31° Congresso Nazionale della Società Italiana di Microbiologia Roma, 19-22 Ottobre 2003 Riassunti STUDIO FENOTIPICO DI UN CEPPO DI Proteus mirabilis PRIVO DEL GENE CODIFICANTE LA GLUTATIONE S-TRANSFERASI. Nerino ALLOCATI*, Michele MASULLI*, Marilena PIETRACUPA*, Mikhail F. ALEXEYEV§, Bartolo FAVALORO*, Carmine DI ILIO*. *Dipartimento di Scienze Biomediche, Università “G. d’Annunzio”, Chieti. §Department of Pharmacology, University of South Alabama, Mobile, U.S.A. Un ceppo di Proteus mirabilis privo del gene gstB codificante per una glutatione S-transferasi (PmGST B1-1) è stato costruito utilizzando un vettore suicida pKNOCKlox-Ap. L’inattivazione del gene è stata confermata mediante PCR, sequenziamento del DNA e Western blot. Sotto le normali condizioni colturali, il ceppo mutato è risultato vitale e non mostra significative differenze fenotipiche in confronto con il ceppo wild-type. Studi sulla vitalità hanno evidenziato che il mutante nullo è più sensibile rispetto al ceppo wild-type allo stress ossidativo ottenuto con H2O2 e a diversi farmaci antimicrobici. I risultati ottenuti suggeriscono che PmGST B1-1 ha un ruolo attivo nella protezione verso lo stress ossidativo generato da H2O2 e sembra essere coinvolto nella detossificazione di antibatterici. RUOLO DEL FERRO NELL’ATTIVAZIONE DEL SISTEMA DI SECREZIONE DI TIPO III DEI BATTERI ENTEROINVASIVI. Daniela Santapaola1, Federica Del Chierico2, Francesca Berlutti2, Piera Valenti3 e Mauro Nicoletti1. 1Dipartimento di Scienze Biomediche, Università “G. D’Annunzio, 66100 Chieti; 2Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università “La Sapienza”, 00185 Roma; 3Dipartimento di Medicina Sperimentale, II Università di Napoli, 80135 Napoli. Shigella ed i ceppi di Escherichia coli enteroinvasivi (EIEC) secernono proteine (effettori) associate alla virulenza (all’incirca una ventina) mediante un apparato secretorio Sec-indipendente loro dedicato chiamato sistema di secrezione di tipo III (TTS). I geni strutturali del sistema TTS sono localizzati sul plasmide di virulenza e la secrezione delle proteine effettrici è un fenomeno strettamente regolato in modo tale che il sistema TTS è scarsamente attivo (circa 5% attività) quando i batteri sono coltivati nei comuni terreni di coltura. Il sistema TTS è attivato (100%): i) quando i batteri vengono in contatto con la cellula eucariotica; ii) se vengono inattivati i geni ipaB o ipaD; iii) oppure mediante l’aggiunta al terreno di coltura del colorante rosso Congo. In questo lavoro abbiamo sfruttato la elevata affinità della lattoferrina bovina (bLF) per il ferro per dimostrare che il sistema TTS del ceppo EIEC HN280 è attivato quando i batteri vengono a trovarsi in condizioni di carenza di ferro. La carenza da ferro è stata ottenuta sperimentalmente incubando i batteri con bLf, ma separata da questi in quanto racchiusa in una membrana da dialisi. L’attivazione del sistema TTS è stata evidenziata misurando il rilascio delle proteine di virulenza IpaB e C (Western blot), scelte come reporter delle proteine di virulenza secrete. Inoltre, è stato determinato il ruolo dei prodotti di degradazione proteolitica spontanea dializzabili della bLf nell’attivazione del sistema TTS. La secrezione non è dovuta all’induzione, da parte della bLf, di danni alla integrità della membrana esterna di HN280 e l’attivazione del sistema TTS non è associata ad una aumentata trascrizione dell’operone mxi. In conclusione, una bassa concentrazione di ferro può essere un segnale importante riconosciuto dai batteri enteroinvasivi al fine di modulare l’attivazione del sistema TTS e possibilmente ottenere una secrezione differenziata di effettori diversi necessari in fasi distinte del complesso meccanismo di patogenicità di questi patogeni enterici. 2 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA IDENTIFICAZIONE DEI GENI SPEA E PRTF1 IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES: CORRELAZIONE CON IL GENOTIPO OTTENUTO MEDIANTE PFGE. S. Bianco, T. Allice, M. Zucca e D. Savoia Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Università di Torino. Streptococcus pyogenes è un importante patogeno la cui virulenza è legata sia alla produzione di esotossine che alla presenza di particolari componenti di superficie. In ceppi isolati in Torino e dintorni nel periodo 1994-2002 (177 isolati da tamponi faringotonsillari di bambini non trattati con forme faringee e con scarlattina e 5 da patologie invasive) è stata valutata mediante PCR la presenza del gene responsabile della produzione dell’esotossina pirogena A (speA) e del gene deputato alla produzione della proteina F1 (prtF1), adesina presente sulla superficie batterica in grado di legare la fibronectina. Il 32% dei ceppi è risultato positivo per speA; sui ceppi isolati nel 1998/99, in cui tale gene è risultato maggiormente presente (55%), sono state analizzate le varianti alleliche di speA mediante sequenziamento genico. In tali ceppi il gene presentava un polimorfismo allelico (speA1, speA2, speA3 e speA1/3); nella metà dei ceppi isolati da casi di faringotonsillite, eterogenei come genotipo all’analisi mediante PFGE, è stato identificato l’allele speA3, mentre in quelli isolati da casi di scarlattina è risultato prevalente l’allele speA2. Il gene prtF1, assente nei ceppi provenienti da patologie invasive, è stato identificato nel 41,4% di tutti i ceppi di isolamento faringotonsillare; di questi la metà possiede un genoma caratterizzato da uno stesso pattern elettroforetico, ma i ceppi si differenziano sia per il gene speA che per la resistenza ai macrolidi. Il gene prtF1 è stato caratterizzato utilizzando primer complementari alla regione genomica che fiancheggia il dominio ripetuto RD2 (111 bp). Nei ceppi analizzati si è riscontrata una netta prevalenza (87%) di microorganismi con ampliconi costituiti da 4 ripetizioni. I ceppi prtF1-negativi sono risultati più sensibili ai macrolidi; tuttavia quelli resistenti, ed in particolare gli isolati da casi di scarlattina, possiedono per lo più un fenotipo di resistenza M. I ceppi di Streptococcus pyogenes presi in esame sono risultati ampiamente eterogenei come genotipo, tuttavia nell’ambito degli isolati da patologie diverse è stata riscontrata la presenza di particolari caratteri di virulenza che ne possono condizionare il diverso processo patogenetico. RUOLO DELL’OSSIDO NITRICO (NO) PRODOTTO DA MACROFAGI MURINI INFETTATI IN VITRO CON CHLAMYDIA PNEUMONIAE Rizzo A., Paolillo R., Catania M.R., Rossano F., Romano Carratelli C. DIP. MEDICINA SPERIMENTALE-SEZIONE DI MICROBIOLOGIA E MICROBIOLOGIA CLINICA, SECONDA UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI. Chlamydia pneumoniae è un batterio gram-negativo intracellulare obbligato che causa infezioni del tratto respiratorio. Recentemente è stato coinvolto nella lesione aterosclerotica, suggerendo un ruolo per questo microrganismo nella malattia coronarica e ancora più recentemente nella malattia di Alzheimer. Come tutti i parassiti intracellulari obbligati, C. pneumoniae per la sua sopravvivenza e propagazione necessita di una serie di eventi con la formazione di una nicchia intracellulare per la replicazione e la successiva invasione delle cellule vicine, sfuggendo quindi ai meccanismi di difesa dell’ospite. Per compiere tutte queste funzioni C. pneumoniae ha sviluppato un ciclo vitale bifasico con il coinvolgimento di due forme di sviluppo: una forma infettante (corpo elementare -EB) simile alla spora ed una forma replicativa intracellulare (corpo reticolare-RB). D’altra parte, i monociti, cellule in cui si sviluppano le Chlamydiae, presentano varie funzioni che risultano modulate dall’ossido nitrico (NO) che gioca un ruolo importante nella resistenza sia a virus sia a batteri intracellulari. I macrofagi attivati presentano un incremento del rilascio di NO prodotto da NOS attraverso il coinvolgimento della L-arginina.; uno dei principali mediatori dell’attivazione macrofagica per la produzione di NO si é rivelato in vitro l’Interferon ? (IFN?). Nel presente lavoro viene studiata l’interazione tra C. pneumoniae e le cellule macrofagiche J774 e i risultati da noi ottenuti dimostrano che le cellule monocitarie murine J774 infettate con C. pneumoniae presentano un modesto anche se graduale incremento di produzione di NO rispetto alle cellule non infettate. L’aggiunta di IFN-γ ricombinante murino alla coltura infettata determina un aumento della produzione di NO in maniera dose-dipendente, mentre il rilascio di NO viene inibito dall’aggiunta alla coltura di N-monomethyl-L-arginine (NMLA), un inibitore di NOS. La vitalità e l’infettività di C. pneumoniae è ridotta in maniera dose-dipendente quando il microorganismo viene incubato con un donatore di NO diethylamine-nitric oxide (DEA/NO) sia prima che durante l’infezione delle cellule J774. I nostri risultati, quindi, indicano che l’NO potrebbe contribuire in maniera significativa al controllo e alla diffusione dell’infezione da C. pneumoniae. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 3 SEQUENZE ERIC E CONTROLLO POST-TRASCRIZIONALE IN GAMMA-PROTEOBATTERI Giustina Silvestro, Eliana De Gregorio, M.Stella Carlomagno e Pier Paolo Di Nocera Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare Università degli Studi di Napoli Federico II, Via S. Pansini 5, 80131Napoli - [email protected] Le sequenze ERIC (Enteric Repetitive Intergenic Consensus) sono piccole sequenze di DNA ripetuto finora identificate a basso numero di copie (20-30) nel genoma dei gamma-proteobatteri (1). Sorprendentemente, analisi di BLAST da noi condotte sul genoma recentemente sequenziato delceppo 8081(http://www.sanger.ac.uk/Projects/Y_enterocolitica/) indicano che gli ERICrappresentano una cospicua componente (ca. 1%) delcromosoma di Yersinia enterocolitica. Gli elementi, in buona parteintercistronici, sono regolarmente distribuiti nel genoma. Di questi, 2/3hanno le dimensioni tipiche degli elementi ERIC (127 bp). Gli altri sono internamente riarrangiati o per delezione della regione centrale (60-70 bp), o per l’inserzione di differenti segmenti di DNA (197-217 bp). Gli elementi ERIC ricordano strettamente i minitrasposoni nemis caratteristici del meningococco. ERIC e nemis hanno dimensioni simili, presentano ripetizioni invertite terminali di 26-27 bp, inducono all’atto del loro inserimento cromosomico la duplicazione del sito bersaglio TA, possono ripegarsi a livello di RNA in strutture secondarie di considerevole stabilità energetica. Diversamente da quanto dimostrato per trascritti nemis+ (2-4), saggi di degradazione in vitro con estratti cellulari totali ed esperimenti di protezione da ribonucleasi condotti su popolazioni di RNA di Y. enterocolitica prodotti in vivo suggeriscono che i trascritti ERIC+ non siano substrato per la RNAsiIII, ma piuttosto costitutiscano un target per il degradosoma, la macchiam molecolare responsabile del pathway degradativo degli mRNA batterici. Tenendo in conto l’abbondanza relativa e lo specifico pattern di interspersione con le ORFS (molti elementi sono inseriti a breve distanza dalle triplette di inizio e/o stop di segmenti codogenici) le sequenze ERIC potrebbero modulare a livello post-trascrizionale i livelli di espressione di specifiche classi di geni in Y. enterocolitica. 1. Hulton C.S.J., Higgins C.F, and Sharp, P.M.(1991) Mol. Microbiol. 5, 825-834. 2. De Gregorio E., Abrescia C., Carlomagno M.S. and Di Nocera PP.(2002) BBA 1576, 39-44. 3. De Gregorio, E., Abrescia C., Carlomagno, M.S. and Di Nocera, P.P.(2003) Infect Immun. 71, 4217-4221. 4. De Gregorio E., Abrescia C., Carlomagno M.S and Di Nocera, P.P.(2003) Biochemical J. 374, 799-805. La comunicazione di cui allego l’abstract sarà presentata come poster da Pier Paolo Di Nocera Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare - Facoltà di Medicina, Università Federico II - Via S. Pansini 5 80131 Napoli - tel. 081-7462059 - fax 081-7703285 - e-mail [email protected] VARIANTI DEI GENI DI VIRULENZA E DELLA RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI IN CEPPI DI CLOSTRIDIUM DIFFICILE. P.Spigaglia, V.Carucci, P.Mastrantonio. Dipartimento Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate.Istituto Superiore di Sanità. Roma. E’ stata condotta un’analisi molecolare dei geni del locus di patogenicità (PaLoc) e dei determinanti di resistenza ad eritromicina (ermB), tetraciclina (tetM) e cloramfenicolo (catD) su 50 isolati clinici di C.difficile al fine di valutare l’entità della presenza di geni varianti e di loro eventuali associazioni. A tal fine sono state utilizzate tre PCR multiplex, rispettivamente per mettere in evidenza i geni delle tossine A e B, i geni accessori del PaLoc (tcdC-tcdD-tcdE), ed i geni della resistenza ai tre antibiotici .Il 18% dei ceppi tossinogenici ha mostrato di possedere geni varianti della tossina A ed oltre il 30% aveva un gene variante tcdC,che funziona come regolatore negativo dell’espressione delle tossine. Circa il 40% dei ceppi è risultato positivo per la presenza dei tre geni di resistenza ermB,tetM e catD. La maggiorparte dei ceppi mostravano un’unica copia del gene ermB con sequenza simile (type SZ) a quella del ceppo di riferimento C.difficile 630 associato a valori di MIC di 16-32 mg/l mentre alcuni ceppi avevano un ermB (type SP) simile a quello di C.perfringens che ha valori di MIC > 256 mg/l. Ceppi con la presenza simultanea di ermB (type SP) e tetM hanno mostrato di essere sensibili alla tetraciclina in vitro ed ulteriori studi sono in corso per comprendere il significato di questo risultato. Nei ceppi isolati in anni recenti risulta un aumento di geni PaLoc varianti mentre la copresenza di alcune di queste varianti con specifici determinanti di resistenza ermB,tetM e catD non sembra evidente. 4 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CHLAMYDIA PNEUMONIAE: UN PATOGENO IMPLICATO NELLE MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE? C. de Luca(1), A. Lavitola(1), P. Carrieri(2), V. Scarano(2), V. Formicola(3), M. Del Pezzo(1). Università degli Studi di Napoli “Federico II” (1) Dip. di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano” - (2) Dip. di Scienze Neurologiche -(3) Eurospital S.p.A. Chlamydia pneumoniae è un batterio Gram negativo, parassita endocellulare obbligato che infetta le cellule epiteliali del tratto respiratorio causando faringiti, sinusiti, bronchiti ed il 10% delle polmoniti acquisite. Tale batterio è causa inoltre di forme acute di endocardite e miocardite, e la sua persistenza nei vacuoli dei monociti può essere implicata nella genesi di patologie croniche, quali asma dell’adulto, arteriosclerosi, malattia di Alzheimer, encefalite, meningoencefalite, sindrome di Guillan-Barrè, e Sclerosi Multipla (SM) (1). Un qualche legame tra Chlamydia pneumoniae e Sclerosi Multipla è segnalato da più autori (2) e studi recenti riportano la presenza di anticorpi anti-Chlamydia pneumoniae nel liquido cerebrospinale (CSF) di pazienti con SM, tuttavia le infezioni non sono sufficientemente documentate da poter sancire che Chlamydia pneumoniae è un patogeno neurotropo (3-6). Scopo del presente lavoro è valutare l’infezione da Chlamydia pneumoniae in pazienti affetti da Sclerosi Multipla e da altre patologie neurologiche infiammatorie (OIND), mediante il dosaggio di anticorpi sierici e liquorali. La presenza di anticorpi specifici per Chlamydia pneumoniae (IgG e IgM) è stata determinata con metodo ELISA (SeroCp Eurospital), utilizzando corpi elementari del ceppo di Chlamydia pneumoniae TW183. Per entrambe le patologie si è provveduto alla costruzione del cut-off interpretativo dei risultati di O.D. liquorali e successivamente i rapporti delle immunoglobuline sieriche e liquorali sono stati interpretati mediante specifici indici di barriera. L’analisi dei dati ottenuti allontana dall’ipotesi di un rapporto diretto tra Chlamydia pneumoniae e SM, mentre la presenza di aumentati indici di IgG e IgM liquorali e di sintesi intratecale di IgG, consentono di ipotizzare il coinvolgimento di tale batterio in pazienti con malattie neurologiche infiammatorie. Resta da stabilire se ciò sia dovuto ad un fenomeno di slatentizzazione di altri agenti virali o di innesco di un processo autoimmune. Bibliografia: 1) Richard H. et al., Harvard Inf. Dis. J. Clinical Conference; 2001 - 2) Yucesan C., et al. Curr. Opin. Neurol. 2000 3) Sriram S. et al., Neurol. (50); 1998 - 4) Boman J. et al., Neurol. (54); 2000 - 5) Numazaki K., Neurol. (57); 2001 6) Layh-Schmitt G. et al., Ann. Neurol. (47); 2000 RAPPORTO TRA INFEZIONE DA CHLAMYDIA PNEUMONIAE E MALATTIE CARDIOVASCOLARI I. Nuzzo, M.R. Catania, R. Paolillo, D. Cozzolino1, F. Rossano, C.Romano Carratelli. Dipartimento di Medicina Sperimentale - Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica –. 1IV Divisione Medicina interna. Facoltà di Medicina e Chirurgia – Seconda Università degli studi di Napoli. Chlamydia pneumoniae è un batterio Gram-negativo, parassita intracellulare obbligato con un particolare ciclo di sviluppo, comune patogeno dell’apparato respiratorio sia nei giovani che negli adulti. Recentemente, l’infezione cronica da C. pneumoniae è stata associata, anche se con risultati controversi, alle malattie cardiovascolari. Numerosi studi sono stati eseguiti mediante diretta evidenziazione del microorganismo all’interno della placca ateromasica e valutazioni sieroepidemiologiche. Lo scopo della nostra ricerca è di investigare l’associazione tra infezione da C. pneumoniae e malattie cardiovascolari (MCV). Venivano raccolti, a questo scopo, 60 campioni di siero da pazienti con MCV provenienti da 45 soggetti di sesso maschile di età media di 65 anni e 15 di sesso femminile di età media di 60 anni. Il gruppo controllo comprendeva 20 soggetti sani di età media di 55 anni, in cui i due sessi erano rappresentati in egual percentuale. I sieri, sia dei pazienti sia dei controlli, venivano analizzati per la ricerca delle IgG e IgA anti-C. pneumoniae mediante dosaggio immunoenzimatico (ELISA) e micro-immunofluorescenza (MIF) come metodo confirmatorio. In aggiunta venivano dosati i valori del fibrinogeno e della proteina C-reattiva (PCR) come marker infiammatori. I risultati da noi ottenuti in ELISA hanno dimostrato che il 72% dei pazienti con infarto acuto del miocardio (IMA) presentavano IgG anti-C. pneumoniae rispetto al 55 % del gruppo controllo e che nel 65% dei pazienti si evidenziavano anche IgA antiC. pneumoniae, rispetto al 10% del gruppo controllo. I risultati determinati con il metodo MIF mostravano valori del 68% e 55% rispettivamente per le IgG e IgA in rapporto al 35% e al 5% del gruppo controllo. I pazienti con IMA, inoltre, presentavano un titolo medio di IgG e IgA specifiche maggiore o uguale a 128 (≥128) correlato a parametri infiammatori elevati; nel gruppo controllo si evidenziavano titoli IgG e IgA anti-C.pneumoniae maggiori o uguali a 32 (≥ 32) e parametri infiammatori negativi. In conclusione, i primi dati della nostra ricerca mostrano probabile associazione tra infezione da C. pneumoniae e malattie cardiovascolari. Studi successivi sono necessari per meglio confermare e studiare il grado di coinvolgimento della Chlamydia nelle suddette malattie. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 5 ESTERNALIZZAZIONE DELLA FOSFATIDILSERINA DI MEMBRANA IN SPERMATOZOI INFETTATI CON C. TRACHOMATIS. A. Stivala, M. Salmeri, A. Garozzo, G. Tempera - Dipartimento di Scienze Microbiologiche - Università di Catania; A. Satta, E. Vicari, A.E. Calogero - Dipartimento di Scienze Biomediche. Sez. di Endocrinologia, Andrologia e Medicina Interna - Università di Catania. La Chlamydia trachomatis è un parassita endocellulare obbligato Gram-, caratterizzato da un ciclo di sviluppo che alterna una forma infettante extracellulare (corpi elementari: EB), e una forma intracellulare (corpi reticolari: RB). Paradossalmente, è stato visto che l’infezione da Chlamydia nei macrofagi e nelle cellule epiteliali può sia stimolare l’apoptosi che inibirla. Le caratteristiche morfologiche tipiche della apoptosi - condensazione della cromatina, frammentazione del DNA, nonché formazione di particolari estroflessioni della cellula (blebbing) - sono proprie della fase di esecuzione della morte cellulare programmata. Durante questa fase la membrana plasmatica subisce delle modificazioni tra le quali l’alterazione della sua permeabilità e l’esposizione all’esterno della fosfatidilserina. Questo meccanismo precoce che precede la degradazione della cromatina, è stato sfruttato per il riconoscimento delle cellule apoptotiche. L’utilizzo della annessina V, proteina affine alla fosfatidilserina, coniugata con un fluorcromo, in presenza di ioni Ca, e con ioduro di propidio, permette di individuare mediante citometria a flusso le cellule apoptotiche precoci (annessina V), o tardive (annessina V, e permeabili allo ioduro di propidio). Nel presente lavoro abbiamo studiato l’infezione di EB di Chlamydia trachomatis serovar E su spermatozoi normali, valutandone il grado di apoptosi. Dai dati ottenuti si evince una maggiore esternalizzazione della fosfatidilserina nella membrana citoplasmatica dello spermatozoo. L’incremento è maggiore dopo 6 h di incubazione rispetto alle 24 h in relazione alla risposta di base. Non si è riscontrato un evidente danno a livello nucleare. Tali dati se confermati ci suggeriscono che la Chlamydia altera la permeabilità della membrana degli spermatozoi, e ciò potrebbe spiegare il meccanismo dell’effetto negativo sulla capacità fecondante di pazienti con infezione da Chlamydia. EFFETTO DELLA SOMMINISTRAZIONE DI GLUCURONOXILOMANNANO (GXM) SULL’ARTRITE SETTICA INDOTTA DA STREPTOCOCCO DI GRUPPO B. Puliti M., Tissi L., Monari C., Bistoni F., Vecchiarelli A. Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università degli Studi di Perugia, Perugia. Il principale fattore di virulenza di Cryptococcus neoformans è rappresentato dalla capsula polisaccaridica, composta essenzialmente da glucuronoxilomannano (GXM). E’ stato dimostrato che il GXM esplica un importante ruolo immunoinibitorio favorendo il rilascio di fattori anti-infiammatori e limitando la funzione delle cellule dell’immunità innata. Il GXM viene internalizzato da neutrofili e macrofagi; questi ultimi sono in grado di mantenerlo al loro interno per più di un mese. Nella patogenesi dell’artrite settica da streptococco di gruppo B (GBS) giocano un ruolo fondamentale le citochine proinfiammatorie, come interleuchina–1 b (IL-1 b) ed IL-6. Un ruolo protettivo è esercitato dall’IL-10. Poiché il GXM è in grado di esercitare un ruolo antiinfiammatorio, abbiamo valutato un suo possibile utilizzo nella cura dell’artrite settica sperimentale da GBS. Il GXM (0.1 mg/topo) è stato somministrato a topi CD1 un giorno prima ed un giorno dopo l’infezione con 107 GBS/topo. Sono stati valutati i seguenti parametri: mortalità, comparsa e gravità delle lesioni articolari, crescita dei microrganismi nel sangue e nelle articolazioni e produzione di citochine a livello sistemico e locale. Mentre non erano state osservate differenze significative in termini di sopravvivenza degli animali, la somministrazione di GXM influenzava sia l’incidenza che la gravità dell’artrite. Il fenomeno diventava più evidente dopo 7-10 giorni dall’infezione. Una maggiore crescita dei microrganismi negli animali trattati rispetto ai controlli era osservata nei primi giorni dopo l’infezione. Una elevata e rapida produzione di IL-10 veniva riscontrata a livello sistemico negli animali trattati con GXM. Le concentrazioni di IL-10 si mantenevano elevate per circa 7 giorni. Al contrario, negli stessi topi si aveva una diminuzione della produzione di IL-1 b ed IL-6 soprattutto a livello articolare. I risultati ottenuti dimostrano che il GXM è in grado di migliorare la gravità delle lesioni articolari indotte da GBS. Poiché il numero dei microrganismi presenti a livello articolare è paragonabile nei topi trattati e non, il miglioramento sembra dovuto alla diminuita produzione locale di citochine proinfiammatorie. Si può quindi ipotizzare un possibile impiego del GXM nella terapia delle patologie articolari. 6 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EFFETTO DELL’INIBIZIONE DELLA PRODUZIONE DI OSSIDO NITRICO IN UN MODELLO DI INFEZIONE DA STREPTOCOCCO DI GRUPPO B. Tissi L. 1, von Hunolstein C.2, Orefici G. 2, Bistoni F.1, Puliti M.1 1Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università degli Studi di Perugia, Perugia; 2 Laboratorio di Batteriologia e Micologia Medica, Istituto Superiore di Sanità, Roma. La risposta dell’ospite alle infezioni dà luogo ad una cascata di eventi che coinvolge il reclutamento dei leucociti ed il rilascio di vari mediatori dell’infiammazione. Tra questi, l’ossido nitrico (NO) non solo esercita un’azione microbicida, ma funge anche da segnale biologico e molecola effettrice nell’infiammazione e nell’immunità. Comunque, un’eccessiva produzione di NO può essere tossica e contribuire al danno tissutale. Nella presente ricerca abbiamo valutato il ruolo di NO in un modello sperimentale di infezione da streptococco di gruppo B (GBS), caratterizzato dalla comparsa precoce di artrite settica. Per inibire la produzione di NO, i topi sono stati inoculati giornalmente per via intraperitoneale con aminoguanidina (AG) (25 mg/kg) per la durata del periodo di osservazione, cominciando 2 ore prima dell’infezione con 8 x 106 GBS/topo. Sono stati valutati i seguenti parametri: mortalità, comparsa e gravità delle lesioni articolari, crescita dei microrganismi nel sangue e nelle articolazioni e produzione di citochine a livello sistemico e locale. Negli animali trattati con AG si osservava un significativo aumento della mortalità rispetto agli animali di controllo. Inoltre, il trattamento causava la comparsa di lesioni articolari più severe nella prima settimana dall’infezione, anche se non c’erano differenze significative nell’incidenza dell’artrite tra i due gruppi sperimentali. Una maggiore crescita dei microrganismi negli animali trattati rispetto ai controlli era osservata nei primi giorni dopo l’infezione. Negli stessi topi si aveva un forte aumento della produzione di interleuchina-1 b (IL-1 b) ed IL-6 e delle chemochine MIP-1 a e MIP-2, soprattutto a livello articolare. I risultati ottenuti dimostrano che NO gioca un ruolo importante nella protezione verso l’infezione da GBS in termini di mortalità, e l’inibizione della sua produzione porta ad una comparsa precoce di lesioni articolari più gravi. Il peggioramento dell’artrite sembra attribuibile sia ad un maggior numero di microrganismi presenti a livello articolare sia ad un’aumentata produzione locale di citochine proinfiammatorie. EFFETTO DELLA LATTOFERRINA SULLE INTERAZIONI TRA YERSINIA SPP E CELLULE OSPITI: INIBIZIONE DELL’APOPTOSI A. Tinari1, A.M. Di Biase1, A. Pietrantoni1, P. Valenti2, L. Seganti3, F. Superti1 1 Laboratorio di Ultrastrutture, Istituto Superiore di Sanità 2 Dipartmento di Medicina Sperimentale, II Università di Napoli 3 Dipartimento di Sanità Pubblica, Università “La Sapienza” L’interazione tra batteri patogeni e cellule ospiti dà luogo ad un’ampia gamma di risposte quali l’internalizzazione o la fagocitosi dei batteri, il rilascio di citochine, la secrezione di defensine o la produzione di radicali liberi. Yersinia spp. sono batteri gram-negativi patogeni sia per l’uomo che per gli animali. Le specie patogene contengono geni plasmidici e cromosomici codificanti numerosi fattori di virulenza, tra i quali i più importanti sono proteine della membrana esterna e, in particolare, il prodotto del gene inv. L’invasina di Yersinia spp. media sia l’adesione che l’internalizzazione dei batteri nelle cellule esposte alla superficie del lume intestinale e la successiva colonizzazione dei linfonodi regionali. In questa ricerca abbiamo analizzato gli effetti della lattoferrina bovina sulle interazioni tra Yersinia enterocolitica e Yersinia pseudotuberculosis e cellule epiteliali. In particolare è stata studiata l’attività dell lattoferrina sull’adesione, l’invasione e l’induzione di apoptosi da parte di Yersinia spp. in cellule HEp-2. I risultati dei nostri studi hanno dimostrato che il trattamento delle cellule con la lattoferrina, pur non essendo in grado di proteggerle dall’adesione e dall’invasione batterica, previene l’apoptosi batterio-indotta in modo dose-dipendente. In particolare, alla concentrazione di 2 mg/ml di lattoferrina, è stata osservata una inibizione della morte cellulare di circa il 90%. Studi precedenti hanno dimostrato che Yersinia spp è in grado di indurre apoptosi sia nei macrofagi, attraverso la secrezione di YopP, sia nei linfociti T, attraverso l’espressione di inv. Poiché è probabile che nel nostro sistema sperimentale Yersinia spp. induca un’apoptosi invasina-mediata, per verificare questa ipotesi abbiamo condotto gli stessi esperimenti utilizzando il ceppo di Escherichia coli HB101 (pRI203) contenente il gene inv di Yersinia pseudotuberculosis clonato. Anche in questo caso abbiamo osservato una protezione dose-dipendente dell’apoptosi da parte della lattoferrina. Poiché l’induzione dell’apoptosi nelle cellule epiteliali è un mezzo con cui Yersinia spp può disseminarsi all’interno dell’organismo dell’ospite, i nostri risultati, dimostrando che la lattoferrina è in grado di prevenire l’apoptosi batterio-indotta, suggeriscono una potenziale nuova applicazione di questa glicoproteina. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 7 RUOLO DI BARTONELLA QUINTANA SUI MECCANISMI APOPTOTICO-PROLIFERATIVI INDOTTI SU CELLULE HUVEC-C. Angelo G. Lamberti *, Angela Quirino, Giorgio S. Barreca, , Domenico Focà, , Giovanni Matera, Maria Carla Liberto, Alfredo Focà. Dipartimento di Scienze Mediche, Cattedra di Microbiologia, Università “Magna Graecia”, Catanzaro.Via T. Campanella, 88100, Catanzaro, Italia. Bartonella quintana è un batterio epicellulare che, sia in vivo che in vitro, si localizza all’interno di cellule endoteliali dove si replica inducendo effetti proliferativi che provocano, in vivo, tipiche alterazioni a carico del territorio vascolare. E’ stato studiato l’effetto di Bartonella quintana sui meccanismi apoptotici e sulla proliferazione in cellule endoteliali in linea continua (HUVEC-C) valutando in particolare le diverse vie di traduzione del segnale cellulare. Le curve di cinetica di apoptosi di cellule HUVEC-C infettate con Bartonella quintana, a vari tempi, mostravano un andamento polifasico ed inaspettato, con un picco di apoptosi precoce alle 6 h che non si completava alle 24 h. L’analisi molecolare delle vie di trasduzione del segnale, da estratti di cellule HUVEC-C infettate con Bartonella quintana a vari tempi, osservate mediante metodiche di Western blot e valutazione semiquantitativa dell’espressione genica tramite RT-PCR, rivelava una particolare regolazione genica e proteica dei mediatori a vario titolo implicati. In particolare Bartonella quintana appariva capace di modulare l’attività delle proteine chinasi ERK, JNK e p38 in tempi relativamente brevi, della proteina cdc2 in tempi più lunghi, l’espressione dei trascritti per le proteine bcl2, Apaf e Caspasi 8, nonché la sintesi della proteina bcl2. L’analisi dei risultati ottenuti induce a considerare Bartonella quintana capace di regolare il destino cellulare, favorendo o inibendo l’apoptosi. La capacità di Bartonella quintana di inibire l’apoptosi inducendo segnali intra ed extracellulari che provocano proliferazione, potrebbe essere responsabile di alcuni aspetti patogenetici della sua espressione in vivo, quali la persistenza e l’attività angiogenica. La comprensione dei meccanismi cellulari indotti da questo peculiare microrganismo potrebbe condurre allo sviluppo di una terapia in grado di prevenire le manifestazioni cliniche associate all’infezione. ADESIVITÀ DI VIBRIO CHOLERAE: RUOLO DI MOLECOLE OPSONIZZANTI Massimiliano Zampini1, Michele Betti2, Laura Canesi2, Renato Tarsi1, Gabriella Gallo3 e Carla Pruzzo1. Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marche1; Istituto di Fisiologia, Università di Urbino2; DIBISAA, Università di Genova3. Vibrio cholerae è un microrganismo marino capace di interagire con diversi substrati nell’ambiente acquatico e nell’uomo. Nel mare, in particolare, può interagire con superfici abiotiche (e. g. chitina detritale) e con vari organismi quali copepodi e molluschi bivalvi. Il destino dei batteri all’interno dei bivalvi dipende da numerosi fattori tra cui la resistenza all’attività fagocitica degli emociti, cellule che svolgono funzioni simili a quelle dei monociti e dei macrofagi dei vertebrati e costituiscono una prima linea di difesa contro agenti patogeni. I microorganismi che sopravvivono all’attività microbicida degli emociti sono in grado di stabilire interazioni stabili con i tessuti dei bivalvi e possono raggiungere le concentrazioni sufficienti a causare malattia quando i molluschi vengono ingeriti crudi o poco cotti. Poiché la conoscenza dei parametri che influenzano le interazioni tra batteri ed emociti può costituire la base per il miglioramento dei processi di depurazione di questi molluschi eduli abbiamo recentemente intrapreso uno studio sulle modalità con cui i batteri interagiscono con tali cellule. I nostri studi hanno dimostrato che la fagocitosi e il killing di V. cholerae El Tor da parte degli emociti di Mytilus galloprovincialis sono dipendenti da interazioni del tipo lectina-carborboidrato. In particolare, è stata studiata la sensibilità alla fagocitosi di ceppi selvaggi e mutanti privi di adesine note, quali proteine della membrana esterna, “toxin-coregulated pilus” e “mannose sensitive hemagglutinin” (MSHA). Da questi studi è emerso che i batteri provvisti di MSHA sono in grado di aderire ai fagociti più efficientemente dei batteri che ne sono privi. Dall’emolinfa è stata purificata un’opsonina di 31 kDa in grado di interagire con MSHA e di favorire l’associazione dei microorganismi con i fagociti e il loro successivo killing. Considerando che i batteri patogeni accumulati dai bivalvi vengono opsonizzti dalle molecole presenti nell’emolinfa, abbiamo ipotizzato che, quando i microorganismi ingeriti con i frutti di mare raggiungono l’intestino, le stesse opsonine possano favorire anche l’adesione alle cellule epiteliali intestinali. Lo studio delle interazioni di V. cholerae O1 con cellule intestinali in coltura ha dimostrato che, in presenza di emolinfa o dopo pretrattamento dei batteri con emolinfa, l’adesione dei vibrioni alle cellule aumenta significativamente rispetto ai controlli. Questi risultati, oltre a dimostrare il ruolo di molecole ponte di origine animale nell’adesione di V. cholerae alle cellule intestinali umane, sottolineano la complessità delle interazioni tra batteri e ospite, soprattutto quando i microrganismi infettanti sono di origine ambientale e/o alimentare. 8 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA STRAND DISPLACEMENT AMPLIFICATION: DIAGNOSI DI CHLAMYDIA TRACHOMATIS AND NEISSERIA GONORRHOEAE IN CAMPIONI UROGENITALI ED OCULARI Carla Fontana1,2*, Marco Favaro1, Oriana Cicchetti2, Silvia Minelli2, Enrico Salvatore Pistoia1, Cartesio Favalli1,2. 1 Dip Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche Università Tor Vergata - Via Montepellier 1, 00133 Rome - Italy 2 Microbiologia Clinica, Policlinico Tor Vergata - Viale Oxford 81, 00133 Rome - Italy La Chlamydia trachomatis(CT) e la Neisseriae gonorrhoea(NG)e sono due fra i più frequenti patogeni trasmessi per via sessuale e sono spesso causa di infezioni asintomatiche. La diagnosi tradizionale di laboratorio viene effettuata mediante coltura su cellule in monostrato per la CT e in terreni di coltura specifici per NG. Tuttavia, dato la scarsa sensibilità di tali metodiche si è passati più di recente all’utilizzo di tecniche di amplificazione molecolare. Quest’ultime sono da preferire in virtù della loro maggiore sensibilità, per la rapidità d’esecuzione, ma per contro soffrono di alcuni problemi di specificità. Scopo del presente lavoro è stato quello di valutare l’efficienza di una tecnica che si sta diffondendo nei laboratori di microbiologia ossia “strand displacement amplification assay BDProbeTec-SDA (Becton Dickinson)”. La valutazione è stata condotta su un totale di 1005 campioni clinici nei quali è stata effettuata in contemporanea la ricerca di CT e NG. I campioni clinici utilizzati prevedevano oltre a quelli consigliati e validati dalla BD anche altri campioni, altrettanto frequenti, quali: tamponi vaginali ed oculari e liquido seminale. I risultati di CT/NG-BDProbeTec-SDA sono stati comparati con quelli ottenuti mediante utilizzo di tecniche di riferimento che includevano tecniche di PCR destinate all’amplificazione di porzioni di 16rRNA, alla ricerca del plasmide criptico, alla MOMP per la CT; mentre per la diagnosi di NG si sono usate come riferimento una tecnica di amplificazione e sequenziamento e il metodo colturale tradizionale. I risultati ottenuti a fronte di un’eccellente versatilità del sistema che si è dimostrato facilmente applicabile a qualunque campione biologico, hanno mostrato una scarsa sensibilità dell’SDA (76%) ed una discreta specificità nella diagnosi di CT (spiegabile con la scelta limitante del target di amplificazione ossia il pCT, notoriamente assente in alcune Chlamydie comunque coinvolte in infezioni). Eccellente la performance di SDA nella diagnosi di NG (specificità e sensibilità del 100%). L’analisi mediante sequenziamento dei campioni positivi per CT forniti dal sistema ha, inoltre, denotato la possibilità di falsi positivi (3 su 1005 campioni esaminati). Tuttavia, dato il buon livello di automazione, che supporta il sistema, la sua estrema versatilità riteniamo tale procedura, se migliorata nella diagnosi di CT (modificando la scelta del target da pCT ad amplificazione della MOMP) promettente nelle sue applicazioni nella routine di laboratorio. METODI MOLECOLARI RAPIDI PER LA DIAGNOSI DI LABORATORIO DI INFEZIONE DA SPIROCHETE: BORRELIE, LEPTOSPIRE E TREPONEMI Calderaro A., Incaprera M., Piccolo G., Bommezzadri S., Zuelli C., Guégan R., Arcangeletti M.C., Medici M.C., Dettori G., Chezzi C. Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Sezione di Microbiologia, Università di Parma, Viale Gramsci 14, 43100 Parma Al fine di migliorare sensibilità, specificità ed efficacia dei saggi per la diagnosi di laboratorio di infezione da spirochete patogene sono state introdotte nel nostro laboratorio reazioni di PCR per la rivelazione del DNA di Borrelia burgdorferi sensu lato, agente eziologico della Malattia di Lyme, Leptospira spp., comprendente agenti eziologici di leptospirosi e Treponema pallidum, agente eziologico di sifilide, rispettivamente. Sono state ampiamente valutate sensibilità, specificità ed efficacia dei tre seguenti saggi: il primo (nested-PCR in singolo tubo) allestito in casa per amplificare un frammento genico compreso tra il gene della subunità 5S e quello della subunità 23S dell’RNA ribosomiale (rrf-rrl) di Borrelia burgdorferi sensu lato; il secondo (nested-PCR “16SrRNA”) allestito in casa per amplificare un frammento genico di Leptospira spp.; il terzo (nested-PCR “Treponema pallidum <bmp>”, Amplimedical S.p.A.) saggio commerciale per amplificare un frammento del gene “bmp” che codifica per una proteina di membrana di 39-kDa di Treponema pallidum. I saggi di PCR si sono tutti rivelati altamente sensibili, specifici ed efficaci nel rivelare e identificare l’acido nucleico delle spirochete patogene. Il saggio nested-PCR in un singolo tubo, grazie alla sua sensibilità (2-10 cell./ml), potrà essere applicato sia nella diagnosi di laboratorio rapida di malattia di Lyme a partire da materiali biologici vari al fianco delle procedure tradizionali come l’esame colturale, lungo e indaginoso, e l’esame sierologico, poco sensibile e poco specifico, sia per escludere l’infezione in casi di sospetta borreliosi. Il saggio “16SrRNA” è risultato essere, grazie alla sua sensibilità (1-2 cellule/ml), un efficace strumento diagnostico da applicare alla diagnosi di laboratorio di leptospirosi, specialmente durante i primi giorni dell’infezione quando altri saggi diagnostici risultano poco sensibili e poco specifici. Infine, il saggio “Treponema pallidum <bmp>”, data l’impossibilità di coltivare il batterio in vitro, può assumere un ruolo fondamentale nella diagnosi dei casi di lue nei quali le indagini sierologiche sono di dubbia interpretazione o non applicabili, sia per escludere l’infezione in casi sospetti. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 9 VITEC2 (BIOMÉRIEUX) E PHOENIX (BECTON DICKINSON): PERFORMANCES NELLA IDENTIFICAZIONE MICROBICA. Carla Fontana1,2*, Marco Pelliccioni2, Marco Favaro1, Gian Piero Testore3, Domenico Ombres2, Maria Cristina Bossa2, Cartesio Favalli1,2. 1 Dip Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche Università Tor Vergata - Via Montepellier 1, 00133 Rome - Italy 2 Microbiologia Clinica, Policlinico Tor Vergata - Roma - Cattedra di Malattie Infettive, Università Tor Vergata Roma Dall’era dell’identificazione microbica mediante test biochimici in provetta sono stati compiuti notevoli passi avanti. Sempre di più la tecnologia è venuta in contro alle esigenze del laboratorio prima mediante la miniaturizzazione dei saggi biochimici, poi attraverso la comparsa di sistemi semiautomatizzati. Oggi nella realtà del laboratorio di microbiologia hanno fatto il loro ingresso i sistemi avanzati d’identificazione microbica e dello studio dell’antibiotico sensibilità, dotati di software di riconoscimento del fenotipo microbico e di validazione dell’antibiogramma. Sono sistemi rapidi, attendibili dotati di grande ripetibilità. Basano l’identificazione sullo studio del rilascio di traccianti fluorescenti o sullo sviluppo di colore in prove biochimiche miniaturizzate e lo studio dell’antibiotico sensibilità sulla base di un’attenta ed elaborata valutazione della crescita del germe mediante l’esecuzione di MIC miniaturizzate. Il sistema Vitec2, il primo in ordine di tempo ad essere introdotto, è stato più di recente affiancato dal Phoenix. Diversi lavori di valutazione dei due sistemi sono stati pubblicati, ma nessuno basato esclusivamente sulla valutazione delle loro performances nell’identificazione microbica, che così fortemente incide poi sulla valutazione dell’antibiotico sensibilità. Spesso, infatti, a fronte di un’antibiogramma non espertizzato e non valutabile dal sistema c’è un’incorretta tipizzazione dell’isolato. Scopo di questo lavoro è stato proprio quello di confrontare i due sistemi nella loro abilità identificativa, comparando i risultati forniti da entrambi con l’identificazione genetica dei microrganismi ottenuta mediante il sistema di amplificazione-identificazione Microbial (PE). A tal fine sono stati presi in considerazione 83 ceppi fra Gram-positivi(25) e Gram-negativi (58 fra ossidasi+/-), dei quali alcuni comunemente incontrati in routine, altri di difficile identificazione in quanto d’insolito isolamento o provenienti da campioni biologici “difficili”. I risultati hanno denotano una notevole sovrapponibilità dei due sistemi. In totale per i Gram- i sistemi si sono dimostrati in completa sovrapposizione nel 74% dei casi (43 ceppi su 58 esaminati) mentre, hanno fornito dati non concordanti e/o non sovrapponibili a quelli del sistema di riferimento nel 15% dei casi per Phoenix (9/58) e nel 14% dei casi (8/58) per VT2. Per i Gram+ esaminati i sistemi hanno mostrato dati concordanti nell’80% dei casi, e una mancata/errata identificazione per entrambi pari al 12%. In conclusione si può affermare che i sistemi hanno mostrato limiti e pregi nelle loro performance tali da poter essere definiti sostanzialmente sovrapponibili. MESSA A PUNTO DI UNA METODICA PER LA VALUTAZIONE IN VITRO DELL’EFFETTO BATTERICIDA DELL’ENDOX. R. Armanino, S Roveta, E.A. Debbia. Sezione di Microbiologia – DISCAT, Università degli Studi di Genova. Largo Rosanna Benzi 10 – 16132 Genova. L’Endox è un apparecchio utilizzato in endodonzia per curare infezioni batteriche a livello del sistema canalare radicolare. Visti gli ottimi risultati clinici osservati, si è voluto verificare se i benefici riscontrati siano dovuti effettivamente alla morte della popolazione microbica presente. Il principio di funzionamento dell’apparecchio si basa sia sulla formazione di un campo elettromagnetico che su un passaggio di corrente che porta all’applicazione di un certo numero di scariche a vari livelli del dente (apice e radice). Questo studio si propone di dimostrare che il fenomeno provoca lisi cellulare per elettroporazione con conseguente morte osmotica della cellula stessa. Sono state riprodotte in vitro condizioni critiche di carica batterica superiori a quelle che si riscontrano nel reale utilizzo clinico dell’apparecchio. I parametri di cui principalmente si è tenuto conto sono stati: ceppo batterico, volume del campione, elettrolita da utilizzare come medium, numero di scariche e punto di applicazione di esse. È stata riscontrata in ben determinate condizioni sperimentali una diminuzione della popolazione batterica superiore al 99.99% utilizzando concentrazioni iniziali di E. faecalis di 108 CFU/mL in NaCl 0.1 M, prelevando 20 µL di tale sospensione e sottoponendola a 3 scariche (2 alla radice e 1 all’apice). In particolare si è raggiunta la totale sterilizzazione con una sospensione iniziale di E. faecalis di 107 CFU/mL. Questo risultato preliminare indica che l’Endox causa la morte delle cellule batteriche sottoposte al trattamento, il che conferma il bersaglio primario dello strumento. Sono in corso ulteriori esperimenti per verificare gli effetti su campioni più vasti di specie batteriche e si stanno sperimentando possibili nuove applicazioni dello strumento. Ringraziamenti: gli autori sono indebitati con Clara Cassanelli per l’aiuto dato durante alcune fasi di questo studio. 