Dalle macerie ai grattacieli testo di Roberta Valtorta curatrice della mostra La grande mostra Ieri oggi Milano presenta fotografie interamente tratte dalle collezioni del Museo di Fotografia Contemporanea. All’interno del suo vasto patrimonio (due milioni di immagini, organizzate in trentatre fondi fotografici, con più di seicento autori italiani e stranieri), moltissime sono le opere che raccontano la storia sociale e culturale e le trasformazioni del paesaggio della città di Milano, confluite nelle collezioni del Museo grazie a progetti di committenza, donazioni, depositi. Per questa mostra, in particolare, sono state selezionate opere da ben dodici fondi fotografici, che qui desideriamo ricordare: Federico Patellani, Enzo Nocera, Attilio del Comune, Mario Cattaneo, Alessandro Vicario, autori dei quali il Museo conserva l’intera opera; Gabriele Basilico/Milano. Ritratti di fabbriche, Paolo Gioli, Achille Sacconi, autori dei quali nelle collezioni sono presenti vasti nuclei di fotografie; Lanfranco Colombo, Milano senza confini, Idea di metropoli, Raccolta antologica, cioè fondi collettivi comprendenti molti autori. Dedicata a Milano, la mostra intende da un lato offrire uno scenario variegato e complesso che possa aiutare a riflettere sui grandi cambiamenti che hanno segnato l’identità e il senso della città nell’arco di settant’anni, dalla metà del Novecento fino agli anni Dieci del nuovo secolo. Dall’altro, per la diversità dei codici e degli approcci (dal reportage classico, alla fotografia documentaria di architettura e paesaggio, al ritratto ambientato e di studio, all’utilizzo sperimentale delle possibilità espressive della fotografia), oltre che dei formati e delle presentazioni, essa rappresenta un’occasione per capire l’evoluzione dei linguaggi della fotografia nell’arco temporale che ci ha portati dalla tarda modernità, dunque da un’epoca basata sulla fiducia nelle narrazioni omogenee e coerenti al cospetto della storia, alla postmodernità, e quindi a un tempo di racconti spezzati e di continue interrogazioni sulle varie, eterogenee possibilità di declinazione della società e della cultura. Un pulviscolo di possibilità. Assecondando le caratteristiche degli ambienti espositivi dello Spazio Oberdan (due ampie sale al primo piano, un susseguirsi di stanze al secondo piano, nella “balconata”), la mostra presenta il lungo percorso storico a ritroso: prima vengono le opere datate dalla metà degli anni Novanta a oggi, fotografiche quasi tutte caratterizzate da formati molto grandi e video, le une e gli altri incentrati sul paesaggio urbano di una Milano postindustriale e globalizzata, dal centro storico alle periferie in trasformazione ai grandi cantieri, fino ai grattacieli di recentissima costruzione; poi le fotografie che dagli anni Ottanta, momento critico di mutamento, quando la città perde la sua identità industriale-operaia, conducono gradualmente a ritroso al disastro del dopoguerra e alla successiva ricostruzione, e sono dedicate a momenti topici della storia della città, alla società milanese e a importanti personaggi dell’arte e della cultura, immagini in bianco e nero in più ridotti formati “storici”, che rimandano alla funzione di memoria tipica della fotografia. In questo catalogo invece si è scelto di seguire una narrazione di tipo cronologico. Le immagini si susseguono portandoci dalle macerie del dopoguerra allo skyline dei grattacieli, fino alla scritta EXPO che brilla colorata nel cielo notturno. Va subito chiarito che questa non è una mostra esaustiva, non può esserlo (nessuna mostra, nulla può esserlo), non é una mostra “a tesi” costruita ex novo in totale libertà progettuale con l’intento di mettere in evidenza una certa idea della città, o una certa idea della fotografia. E’ però l’insieme indubbiamente significativo di molte fotografie che si sono trovate a convivere nelle collezioni di un museo, acquisite o accettate in donazione nel tempo, sottoposte a scelta, e poi selezionate per questa occasione, a costruire, certamente, una narrazione. Il gesto del raccogliere, del sottrarre oggetti culturali alle loro funzioni e ai loro contesti ordinari per destinarli ad altri e diversi luoghi, nel nostro caso il luogo di una collezione, costruisce storie altre. Nei processi di percezione e di conoscenza, sappiamo, da ogni diversa combinazione di elementi deriva un diverso scenario, e le informazioni, le sensazioni, i significati arrivano a noi attraverso percorsi complessi, coincidenze, collegamenti a volte inaspettati e neppure preordinati. Vediamo ora quale quadro della città esce da questo insieme di fotografie. Siamo di fronte, qui, a un racconto composto delle molte storie di fotografi che per ragioni diverse e in occasioni varie hanno lavorato chi con intenti di documentazione, chi con progettualità di tipo