosa che, invece, accade negli Usa. Per esempio nel caso Enron
(multinazionale americana fallita nel 2002), il giudice Melinda Harmon
ha stabilito un vero e proprio record nella storia della class action,
attribuendo una parcella di 688 milioni di dollari agli avvocati che
hanno difeso gli interessi degli azionisti della Enron. Secondo i calcoli
del giudice adito lo studio legale Coughlin Stoia Geller Rudman &
Robbins avrebbe lavorato sul caso 289.593,35 ore, a un rate orario di 456
dollari (TOP LEGAL n. 11/2008 pag. 74).
In Italia una liquidazione di spese legali avvicinabile ad una simile
soglia non è neppure pensabile, nemmeno nella mente degli avvocati
più fantasiosi.
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Inoltre, ci viene da chiedersi se il legislatore, preso dal disciplinare solo
l’aspetto relativo al contenzioso, non abbia tralasciato e dimenticato
l’esigenza di prevenire la fase giudiziale, tramite il ricorso alle ADR
(Alternative Dispute Resolution), in particolare a sistemi come la
conciliazione e la mediazione, come meccanismi predisposti a comporre
la lite nella fase anteriore all’azione di classe.
La funzione dei sistemi di ADR è esplicitamente ammessa dall’art. 141
del Codice del Consumo, il quale stabilisce la non vessatorietà delle
clausole contrattuali aventi ad oggetto il ricorso ad organismi di
composizione extragiudiziale delle liti, purchè si conformino ai principi
e alle disposizioni della Commissione europea contenuti nelle
raccomandazioni 98/257/CE e 2001/310/CE. Queste procedure, in
ogni caso, non
eliminano la possibilità al consumatore di adire la
magistratura ordinaria qualunque sia l’esito della composizione
extragiudiziale della controversia.
Probabilmente un’estensione legislativa di un ADR all’azione di classe,
non potrebbe che portare risultati positivi, salvo poi risolvere a priori la
questione dell’estensione o meno dell’efficacia erga omnes della
transazione e le sue modalità applicative.
Ad ogni buon modo, questo percorso, sperimentato in Italia con
soddisfazione sia da parte di imprese e sia da parte dei consumatori,
dopo qualche iniziale scetticismo, ha dato ottimi risultati e per tale
ragione avrebbe potuto essere una soluzione “tampone” o comunque
transitoria di medio o lungo periodo in attesa di soluzioni uniformi a
livello europeo. Nel frattempo la medesima Commissione europea, ha
invitato gli Stati membri ad introdurre meccanismi di aggregazione
capaci di “elaborare norme procedurali che incoraggino le transazioni, como
modo per ridurre i costi” e per agevolare “la rapida risoluzione delle
controversie” (così nel White Paper, COM/2008/165 del 02 aprile 2008).
Per esempio nel settore finanziario il Conciliatore bancario, oltre
all’Ombudsman, dando facoltà alla clientela di utilizzare sistemi
alternativi a quelli giudiziali, si sono raggiunti risultati satisfattivi
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eccellenti (si cfr. l’art. 128bis del TUB e, per le controversie aventi ad
oggetto la prestazione di servizi finanziari, l’art. 27 della legge sul
risparmio e il relativo DLgs n. 179 del 8 ottobre 2007.). Senza poi
dimenticare che accanto a procedure facoltative, vi sussistono
procedure conciliative obbligatorie da esperire, la cui inosservanza
viene qualificata come causa di improcedibilità dell’azione giudiziaria
(così dispone l’art. 1, comma 11 L. 249/1997, per le controversie tra
utenti e fornitori del servizio di telecomunicazioni).
Queste procedure hanno aiutato ad evitare l’aumento di nuove cause
giudiziali con conseguente congestionamento delle aule di giustizia ed
hanno
assicurato
rapidità,
economicità
della
soluzione
delle
controversie ed effettività della tutela del cliente.
Allora ci si chiede perché non introdurre nell’ambito dell’azione di
classe
un
ricorso
preventivo
agli
organismi
di
risoluzione
stragiudiziale?
Tra l’altro un sistema improntato sul raggiungimento di accordi
transattivi nel rispetto dei principi di giustizia ed equità, a dispetto di
quanto si possa pensare, potrebbe essere un affidabile strumento di
deterrenza per le imprese, di tutela per i consumatori/utenti e di utilità
per l’intera collettiva, la quale non si vedrà privata di parte delle risorse
dell’apparato della giustizia che possono, invece, essere impiegate per
decongestionare le già affollate aule di giustizia.
Attualmente, purtroppo, dobbiamo prendere atto che il legislatore non
ha previsto una disciplina di composizione stragiudiziale nell’azione di
classe.
Sembra che il legislatore abbia perso un’occasione per disciplinare ed
introdurre una conciliazione collettiva, che sarebbe stata un valido
strumento per rendere l’azione di classe davvero efficiente sotto l’ottica
giuridico-economica.
Anzi, semmai, è il caso di chiedersi se la scelta legislativa sia
controproducente per i consumatori, tanto da dar luogo allo stesso
effetto che produce una pietra lanciata in uno stagno: un effetto
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fragoroso nell’immediato con una moltitudine di onde che si
susseguono ravvicinate l’una all’altra, causato dall’impatto della
medesima nello specchio di acqua, ma che, in un tempo più o meno
breve, spariranno tutte facendo ritornare la calma di prima (immagine
tratta da Nikolaj Vasil'evic Gogol').
Fuor di metafora, abbiamo la sensazione che l’azione di classe, sia pur
migliorata, rispetto alla sua veste iniziale, possa dar luogo a numerosi
processi collettivi nell’immediato, i quali, conoscendo i tempi della
giustizia italiana, potrebbero “arenarsi” a discapito del principio di
efficienza e di giustizia che, trattandosi di consumatori, dovrebbe a
maggior ragione essere garantito e tutelato.
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