10 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA IL RUOLO DEL LABORATORIO NELLA DIAGNOSI DELLA LEGIONELLOSI D Tatò, G Spilotros, N Paglionico, C Napoli, D Como*, MT Montagna DIMIMP – Sezione di Igiene, Università degli Studi di Bari. *Direzione Sanitaria, Azienda Ospedaliera Policlinico, Bari. Introduzione. La continua segnalazione di casi di legionellosi e di clusters epidemici ha indotto la Sanità Pubblica ad inserire tale malattia tra quelle soggette a notifica obbligatoria (D.M. 15/12/1990). Grazie anche alla maggiore sensibilità del clinico e alla disponibilità di metodi diagnostici più adeguati, il numero dei casi registrati in Italia è in continuo aumento (107 nel 1998, 624 nel 2002). In Puglia, l’Osservatorio Epidemiologico Regionale ha promosso una sorveglianza clinico/ambientale della legionellosi. In tale ambito, nel 2001 l’Azienda Policlinico di Bari ha avviato uno studio epidemiologico su tutti i pazienti ricoverati per polmonite. Materiali. Nell’arco di due anni sono stati esaminati 559 soggetti mediante la ricerca di Ag urinario (EIA), titolazione di Ac, verifica della sieroconversione (IFA) e indagine colturale su escreato, BAL o BA. Risultati. Sono stati diagnosticati 26 casi di legionellosi (4.6%), tutti documentati da sieroconversione. In 9 pazienti è stata evidenziata anche la presenza di Ag urinario; le indagini colturali su espettorato sono risultate positive per L. pneumophila sierogruppo 1 in due pazienti e per L. pneumophila sg 5 in un paziente. Conclusioni. Se si considera che il nostro studio ha permesso di notificare 26 casi di legionellosi tra i ricoverati nell’Azienda Policlinico di Bari e che in Puglia ne sono stati notificati 7 nel triennio 1996/99, appare evidente che la legionellosi è una malattia sottostimata. Sebbene la diagnosi di questa patologia sia soggetta ad alcuni limiti (emissione intermittente di Ag urinario, comparsa tardiva di Ac, difficoltà nel reperire espettorati o BA), non deve essere trascurata la scarsa attenzione che il clinico pone nella diagnosi etiologica delle polmoniti, inoltre non tutti i laboratori sono adeguatamente attrezzati. Questa situazione si riflette sia sui pazienti, non sempre sottoposti a terapie mirate, sia nei confronti di una giusta prevenzione che non può prescindere da un dato epidemiologico corretto. Alla luce di questi dati, in caso di sospetta legionellosi, è necessario che la diagnosi clinica sia sempre supportata da quella microbiologica, che non può basarsi esclusivamente sulla rilevazione dell’Ag urinario o su un solo test sierologico, ma è indispensabile verificare la sieroconversione. Inoltre, le indagini colturali dovrebbero essere effettuate sia sul paziente (BAL, BA, espettorato) che sull’ambiente (rete idrica) per poter risalire alla fonte dell’infezione. ESECUZIONE RAPIDA DI ANTIBIOGRAMMI SU CAMPIONI DI URINE MEDIANTE SISTEMA URO-QUICK S. Roveta , A. Marchese, E.A. Debbia Sezione di Microbiologia, DISCAT, Università degli Studi di Genova. Largo Rosanna Benzi 10, 16132 Genova. Nel trimestre giugno-agosto 2003 sono stati analizzati 1229 campioni di urina nosocomiali e 204 comunitari risultati positivi e mono-microbici dopo screening con colorazione Gram. L’antibiogramma è stato eseguito direttamente sulle urine mediante il sistema Uro-Quick e confrontato con la metodica tradizionale del Kirby-Bauer. Il metodo Uro-Quick prevede l’aggiunta di ciascun antibiotico da saggiare a 2 ml di terreno eugonico contenuto in apposite cuvette: la concentrazione di farmaco da utilizzare è stata calcolata sulla base dei breakpoints suggeriti dall’NCCLS in modo che il valore fosse compreso nell’intervallo di sensibilità intermedia. Il campione da analizzare (0.5 ml) è dispensato nelle cuvette Uro-Quick che vengono poi inserite nello strumento. La lettura finale viene effettuata dopo 3 (gram-negativi) o 5 (gram-positivi) ore. Il ceppo è considerato sensibile in assenza di sviluppo, resistente se la curva di crescita è analoga a quella del controllo senza antibiotico. Verso i gram-negativi sono stati saggiati ciprofloxacina (CIP), nitrofurantoina (FT), fosfomicina (FOS), amoxicillina-clavulanato (AMC), ceftazidime (CAZ), imipenem (IPM), amikacina (AN) e cotrimossazolo (SXT) riscontrando sempre concordanze superiori al 90%. Le due metodiche hanno dato risultati sovrapponibili nel 100% dei casi per IPM e CIP nei campioni comunitari, questi farmaci sono quelli con cui sono state evidenziate le migliori concordanze anche sui campioni nosocomiali (97.9% e 96.1% rispettivamente), ottimi risultati sono stati riscontrati anche per: AN (96.3%) e FT (95.6%). Per quanto riguarda i grampositivi gli antibiotici saggiati sono stati: CIP, FT, AMC, AMP, FOS, SXT, GM, OXA con un accordo sempre superiore all’80%; in particolare nei ceppi comunitari le metodiche hanno dato risultati sovrapponibili nel 100% dei casi per FT e FOS e nei ceppi nosocomiali una corrispondenza maggiore del 90% per FT (94.6%), AMP(96.5%), FOS (97.1%) e SXT (93%). Globalmente è stata riscontrata una concordanza mediamente superiore al 90% tra antibiogramma eseguito con il sistema KirbyBauer e sistema Uro-Quick sui più importanti patogeni urinari nosocomiali e comunitari (E. coli, Klebsiella spp., Proteus spp. ed Enterococco).Questi dati suggeriscono una possibilità di utilizzo di questo strumento non solo nell’ambito delle infezioni urinarie, ma anche in casi più gravi in cui diventa ancor più importante valutare rapidamente la sensibilità agli antibiotici. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 11 EFFETTO ANTIBATTERICO DI ESTRATTI DI PIANTE NEI CONFRONTI DI HELICOBACTER PYLORI 1A. Nostro, 2L. Cellini, 2S. Di Bartolomeo, 2E. Di Campli, 2R. Grande, 1F. Procopio, 1V. Alonzo 1Dipartimento Farmaco-Biologico – Università di Messina – Messina 2Dipartimento di Scienze Biomediche – Università “G. D’Annunzio” – Chieti Scopo: Gli schemi terapeutici tradizionali adottati per il trattamento delle infezioni da Helicobacter pylori negli ultimi anni hanno mostrato una riduzione dell’efficacia a causa di un’aumentata presenza di ceppi resistenti. Può, pertanto, risultare interessante indagare il possibile effetto antibatterico di estratti di piante come agenti attivi coadiuvanti gli antibiotici nel trattamento dell’infezione da H.pylori. A tale scopo, è stato studiato l’effetto di estratti acquosi ed alcolici, ottenuti da 17 piante officinali, nei confronti di un ceppo di riferimento di H.pylori e 11 ceppi di isolamento clinico. Metodi: Porzioni di piante essiccate sono state estratte mediante acqua distillata ed etanolo per 24h. L’effetto antibatterico di tali sostanze è stato valutato preliminarmente nei confronti di H.pylori ATCC 43629 usando dischetti standard adsorbiti con 40 ml di soluzione. La Concentrazione Minima Inibente (CMI) su terreno solido (range 10-0.15 mg ml-1) è stata poi valutata sugli estratti verso cui si è ottenuto un alone di inibizione > 9 mm. Sui ceppi utilizzati nello studio è stato misurato lo spettro di sensibilità a Claritromocina, Amoxicillina, Rifabutina e Tinidazolo. Risultati e Conclusioni: Una significativa percentuale degli estratti saggiati, 21 di 34, hanno mostrato attività inibitoria nei confronti di H.pylori; gli estratti alcolici sono risultati più efficaci rispetto a quelli acquosi inibendo il 50% dei microorganismi saggiati ad una concentrazione mai maggiore di 1.25 mg ml-1. I microorganismi esaminati hanno mostrato differenti patterns di sensibilità agli antibiotici con casi di multiresistenza. E’ interessante osservare che i ceppi multiresistenti, quando saggiati con estratti di piante, hanno espresso un profilo di sensibilità sovrapponibile a quello dei ceppi sensibili. In particolare concentrazioni di 0.3 mg ml-1 di estratto alcolico di Cuminum cyminum e Propolis sono state efficaci nell’inibizione di tali ceppi. Gli estratti alcolici di Cynara scolymus e Zingiber officinalis, hanno mostrato un effetto anti-H.pylori ad una concentrazione di 0.30.6 mg ml-1 verso tutti i microorganismi esaminati. Questi risultati incoraggiano la valutazione di nuovi schemi terapeutici che includono la fitoterapia come approccio alternativo a supporto del trattamento dell’infezione da H.pylori. Studi clinici dovrebbero essere effettuati per confermare i risultati ottenuti in vitro. INCIDENZA DI HELICOBACTER PYLORI CENTRALE IN PAZIENTI CON CORIONRETINITE SIEROSA Cotticeli L.*, Iovene M.R.***, Montella F.***, Piccolo G.**, Borrelli M.*, Menzione M.*, Romano M. ** Dipartimento di Oftalmologia* Dipartimento di Internistica Clinica e Sperimentale Servizio di Gastroenterologia** Dipartimento Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia, Servizio di Batteriologia Clinica (Dir. Prof. M.A. Tufano) *** Seconda Università degli Studi di Napoli – via S. Pansini 5 INTRODUZIONE H. pylori rappresenta la principale causa di gastrite cronica ed ulcera peptica ed è implicato nella patogenesi del cancro gastrico. Di recente, numerose patologie extraintestinali ad eziologia sconosciuta sono risultate essere significativamente associate ad infezione da H. pylori. La corionretinite sierosa centrale (CSC) è una patologia oculare ad eziologia ignota ed è stato ipotizzato un possibile ruolo patogenetico dell’infezione da H. pylori. Tuttavia è tuttora controverso se l’infezione da l’H. pylori contribuisce allo sviluppo della CSC . SCOPO L’obiettivo del nostro studio è stato quello di valutare la prevalenza di infezione da H. pylori in 20 pazienti con CSC che non presentavano altre patologie concomitanti. METODI 20 pazienti, di cui 19M e 1F (34-62 anni) a cui da circa 4 settimane non erano stati somministrati chemioantibiotici e antisecretivi, sono stati sottoposti a prelievo venoso per la ricerca di anticorpi anti-Hp della classe IgG metodo ELISA ( BIORAD ) e raccolta delle feci per la ricerca dell’antigene Hp ( Metodo EIA - Meridian Diagnostics). L’infezione da H. pylori era definita dalla positività ad entrambi i tests. Come gruppo di controllo abbiamo adoperato 340 soggetti che avevano eseguito una endoscopia digestiva alta per problemi dispeptici i quali non presentavano patologie oculari. In tali pazienti la infezione da H. pylori era definita dalla positività alla istologia ed al test rapido all’ureasi. RISULTATI La prevalenza di infezione da H. pylori nei pazienti con CSC è stata di 16/20 (80%), mentre nella popolazione di controllo la prevalenza di infezione da H. pylori è stata di 130/340 (38%). CONCLUSIONI I pazienti con CSC hanno una prevalenza di infezione da H. pylori approssimativamente doppia rispetto ad una popolazione di controllo costituita da soggetti dispeptici. Questo dato suggerisce che H. pylori possa giocare un ruolo importante nella patogenesi della CSC. 12 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CARATTERIZZAZIONE DI ENTEROCOCCHI VANCOMICINA-RESISTENTI DI ISOLAMENTO CLINICO Maria Grazia Pisciotta(1), Giorgio Liguori(2), Linda Sommese(3), Emiliana Finamore(1), Irma Pagliara(1), Nicola Damiano(1), Daniela Anastasi(1), Emilia Galdiero(4) (1)Dipartimento di Patologia Generale, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Seconda Università di Napoli; (2)Dipartimento di Medicina Pubblica, Clinica e Preventiva, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Seconda Università di Napoli; (3)Dipartimento di Medicina Sperimentale, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Seconda Università di Napoli; (4)Dipartimento di Fisiologia Generale, Sezione di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Negli ultimi dieci anni gli enterococchi vancomicina-resistenti (VRE) sono risultati patogeni emergenti soprattutto in ambito nosocomiale, causando numerose controversie epidemiologiche. Tale resistenza si manifesta in modo differente in Europa e in Nord America. In questo lavoro è stata studiata l’epidemiologia di ceppi di VRE isolati da diverso materiale clinico proveniente dal policlinico della Seconda Università di Napoli. Su 280 stipiti di Enterococcus spp., isolati nel periodo settembre 1999-luglio 2001, sono stati identificati 32 ceppi di VRE i quali hanno mostrato resistenza anche ad altri antibiotici. Infatti la percentuale di resistenza risulta: ampicillina (90.6%), gentamicina (78.1%), norfloxacina (96.8%), clindamicina (100%), eritromocina (100%) e tetracicline (6.2%). I 32 VRE isolati sono stati fenotipicamente identificati come E.faecium (n=26), E.gallinarum (n=3), E.faecalis (n=2), e E.hirae (n=1). L’identificazione fenotipica è stata confermata dall’analisi dei profili proteici dei 32 ceppi ottenuta mediante SDS-PAGE. I risultati della multiplex-PCR hanno indicato che tutti gli stipiti VRE sono portatori del gene VanA, anche i tre ceppi di E.gallinarum che portano sia il gene VanA che il VanC. Questo suggerisce che il gene VanA è il più diffuso nella nostra area geografica. La tipizzazione molecolare dei 32 ceppi è stata effettuata mediante “randomly amplified polymorphic DNA polymerase chain reaction” (RAPD-PCR), la quale ha dimostrato l’esistenza di due maggiori pattern con un indice di similarità del 70%. I nostri risultati dimostrano che, nella nostra area geografica, esiste un aumento della diffusione di VRE dovuta sia alla circolazione di stipiti geneticamente correlati sia ad infezioni sporadiche dovute alla colonizzazione di ceppi VRE non correlati. E’,quindi, ipotizzabile la necessità di adottare nelle strutture ospedaliere più efficaci programmi di sorveglianza e migliori misure di prevenzione per evitare la diffusione di VRE soprattutto nei pazienti a rischio. MODELLI DI ALTERAZIONI DEL CICLO CELLULARE E DEI MARCATORI MOLECOLARI IN NEUTROFILI E CELLULE ENDOTELIALI STIMOLATI DA HELICOBACTER PYLORI E DEL SUO LPS. Giovanni Matera*, Maria Carla Liberto, Angela Quirino , Angelo G. Lamberti, Domenico Focà, Giorgio S. Barreca, Salvatore Nisticò1, Alfredo Focà. Dipartimento di Scienze Mediche, Cattedra di Microbiologia, Università “Magna Graecia”, Catanzaro.Via T. Campanella, 88100, Catanzaro, Italia. 1U.O. Microbiologia ASL N° 6 Lamezia Terme L’alterazione del turnover cellulare e dei meccanismi apoptotico-proliferativi a livello dell’epitelio gastrico possono contribuire a spiegare il ruolo dell’infezione da Helicobacter pylori (H. pylori) nella patogenesi del CA gastrico. Scopo del presente lavoro è stato quello di analizzare le possibili alterazioni, causate da H. pylori e dal suo LPS, dei meccanismi apoptotico-proliferativi di cellule quali polimorfonucleati (PMN) e cellule endoteliali (HUVEC-C) che, insieme a quelle costitutive la parete gastrica (per esempio le cellule epiteliali), condizionano la fisiologia dell’organo e dell’apparato gastroduodenale. Dalla curva di cinetica apoptotica, valutata microscopicamente, di PMN trattati con 10 ng/ml di LPS di H. pylori si è osservato che, mentre il processo apoptotico dei PMN controllo si completa alla 19a h, quello dei PMN LPS-indotti subisce ritardo nel suo completamento (picco di cellule in apoptosi alla 24 h) allungando la vita media di tali cellule. Dall’osservazione della curva di cinetica apoptotica di PMN infettati con H. pylori si è messo in evidenza che il meccanismo apoptotico completo avviene, invece, alla 12 a h vs la 19a h rispetto ai controlli inducendo un meccanismo di morte cellulare più precocemente. I processi apoptotici indotti da H. pylori e dal suo LPS su cellule HUVEC-C seguono una cinetica diversa, dai risultati ottenuti si evince che a diversi gradi ed a diversi tempi il batterio e il suo LPS inducono un effetto proapoptotico. I marcatori molecolari, valutati tramite RT-PCR con primers multipli e tramite Western Blot, in cellule HUVEC-C a 2, 4, 6 e 24 h dall’infezione con H. pylori hanno indicato che, nonostante le cellule siano avviate verso il fenomeno apoptotico esso avviene attraverso l’attivazione delle proteine JNK chinasi coinvolte nei meccanismi di trasduzione del segnale dopo 2h e 3h dall’infezione senza però attivazione trascrizionale dei geni codificanti le proteine Caspasi 3, 8 e 9. Il danno endoteliale, messo in evidenza in questo studio “in vitro”, potrebbe avere “in vivo” come conseguenza un effetto di amplificazione e di persistenza del danno in termini di reclutamento dei neutrofili, di mediatori dell’infiammazione e del normale turnover cellulare. Tale effetto, addizionale al danno diretto sull’epitelio gastrico, potrebbe essere importante soprattutto nella cascata di eventi associata alla carcinogenesi gastrica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 13 CARATTERIZZAZIONE DI LATTOBACILLI PER L’ATTIVITÀ ANTAGONISTA NEI CONFRONTI DI H. PYLORI T. Melillo, L. Serrao, P. Goldoni, P. Mastromarino Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica - Sezione di Microbiologia, Università di Roma «La Sapienza» Sono state studiate le proprietà correlate con la colonizzazione delle mucose e l’antagonismo microbico (adesione alle cellule epiteliali umane, produzione di acido lattico e di perossido di idrogeno, attività antimicrobica nei confronti di H. pylori) di cinque ceppi di Lactobacillus (L. brevis, L. salivarius ssp salicinius, L. salivarius ssp salivarius, L. casei, L. acidophilus). L’aderenza alle cellule epiteliali variava ampiamente tra i ceppi di Lactobacillus, con L. brevis e L. casei altamente adesivi. L. salivarius ssp salivarius e L. casei mostravano attività antimicrobica nei confronti di H. pylori. L’attività antimicrobica dei sopranatanti colturali dei lattobacilli non era direttamente correlata con la produzione di H2O2 o acido lattico. Il sopranatante colturale di L. casei diminuiva drasticamente la vitalità di H. pylori in vitro (7 log dopo 5 ore di incubazione) indipendentemente dai livelli di pH, H2O2 e acido lattico. Il livello più alto di produzione dell’inibitore si verificava durante la fase stazionaria di crescita. La sostanza bioattiva veniva anche estratta dalle cellule di L. casei mediante lisi meccanica, dimostrando che l’effetto battericida è correlato ad un composto rilasciato dopo la lisi cellulare. E’ stato dimostrato che il suo meccanismo d’azione è battericida. E’ stata anche osservata una diminuzione nel tempo nella densità della sospensione di H. pylori, indice di lisi cellulare. Il composto inibente era labile al calore (100°C, 30 min) e veniva parzialmente distrutto dal trattamento con proteasi (pronasi, tripsina e proteinasi K) e fosfolipasi C, ma era resistente alla fosfolipasi A2. L. casei appare quindi un ottimo candidato nel trattamento probiotico delle infezioni da H. pylori, in ragione dell’elevata capacità adesiva alle cellule epiteliali umane e della marcata attività antimicrobica. VALUTAZIONE MICROBIOLOGICA E BIOMOLECOLARE “IN VIVO” DEI TESSUTI MUCOSI PERIIMPLANTARI E PERIODONTALI IN PRESENZA ED IN ASSENZA DI PLACCA “DE NOVO” Angeretti A., Roana J., Banche G., Cuffini A.M., Martinasso G.*, Canuto R.A.*, Pejrone G.**, Schierano G.**, Preti G**. Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia *Dipartimento di Medicina e Oncologia Sperimentale **Dipartimento di Scienze Biomediche ed Oncologia Umana Università degli Studi di Torino Uno dei fattori maggiormente coinvolti nel determinare la parodontite è la placca batterica e il meccanismo eziopatogenico con cui questa patologia si manifesta è conosciuto. Invece ancora non nota è l’importanza che la placca batterica ha sull’eziopatogenesi delle patologie che coinvolgono i tessuti peri-implantari. L’esperienza clinica, basata solo sull’esame obiettivo, dimostra che in presenza di placca batterica il tessuto mucoso peri-implantare si comporta in modo diverso dal tessuto periodontale. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare, in seguito all’accumulo e maturazione della placca batterica, l’eventuale espressione di alcune citochine nei tessuti mucosi periodontali e peri-implantari. La ricerca è stata effettuata su 15 pazienti non fumatori privi di patologie sistemiche e con impianto fisso. I pazienti sono stati sottoposti a 2 sedute di igiene professionale (giorno 0 e 7) e ad 1di valutazione degli indici di salute periodontale e peri-implantare seguita da prelievi di placca, di saliva e di tessuto mucoso, sia intorno agli impianti che ai denti naturali. Successivamente i pazienti sono stati invitati a non effettuare manovre di igiene orale per 3 settimane, alla fine delle quali sono stati ripetuti i prelievi sopra descritti. I campioni sono stati sottoposti ad analisi microbiologica (placca batterica) e biomolecolare (tessuto mucoso e saliva). Sui campioni di placca batterica è stato effettuato un esame colturale per il conteggio della carica batterica totale, aerobia ed anaerobia, seguito dall’isolamento e relativa identificazione biochimica dei batteri presenti. Sui campioni di mucosa e sulla saliva sono stati valutati mediante RT-PCR e Western-Blot i fattori biologici che intervengono nei meccanismi di risposta antinfiammatoria, pro-infiammatoria, e rimodellamento osseo (IL-1ß, IL-8, IL-10, TNF-?, TGF- ß, PPAR). Alla scadenza delle tre settimane, in assenza di manovre di igiene orale, non si è osservata né variazione della composizione della flora microbica con comparsa di batteri parodontopatogeni, né un’amplificazione nell’espressione dei fattori biomolecolari coinvolti nella risposta infiammatoria e nel rimodellamento dell’osso, né differenze significative tra i campioni peri-implantari e periodontali. 