apertamente artistico, chi rispondendo alla richiesta di un committente, chi rincorrendo le proprie riflessioni sulla città o raccontando piccoli momenti interiori rispecchiati nell’ambiente urbano. Si tratta indubbiamente di un insieme molto articolato. Ciò che le fotografie e i video mostrano con evidenza, in ogni caso, è che siamo davanti, nel tempo, a due Milano profondamente diverse. La prima, quella più antica, è una città che, pesantemente distrutta e mortificata dalla guerra, ricostruisce se stessa attraverso il lavoro di fabbrica e la nascita di un tessuto sociale popolare positivo, semplice, e sa affrontare con forza gli anni difficili ma proficui dell’immigrazione dal Sud e del contraddittorio sviluppo delle periferie, delle lotte degli operai nelle fabbriche e degli studenti nelle università, degli stridenti contrasti sociali e politici. La grande fotografia sociale racconta tutto questo secondo le regole etiche dell’impegno civile e della testimonianza, entrando nelle pieghe della vita quotidiana, registrando con cura gli eventi, mostrando i gruppi e talvolta le masse, i corpi delle persone all’opera, i volti, le espressioni. La ritrattistica di studio fissa ripetutamente le fisionomie dei personaggi della cultura che fanno solida e importante la città. Gli uomini e le donne sono protagonisti delle immagini e, insieme, della storia. Poi, come in una mutazione genetica manifestatasi all’improvviso, ecco giungere le immagini di una città molto diversa che, persa la sua identità industriale-operaia e divenuta, secondo una nota definizione, la “Milano da bere”, inizia a cercare nuove strade, si modifica profondamente dal punto di vista architettonico e urbanistico, diventa una città del terziario, delle banche, della finanza, della comunicazione, della pubblicità, della moda, del design, una città in cui tutto è ridisegnato, si avvia a strutturarsi come metropoli pur restando a lungo una città, importante, ancora più grande, ma tuttavia città. La fotografia prende atto e documenta le strutture in crescita, i cantieri, i vuoti, l’isolamento delle sparse figure urbane che mettono in evidenza una società che diviene multietnica. La scena sociale non è più così puntualmente descritta come lo era nelle pratiche della fotografia storica: nella realtà vissuta essa si fa sempre più complessa, ma nella fotografia è come se non esistesse, rendendosi leggibile solo in modo indiretto. Come sappiamo, dagli anni Novanta in avanti, anzi fin già dagli anni Ottanta, la fotografia parla della società attraverso il paesaggio, o, talvolta, attraverso la presenza di rare figure nel tessuto urbano: non più uomini e donne all’opera, ma come in attesa. La figura umana non è più protagonista, troppo grande il mondo intorno, troppo piccolo l’uomo, non più misurabile visivamente nel suo lavoro e nelle sue azioni, e diviene simbolo di una quotidianità composta di frammenti. Sullo spartiacque, sia quello della storia della città sia quello dei codici della fotografia, la morte delle fabbriche e della civiltà delle macchine. Ogni grande città moderna che abbia perduto le sue fabbriche ha cercato nuovi destini economici e sociali. Milano sembra aver faticato in questo, come se anziché vivere la trasformazione la recitasse mentre ancora non l’aveva imparata del tutto. E’ così divenuta una città poco definibile, non facile da amare ma necessaria a molti, a volte poco rispettosa del suo passato e per molti aspetti incapace di affrontare il cambiamento in modo sincero, città veloce ma non abbastanza, la prima tra le città italiane nel fare le cose, la più europea, ma talvolta in ritardo, forse anche rispetto a se stessa e alle sue potenzialità. Milano conserva ancora dentro di sé un pezzo della sua anima più antica, ingenua e semplice come un dialetto, ma non sa esserne orgogliosa, risucchiata nel ripido vortice della globalizzazione che impone di accogliere e mescolare i frammenti di un contemporaneità internazionale e di molte lingue che giungono qui per intrecciarsi. Ieri città di macerie e baracche, occhi schietti di operai, divertimenti semplici di quartiere, oggi grande agglomerato urbano che è un’addizione di individualità, improvvisamente arrivato ad avere quei grattacieli che molte metropoli del mondo da lungo tempo vanno costruendo e possiedono. Una città che, spesso giudicata insufficiente da chi vi abita, una città media, come vuole l’etimologia del suo nome, viene tuttavia sempre utilizzata come grande casa in cui comunque venire, abitare, lavorare, comunicare, scambiare, e ancora una volta, come nel dopoguerra e negli anni del boom economico, sperare. In tutto questo discorso, la fotografia, un’espressione artistica che si colloca esattamente al centro del grande passaggio storico che stiamo vivendo, ci indica le cose ed è potente veicolo di molti pensieri.