14 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA PARODONTOPATIA DELL’ADULTO: 3 TERAPIE A CONFRONTO. I. Milazzo1, G. Blandino1, A. LoBue1, R. Musumeci1, B. Rossetti2, G. Nicoletti1 1 Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche- Sez. Microbiologia, Università degli Studi di Catania 2 Dipartimento Specialità Mediche Chirurgiche - Sez. Parodontologia, Università degli Studi di Catania. Il successo del trattamento delle parodontopatie, che presentano una chiara eziologia batterica, si basa sulla riduzione significativa della carica batterica della tasca gengivale e soprattutto nella eliminazione dei batteri con un ben documentato ruolo patogeno (soprattutto P. gingivalis, F. nucleatum ed E. corrodens). Dal momento che nessun trattamento singolo può essere considerato efficace nella cura di queste patologie abbiamo valutato l’efficacia di differenti approcci terapeutici: trattamento di scaling e root planning (SRP) (1), trattamento meccanico SRP più terapia antibiotica sistemica con fluritromicina (2) e trattamento di “one-stage full-mouth” con clorexidina (3). Sono stati elaborati i dati microbiologici relativi a quattro tasche parodontali di pazienti affetti da parodontopatia dell’adulto, dieci per ogni tipo di trattamento, selezionati sulla base degli stessi parametri clinici. Esaminando i dati più significativi si osserva che i trattamenti di SRP e di SRP più fluritromicina riescono ad eliminare dai siti esaminati P. melaninogenica, B. forsythus, A. actinomycetemcomitans, P. micros. Il trattamento di disinfezione “one-stage fullmouth” con clorexidina, oltre ad eliminare B. forsythus ed A. actinomycetemcomitans, eradica anche P. endontalis ed E. corrodens. Il trattamento meccanico supportato da fluritromicina è il più efficace nel ridurre significativamente la prevalenza di P. gingivalis (p<0,05) ed F. nucleatum (p<0,01). Dopo i tre trattamenti si osserva un incremento nella percentuale di isolamento di peptostreptococchi, i quali vanno probabilmente a colonizzare siti in cui i patogeni sono stati eradicati. Concludendo, il trattamento SRP riesce a ridurre nelle tasche gengivali la carica batterica di patogeni parodontopatici. L’uso topico di clorexidina nel trattamento “one-stage full-mouth” permette l’inibizione di alcuni patogeni parodontali quali E. corrodens ma sembra poco efficace su P. gingivalis. Nel campo dei trattamenti aggiuntivi, l’impiego di antibiotici per via sistemica (con una buona diffusione nei tessuti parodontale, come la fluritromicina), più efficace nell’eradicare P. gingivalis ed F. nucleatum, può facilitare la guarigione di parodontiti refrattarie o ricorrenti. MECCANISMI DI ANTIBIOTICO-RESISTENZA IN PREVOTELLA E PORPHYROMONAS: INDIVIDUAZIONE DEL GENE CFXA2 ED ASSOCIAZIONE CON ELEMENTI CONIUGATIVI CROMOSOMICI. A. Arzese,1 D. M. Citron,2 V. Merriam,2 G. A. Botta,1 E. J.C. Goldstein.2 1Cattedra di Microbiologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Udine; 2 R.M. Alden Research Lab, Santa MonicaUCLA Medical Center, CA, USA. Nell’ambito dello studio dei fattori di antibiotico-resistenza dei batteri anaerobi di interesse medico, il nostro gruppo di ricerca ha in precedenza dimostrato che in numerose specie patogene Gram negative sono largamente diffusi elementi coniugativi cromosomici in grado di effettuare trasferimenti intra- ed inter- specie di genoma, conferendo resistenza multipla a più classi di antibiotici. Con tale meccanismo infatti vengono acquisiti e diffusi fattori di resistenza alle tetracicline (tet(Q), tet(M)), ai macrolidi e clindamicina (erm(F), erm(G)): ciò determina l’espressione in numerose specie anaerobie di fenotipi multi-resistenti. In particolare, in Prevotella e Porphyromonas gli studi a livello molecolare suggerivano l’esistenza di almeno una nuova classe di elementi coniugativi, associabile all’espressione di resistenza in vitro anche alle amino-penicilline per produzione di b-lattamasi.1 Sono stati pertanto indagati 90 ceppi clinici di Prevotella e Porphyromonas, selezionati dalla collezione italiana e da quella statunitense in base al profilo di antibiotico-resistenza, determinato mediante saggio Etest verso le seguenti molecole: tetraciclina, eritromicina, penicillina G, amoxicillina, amoxicillina/clavulanato, cefoxitin e imipenem. L’impiego in PCR di primers specifici per il gene cfxA2, per il quale studi molecolari in uno stipite orale di P. intermedia suggerivano la potenziale associazione con elementi coniugativi, permetteva di individuarne un’ ampia prevalenza nei ceppi Penr-Amxr (87.5%): le specie con l’incidenza più elevata erano rappresentate da P. intermedia e da P. melaninogenica. Inoltre, il saggio molecolare effettuato sugli stessi ceppi per la ricerca di altri fattori di resistenza associati ai transposoni coniugativi, rivelava che la presenza di cfxA2 era correlata in modo significativo con la co-presenza di tet(Q) ed erm(F). Le informazioni sinora acquisite appaiono avvalorare quindi l’ipotesi dell’esistenza in specie anaerobie Gram negative di sistemi cromosomici complessi, che con un singolo atto coniugativo possono conferire resistenza microbica a tre diverse classi di farmaci di comune impiego terapeutico. 1. Arzese, A., et al (2000) JAC, 45: 577-582. Studio condotto con finanziamento C.N.R. n. A.I.98.00076.04. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 15 FILARIASI IN UN BAMBINO IMMIGRATO NATIVO DEL BANGLADESH Masucci L.*, Valentini P.°, Plaisant P.*, Ranno O.°, Montoro R°, Porta R.*, Nacci A. *, Fadda G.* *Istituto di Microbiologia °Istituto di Clinica Pediatrica Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma Le filariasi sono infestazioni sostenute da diversi nematodi appartenenti alla famiglia Filarioidea, notevolmente diffuse in zone tropicali. Le forme cliniche hanno localizzazione linfatica (Wuchereria bancrofti e Brugia malayi), cutanea (Loa loa) e oculocutanea (Onchocerca volvulus). La filariasi linfatica, fino a qualche tempo fa era conosciuta come grave patologia dell’adulto e riscontrata solo occasionalmente nei bambini, tuttavia di recente è stato messo in evidenza la sua acquisizione primariamente nell’età infantile. La patologia quindi può essere a carico sia dell’adulto che del bambino anche se in quest’ultimo risulta documentata in maniera incompleta. Il caso clinico da noi riportato riguarda un bambino di 10 anni nato in Bangladesh, che vive in Italia. In data 03/08/2000 è stato ricoverato presso il raparto dell’isolamento Pediatrico del Policlinico “A. Gemelli” con diagnosi di “Insufficienza epatica progressiva”. In seguito ad un episodio di chiluria, oltre all’esame microscopico delle urine, sono stati effettuati ripetuti prelievi notturni di sangue con i quali sono stati allestiti strisci di sangue, fino ad ottenere una sicura identificazione di Wuchereria bancrofti. Istituita una terapia con Ivermectina, ad un successivo controllo dopo tre mesi, i campioni di sangue analizzati microscopicamente per la ricerca del parassita hanno dato esito positivo. La terapia è stata quindi ripetuta ed a successivi controlli le indagini effettuate hanno evidenziato la risoluzione dell’infezione. PREVALENZA E SENSIBILITA’ IN VITRO AGLI ANTIFUNGINI DI ISOLATI DA MICOSI VULVO-VAGINALI RICORRENTI E/O COMPLICATE. 1Migliavacca R., 1Asticcioli S., 1Nucleo E., 2Spalla M., 1Giorgetti E., 2Sacco L., 1Romero E., 1Pagani L. 1Dipartimento S.M.E.C. Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Pavia, via Brambilla 74, 27100 Pavia. 2Servizio Analisi Microbiologiche I.R.C.C.S. S.Matteo, Viale Golgi 19, 27100 Pavia. Le candidosi sono infezioni opportunistiche che coinvolgono specie appartenenti al genere Candida. Molti studi hanno evidenziato che Candida albicans rappresenta la specie più frequentemente responsabile di vulvovaginiti; il fenomeno può essere correlato alla sua appartenenza alla normale flora vaginale, sebbene negli ultimi anni si sia assistito all’emergere di altre specie del genere Candida caratterizzate da una maggiore resistenza agli antimicotici e spesso coinvolte nell’eziologia delle infezioni recidivanti. Un totale di 170 ceppi, isolati da 157 pazienti afferenti all’ambulatorio di Malattie Sessualmente Trasmesse dell’ I.R.C.C.S. S. Matteo di Pavia nel periodo 2000-2003, sono stati identificati e classificati nelle seguenti specie appartenenti al genere Candida: Candida albicans (51.5%), C. glabrata (29%), C. parapsilosis (3%), C. krusei (3.5%), C. tropicalis (3.5%), C. guilliermondii (1.8%), C. lusitaniae (1.2%), C. lambica (0.6%), C. kefyr (0.6%). Lieviti appartenenti a generi differenti, quali Saccharomyces, Trichosporon, Yarrowia, sono stati isolati in bassa percentuale (5.3%). Sono state rilevate 13 recidive. Data l’elevata incidenza del fenomeno (8.3% dei casi), lo studio è stato focalizzato sul ruolo delle diverse specie coinvolte e delle relative farmaco sensibilità in vitro. C.glabrata è stata isolata nel 53.8%, C.albicans nel 30.7%, C.krusei nel 15.5% dei casi. I lieviti coinvolti nelle singole recidive sono risultati caratterizzati da un’uniformità sia del profilo biochimico-metabolico sia del profilo di farmaco resistenza ai sei composti antifungini testati (anfotericina-B, itraconazolo, fluconazolo, chetoconazolo, 5-fluorocitosina, voriconazolo), correlabile con la persistenza di un clone e con la scarsa efficacia delle terapie adottate sulla colonizzazione iniziale. In un caso di candidosi recidivante da C. albicans si è evidenziata la costante resistenza ai composti azolici, in particolare al fluconazolo (MIC › 64 ?g/ml). I metodi di tipizzazione molecolare utilizzati (rep-PCR, DNA fingerprint e PFGE) possono permettere di supportare tali conclusioni e di valutare, in ambito epidemiologico, l’eventuale diffusione nella nostra area geografica di particolari cloni di difficile eradicazione. 16 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA POTENZIAMENTO DI ATTIVITA’ DI ANTIBIOTICI POLIENICI VERSO CANDIDA, CRYPTOCOCCUS E ASPERGILLUS Tecca M., D’Auria F.D., *Sorino S., Bruzzese T., Strippoli V. Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università “La Sapienza”,*Istituto Superiore di Sanità, Roma, Italia La ricerca di nuove molecole antifungine per la terapia delle micosi sistemiche è di notevole attualità anche per il numero crescente di recidive e fenomeni di resistenza. Tra i motivi degli insuccessi terapeutici registrati c’è il carattere opportunistico dei funghi che colpiscono generalmente pazienti neutropenici e/o affetti da patologie debilitanti con scarsa o nulla risposta immunitaria. La somministrazione di alcuni antifungini può essere ai limiti dell’azione terapeutica per l’elevata tossicità, inoltre poichè alcuni farmaci antifungini svolgono un’attività essenzialmente citostatica è frequente la comparsa di recidive con risultati terapeutici incompleti. Tra i farmaci antifungini, i polieni utilizzati nella terapia delle infezioni sistemiche mantengono l’attività anche in condizioni di alterata risposta immunitaria dell’ospite e talvolta risultano insostituibili in situazioni patologiche in cui altri antifungini (meno tossici e di più facile somministrazione) sono inefficaci. In questo lavoro abbiamo valutato le possibili condizioni sperimentali che determinano un potenziamento dell’attività antifungina dei polieni utilizzando altre molecole antifungine. Amph B, e SPK-S-843 un nuovo derivato della mepartricina sono stati saggiati “in vitro” in associazione a voriconazolo, itraconazolo, FK463 (nuova molecola polipeptidica), terbinafina e lisozima allo scopo di valutare un incremento nell’attività citocida. SPK e Amph B saggiati singolarmente verso alcune specie patogene del genere Candida (12 albicans, 12 tropicalis, 12 parapsilosis, 12 glabrata) e verso 5 Cryptococcus neoformans, hanno mostrato attività citocida con SPK significativamente più attiva di Amph B. Le associazioni poliene-lisozima e poliene-FK presentano un’aumentata attività citocida ripetto ai polieni da soli verso Candida e C. neoformans, mentre l’associazione poliene-terbinafina presenta un’evidente azione citocida verso Aspergillus fumigatus; la terbinafina da sola presenta una azione essenzialmente citostatica. L’associazione poliene-azolici non ha dato risultati significativi. Le associazioni poliene-lisozima e poliene-FK determinano una maggiore alterazione cellulare rispetto ai singoli antifungini come evidenziato in prove di uptake con propidium iodide. Pertanto è ipotizzabile che l’attacco alla cellula fungina su diversi bersagli (membrana citoplasmatica, parete cellulare) da parte dell’associazione sia tale da provocare danni cellulari irreversibili. L’ASSOCIAZIONE TETRACICLINA-SODIODIOCTILSOLFOSUCCINATO AUMENTA L’ATTIVITÀ ANTIMICROBICA VERSO MICROORGANISMI RESISTENTI. G. Simonetti, N. Simonetti, A. Villa. Istituto di Microbiologia Facoltà di Farmacia Universita’ La Sapienza Roma We present evidence that sodium dioctylsulfosuccinate (SDSS), at non inhibitory concentrations is able to increase the antimicrobial activity of tetracycline in non susceptible bacterial and fungal strains. In culture inhibition tests, pretreatment with sodium dioctylsulfosuccinate caused a 52-fold decrease in the geometric mean MIC to tetracycline in 10 Candida albicans strains (p<0,001), a 165-fold decrease in the geometric mean MIC to tetracycline in 10 E.coli strains (p<0,001) and a significant decrease in the mean MIC of 3 strains of Candida krusei and Candida glabrata. In microbiological tests, tetracycline in association with sodium dioctylsulfosuccinate killed 104 tetracycline-resistant Candida albicans ufc in 15 mins. and 104 resistant E.coli ufc in 3 mins. (p<0,001). Furthermore, in N-acetyl-D-glucosamine test to calculate the number of hyphal cells, a combination of low concentration of tetracycline (50 mg/L) and low concentration of sodium dioctylsulfosuccinate (25 mg/L) caused a 50-fold increase in the inhibition of hyphal cells in C.albicans (p<0,001): treated C.albicans cells with association tetracycline and sodium dioctylsulfosuccinate annulled cell surface hydrophobicity (p<0,001). This increase in antimicrobial activity may be attributed to impairment and alteration of the membrane barrier within the microorganisms and a depletion of the thiol groups (p<0,001)critical to their efficiency. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 17 COLONIZZAZIONE INTESTINALE DA C. ALBICANS IN UTIN °Oliveri S., °Greco A. M., °Trovato L., *Finocchiaro R., *Romeo M. ° Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche U.O. Laboratorio Analisi, Azienda Policlinico, Università di Catania * U. O. Terapia Intensiva Neonatale, Azienda Policlinico, Università di Catania I neonati immaturi sono una parte non trascurabile dei soggetti a rischio per gravi infezioni fungine, causate prevalentemente da lieviti del genere Candida. La colonizzazione dell’intestino rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di candidiasi cutanee e sistemiche. Il tasso di colonizzazione, riportato in diversi studi, varia dal 20 al 60 % e fattori significativamente correlati sono il peso del neonato e la somministrazione di antibiotici antibatterici. Tuttavia la colonizzazione diventa un fattore di rischio quando la quantità di lieviti presenti nell’intestino supera una soglia che, per la specie umana, è stata stimata in 8 x 10 6 u.f.c./grammo di feci. Un’azione di contrasto alla colonizzazione fungina è esercitata dallo sviluppo di una normale biocenosi batterica intestinale. Il neonato pretermine presenta sostanziali differenze qualitative e quantitative nello sviluppo di tale biocenosi batterica e pertanto è maggiormente esposto ad una colonizzazione fungina. La possibilità di indurre una modificazione della biocenosi intestinale, per ottimizzarne la composizione e di consolidarne l’equilibrio, rappresenta il razionale nell’adozione di integratori alimentari e/o farmacologici definiti prebiotici (carboidrati non digeribili) probiotici (microrganismi vivi) e simbiotici (associazione di entrambi). Scopo della ricerca è stato quello di valutare la variazione del tasso di colonizzazione da Candida in neonati prematuri ricoverati nell’unità di terapia intensiva, in presenza o assenza della somministrazione di un integratore simbiotico. Dei 41 neonati fino ad oggi osservati, a 26 è stato somministrato un integratore simbiotico, costituito da galattoligosaccaride e fruttosio, Lactobacillus acidophilus, L. bulgaricus, Streptococcus thermophilus, Bifidobacterium bifidum, arricchito con vitamine idrosolubili. Per ogni neonato, dal momento del ricovero, con un intervallo di tre giorni, sono state raccolte le feci nelle quali è stata effettuata la ricerca di Candida. Tutti i neonati sono stati sottoposti, per periodi differenti in relazione alle condizioni cliniche, a terapia antibiotica antibatterica (ampicillina+sulbactam 50 mg/kg/die o amikacina 7 mg/kg/die o imipenem 20 mg/kg/die). Il tasso di colonizzazione per i neonati trattati con integratore è del 23 %, mentre per quelli non trattati del 46,7 %. Differenze di osservano anche nella quantità di ufc/g di feci. RILEVAMENTO AMBIENTALE DI MICETI IN UNA DIVISIONE CLINICIZZATA DI EMATOLOGIA °Bevilacqua M., °Greco A.M., °Trovato L., *Consoli U., *Milone G., °Oliveri S. °Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche – Università di Catania U.O. Laboratorio Analisi, Azienda Policlinico, Università di Catania *Divisione Clinicizzata di Ematologia – Azienda Vitt. Emanuele, Ferrarotto e S. Bambino L’aspergillosi polmonare invasiva costituisce l’infezione più grave e letale per i pazienti neutropenici. Essa è causata dall’inalazione di conidi di Aspergillus presenti nell’aria. L’uso dei filtri HEPA per il controllo dell’aria ha drasticamente ridotto l’incidenza di tale infezione. La ricerca di miceti mediante il campionamento attivo e passivo dell’aria ci permette di determinare il rischio di contaminazione delle superfici critiche. È possibile tuttavia eseguire dei rilevamenti diretti sulle superfici sia mediante piastra da contatto sia mediante l’uso di delimitatori di superfici e tamponi sterili. Un ruolo particolare ha infine il campionamento di tipo puntiforme, che sebbene qualitativo, consente di evidenziare i punti critici di colonizzazione fungina all’interno degli ambienti chiusi. In questo lavoro viene presentata l’esperienza effettuata nella Divisione Clinicizzata di Ematologia di Catania, per il controllo ambientale delle stanze di terapia intensiva, semi-intensiva e convenzionali al fine di valutare l’apporto dato dai diversi metodi di campionamento utilizzati alla conoscenza dello stato dei luoghi. Nei locali di terapia intensiva a fronte dell’assenza di isolamenti dall’aria e dalle superfici, mediante il campionamento puntiforme effettuato sulla griglia di aerazione posta nel tetto dell’anticamera e sullo specchio del bagno sono state evidenziate più specie di ifomiceti tra i quali Aspergillus. Nessun isolamento dalla griglia di aerazione della camera. Dall’acqua è stato isolato Penicillium. Anche nei locali di terapia semi-intensiva il campionamento puntiforme ha permesso di evidenziare la presenza di più specie di ifomiceti: A. niger, A. ochraceus, Aspergillus sp. Alternaria sp., Cladosporium sp., Penicillium sp.. Nell’aria invece solo Penicillium sp.. In conclusione i metodi per la valutazione della contaminazione microbica che ne consentono una stima quantitativa sono di valido aiuto per il monitoraggio e la valutazione dell’efficacia degli interventi di sanificazione effettuati. Tuttavia l’indagine in ambienti particolari che ospitano pazienti ad alto rischio di infezioni fungine deve avvalersi anche del campionamento di punti critici mediante tampone, i cui risultati, anche se qualitativi, sono indispensabili per avere un quadro complessivo della contaminazione ambientale. 18 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EFFETTO DI ESSENZE NATURALI SU ALCUNI FATTORI DI VIRULENZA DI C.ALBICANS D’Auria F.D. 1, Tecca M. 2, Callari A. 2, Renzini G. 2, Strippoli V.2 1Istituto di Microbiologia,2Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, “La Sapienza”, Roma, Italia Le proprietà di alcune essenze naturali come antisettici, disinfettanti ed antimicrobici sono note da anni nella medicina tradizionale. Solo recentemente la sperimentazione scientifica si è orientata a studi volti a stabilire la possibile applicazione terapeutica delle essenze naturali come antimicrobici verso microrganismi patogeni e/o ambientali, come dimostrato dai numerosi articoli scientifici. In questo lavoro abbiamo studiato l’azione di alcune essenze naturali estratte da Melaleuca alternifolia, Lavandula angustifolia, Hypericum perforatum, Rosa canina, Potentilla tormentilla e della propoli antibiotico naturale elaborato dalle api, su alcuni fattori di virulenza di isolati clinici di C.albicans, inoltre abbiamo valutato se tale azione fosse citostatica e/o citocida. I risultati ottenuti hanno dimostrato che tra le sostanze saggiate quelle che svolgono azione citocida, presumibilmente per alterazione della struttura della membrana citoplasmatica con conseguente aumento di permeabilità (come dimostrato con propidium iodide uptake), sono M. alternifolia (0.5%), L. angustifolia (0.5%) e propoli (1.25%). Queste tre sostanze a concentrazioni inferiori a quelle necessarie per inibire la fase lievito sono inoltre in grado di inibire la formazione del tubo germinativo di C.albicans (propoli 0.03%, L.angustifolia 0.08%, M.alternifolia 0.16%), potenziale fattore di virulenza che si suppone faciliti la penetrazione nei tessuti dell’ospite. Abbiamo inoltre approfondito i nostri studi per valutare se le essenze in esame potessero inibire alcuni enzimi connessi alla virulenza come la fosfolipasi e la proteinasi. I risultati ottenuti dimostrano che propoli e L.angustifolia sono attive verso la fosfolipasi inibendone l’attività a concentrazioni dell’1%. Hypericum, Potentilla e Rosa canina non hanno mostrato alcuna attività verso gli enzimi saggiati. Prove preliminari condotte verso la proteinasi hanno dimostrato che L.angustifolia, M.alternifolia e propoli presentano una moderata attività inibente tale enzima. Sono in corso studi per valutare l’attività delle essenze su biofilm di Candida in vitro. In conclusione i risultati ottenuti dimostrano la notevole efficacia di alcune essenze naturali come potenziali agenti antifungini in vitro, sono tuttavia necessari ed auspicabili studi più approfonditi allo scopo di evidenziare i principi attivi e la possibile utilizzazione terapeutica in vivo. ATTIVITÀ ANTIMICROBICA DI DERIVATI TRIAZOLICI A. Garozzo, A. Stivala, R. Timpanaro, G. Tempera, A. Castro Dipartimento di Scienze Microbiologiche - Università di Catania; M.A. Siracusa, F. Guerrera - Dipartimento di Scienze Farmaceutiche - Università di Catania. In questo studio abbiamo saggiato l’attività antivirale e antimicotica di composti caratterizzati dalla presenza nella loro struttura di un nucleo triazolico, noti dal punto di vista farmacologico per la capacità di agire selettivamente nei confronti dei recettori 5-HT1A per la serotonina. L’attività antivirale in vitro delle sostanze è stata saggiata nei confronti di RNA virus (Polio 1, Echo 9, Coxsackie B1, Morbillo e Parotite) e DNA virus (HSV 1 e Adeno 5). L’attività antimicotica è stata saggiata nei confronti di due ceppi di Candida: Candida albicans e Candida Krusei. Dal nostro studio è emerso che derivati dell’ [1, 2, 4] triazolo (composti A) e degli isomeri 2,4-diidro-3H [1, 2, 4] triazolo-3tione (composti B) hanno attività antivirale e antimicotica. In particolare, nove composti, caratterizzati dalla presenza di diversi sostituenti nei due gruppi fenilici terminali e/o da una differente lunghezza della catena alchilica, (A-1, A-2, A-3, A-8, A-9, A-10, A-11, B-3 e B-4), hanno mostrato attività antivirale in vitro nei confronti di virus ad RNA, e due composti (A-1 e A-3) hanno mostrato attività anti-Candida. Le sostanze A-3 e B-3 hanno mostrato un’attività antivirale ad ampio spettro in quanto erano attive nei confronti dei virus del morbillo, della parotite e del virus Coxsackie; inoltre, il composto A-3 era attivo anche nei confronti di Candida albicans e Candida Krusei. In particolare, il composto B-3 ha esibito l’indice di selettività più elevato nei confronti del virus del morbillo (I.S. > 33). L’attività antimorbillo è stata dimostrata anche per i composti A-8, A-9, A-10, A-11 e B-4. Le sostanze A-2, A-10 e A-11 hanno mostrato attività nei confronti del poliovirus con una ID50 rispettivamente di 1,25; 30 e 15mM. La sostanza A-1 ha esibito attività antivirale contro il virus Coxsackie B1 , con una ID50 di 60 mM. Tutte le sostanze si sono rivelate inattive nei confronti Herpesvirus, Adenovirus e Echo 9. La buona capacità di inibire la replicazione del virus morbillo e l’elevato indice terapeutico mostrato dalla sostanza B-3 ci hanno indotto a studiare meglio il meccanismo di inibizione su questo virus. Gli esperimenti di prove a tempo sembrano indicare che l’azione della B-3 si manifesta durante le prime fasi del ciclo replicativo virale immediatamente successive all’adsorbimento. Inoltre, l’attività inibente della sostanza era indipendente dal precontatto con il virus, confermando l’interferenza con il ciclo replicativo del morbillo all’interno del sistema cellulare. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 19 DIAGNOSI DI INFEZIONE DA VIRUS INFLUENZALI A E B SU 239 CAMPIONI CLINICI MEDIANTE ISOLAMENTO IN COLTURE CELLULARI, IMMUNOFLUORESCENZA E RT-PCR Rossi A., Graffeo R., Ranno S., Spagnolo N. e Fadda G. Istituto di Microbiologia Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma I virus dell’Influenza sono virus con envelope appartenenti alla famiglia Orthomyxoviridae contenenti 8 frammenti di RNA a singolo filamento ed a polarità negativa. Sulla base delle differenze antigeniche nelle nucleoproteine e nelle proteine della matrice si distinguono 3 tipi di virus dell’influenza: A, B, C. I virus di tipo A sono ulteriormente classificati in diversi sottotipi in base alle caratteristiche antigeniche e genetiche delle glicoproteine di superficie, l’Emoagglutinina e la Neuroaminidasi. Scopo del nostro lavoro è stato quello di comparare una RT-PCR per la simultanea determinazione e tipizzazione dei virus dell’influenza A e B con le tecniche diagnostiche tradizionali: isolamento del virus da colture cellulari, test di immunofluorescenza o immunoenzimatici e tecniche di inibizione dell’emoagglutinazione con gli antisieri provenienti dall’ISS. Abbiamo analizzato complessivamente 239 tamponi faringei pervenuti a noi come centro di riferimento per la Regione Lazio per la sorveglianza epidemiologica dell’influenza da pazienti con sindrome influenzale nelle stagioni invernali 2001-2002, 2002-2003. Un’aliquota di ciascun campione è stata inoculata in cellule renali di cane Madin Darby(MDCK) e l’effetto citopatico è stato confermato in immunofluorescenza con anticorpi monoclonali. Un’altra aliquota è stata utilizzata per l’estrazione dell’RNA virale e successiva RT-PCR. Attraverso l’indagine molecolare abbiamo identificato nella stagione 2001-2002, su 127 campioni clinici, 2 casi di Influenza A, sottotipo H3N2 e 19 di Influenza B; nella stagione 2002- 2003 si è osservata, su 112 campioni esaminati, una situazione esattamente opposta alla stagione precedente, infatti i casi di Influenza A sono stati complessivamente 29 di cui 25 erano del sottotipo H3N2 e due del sottotipo H1N1; i casi di Influenza B sono stati 5. In 15 campioni la presenza di virus influenzali è stata svelata solo mediante RT-PCR in quanto le metodiche tradizionali hanno dato un risultato negativo per la presenza di contaminazioni batteriche o fungine o forse per la presenza di virus inattivi. Sulla base dei risultati ottenuti la RT-PCR si dimostra un test estremamente sensibile, attendibile e specifico che permette una diagnosi rapida con costi contenuti, tuttavia le metodiche tradizionali sono comunque fondamentali per permettere una accurata analisi antigenica dei virus isolati per la sorveglianza epidemiologica e l’allestimento del vaccino antinfluenzale. ISOLAMENTO E CARATTERIZZAZIONE DELL’ENDOTELIO MICROVASCOLARE LINFATICO DA TONSILLE UMANE. Emirena Garrafa*, Giovanna Tabellini*, Anna Benetti°, Roberto Di Carlo^, Lucia Bassani*, Laura Trainini*, Antonio Pastore^, Giulio Alessandri* and Arnaldo Caruso*. * Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Brescia ^ Clinica ORL, Ospedale S.Anna, Ferrara ° II Anatomia Patologica, Università degli Studi di Brescia La microvasculatura linfatica è importante per la rimozione continua dei fluidi interstiziali e delle proteine ed è un importante sito di ingresso per leucociti, cellule tumorali e microrganismi. Tentativi iniziali hanno permesso di isolare e coltivare le cellule dell’endotelio linfatico del derma permettendo una loro preliminare caratterizzazione. Le tonsille palatine sono organi linfatici localizzati nell’orofaringe estremamente ricchi di endotelio linfatico. Utilizzando anticorpi monoclonali contro il recettore per il fattore di crescita vascolare 3 (VEGFR-3), un marcatore espresso quasi esclusivamente dall’endotelio linfatico, abbiamo isolato cellule endoteliali linfatiche da tonsille umane ed abbiamo studiato le loro caratteristiche fenotipiche e funzionali. Le colture cellulari, cresciute su una matrice di collagene e fibronectina, in presenza di Endothelial Grown Medium (EGM) mostrano una buona capacità proliferativa e si mantengono in cultura per 8-10 passaggi. La presenza di una molecola VEGFR-3 funzionale sulle cellule linfatiche è confermata dalla loro sensibilità al VEGF-C (fattore di crescita vascolare C). Infatti l’aggiunta di questo fattore di crescita determina un aumento di 3-4 volte il ritmo replicativi cellulare. Inoltre, in seguito all’aggiunta di tale fattore, aumenta anche l’espressione dei marcatori di proliferazione Ki67 e CD105. Le cellule di endotelio linfatico di derivazione tonsillare esprimono diversi marcatori endoteliali come UEA-1, CD146, CD31 vWf e Ve-cadherine ma risultano completamente negative per CD34 e KDR. Concludendo riteniamo che le tonsille siano una fonte sufficientemente facile per l’isolamento e l’espansione in vitro dell’endotelio linfatico umano. Queste culture possono essere coltivate senza perdere le loro caratteristiche fenotipiche e biologiche e rappresentano un nuovo modello per studiare le funzioni e le proprietà biochimiche di questo particolare endotelio linfatico. 20 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA DIFFERENZIAZIONE MOLECOLARE TRA CEPPO VIRULENTO E VACCINALE DI BLUE TONGUE VIRUS (BTV) SIEROTIPO 2, MEDIANTE SONDE FLUORESCENTI (FRET) IN PCR REALTIME Germano Orrù1, Paola De Santis2, Fabio Solinas1, Giovanni Savini2, Vincenzo Caporale2, Vincenzo Piras1 O.B.L – Università degli studi di Cagliari, Cagliari1. Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’ Abruzzo e del Molise “ G. Caporale”, Teramo2. BTV è un virus a dsRNA appartenente alla famiglia Reoviridae, genere Orbivirus. Rappresenta l’agente eziologico del morbo della lingua blu, una malattia infettiva dei ruminanti trasmessa da insetti appartenenti al genere Culicoides. E’ presente in 24 sierotipi diversi tra il parallelo 35S e il 40N, in Italia sono stati isolati i sierotipi 1, 2, 4, 9, 16. Nonostante tutte le specie di ruminanti siano recettive, la malattia si manifesta in modo grave negli ovini (febbre catarrale), con una mortalità intorno al 75%. Clinicamente è caratterizzata da edema e congestione a carico della regione della testa, emorragie e ulcere a livello delle mucose. L’unico sistema di profilassi fin ora valido è rappresentato dalla vaccinazione. La diagnosi di laboratorio corrente si avvale di metodi sierologici (Elisa indiretta, Elisa competitiva) o tecniche tradizionali di RT-PCR, che non riescono comunque a distinguere la presenza nell’animale del ceppo virulento e/o vaccinale. Questo aspetto è causa di una serie di cautele/restrizioni per la movimentazione anche dei soli animali vaccinati, con notevoli ripercussioni economiche per le regioni colpite. Abbiamo messo a punto un sistema diagnostico diretto basato su sonde oligonucleotidiche FRET (Fluorescence Resonance Energy Transfer) in PCR real-time in grado di discriminare la presenza del genotipo vaccinale e/o virulento del BTV sierotipo 2 ( responsabile della febbre catarrale ovina in Sardegna). I primer di PCR e le sonde sono state disegnate lungo il segmento 2 del genoma virale; la distinzione dei genotipi è basata su differenze nucleotidiche presenti nella regione che codifica per la proteina strutturale VP2 del virus. Il metodo ha mostrato una sensibilità pari a 100 virus/PCR, ed una specificità, in esperimenti di ricostruzione con altri sierotipi (4,9,16), pari al 100% . In 15 campioni provenienti da animali con diagnosi di laboratorio indiretta di BTV sierotipo 2, risultavano infetti solo con il ceppo virulento 10 campioni, mentre 4 mostravano solo il profilo del ceppo vaccinale, un campione clinico mostrava invece una doppia infezione vaccinale/virulento. Quest’ultimo aspetto suggerisce la possibilità di rilevare tramite PCR real-time la presenza di popolazioni miste in animali vaccinati. COINVOLGIMENTO DI PEPTIDI VIRALI NELLA TRASDUZIONE INTRACELLULARE DEL SEGNALE DI ATTIVAZIONE Stefania Galdiero1, Erminia Di Niola1, Raffaele Ambrosio2, Emilia Galdiero3, Regina Muthusamy 2, Massimiliano Galdiero4 1Dipartimento di Chimica Biologica & Istituto di Biostrutture e Bioimmagini – CNR, Università di Napoli “Federico II” 2Dipartimento di Patologia Generale - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Seconda Università degli Studi di Napoli; 3Dipartimento di Fisiologia Generale, Sezione di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi di Napoli “Federico II”; 4Dipartimento di Medicina Sperimentale – Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Seconda Università degli Studi di Napoli; E’ ben noto che durante la replicazione virale, i virus utilizzano a proprio vantaggio diverse attività della cellula ospite. Pertanto potrebbe risultare vantaggioso l’esistenza di moduli di chinasi coinvolti nella trasmissione intracellulare del segnale di attivazione della cellula ospite capaci di indurre espressione di geni cellulari e/o virali promuovendo la replicazione virale. È stato ampiamente dimostrato che durante le infezioni sostenute da alcuni virus, tra cui il papillomavirus bovino, il vaccinia virus, il Simian virus 40, il virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1, risulta attivata la cascata delle ERK ed in alcuni casi sono state identificate le proteine virali capaci di fosforilare tali enzimi. Inoltre, durante le infezioni sostenute dal virus dell’Herpes simplex in cellule permissive si osserva un aumento dell’attività dei fattori di trascrizione AP-1 ed NF-kB, entrambi target a valle della cascata delle SAPK, suggerendo, l’attivazione anche di tali pathway. Il genoma dell’HSV codifica per almeno 11 glicoproteine coinvolte nelle prime fasi dell’infezione virale, l’adesione e la penetrazione delle particelle virali nella cellula ospite. Tra le glicoproteine, gB, gD e gli eteroligomeri di gH e gL, sono necessarie per la penetrazione virale proponendosi come candidati capaci di indurre una precoce attivazione cellulare. Tuttavia, il ruolo preciso di ciascuna glicoproteina così come i fattori cellulari coinvolti sono ancora poco conosciuti. Finora non sono state ancora ben delineate le vie di trasduzione del segnale coinvolte nè se l’attivazione faciliti la penetrazione virale o le seguenti fasi precoci dell’infezione. Pertanto in questo lavoro abbiamo valutato l’attivazione delle chinasi eventualmente coinvolte nel processo di trasduzione del segnale indotto dalla stimolazione di cellule VERO con peptidi sintetici dell’envelope virale. Nel nostro modello sperimentale, l’analisi dell’attività dei peptidi sintetici utilizzati ha evidenziato il maggior coinvolgimento del pathway delle ERK e di JNK nella trasmissione intracellulare del segnale soprattutto dopo stimolazione con i peptidi P34, P24 e P20. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 21 LA LATTOFERRINA INIBISCE L’INFEZIONE DA VIRUS DELL’HERPES SIMPLEX VIRUS INTERFERENDO CON IL LEGAME DEL VIRUS AI GLICOSAMINOGLICANI Magda Marchetti1,2, Edward Trybala1, Fabiana Superti2, Tomas Bergström1 1Department of Clinical Virology, Göteborg University, S-413 46 Göteborg, Sweden 2Laboratorio di Ultrastrutture, Istituto Superiore di Sanità, Roma, Italy La lattoferrina è un membro della famiglia delle transferrine, glicoproteine leganti il ferro, e si ritrova ad alte concentrazioni in tutte le secrezioni, dove gioca un ruolo importante nella difesa delle mucose dell’ospite. E’ noto che la lattoferrina è anche un potente inibitore di diversi virus sia nudi che rivestiti. Studi precedenti hanno dimostrato che la lattoferrina inibisce le fasi precoci del ciclo replicativo del virus dell’herpes simplex (HSV). Dal momento che è stata descritta la presenza di siti di legame per i glicosaminoglicani nella molecola di lattoferrina, è stato postulato che la proteina possa competere con l’HSV per l’attaccamento alle cellule, mediato dall’interazione di una glicoproteina virale (gC o gB) con i glicosaminoglicani. In questo studio abbiamo esaminato il meccanismo dell’azione antivirale della lattoferrina in cellule mutanti carenti nell’espressione di specifici glicosaminoglicani sulla loro superficie. La lattoferrina bovina si è dimostrata un forte inibitore dell’infezione da HSV-1 in cellule che esprimono l’eparan solfato, il condroitin solfato o entrambi i glicosaminoglicani, mentre essa era inefficace o dotata di scarsa attività nelle cellule che non esprimono glicosaminoglicani o in cellule trattate con enzimi che degradano tali molecole. Contrariamente a quanto avveniva per l’HSV-1 wild-type, un virus mutante che non esprime gC non era inibito dalla lattoferrina, indicando che essa interferiva con il legame della glicoproteina virale all’eparan solfato e/o al condroitin solfato presenti sulla superficie cellulare. Infine abbiamo dimostrato che la lattoferrina si lega direttamente sia all’eparan solfato che al condroitin solfato isolati dalla superficie delle cellule utilizzate in questo studio come anche a preparazioni commerciali di glicosaminoglicani. I nostri risultati nel loro insieme dimostrano che l’interazione tra la lattoferrina bovina e i glicosaminoglicani rappresenta un evento chiave nell’inibizione dell’infezione da HSV-1 da parte di questa proteina multifunzionale. CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI ISOLATI CLINICI DI STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE CON RIDOTTA SENSIBILITÀ AI FLUOROCHINOLONI. Maria Pia Montanari, Emily Tili, Ileana Cochetti, Marina Mingoia, Aldo Manzin, Pietro Emanuele Varaldo. Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marche, Ancona. 15 ceppi clinici di S. pneumoniae con ridotta sensibilità ai fluorochinoloni (definita come MIC della ciprofloxacina ≥4 mg/L) recentemente isolati in Italia sono stati tipizzati e caratterizzati per definire il contributo dei meccanismi di alterazione del bersaglio e di efflusso alla loro resistenza. Sierotipizzazione e PFGE hanno indicato una sostanziale mancanza di correlazione epidemiologica fra i 15 ceppi, suggerendo che la nuova resistenza si sia sviluppata indipendentemente in diversi ceppi locali piuttosto che diffusa clonalmente. Il sequenziamento delle QRDR di gyrA, gyrB, parC, e parE ha dimostrato mutazioni puntiformi che hanno portato a sostituzioni di singoli aminoacidi più frequentemente nella topoisomerasi IV (14 isolati con mutazioni in parC e 13 in parE) che nella DNA girasi (7 isolati con mutazioni in gyrA e nessuno in gyrB). Due delle sostituzioni aminoacidiche trovate (Tyr96 Cys in GyrA e Thr478 Ser in ParE) non risultano essere state segnalate in studi analoghi in altri Paesi. Nessun isolato ha mostrato un sistema d’efflusso dei fluorochinoloni sensibile al CCCP, mentre riduzioni della MIC di ≥4 volte in presenza di reserpina sono state osservate in tutti e 15 i ceppi con bromuro d’etidio, in 13 con ulifloxacina, in 9 con ciprofloxacina, in 5 con norfloxacina, e in nessun ceppo con altri cinque fluorochinoloni. Complessivamente, il livello e il profilo di resistenza ai fluorochinoloni espressi dai nostri ceppi dipendevano molto più dalle modificazioni di topoisomerasi IV e DNA girasi che dai meccanismi d’efflusso, ma un ruolo è stato probabilmente svolto anche da alterazioni del bersaglio e/o pompe d’efflusso diverse da quelle convenzionali. Sono stati anche determinati e correlati con la resistenza ai fluorochinoloni i profili di resistenza ad antibiotici di altre classi. Uno stesso particolare profilo di PBP fingerprinting era osservato nei 5 isolati penicillino-resistenti, mentre i 6 penicillino-sensibili mostravano tutti lo stesso profilo del ceppo di riferimento R6. Di 9 ceppi eritromicino-resistenti, nessuno era di fenotipo M. I 7 ceppi co-resistenti a eritromicina e tetraciclina erano tutti positivi per il gene intTn, indicativo della presenza di un trasposone tipo Tn1545. La positività per lo stesso gene in un ceppo resistente alla tetraciclina ma non all’eritromicina indicava invece la presenza di un trasposone tipo Tn916 22 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EFFICACIA DI FOSFOMICINA-TROMETAMOLO IN MONO-SOMMINISTRAZIONE NELLA RISOLUZIONE CLINICA DI UTI NON COMPLICATE DELLA DONNA FERTILE S. Roveta, E.A. Debbia, G.C. Schito, F. Gorlero Sezione di Microbiologia, DISCAT, Università degli Studi di Genova Largo R. Benzi 10, 16132 Genova Le infezioni urinarie non complicate (UTI) rappresentano una patologia comunitaria frequente nella donna in età fertle. La terapia è quasi sempre empirica in quanto il tipo dei patogeni coinvolti è ristretto e la situazione della loro antibiotico resistenza è nota ai clinici grazie a numerosi studi di natura epidemiologica. La fosfomicina-trometamolo (FT), molecola con potente attività battericida nei confronti dei principali uropatogeni, continua a essere caratterizzata da bassi livelli di antibiotico-resistenza nonostante l’ampio utilizzo in Italia e in altri Paesi del mondo.Al fine di verificare pertanto se la mono-somministrazione di FT sia in grado non solo di produrre guarigione clinica, ma anche di eradicare i germi causa di infezione è stato condotto, a partire dal marzo 2003, uno studio tuttora in corso cui hanno aderito 32 ginecologi operanti sul territorio Ligure (20), Lombardo (10) ed Emiliano (3). Come obiettivo secondario è stata studiata la prevalenza e l’ antibiotico-resistenza di tutti gli uropatogeni isolati dalle 253 pazienti ambulatoriali (età compresa tra i 18 e i 65 anni) con diagnosi clinica di infezione urinaria non complicata confermata dall’esame microbiologico. Dei 253 soggetti positivi, 175 (69.2%) erano affetti da cistite acuta al primo episodio e 78 (30.8%) da episodi acuti di cistite ricorrente. La sensibilità in vitro a fosfomicina (FT), norfloxacina (NOR), ciprofloxacina (CIP), cotrimossazolo (SXT), amoxicillina-acido clavulanico (AMC) e nitrofurantoina (NTF) è stata valutata utilizzando tecniche quantitative suggerite da NCCLS. Il germe più frequentemente isolato è stato E. coli (73.1%) seguito da K. pneumoniae e P. mirabilis (7.9% e 7.1% rispettivamente). Altri gram-negativi (P. aeruginosa, E. cloacae, C. freundii) costituivano il 4%, mentre tra i gram-positivi E .faecalis rappresentava il 4.7% e Staphylococcus spp. il 3.2%. La sensibilità in vitro dei 185 ceppi di E. coli a FT è risultata del 98.9%. La guarigione clinica, valutata al follow-up, è stata ottenuta nel 100% dei casi e il trattamento con FT è stato ben tollerato. L’eradicazione microbiologica è stata evidenziata nel 93% dei casi, percentuale che si approssimava al 97% quando l’infezione era sostenuta da E. coli. I risultati ottenuti confermano che FT, per le sue favorevoli caratteristiche di potenza antibatterica, farmacocinetica, comodità di somministrazione, efficacia clinica, e tollerabilità è particolarmente indicata nel trattamento empirico di breve durata delle UTI non complicate sia in pazienti con primo episodio sia con quadri di cistiti recidivanti (peraltro rivelatesi di notevole incidenza in questo studio). ATTIVITA’ IN VITRO DI NETILMICINA E ACIDO FUSIDICO SU MICRORGANISMI GRAM-POSITIVI ISOLATI DA INFEZIONI OCULARI Furneri PM°, Russo A^*, Musumeci P°, Sapienza MR°, Bonfiglio G°, Russo G°* Dipartimento di Scienze Microbiologiche°, Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche, sez. di Oftalmologia^, Centro di Microbiologia Oculare*, Università di Catania, Via Androne 81, 95124 Catania. Molte delle infezioni batteriche oculari sono determinate da batteri Gram-positivi. Alcuni antibiotici utilizzati in terapia, come l’acido fusidico, hanno un’attività specifica nei confronti di questo gruppo di microrganismi, altri come la netilmicina mostrano un ampio spettro d’azione che coinvolge anche i batteri Gram-negativi. Alcuni studi hanno mostrato che quest’ultimo antibiotico ha mostrato una netta riduzione di attività nei confronti degli stafilococchi. Con il presente lavoro si è voluta studiare l’attività di netilmicina in paragone all’acido fusidico, due antibiotici ampiamente utilizzati nella terapia delle infezioni del segmento anteriore dell’occhio: in particolare è stata valutata i) l’attività antibatterica in vitro su stafilococchi isolati da infezioni oculari; ii) l’attività battericida; iii) l’effetto postantibiotico e iv) l’induzione di resistenza. Sono stati utilizzati 20 S. aureus e 15 S. epidermidis isolati da infezioni oculari; i nostri risultati hanno messo in evidenza un’attività antibatterica dei due antibiotici praticamente sovrapponibile. La netilmicina ha mostrato però attività battericida già a concentrazioni uguali alle MIC o a 2 x MIC, mentre per l’acido fusidico l’attività battericida si otteneva a un rapporto MBC/MIC compreso tra 16 e 32. L’acido fusidico a concentrazioni inferiori a 100 x MIC non mostrava livelli di PAE superiori alla netilmicina (PAE = 0:50:00), però a concentrazioni vicine al dosaggio terapeutico, cioè superiori a 1000 x MIC (300 µg) raggiungeva livelli prossimi a 3:10:00. La netilmicina alla concentrazione di 8 µg/ml ha mostrato un PAE di 1:40:00. Dopo induzione di resistenza nessuno dei ceppi batterici saggiati ha mostrato aumento della MIC o variazioni della MBC. L’efficacia di un antibiotico nel trattamento delle infezioni oculari dipende in parte dal mantenimento nell’occhio di concentrazioni sufficienti a determinare l’eradicazione batterica. Sebbene il parametro più importante per descrivere l’attività antibatterica di un antibiotico sia la MIC, altri parametri, come il killing e il PAE, sono sicuramente importanti fattori che possono influenzare il regime terapeutico dell’antibiotico. Dai dati ottenuti si evidenzia che la netilmicina mostra ancora un’eccellente attività nei confronti dei batteri Gram-positivi e soprattutto che alle concentrazioni vicine al dosaggio terapeutico mostra un’elevata attività antibatterica, potendo quindi essere utilizzata nel trattamento empirico delle infezioni oculari, dove deve essere utilizzato un antibiotico rapidamente battericida e con un ampio spettro d’azione. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 23 RESISTENZE BATTERICHE IN TERAPIA INTENSIVA Sciacca A., Grasso E., Grassi P., Trapanotto G., Dimitriou K., Paratore A.* Laboratorio Microbiologia Azienda Policlinico – *Dip. Di Specialità Medico-Chirurgiche, Sez. di Anestesiologia - Università degli studi di Catania La resistenza agli antibiotici fa parte delle strategie messe in atto dai batteri ai fini della sopravvivenza in ambienti ostili. Infatti, com’è noto, si è assistito negli ultimi decenni allo sviluppo delle resistenze batteriche nei confronti degli antibiotici maggiormente usati, anche con il diffondersi di resistenze particolarmente importanti (ESBL, MRSA, VRE), che assumono notevoli risvolti pratici, specialmente, in ambiente nosocomiale, nei reparti di terapia intensiva a causa della gravità delle patologie, della tipologia dei pazienti, dell’uso massiccio di antibiotici e delle lunghe degenze. In questi ambienti assume particolare importanza un monitoraggio continuo dell’eziologia delle infezioni e delle resistenze batteriche. Sono stati pertanto esaminati gli isolati e le resistenze di specie batteriche provenienti, nel periodo gennaio 2002 - giugno 2003, dal reparto di terapia intensiva del Policlinico dell’Università di Catania. Gli isolati provenivano da aspirati bronchiali, emocolture, cateteri venosi centrali, drenaggi addominali e cannule endotracheali. Da questi campioni sono stati isolati E. faecium (5), E. faecalis (5), E. coli (2), E. cloacae (2), P. stuarti (2), P. aeruginosa (23), P. fluorescens (2), S. maltophilia (10), S. aureus (5), S. haemolyticus (5). Sono state studiate le resistenze di questi isolati nei confronti di ampicillina, amp./sulb., amox./clav., piperacillina, pip./taz., cefotaxime, ceftazidime, cefepime, imipenem, meropenem, gentamicina, amikacina, ciprofloxacina, levofloxacina. E` stata inoltre valutata l’attività di oxacillina, teicoplanina e linezolid nei confronti degli isolati Gram positivi. I risultati ottenuti dimostrano che E. coli e S. aureus sono i microrganismi più sensibili agli antibiotici saggiati, mentre negli altri isolati sono state evidenziate notevoli, seppur variabili, incidenze di resistenze, particolarmente evidenti in S. maltophilia e in Pseudomonas spp., dove vengono raggiunte incidenze elevate, anche superiori, per alcune molecole, al 70%. Il continuo evolversi delle resistenze batteriche agli antibiotici più usati dimostra la notevole utilità degli studi sull’eziologia delle infezioni e sull’epidemiologia delle resistenze in un dato territorio. Con un continuo e costante monitoraggio, infatti, sarà possibile valutare e prevedere lo spettro d’attività degli antibiotici in uso e ricorrere quindi a molecole sicuramente efficaci, specialmente in caso di infezioni gravi in pazienti compromessi, come avviene nelle unità di terapia intensiva. EMERGENZA DI UN CLONE VIRULENTO DI NEISSERIA MENINGITIDIS C:2B:P1.5 CON DIMINUITA SENSIBILITA’ ALLA PENICILLINA Cecilia Fazio1*, Paola Stefanelli1, Arianna Neri1, Tonino Sofia1, Paola Mastrantonio1 1Laboratorio di Batteriologia e Micologia Medica, Istituto Superiore di Sanita’, Roma In Italia l’incidenza media annua di meningite meningococcica e’ di 0.4/100.000 abitanti. Dai dati raccolti all’interno del Sistema di Sorveglianza Nazionale per le Meningiti Batteriche coordinato dall’Istituto Superiore di Sanita’, e’ emerso che negli ultimi anni vi e’ un incremento di ceppi di Neisseria meningitidis a diminuita sensibilita’ alla penicillina (penI). In particolare nell’anno 2002 e nei primi 6 mesi del 2003 sono stati individuati 41 ceppi penI su un totale di 144 ceppi isolati. Il 59.5% dei ceppi penI e’ rappresentato da meningococchi con fenotipo C:2b:P1.5. Questo fenotipo e’ il piu’ diffuso in Italia tra i ceppi di sierogruppo C e riveste particolare interesse perche’ appartenente al lineage A4 considerato ipervirulento. Scopo dello studio e’ quello di individuare caratteristiche clonali tra i ceppi penI C:2b:P1.5 e quindi di definire le caratteristiche molecolari dei ceppi appartenti a questo clone. Le MIC per la penicillina sono state ottenute con il metodo E-test seguendo le indicazione del protocollo standard. La tipizzazione molecolare dei ceppi, per individuare il lineage di appartenenza, e’ stata ottenuta con MLST (MultiLocus Sequence Typing) , mentre per evidenziare relazioni clonali tra i ceppi e’ stata utilizzata la PFGE (Pulsed Field Gel Electrophoresis) con l’enzima di restrizione NheI . I valori di MIC per la penicillina sono nel range 0.094-0.25 mg/ml ; tutti i ceppi C:2b:P1.5 appartengono al lineage A4 e costituiscono un unico clone come dimostrato in PFGE. I risultati finora ottenuti, quindi, sottolineano la presenza nel nostro paese di un singolo clone emergente di Neisseria meningitidis di sierogruppo C , fenotipo, 2b:P1.5, a diminuita sensibilita’ verso la penicillina. Risulta, quindi, importante una accurata sorveglianza microbiologica ed epidemiologica per il monitoraggio di cloni emergenti di Neisseria meningitidis a diminuita sensibilita’ alla penicillina che in altri Paesi Europei hanno dimostrato un’ampia diffusione. 24 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EFFETTO in vivo DI CLOREXIDINA GEL 1% SULLA COLONIZZAZIONE BATTERICA DELLE CAVITÁ INTERNE DI IMPIANTI DENTALI S. D’Ercole1, M. Paolantonio2, G. Catamo1, R. Mastrodonato1, M. Saba2, R. Piccolomini1 Dipartimenti di 1Scienze Biomediche, sez. di Microbiologia, e di 2Scienze Odontostomatologiche; Università “G. d’Annunzio”, Chieti Si è valutato, in vivo, l’effetto di clorexidina gel 1% nel prevenire la colonizzazione batterica delle cavità interne degli impianti a moncone avvitato. 25 pazienti, che necessitavano di una riabilitazione impiantare, sono stati divisi in due gruppi: controllo (10 pz) e test (15 pz). Il monitoraggio microbiologico è stato effettuato al baseline (tre mesi dopo la prima esposizione dell’impianto in cavo orale) e a differenza di tre mesi. Solo nei test, è stato applicato clorexidina gel 1% all’interno degli impianti ed anche sulle filettature della vite. Ciascun campione, dopo l’estrazione del DNA, è stato analizzato, mediante PCR, con primers ubiquitari che si appaiano con tutti i geni batterici 16S rDNA ma non con 18S rRNA, come controllo positivo e per la determinazione della conta batterica totale. E’ stata quindi eseguita una multiplex PCR, per il contemporaneo rilevamento di A. actinomycetemcomitans, B. forsythus, C. rectus, F. nucleatum, E. corrodens, P. gingivalis, P. intermedia, T. denticola. L’identificazione dei prodotti di amplificazione è stata ottenuta mediante elettroforesi. La quantità di cellule batteriche, nei campioni di placca, è stata valutata comparando l’intensità di banda con quella osservata nelle diluizioni cellulari seriali, mediante l’ausilio di un densitometro. L’analisi statistica è stata condotta con software SPSS. Al baseline, i batteri totali erano pari a 3,3 x 105 ± 5,2 x 104 CFUs/mL e 3,8 x 105 ± 6,7 x 104 CFUs/mL nei gruppi controllo e test, rispettivamente. A tre mesi le conte totali erano di 1,1 x 106 ± 1,8 x 105 CFUs/mL nei controlli e 4,0 x 103 ± 5,7 x 102 CFUs/mL nei test. Le analisi longitudinali hanno mostrato differenze statisticamente significative solo nei test (p<0.05). Le analisi trasversali hanno mostrato nessuna differenza significativa tra i due gruppi al baseline, e una differenza altamente significativa (p<0.01) a tre mesi. A. a., B. f., C. r., E. c. e F. n. sono stati sporadicamente rilevati in entrambi i gruppi, sia al baseline che a tre mesi. Nessuna differenza significativa è stata riscontrata né alle analisi trasversali né a quelle longitudinali. Al contrario, P. g., P. i. e T. d. non sono stati mai rilevati. L’efficacia di clorexidina gel 1% è comprovata da un aumento considerevole della conta batterica totale nei controlli, e una riduzione alquanto significativa nei test. La presenza seppur sporadica dei ceppi parodontopatogeni indica che all’interno degli impianti ci sono le condizioni ambientali ideali affinché i batteri possano insediarsi, andare incontro a massiva proliferazione in intervalli di tempo superiori a tre mesi e, di conseguenza, infettare i tessuti perimplantari. STUDIO DELL’EFFETTO DELLA BREFELDINA A SULLA MOLTIPLICAZIONE INTRACELLULARE DI LEGIONELLA PNEUMOPHILA P. Goldoni, L. Serrao, T. Melillo, P. Mastromarino, L. Sinibaldi Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica - Sezione di Microbiologia, Università di Roma «La Sapienza» La brefeldina A (BFA) è un lattone eterociclico prodotto da vari tipi di funghi, capace di causare drammatici effetti sulla struttura e la funzione di organelli intracellulari, ed in particolare dell’apparato del Golgi, delle cellule eucariotiche. L’effetto di questo macrolide è stato studiato nei confronti della replicazione intracellulare del patogeno Legionella pneumophila in cellule HeLa. Gli studi di valutazione del possibile effetto della BFA sull’internalizzazione del microrganismo e sulla moltiplicazione intracellulare di questo, sono stati condotti utilizzando la sostanza alla concentrazione di 1.25 µM, non tossica per le legionelle in ambiente extracellulare e per le cellule HeLa. Gli esperimenti sono stati condotti preincubando le cellule con BFA e aggiungendo o rimuovendo questa sostanza a tempi diversi dopo l’infezione. I risultati hanno dimostrato che, mentre l’internalizzazione di Legionella non era in alcun modo modificata dalla presenza del composto, la stessa sostanza era capace di inibire fino all’80% la moltiplicazione intracellulare. L’effetto più marcato si evidenziava quando la BFA veniva aggiunta alle cellule HeLa al momento dell’infezione ed era mantenuta durante tutto l’esperimento. Test negativi al saggio con il colorante vitale arancio di acridina, hanno dimostrato che l’effetto inibente non è dovuto ad una acidificazione dei compartimenti intracellulari, come si verifica invece nel caso di agenti lisosomotropici precedentemente saggiati, quali la monensina e la bafilomicina A1. I risultati ottenuti stanno quindi ad indicare un diretto coinvolgimento dell’apparato del Golgi della cellula ospite durante la moltiplicazione di Legionella. Possono essere ipotizzati anche meccanismi alternativi da riportare all’azione della BFA sull’organizzazione del citoscheletro di actina, implicato nella replicazione intracellulare di Legionella in cellule HeLa, o alla specifica inibizione che la BFA esercita sullo scambio di nucleotidi guanilici (necessario per il rivestimento di alcune vescicole di trasporto) per alcune piccole proteine G della famiglia Arf che possiedono un dominio di omologia denominato Sec7. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 25 MECCANISMO DI AZIONE ED ATTIVITA’ ANTIBATTERICA DELL’OLIO ESSENZIALE DI MELALEUCA ALTERNIFOLIA E DELLA SUA FRAZIONE TERPINEN-4-OLO NEI CONFRONTI DEGLI STAFILOCOCCHI Ferrini A.M.(1), Aureli P.(1), Salvatore G.(2), Ceddia T.(3), Piccirilli E.(3), Pontieri E.(3) e Oliva B.(3) Istituto Superiore di Sanita’- Laboratorio Alimenti (1) e di Tossicologia comparata e di ecotossicologia(2); V.le Regina Elena, 299 – 00161 Roma Universita’ degli Studi de L’Aquila; Dipartimento di Medicina Sperimentale, Coppito II, 67100 L’Aquila(3). L’olio essenziale di Melaleuca alternifolia (Australian Tea tree,TTO) e’ stato usato per anni, con successo, per uso topico e per controllare le infezioni di ferite; e’ noto possedere attivita’ antibatterica, antifungina ed antivirale. A causa del fenomeno della antibiotico resistenza da parte dei batteri, si e’ andato sviluppando un nuovo interesse per le molecole alternative. In questo studio si riportano i risultati delle M.I.C. ottenute verso ceppi di isolati clinici di Staphylococcus aureus sia sensibili che resistenti alla meticillina, alla vancomicina, alla rifampicina ed alla mupirocina . I dati vengono paragonati a quelli ottenuti con molecole appartenenti alle piu’ importanti classi di antibiotici. Sono stati studiati inoltre i meccanismi di azione dell’olio essenziale di M.alternifolia e della sua frazione, terpinen-4-olo, nei confronti di S.aureus 8325.4 mediante lo studio delle curve di sopravvivenza, la perdita di sostanze che assorbono a 260 nm, lo studio del danno di membrana e l’inibizione delle sintesi delle principali macromolecole. I risultati ottenuti dimostrano che questi oli essenziali de-energizzano la membrana citoplasmatica causando la morte della cellula batterica. NEGRETTI FRANCO:“NECESSITA’ DI FABBRICAZIONE ASETTICA DI TALUNE FORME FARMACEUTICHE DI MOLECOLE ANTIBIOTICHE NON NEUTRALIZZABILI” (Facoltà di Farmacia, Univ. Studi di Milano) E’ noto che non sono ancora state individuate sostanze neutralizzanti per taluni antibiotici (cloramfenicolo,eritromicina,rifamicina SV,rolitetraciclina,tobramicina, vancomicina). Poiché la neutralizzazione è un’operazione fondamentale ai fini del controllo microbiologico degli antibiotici,risulta praticamente impossibile il controllo microbiologico di tali molecole. Nel caso di preparazioni iniettabili,le tecniche fabbricative (filtrazione sterilizzante ed infialamento asettico) assicurano la sterilità del preparato. Nel caso di preparazioni orali o topiche,il processo fabbricativo espone a contaminazioni microbiche (macchinari,operazioni lavorative,aria ambientale,personale), la cui entità è ragguardevole (mediamente il 90% della carica microbica del prodotto finito).La carica contaminante è prevalentemente costituita da saprofiti,ma non sono rari i patogeni, facoltativi e non. Orbene, questi microrganismi inquinanti non sono mai evidenziati nei controlli microbiologici dei preparati orali e topici di tali antibiotici,che risultano sempre,stranamente,sterili. Tali microrganismi vengono,invece,sempre isolati nei preparati di molecole antibiotiche neutralizzabili. Nel caso di antibiotici non neutralizzabili,nemmeno la contaminazione artificiale con diverse specie microbiche viene rilevata ai controlli microbiologici. Per il rispetto della salute dei pazienti sottoposti a trattamento con tali antibiotici,si consiglia l’adozione di cautelative norme di asepsi nella fabbricazione dei preparati orali (usatissimi) e, secondariamente,topici (per il minor uso). 26 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA PRODUZIONE DI ß-LATTAMASI CMY-2 IN STIPITI DI E.COLI E K. PNEUMONIAE ISOLATI IN UN OSPEDALE DEL NORD ITALIA. aPagani L, aMigliavacca R., cD’Andrea M., bSpalla M., aNucleo E., cDell’Amico E., bMatti C., aRomero E. cRossolini G.M.. aDipartimento S.M.E.C. sez. di Microbiologia, Università degli Studi di Pavia, Pavia. bServizio Analisi Microbiologiche I.R.C.C.S. S.Matteo, Pavia. cDipartimento di Biologia Molecolare, sez. di Microbiologia, Università di Siena, Siena. Le ß-lattamasi di classe C sono enzimi con attività idrolitica verso ossimino- e 7-ß-metossi-cefalosporine, generalmente codificate da geni cromosomici e insensibili all’azione degli inibitori delle ?-lattamasi. La continua somministrazione di 7-ß-metossi-cefalosporine e l’introduzione nell’uso clinico di associazioni con inibitori delle ß-lattamasi hanno favorito nelle Enterobacteriaceae la selezione di plasmidi che codificano per ß-lattamasi di classe C. In Italia è stata segnalata nel 1994 in Klebsiella spp. la produzione della FOX-3, una ß-lattamasi a spettro esteso (ESßL) di tipo Amp-C codificata da un gene plasmidico. Scopo dello studio è stato di valutare la produzione di ESßL di tipo Amp-C, plasmide-mediate, in isolati clinici di E.coli e K.pneumoniae caratterizzati da fenotipo di multiresistenza alle ossimino- e 7-ß-metossi-cefalosporine. Nell’anno 2002, presso il Servizio di Analisi Microbiologiche dell’I.R.C.C.S. S.Matteo di Pavia, sono stati raccolti 50 stipiti di E.coli e 4 di K.pneumoniae, positivi per le ESßLs con il metodo di screening BD-Phoenix; di questi, 30 E.coli e 4 K.pneumoniae sono risultati positivi anche al test di sinergia del doppio disco con tazobactam, confermando la produzione di ESßL. Negli stipiti E.coli 26sm e K.pneumoniae 10sm il test ha rivelato la resistenza a TZP, CTX, CAZ ed ATM ma non al FEP, con cui era evidente un effetto sinergico. La MIC della cefoxitina (FOX) è risultata per E.coli 26sm pari a 128µg/ml e per K.pneumoniae 10sm >256µg/ml. Entrambi i ceppi producevano una ß-lattamasi, caratterizzata da punto isoelettrico >8.4 ed attività idrolitica nei confronti di FOX, CTX, CAZ, FEP, codificata da un plasmide coniugativo solo in E.coli 26 sm. Sono state effettuate PCR multiplex utilizzando 4 coppie di primer degenerati per la ricerca dei geni di resistenza di classe C e un’unica coppia di primer Acc. I 2 ceppi hanno dato un amplificato di circa 760 bp coerente con la coppia di primer classe C II che amplificano per LAT 1,2,3,4; CMY 2,3,4,5 ; MIR 1,2; ACC 1; DHA 1,2; ACT 1. L’analisi di sequenza ha evidenziato la presenza di un gene di resistenza bla CMY-2 o strettamente correlato. I risultati ottenuti dimostrano che le ESßL plasmidiche di classe C rappresentano un problema emergente anche in Italia. controllare simbologia ß µ ecc. RIDOTTA SENSIBILITÀ AI GLICOPEPTIDI IN STAFILOCOCCHI COAGULASI-NEGATIVI METICILLLINO-RESISTENTI ISOLATI IN ITALIA ED UNGHERIA. Boldrin C., M. Knausz*, F. Rozgonyi**, M. Ferigo, S. Bettanello°, A. Grossato. Departimento di Istol., Microbiol. e Biotec. Med. , Univ.Padova; °Lab. Microbiol., Azienda osp., Padova, Italia;* Lab. Microbiol , Osp.Gyor, Gyor,* * Univ. Semmelweis, Budapest, Ungheria. Gli stafilococchi coagulasi-negativi (CNS), in particolare i ceppi di S.epidermidis, sono ormai tra le principali cause di batteriemie in ambiente ospedaliero. Il 60-70 % di tali ceppi è meticillino-resistente (MR-CNS) e la maggior parte di essi è spesso resistente alla quasi totalità dei farmaci tradizionali. In genere i farmaci di scelta nelle infezioni gravi provocate dagli MR-CNS sono gli antibiotici glicopeptidici. La comparsa di ceppi con intermedia sensibilità o bassa resistenza ai glicopeptidici ha provocato un giusto stato di allarme inducendo ad intensificare studi e controlli. In questo lavoro abbiamo esaminato 96 ceppi MR-CNS, isolati quasi esclusivamente dal sangue di pazienti ricoverati in reparti “a rischio”(chirurgie, rianimazioni ecc.) sia presso l’ospedale di Padova che presso quello ungherese di Gyor. (L’Ungheria è un paese dove la teicoplanina non è utilizzata ed in cui la glicopeptido-resistenza è un evento molto rara anche tra gli enterococchi). La nostra collezione era così costituita: S. epidermidis (52), S.haemolyticus (34), S.hominis (7) S. xylosus (3). Il 98% dei ceppi presentavano il gene mecA (prove di PCR con primers specifici). Saggi di MIC, eseguiti con il metodo delle microdiluizioni, hanno confermato che S.haemolyticus è una specie poco sensibile ai glicopeptidici (al 28,6 % rispetto a vancomicina e al 80% rispetto a teicoplanina (26 ceppi erano ungheresi) seguita da S.hominis (50% e 62%) e da S. epidermidis (23% e 26%). Sui ceppi di S. epidermidis è stata saggiata anche la sensibilità a cefazolina (CEF), eritromicina (ERI), cotrimossazolo (CTX), gentamicina (GEN), tetracicline (TET), ciprofloxacina (CIP), rifampicina (RIF): la maggior parte dei ceppi era sensibile soltanto a RIF (75,5% ) e a TET (72.1%). Un esame del profilo di antibiotico-resistenza ha consentito di individuare 23 diversi resistotipi: 13 di essi erano rappresentati da un unico ceppo mentre altri erano condivisi da più ceppi. Un resistotipo era presente in 15 isolati clinici, provenienti da 10 diversi pazienti e da 4 reparti distinti. La caratterizzazione dei ceppi mediante PFGE, dopo macrorestrizione con SmaI, ha consentito di evidenziare un origine comune per alcuni di essi. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 27 RESISTENZA AI GLICOPEPTIDI IN ENTEROCOCCUS SPP Monno R., Losacco G., De Giglio I., 1Battista M., Sarakinou A., 1Rizzo G. Cattedra di Microbiologia e Microbiologia Clinica e 1Cattedra di Igiene - Dipartimento di Medicina Interna e Medicina Pubblica Sezione di Igiene – Università degli Studi di Bari E’ stata valutata l’incidenza della resistenza ai glicopeptidi su 723 ceppi di Enterococcus isolati presso il Servizio di Microbiologia e Parassitologia (Azienda Sanitaria Ospedaliera Policlinico - Bari). Enterococcus faecalis ha rappresentato l’81.9% degli isolati seguito da Enterococcus faecium (16.2%). L’1.9% degli isolati apparteneva ad altre specie di Enterococcus. Nel corso dei due anni di studio si è osservato un incremento nell’isolamento degli Enterococchi. Enterococcus spp furono isolati più frequentemente dalle urine (66.5%), seguite da pus (18.8%) e dal sangue (6.9%). I ceppi di Enterococcus spp furono isolati prevalentemente da reparti di Medicina, Chirurgia e da pazienti ambulatoriali. In E. faecalis la MIC90 è risultata di 4 mg/L per la Vancomicina e di 1 mg/L per la Teicoplanina. Per E. faecium la MIC90 è risultata di 4mg/L e 2 mg/L, rispettivamente. Su 723 ceppi di Enterococcus spp 11 (1.52%) sono risultati resistenti ai glicopeptidi. In particolare sono risultati resistenti lo 0.3% dei ceppi di E. faecalis e il 7.7% dei ceppi di E. faecium. I VRE sono stati isolati prevalentemente dalle urine e da emocolture. I ceppi VRE sono risultati di fenotipo Van A, in quanto resistenti sia alla Vancomicina che alla Teicoplanina. Inoltre i ceppi sono risultati tutti resistenti alla Gentamicina e agli antibiotici beta-lattamici; oltre l’80% è risultato sensibile alla Tetraciclina, Nitrofurantoina e alla Eritromicina. Tutti i ceppi VRE risultarono sensibili al Sulfametossazolo-Trimetoprim e al Linezolid. Nella nostra esperienza i VRE sono stati isolati in maniera sporadica da differenti reparti ospedalieri suggerendo una origine non nosocomiale di questi ceppi. I dati da noi ottenuti sono in linea con quelli riportati da altri Autori in varie regioni italiane; tenendo conto che nella nostra esperienza gli MRSA rappresentano circa il 40% di S. aureus isolati presso il Servizio di Microbiologia e Parassitologia, al momento, nella nostra realtà, i VRE rappresentano una piccola percentuale dei ceppi isolati il cui comportamento nei confronti dei glicopeptidi va comunque monitorato nel tempo. RESISTENZE AI MACROLIDI RILEVATE IN S. PNEUMONIAE ISOLATI DALLE VIE RESPIRATORIE NEL BIENNIO 2001/2002. Pilloni A.P.** , Giordano B.**, Picillo G.**, Montella F.*, di Salvo R.*, Esposito G.*, Iovene M.R.* *Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia, Servizio di Batteriologia Clinica **Dipartimento di Internistica Clinica e Sperimentale “Magrassi Lanzara” II Università Degli Studi di Napoli-via Pansini,5 Introduzione S. pneumoniae è uno dei più comuni patogeni coinvolto nelle infezioni dell’apparato respiratorio e la resistenza acquisita nei confronti di ß lattamici, macrolidi o altri antibiotici è allo stato attuale aumentata in molte parti del mondo. Obiettivi Valutare la resistenza dei ceppi di S. pneumoniae isolati presso il Servizio di Batteriologia Clinica, II Università degli Studi di Napoli, negli ultimi due anni dalle vie aeree superiori ed inferiori nei confronti di Eritromicina, Tetraciclina e Cotrimoxazolo, farmaci di utilizzo comune nella terapia clinica. Metodi Per i ceppi di S. pneumoniae isolati da materiali respiratori sono state determinate le M.I.C nei confronti dei seguenti antibiotici: ß lattamici (penicillina, ampicillina, amoxicillina/ac clavulanico, cefaloridina, ceftriaxone, ed imipenem); Macrolidi (eritromicina, claritromicina) oltre che di ciprofloxacina,rifampicina cotrimoxazolo e tetraciclina. E’ stato incluso nel corso delle determinazioni il ceppo standard per il controllo di qualità secondo le norme NCCLS. Risultati Sul totale di 51 stipiti isolati si è osservata in particolare, la presenza di resistenza nei confronti di: Eritromicina (33.3%),Tetraciclina (35.2%), Cotrimoxazolo (21.5%) dati che appaiono sovrapponibili con quanto riferito da ns precedenti studi . In particolare si è osservato un aumento di resistenza nei confronti dell’Eritromicina e della Tetraciclina per le quali,avevamo osservato un’incidenza rispettivamente del 25,5 e del 27.4%. 28 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA RESISTENZA AI MACROLIDI E SIEROTIPI DI S. PNEUMONIAE IN ITALIA M.Monaco, R.Camilli, F.D’Ambrosio, M.F.Del Grosso, A.Pantosti. Istituto Superiore di Sanità, Roma. La resistenza all’eritromicina e agli altri macrolidi è un fenomeno in aumento in molte parti del mondo compresa l’Italia. In Streptococcus pneumoniae i meccanismi principali della resistenza ai macrolidi sono mediati dal gene erm(B) e dal gene mef(A). Il primo codifica per una metilasi che modifica il ribosoma conferendo alta resistenza a macrolidi, lincosamidi e streptogramina B (fenotipo MLSB). Il gene mef(A) codifica per una pompa di efflusso e conferisce una bassa resistenza a macrolidi a 14-15 atomi di carbonio (fenotipo M). Al gene mef(A) appartengono due sottoclassi mef(A) e mef(E). E’ stata studiata la resistenza all’eritromicina in 424 ceppi di S.pneumoniae isolati dal sangue e da liquor di pazienti ricoverati durante il periodo 2001-2003 in ospedali distribuiti su tutto il territorio nazionale. La sensibilità in vitro agli antibiotici è stata determinata utilizzando il pannello Sensititre (Biomedical) e confermata con E-test (Biolife) secondo le procedure raccomandate. Per l’interpretazione dei risultati sono stati utilizzati i breakpoint suggeriti dall’NCCLS. I geni di resistenza ai macrolidi erm(B), mef(A) e le sottoclassi di quest’ultimo sono stati individuati dopo amplificazione mediante PCR. Tutti i ceppi sono stati sierotipizzati utilizzando il pannello Pneumotest (Statens Seruminstitute, Copenhagen, Denmark). Di 424 ceppi invasivi di S.pneumoniae, 124 (29%) sono risultati resistenti all’eritromicina. Di questi, 73 (59%) erano portatori del gene erm(B), 47 (38%) portatori del gene mef(A), tre ceppi portatori di entrambi i geni e un ceppo risultava privo dei geni di resistenza noti ai macrolidi. Dei 47 isolati appartenenti alla classe mef(A), 11 (23%) presentavano il gene caratteristico della sottoclasse mef(E). Tra i 73 ceppi portatori del gene erm(B) i sierotipi più rappresentati erano 19F, 14, 15B, 23F, 6B, 3, 19A. Tutti i ceppi portatori del gene di sottoclasse mef(A) tranne tre appartenevano al sierotipo 14 mentre i ceppi portatori del gene di sottoclasse mef(E) appartenevano a sierotipi diversi. In Italia la resistenza ai macrolidi in S.pneumoniae è più diffusa che in altri paesi europei. La maggior parte dei ceppi resistenti all’eritromicina è portatore del gene erm(B), seguito dalla sottoclasse mef(A) ed in ultimo mef(E). La distribuzione dei geni di resistenza e dei sierotipi suggerisce che la diffusione della resistenza ai macrolidi è dovuta ad una combinazione di espansione clonale e di trasmissione orizzontale dei geni di resistenza. UTILIZZO DELL’ELETTROFORESI IN CAMPO PULSATO (PFGE) PER LO STUDIO DI UNA EPIDEMIA NOSOCOMIALE DA SERRATIA MARCESCENS IN UN REPARTO DI PATOLOGIA NEONATALE. aMigliavacca R., aNucleo E., bSpalla M., aMartino F., aAsticcioli S., bDaturi R., aPagani L. aDipartimento S.M.E.C. Sez. di Microbiologia, Università degli Studi di Pavia, via Brambilla 74, 27100 Pavia. bServizio Analisi Microbiologiche I.R.C.C.S. S.Matteo, Viale Golgi 19, 27110 Pavia. S.marcescens è un patogeno nosocomiale, spesso caratterizzato da diffusione epidemica, di difficile eradicazione. Nel periodo giugno-agosto 2003 nel reparto di Patologia Neonatale del I.R.C.C.S. San Matteo di Pavia si è verificata una epidemia da S.marcescens. Gli obiettivi dello studio sono stati: identificare il clone responsabile dell’episodio epidemico, distinguere fra stato di colonizzazione e di infezione, individuare i serbatoi ambientali del batterio, per circoscrivere e soffocare l’epidemia. Nel periodo 3/06-21/08 2003 sono stati raccolti 75 ceppi di S.marcescens ottenuti da 54 pazienti di cui 2 isolati da emocolture di 2 pazienti diversi, 69 da 108 tamponi rettali e 4 da 34 tamponi cutanei di controllo. Preponderante si è rivelata la colonizzazione intestinale da S.marcescens: 19/54 bambini erano colonizzati in sede rettale e coinvolti nell’epidemia. 3/19 erano colonizzati anche a livello cutaneo, 2/19 hanno sviluppato sepsi, 1/54 era colonizzato solo a livello ombelicale. Per valutare la relazione clonale fra isolati ottenuti da pazienti infetti e/o colonizzati, il DNA batterico è stato dapprima digerito con l’enzima XbaI, ottenendo 17 frammenti compresi tra 485 e 48.5 Kb. La genotipizzazione ha mostrato un identico pattern per tutti gli isolati ottenuti nel periodo 3-17/06/03 da 11 bambini. Successivamente, utilizzando l’enzima SpeI, si è ottenuta la separazione del DNA cromosomico in 24 frammenti a partire da 533.5 Kb, tale frammentazione ha facilitato l’interpretazione dei risultati. La presenza dello stesso clone si è confermata in altri 6 bambini (in 1 caso in sede ombelicale); in 2 pazienti il clone epidemico era presente anche a livello auricolare e/o in emocolture. I pattern relativi a 3 bambini ospedalizzati nello stesso periodo risultavano invece non epidemici. I prelievi ambientali sono risultati negativi facendo sospettare come mezzo di diffusione le mani del personale sanitario. L’analisi comparativa dei ceppi da sedi differenti dello stesso paziente e/o dalla stessa sede ha permesso di distinguere almeno 2 casi di infezione in individui colonizzati in sede intestinale e di constatare l’evoluzione nel tempo del pattern della specie epidemica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 29 DETERMINAZIONE DEL GENOMOVAR DI BURKHOLDERIA CEPACIA : SIGNIFICATO CLINICO ED EPIDEMIOLOGICO IN PAZIENTI CAMPANI CON FIBROSI CISTICA A.Lambiase (1), V.Raia (2), M.Del Pezzo (1), A.Napolitano (1), P.Ferrara (2) e A.Lavitola (1). Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L.Califano”. Centro di Riferimento Regionale per la Fibrosi Cistica. La Fibrosi Cistica (CF) è una malattia monogenica a trasmissione autosomica recessiva il cui difetto genetico predispone ad infezioni polmonari batteriche. I germi coinvolti sono andati modificandosi negli ultimi decenni, ed accanto a Pseudomonas aeruginosa e Staphylococcus aureus meticillino-resistente si ritrovano sempre più frequentemente specie rare quali Alcaligenes xylosoxidans, Stenotrophomonas maltophilia e soprattutto, Burkholderia cepacia (BC), bacillo gram-negativo aerobio-anaerobio facoltativo, multi-resistente, causa di gravi infezioni polmonari fino a quadri di sepsi fulminante (“Sindrome da cepacia”). Il Burkholderia cepacia complex (BCC) consiste di 9 genomovars (I-IX), non differenziabili biochimicamente, associati a differenti livelli di virulenza e la cui rapida e precisa identificazione contribuisce a prevenire le possibili catene di trasmissione, ad adottare schemi terapeutici più precoci e a definire il prognostico dei pazienti. Scopo del nostro studio è valutare la prevalenza di infezioni da BC in una coorte di pazienti campani affetti da CF, identificare il genomovar degli isolati e correlare quest’ultimo allo stato clinico del paziente. La tipizzazione molecolare degli isolati è effettuata tramite amplificazione del gene rec-A e successiva digestione degli ampliconi con le endonucleasi HaeIII e MnlI. Su 276 pazienti, arruolati da novembre 2001 a luglio 2003, 30 pazienti (10.8 %) risultano colonizzati da BC, di questi 15 hanno età superiore a 18 anni e 15 età inferiore. La funzionalità respiratoria dei pazienti è stata valutata mediante spirometria (valore medio di FEW1 63%) almeno 4 riesacerbazioni/anno, peggioramento dello stato nutrizionale. I nostri dati, in accordo con la letteratura più recente, indicano una netta prevalenza del genomovar III, questa correla con una progressiva ingravescenza della malattia respiratoria e con una elevata mortalità per grave insufficienza respiratoria scompensata (5 pazienti adulti e 2 pazienti pediatrici). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. LiPuma J.J. Current epidemiology of the Burkholderia cepacia complex.2001 Cystic Fibrosis Conference 2. McDowell A. et al. PCR-based detection and identification of Burkholderia cepacia complex pathogens in sputum from cystic fibrosis patients. J Clin Micr 2001;39:4247-4255. LA CIRCOLAZIONE IN AFRICA DEGLI INTEGRONI DI RESISTENZA AI FARMACI IN CEPPI CLINICI E AMBIENTALI DI V. CHOLERAE E V. PARAHAEMOLYTICUS Daniela Ceccarelli1, Annamaria Salvia1, Piero Cappuccinelli2,3, Mauro M. Colombo1,3 1DIP. BIOLOGIA CELLULARE E DELLO SVILUPPO, FAC. DI SCIENZE M.F.N., UNIV. DI ROMA LA SAPIENZA. 2DIP. SCIENZE BIOMEDICHE, FAC. DI MEDICINA, UNIV. DI SASSARI 3CICUPE: CONSORZIO INTERUNIVERSITARIO PER LA COOPERAZIONE UNIVERSITARIA CON I PAESI EMERGENTI, UNIV. DI ROMA LA SAPIENZA Il nostro studio si è focalizzato sulla circolazione degli integroni di classe I, portatori di resistenza ai farmaci nella pandemia di colera in Africa dal 1985 al 2002, in diversi paesi: Somalia, Rwanda, Burundi, Swaziland, con particolare attenzione alle epidemie del 1992 in Angola e del 1997 in Mozambico. Sono stati esaminati 28 ceppi di V. cholerae O1, d’origine clinica, confrontati con tre ceppi (O1 e O139) provenienti dal continente indiano ed un ceppo isolato in Italia nel 1994. Inoltre sono stati esaminati 4 ceppi ambientali di V. cholerae isolati in Mozambico nel 2002 e 3 ceppi clinici di V. parahaemolyticus isolati in Angola. Larga parte dei ceppi hanno mostrato la presenza di plasmidi coniugativi di multiresistenza. Sul totale dei 36 ceppi di V. cholerae O1 di cui 4 di riferimento, tutti trasportano almeno un integrone di resistenza di classe I (con l’esclusione di un ceppo somalo VCO 835 e del ceppo indiano VCO139 SG24), localizzati sul cromosoma o sul plasmide. Le cassette geniche identificate sono state aadA1 (resistenza alla spectinomicina), dfrA15 (resistenza al trimethoprim) e blaP1 (beta-lattamasi). Di particolare interesse è l’individuazione, in un ceppo angolano, di 3 integroni plasmidici, di cui uno mai descritto in precedenza e contenente le cassette geniche qacH (resistenza agli ammonio quaternari) ed aadA1, in un riarrangiamento anomalo. I ceppi ambientali sono invece caratterizzati da almeno un integrone contenente la cassetta blaP1. Inoltre abbiamo identificato e caratterizzato per la prima volta integroni di resistenza contenenti le cassette aadA1 e dfrA15 anche in V. parahaemolyticus. In conclusione la ricorrenza della cassetta aadA1 caratterizza l’integrone di classe I prevalente nei ceppi di V. cholerae circolanti nel continente africano. In generale possiamo anche ipotizzare che gli integroni con localizzazione plasmidica, essendo maggiormente esposti alle pressioni selettive e quindi più instabili, caratterizzerebbero ceppi in fase di adattamento; gli integroni cromosomali rappresenterebbero invece una riserva di resistenze ai farmaci, relativamente indipendente dalla pressione selettiva, segnalando così ceppi epidemici più maturi. 30 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA VALUTAZIONE DELL’IMPORTANZA DEL SITO DI PRELIEVO PER LA RICERCA DI STREPTOCOCCO B-EMOLITICO DI GRUPPO B NELLE DONNE IN GRAVIDANZA. Faraoni S., Gregori G., Fianchino B., Del Re S., Milano R., Natale G. Dipartimento di Diagnostica di Laboratorio, U.O. Microbiologia Ospedale Amedeo di Savoia, Torino INTRODUZIONE Lo Sreptococco b-emolitico di gruppo B rappresenta circa il 30% della flora saprofita vaginale. E’ considerato tra i più importanti patogeni nelle infezione neonatali in quanto è riconosciuto come uno degli agenti più comuni delle batteriemie e delle meningiti nei primi due mesi di vita. A seconda del periodo in cui si manifesta l’infezione, si distinguono due malattie neonatali, ad esordio precoce e ad esordio tardivo. La prima è caratterizzata prevalentemente da setticemia, polmonite e meningite, con un tasso di mortalità che può arrivare al 50%, la seconda, di minore gravità, caratterizzata principalmente da meningite. L’infezione nel neonato viene acquisita solitamente per contatto diretto durante il passaggio attraverso il canale del parto. SCOPO DEL LAVORO Si è voluto valutare la frequenza di isolamento dello Streptococcus agalactiae in una popolazione di donne gravide afferenti al nostro laboratorio e l’importanza del sito di prelievo del campione (doppio prelievo vagino-rettale) per una corretta identificazione della presenza del microrganismo. MATERIALI E METODI Al fine di identificare le donne eventualmente colonizzate e candidate alla profilassi intrapartum è stato effettuato uno screening tra la 35-37esima settimana di gestazione su un campione di 323 donne gravide, nel periodo compreso tra novembre 2002 e agosto 2003. Per ogni paziente sono stati effettuati due tamponi, uno vaginale ed uno perianale, seminati direttamente su piastre di CNA (Bio Merieux) e incubati in atmosfera di CO2 al 5% per 24-48 h. RISULTATI La frequenza di isolamento riscontrata nel nostro laboratorio è stata del 10%. Analizzando i campioni positivi non è stata osservata una piena concordanza tra i due tipi di prelievi effettuati: infatti l’13% delle donne risulta positiva solo al prelievo vaginale, il 56% solo al prelievo perianale e il 31% ad entrambi. Inoltre è stato evidenziato che il 34% delle pazienti con isolamento positivo presenta sintomatologia quale prurito, bruciore, leucorrea. COMPARAZIONE DELLA POSITIVITA’A CHLAMYDIA TRACHOMATIS TRA UNA POPOLAZIONE ESPOSTA A FATTORI DI RISCHIO ED UNA POPOLAZIONE DI CONTROLLO. Gregori G., Faraoni S., Fianchino B., Del Re S., Milano R., Natale G. Dipartimento di Diagnostica Di Laboratorio, U.O. Microbiologia, Ospedale Amedeo di Savoia, Torino INTRODUZIONE. Chlamydia trachomatis è un batterio gram negativo immobile, parassita intracellulare obbligato delle cellule eucariote. E’ uno dei principali patogeni responsabili di infezioni trasmesse sessualmente. Può causare uretriti e proctiti, cerviciti, salpingiti, malattia infiammatoria pelvica e può essere causa di sterilità. E’ inoltre la causa più frequente dell’uretrite non gonococcica dell’uomo. Nelle donne le conseguenze delle infezioni da Chlamydia trachomatis sono gravi se non trattate farmacologicamente. SCOPO DEL LAVORO. Si è voluta analizzare la variazione della positività all’infezione da Chlamydia trachomatis su campioni pervenuti nel periodo compreso tra gennaio 1998 e dicembre 2002, valutando l’eterogeneità della popolazione da cui provenivano: pazienti a rischio (sieropositivi, omosessuali, prostitute) e non esposti a particolari fattori di rischio (pazienti con sospette vaginiti, portatrici di IUD, candidate alla fecondazione assistita). MATERIALE E METODI. La ricerca di Chlamydia trachomatis è stata eseguita su tamponi uretrali, tamponi endocervicali, urine e liquido seminale utilizzando una metodica di PCR qualitativa (kit AMPLICOR CT/NG, Roche Diagnostic System-NJ, USA). La rivelazione è stata ottenuta tramite reazione colorimetrica in seguito ad ibridazione dei prodotti amplificati con sonde oligonucleotidiche specifiche per il bersaglio. RISULTATI. Nell’arco di tempo sopra indicato sono stati processati 5380 campioni, che presentavano una percentuale di positività media del 4,92%. Valutando ogni singolo anno si è riscontrata un’oscillazione della positività da un minimo del 3,23% (nel 1998) ad un massimo 6,64% (nel 1999). SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 31 ESPLORAZIONE DELLA BIODIVERSITÀ MICROBICA IN AMBIENTI GLACIALI ISOLAMENTO ED IDENTIFICAZIONE DI LIEVITI DA ACQUE DI FUSIONE DI GHIACCIAI ALPINI C. Alese 1, P. Buzzini 1, C. Smiraglia 2, G. Diolaiuti 2, C. D’Agata 2, B. Turchetti 1, A. Martini 1 1 Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali, Sezione di Microbiologia Applicata, Università di Perugia. 2 Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Milano. La presenza di microrganismi nell’atmosfera è nota sin dai tempi di Pasteur. Essendo organismi unicellulari, i microrganismi possono essere infatti facilmente sollevati dalle superfici naturali e trasportati dalle correnti d’aria calda o dai venti. Si assume pertanto che, le precipitazioni nevose trascinino ogni anno a terra una quantità variabile di microrganismi. Nei ghiacciai i microrganismi rimangono intrappolati come cellule congelate in grado di sopravvivere per periodi anche molto lunghi. Queste cellule microbiche presentano potenzialmente l’età della loro deposizione dall’atmosfera, la quale può essere facilmente datata con le tecniche della glaciologia nel caso dei ghiacciai “freddi” (calotte polari ed alti bacini alpini). I ghiacciai alpini temperati rappresentano pertanto importanti habitat depositari di questi “fossili” microbici viventi. A causa delle crescenti evidenze relative alla presenza di microrganismi in ambienti inesplorati, anche i ghiacciai possono infatti essere considerati fonti estremamente promettenti di microrganismi e, talvolta, una fonte di nuove specie microbiche. Le escursioni sono state condotte nel corso dell’estate 2002 e 2003 nel ghiacciaio dei Forni ed in quello dello Sforzellina, entrambi situati in Valfurva (Sondrio). I campioni di acqua di fusione sono stati prelevati dal flusso proveniente da scaricatori posti sul fronte dei ghiacciai. La conta e l’isolamento (oltre 90 ceppi), ottenuti tramite l’uso di membrane filtranti, ha condotto alla determinazione di un numero medio di lieviti pari a 15 cellule/litro. L’identificazione dei ceppi isolati, sia pur limitata in questa fase alla designazione del genere, ha condotto ai seguenti risultati: i) oltre l’80% dei ceppi isolati sono risultati essere basidiomiceti; ii) i due generi maggiormente rappresentati in entrambi i ghiacciai sono risultati essere Cryptococcus spp. e Rhodotorula spp., con percentuali pari al 33 e 18%, rispettivamente; iii) è stata messa in evidenza la presenza di organismi yeast-like (7% degli isolati); iv) una rilevante percentuale (12%) dei ceppi isolati sono risultati di non chiara attribuzione tassonomica. SVILUPPO DI UN CEPPO BATTERICO “REPORTER” PER IL CONTROLLO PRE-ANALITICO E ANALITICO NEL RILEVAMENTO MEDIANTE PCR DI LEGIONELLA AMBIENTALE. Raimondi A., R. Ticozzi, M.G. Neri, A. Pessina. Istituto di Microbiologia dell’Università degli Studi di Milano. I batteri del genere Legionella sono responsabili di infezioni opportunistiche che si manifestano prevalentemente in soggetti anziani e/o affetti da patologie di tipo cronico-degenerativo o neoplastico, sia in ambiente ospedaliero che comunitario. L’infezione, contratta prevalentemente per inalazione di aerosol contaminati, si manifesta in modo clinicamente poco specifico, questo non facilita la diagnosi eziologica e causa una sottostima del numero dei casi di legionellosi. La diffusione avviene attraverso gli impianti di condizionamento, le reti di distribuzione dell’acqua calda e impianti di umidificazione. Il controllo degli impianti delle strutture ospedaliere e comunitarie è stato recentemente regolato per legge in diversi paesi. In Italia le Linee Guida pubblicate sulla G.U. 5.5.2000 serie 103 fissano i limiti di accettabilità della contaminazione batterica determinata con metodo colturale tra ≤103 e ≤104 cfu/l, a seconda dei casi, con una sensibilità del metodo ≥102 cfu/l di acqua. Nella metodica colturale sono evidenti due aspetti critici: l’efficienza della fase preanalitica di concentrazione del campione ed il rischio di mascheramento delle legionelle da parte di contaminanti ambientali a crescita più rapida. L’indagine mediante metodica PCR, potenzialmente più sensibile, risente in ugual misura del rischio preanalitico ed inoltre è sensibile alla presenza nell’acqua di inibitori della reazione. Con questo lavoro ci siamo proposti di costruire un elemento di controllo dell’indagine per il rilevamento di legionelle mediante PCR e di valutazione del rischio di sottostime o di false negatività connesso con l’intero processo. A questo scopo abbiamo trasformato un ceppo di E. coli con un costrutto (pGZ119-L62) ottenuto inserendo nel plasmide pGZ119 un frammento modificato del gene dell’rRNA 16 S di Legionella spp.. La modifica, consistente in una delezione di 40 basi e sostituzione con 180 basi di DNA esogeno, produce un aumento di lunghezza del 20% del frammento che lo rende riconoscibile rispetto a quello originale. I due frammenti, quello originale e quello modificato clonato in E. coli, sono co-amplificabili e significativi della presenza di Legionella spp. e, rispettivamente, del batterio “reporter”. Mediante l’aggiunta a campioni sperimentali ed ambientali di quantità note del ceppo E. coli /pGZ119-L62 ne sono stati determinati i limiti di rilevabilità mediante metodica PCR in varie condizioni e valutata la possibilità di un suo utilizzo come competitore per la quantificazione delle legionelle presenti. 32 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA ENTEROCOCCUS FAECALIS PERSISTE NELLE ACQUE LACUSTRI E MARINE PREVALENTEMENTE IN FORMA NON COLTIVABILE ED ADESO ALLO ZOOPLANKTON. Gloria Burlacchini1*, Caterina Signoretto1, Maria del Mar Lleò1, Carla Pruzzo2 e Pietro Canepari1. 1Dipartimento di Patologia, Sezione di Microbiologia dell’Università di Verona, 37134 Verona e 2Istututo di Microbiologia dell’Università Politecnica delle Marche, 60131 Ancona. Recenti ricerche hanno sempre più convincentemente affermato il ruolo giocato dallo stato vitale ma non coltivabile e dell’adesione a strutture contenenti chitina (quali quelle contenute nello zooplankton marino e di acque dolci) nella persistenza di batteri patogeni nell’ambiente. Da ciò ne consegue che i metodi attualmente utilizzati per monitorare la qualità microbiologica di prelievi ambientali potrebbero non essere sufficienti per la adeguata protezione della salute umana in quanto capaci di rilevare solo la presenza di batteri in forma coltivabile. Al fine di mettere a punto metodi diagnostici più sensibili, in questo lavoro vengono presentati i dati conclusivi di una ricerca, durata due anni, in cui si è valutata la presenza di enterococchi (un importante indicatore di inquinamento fecale) in acque sia lacustri che marine comparando metodi molecolari con metodi colturali. In più, si è valutata la possibilità che lo zooplankton possa fungere da serbatoio ambientale di questi microrganismi. I prelievi di acqua e di zooplankton sono stati effettuati con scadenza mensile dal Lago di Garda (di fronte a Lazise, Verona) e dal Mare Adriatico (di fronte a Senigallia, Ancona). I risultati da noi ottenuti consentono di affermare che, contrariamente al metodo colturale, l’applicazione della PCR ha permesso di rilevare la presenza di enterococchi sia nel lago che nel mare nel corso dell’intero anno a titoli assai elevati ed, inoltre, quando lo zooplankton era presente gli enterococchi sono sempre stati ritrovati esclusivamente adesi ad esso. Enterococchi liberi nell’acqua sono stati rilevati solo nei casi di assenza di zooplankton. In conclusione questi dati indicano chiaramente che i metodi diagnostici molecolari conferiscono di gran lunga una più elevata sensibilità e perciò viene suggerito il loro impiego anche nel monitoraggio ambientale di routine. Inoltre, il fatto che lo zooplankton possa fungere da struttura per l’adesione di patogeni ne può determinare la loro pesante concentrazione ed il loro movimento con le correnti o le maree in modo tale, quindi, da alterare significativamente il dato analitico ottenuto con l’applicazione dei soli metodi tradizionali. PRESENZA DI ARCOBACTER SPP. NELL’AMBIENTE COSTIERO DEL MAR MEDITERRANEO M. T. Fera1*, T. L. Maugeri2, C. Gugliandolo2, C. Beninati1, M. Giannone1, E. La Camera1, and M. Carbone1 Dipartimento di Patologia e Microbiologia Sperimentale1, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dipartimento di Biologia Animale ed Ecologia Marina2, Facoltà di Scienze MM FF NN, Università di Messina, 98100 Messina, Italia. Questo studio della durata complessiva di 12 mesi ha valutato la presenza di Arcobacter spp. liberi nell’acqua marina ed adesi al plancton, sia sotto forma di stato vitale, coltivabile, sia sotto forma di stato “non coltivabile” rispettivamente, con metodi colturali e tecniche di biologia molecolare. L’indagine è stata condotta su campioni di acqua marina e campioni di plancton di dimensioni superiori a 200 mm e di plancton di dimensioni comprese tra 64 mm e 200 mm raccolti nello Stretto di Messina (mar Ionio e mar Tirreno). La PCR eseguita con tre paia di primers aventi come bersaglio specifiche sequenze genomiche di DNA che codificano per parti altamente conservate delle subunità 16S e 23S del r-RNA, era utilizzata per la presenza e l’identificazione di A. butzleri, A. cryaerophilus e A. skirrowii, sia dalle colture che dai campioni ambientali. Tra le specie di Arcobacter, solo A. butzleri è stato isolato dai campioni di acqua e di plancton. La PCR ha dato prodotti amplificati per A. butzleri anche quando le colture erano negative. La detenzione di A. cryaerophilus, A. skirrowii da tutti i tre tipi di campioni si è avuta solo tramite PCR, mai culturalmente. Dai nostri risultati si evince che la metodica molecolare non solo ha consentito di effettuare una identificazione a livello di specie, ma anche di rilevare la presenza di forme non colturabili del genere Arcobacter, sia come batteri liberi nell’acqua, sia adesi al plancton. Interessante il rilevamento mediante PCR di A. cryaerophilus e A. skirrowii che non erano stati evidenziati tramite i metodi colturali. Da una lettura dei risultati in relazione alla differenza di adesione al plancton di Arcobacter spp., si evince che vi è una loro netta prevalenza nella frazione grande. Non c’è stata nessuna differenza nell’isolamento colturale di A. butzleri dalle due frazioni di plancton esaminate. Complessivamente, si può affermare per la prima volta, che il genere Arcobacter appartiene alla flora autoctona del mar Mediterraneo. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 33 VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ MICROBIOLOGICA DELL’ARIA DI EDIFICI ADIBITI AD ATTIVITÀ DIDATTICA. PROPOSTA DI INDICI E DI VALORI GUIDA. Grisoli P.1, Chiara T.2, Zonta L.A.3, Dacarro C.1 1Dipartimento di Farmacologia Sperimentale ed Applicata – Lab. Di Microbiologia, Università degli Studi di Pavia. 2Divisione di Igiene e Sicurezza Università degli Studi di Pavia. 3Dipartimento di Genetica e Microbiologia, Università degli Studi di Pavia. Le misure di contaminazione microbiologica dell’aria consentono di verificare il corretto funzionamento di impianti centralizzati di ventilazione, riscaldamento e condizionamento e di proporre valori di riferimento da considerare come standard igienici per la definizione della salubrità dell’aria dell’ambiente di lavoro esaminato. In questa ricerca è stata valutata la contaminazione microbiologica dell’aria di alcune aule dell’Università di Pavia. Sulla base dei valori di carica batterica e micetica ottenuti, sono stati determinati i seguenti indici: Indice Globale di Contaminazione Microbica, (IGCM/m3 = (CFU/m3 batteri mesofili) + (CFU/m3 batteri psicrofili) + (CFU/m3 miceti); Indice di Contaminazione da batteri Mesofili, (ICM = (CFU/m3 batteri mesofili) : (CFU/m3 batteri psicrofili); Indice di Amplificazione della contaminazione microbica, IA = (IGCM/m3 interno edificio) : (IGCM/m3 esterno edificio). Il calcolo di IGCM/m3 evidenzia una bassa contaminazione microbica delle aule con valori di mediana simili e con valori di 95° percentile che oscillano intorno a 1000 CFU/m3 nei periodi di ventilazione, riscaldamento e condizionamento; il valore massimo di IGCM, pari a 1508, si registra nel periodo di condizionamento. Anche per ICM non emergono differenze significative nelle diverse modalità di trattamento dell’aria, si osserva un valore massimo pari a 5,5 nella fase di condizionamento. I valori mediani di IA riscontrati risultano essere sempre inferiore ad 1 ed evidenziano l’assenza di amplificazione della contaminazione microbica rispetto all’esterno. I batteri mesofili presentano un valore massimo di contaminazione (750 CFU/m3) durante il periodo di ventilazione mentre per i batteri psicrofili il picco di contaminazione (868 CFU/m3) si registra durante il condizionamento. Si evidenziano differenze significative per i miceti che assumono un valore mediano di CFU/m3 superiore durante la fase di condizionamento (p=0.006) rispetto al riscaldamento ed alla ventilazione semplice con un indicazione massima di contaminazione (681 CFU/m3), nel periodo estivo (condizionamento). TINEA UNGUIUM: UN CASO INSOLITO Greco A.M., Buscema M., Oliveri S. Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche U.O. Laboratorio Analisi, Azienda Policlinico, Università di Catania Gli autori presentano un caso di tinea unguium della mano e del piede, osservato in una paziente di 28 anni, istruttrice di ginnastica, dalla quale sono stati isolati rispettivamente Microsporum canis e Trichophyton mentagrophytes. La paziente è pervenuta alla nostra osservazione per uno sfaldamento latero-distale della lamina ungueale del 3° dito della mano dx, accompagnato da dolore, con lieve edema del letto ungueale distale. L’osservazione microscopica del raschiato ungueale metteva in evidenza presenza di ife settate. Sul terreno di Sabouraud sia addizionato di gentamicina e cloramfenicolo sia di actidione sono state osservate tipiche colonie, identificate come Microsporum canis. Al primo controllo effettuato dopo una iniziale terapia prescritta dal medico di base, la paziente riferiva di avere osservato anche nella lamina ungueale del 1° dito del piede sx un leggera alterazione. L’esame micologico confermava una tinea unguim del piede ma con l’isolamento di Trichophyton mentagrophytes var. mentagrophytes. Noi segnaliamo questo caso, innanzitutto per la rarità dell’isolamento di M. canis dalle unghie ed in particolare in soggetti immunocompetenti, poi per il particolare quadro clinico osservato nell’unghia invasa da M. canis, ed infine per l’isolamento di due dermatofiti zoofili dalle unghie della medesima paziente, caso fino ad oggi mai descritto. 34 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA TIPIZZAZIONE DI CEPPI DI ASPERGILLUS FUMIGATUS ISOLATI DA PAZIENTI CON FIBROSI CISTICA Francesca Sisto1, Monica Drago1, Maria Maddalena Scaltrito1, Lisa Cariani2 e Giulia Morace1 1 Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano e 2 Istituti Clinici di Perfezionamento, Milano I soggetti affetti da fibrosi cistica (FC) sono frequentemente esposti ad infezioni polmonari batteriche sostenute in gran parte da Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa. A causa del danno dell’epitelio bronco-polmonare che ne deriva, questi individui sono esposti anche alle infezioni fungine e Aspergillus fumigatus spesso colonizza il loro tratto respiratorio. E’ noto che negli individui immunocompromessi l’incidenza di aspergillosi è molto alta ed è stato dimostrato che alcuni genotipi, in determinate aree geografiche, sono predominanti e persistenti. Scopo del nostro lavoro è stato quello di verificare se anche nella FC le infezioni da A. fumigatus sono sostenute da un genotipo dominante. Su 27 ceppi isolati da altrettanti pazienti con FC è stata valutata inizialmente la sensibilità a voriconazolo, itraconazolo e amfotericina B con il metodo NCCLS-M38A. I dati ottenuti non hanno evidenziato alcuna differenza in quanto i valori medi di MIC sono risultati compresi entro uno stretto range in tutti i ceppi saggiati, ad eccezione di un ceppo in cui il valore per l’itraconazolo era uguale a 16 mg/ml. Abbiamo quindi voluto verificare se a questa uniformità fenotipica corrispondesse un’altrettanta uniformità genotipica e se la resistenza all’itraconazolo riscontrata in un singolo ceppo fosse da attribuire ad un particolare assetto genomico. Per tale scopo il DNA estratto è stato tipizzato mediante Random Amplified Polymorphic DNA (RAPD) utilizzando il primer, NS3 (22 bp), la cui sequenza deriva dal gene della subunità 18S del ribosoma fungino. I risultati ottenuti hanno evidenziato la presenza di almeno quattro pattern diversi. di cui uno è maggiormente rappresentato. I campioni sono stati analizzati anche con un altro primer, R108, la cui lunghezza è di 10 bp. I ceppi che erano stati raggruppati come singolo “tipo” sulla base della similitudine dei pattern ottenuti con il primer NS3, sono risultati essere invece diversi con il primer R108. Ciò dimostra che i ceppi sono geneticamente correlati ma comunque diversi fra loro. L’utilizzo quindi di almeno due primers è necessario al fine di rendere più discriminante il metodo. Inoltre dall’analisi dei risultati ottenuti non si è evidenziata alcuna differenza genotipica fra il ceppo resistente all’itraconazolo e gli altri con fenotipo di farmaco-sensibilità. Lavoro eseguito nell’ambito del progetto COFIN UTILIZZAZIONE DEL Sensititre YeastOne PER LA SENSIBILITÀ IN VITRO DI CEPPI CLINICI DI C. GLABRATA E C. KRUSEI. Monica Drago, Maria Maddalena Scaltrito e Giulia Morace Istituto di Microbiologia,Università degli Studi, Milano La candidosi disseminata è una tra le maggiori manifestazioni opportunistiche invasive nel paziente immunocompromesso, con un’incidenza notevolmente aumentata negli ultimi dieci anni, soprattutto di quella causata da specie di Candida non albicans (C. glabrata, C. krusei e C. tropicalis). Uno dei principali fattori che hanno contribuito a questo cambiamento è stato l’aumento dell’uso di farmaci antifungini che ha favorito la comparsa di specie con resistenza innata e acquisita (C. glabrata, C. krusei ). Risulta quindi importante saggiare in vitro l’effettiva sensibilità dei ceppi di Candida spp. responsabili dell’infezione. A tale scopo sono stati saggiati 372 ceppi di Candida (63 C. krusei, 309 C. glabrata) utilizzando un sistema commerciale Sensititre YeastOne, che ha permesso di confrontare 6 antimicotici (Amfotericin B, Fluconazolo, Itraconazolo, Ketoconazolo, 5Fluorocitosina, Voriconazolo). Dai dati ottenuti C. krusei è risultata sensibile ad Amfotericina B con MIC90 di 0,25 mg/ml) e Voriconazolo con MIC90 di 0,5 mg/ml, mentre ha confermato la sua innata resistenza a Fluconazolo con MIC90 di 64 mg/ml e 5-Fluorocitosina con MIC90 di 16 mg/ml, per Itraconazolo e Ketoconazolo i valori di MIC90 sono stati rispettivamente di 0,5 ed 1 mg/ml. Anche C. glabrata è risultata sensibile ad Amfotericina B (MIC90 di 0,125 mg/ml) e Voriconazolo con MIC90 di 0,5 mg/ml e 5-Fluorocitosina (MIC90 £0,03 mg/ml), i valori di MIC90 per Fluconazolo (32 mg/ml) e Itraconazolo (2 mg/ml) hanno dimostrato la scarsa sensibilità della specie a tali farmaci, il Ketoconazolo ha evidenziato gli stessi valori ottenuti per i ceppi di C. krusei. I risultati dimostrano che il nuovo triazolo, il voriconazolo di recente approvato per uso terapeutico, può essere considerato una valida alternativa ai farmaci antifungini già in uso, soprattutto nei confronti di quei ceppi di Candida che mostrano resistenza innata o acquisita nei confronti del fluconazolo, e che il sistema commerciale, Sensititre YeastOne, utilizzato in modo appropriato è in grado di fornire risultati attendibili e riproducibili. Lavoro eseguito nell’ambito dello Studio Multicentrico GISIA-2 SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 35 USO DI TOSSINE KILLER PER IL FINGERPRINTING DI CEPPI DI SACCHAROMYCES CEREVISIAE. VALUTAZIONE DEL POTERE DISCRIMINANTE DI DIFFERENTI METODI P. Buzzini, B. Turchetti, A Martini Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali, Sezione di Microbiologia Applicata, Università di Perugia. Nonostante l’identificazione dei lieviti richieda una procedura convenzionale ben definita (oltre 90 test morfologici e fisiologici), seguita da tecniche molecolari per la certificazione a livello di specie (es. riassociazione nDNA-nDNA), in alcuni casi, laddove è necessaria una protezione ai fini brevettuali di ceppi di lievito di interesse industriale, è necessario ottenere una discriminazione tra ceppi differenti appartenenti ad una medesima specie (fingerprinting). A questo scopo, nel corso degli ultimi anni, sono stati messi a punto una serie di metodi di tipo biochimico e molecolare in grado di assicurare, ad un livello di sicurezza legale, la discriminazione tra ceppi differenti. In tal senso, il fenomeno killer, in grado di esprimere una variabilità di tipo ceppo specifico, è stato pertanto in anni recenti per il fingerprinting di ceppi di lievito di interesse clinico e/o industriale. Un pannello composto da 44 ceppi di Saccharomyces cerevisiae di differente origine, tutti certificati tramite riassociazione nDNA-nDNA, è stato utilizzato per la valutazione del potere discriminante posseduto da un pannello di 24 proteine killer secondo 3 differenti metodi basati sulla differente valutazione del grado di sensibilità: i) uso di matrici di dati binari (BDM = sequenze di presenza/assenza di sensibilità alle proteine killer espresse in forma binaria); ii) uso di matrici di dati raggruppati in triplette (TDM = dati binari raggruppati in triplette; codici numerici da 1 a 8, rappresentanti le sequenze di 0 o 1 raggruppate in tutte le possibili combinazioni, sono stati sostituiti a ciascuna tripletta); iii) uso di matrici di dati numerici (NDM = sensibilità differenziali espresse dalle differenti aree di inibizione osservate in piastre Petri, espresse sotto forma numerica). L’analisi del potere discriminante, valutato tramite gli indici per la misura della diversità di Simpson e di Hunter e Gaston, ha messo in evidenza che l’uso di matrici di dati numerici (NDM) è in grado di discriminare un numero maggiore di ceppi di S. cerevisiae rispetto agli altri due metodi. PURIFICAZIONE E CARATTERIZZAZIONE DI UNA PROTEINA KILLER PRODOTTA DA DEBARYOMYCES HANSENII ATTIVA CONTRO CEPPI DI LIEVITI PATOGENI B. Turchetti 1, M. Buratta 2, P. Buzzini 1, L. Corazzi 2, A Martini 1 1 Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali, Sezione di Microbiologia Applicata, Università di Perugia. 2 Dipartimento di Medicina Interna, Sezione di Biochimica, Università di Perugia Sebbene alcune proteine killer (micocine) siano state in passato studiate per scopi di tipo terapeutico, l’utilizzazione di queste molecole come agenti di tipo antimicotico per trattamenti di tipo topico, è, allo stato delle attuali conoscenze, fortemente limitata dal fatto che le micocine finora isolate e caratterizzate hanno evidenziato una attività solo entro intervalli di pH e di temperatura abbastanza ristretti (oltre 5.5 e 25–30 °C). Recenti studi hanno tuttavia messo in evidenza come l’esplorazione della diversità metabolica espressa dalle comunità microbiche presenti negli habitat naturali inesplorati possa rappresentare una importante opportunità di isolamento e selezione di microrganismi in grado di produrre molecole di interesse industriale. A tale scopo, sono stati condotti negli ultimi anni programmi di screening su larga scala allo scopo di isolare ceppi di lievito produttori di proteine in grado di esprimere una rilevante attività fungicida nei confronti di lieviti patogeni anche al di fuori degli intervalli di pH e temperatura sopra riportati. In tal senso, una proteina killer (DhKT), isolata da Debaryomyces hansenii DBVPG 4561, isolato da ambienti di tipo tropicale, mostrante un ampio spettro di attività nei confronti di lieviti patogeni, è stata purificata e caratterizzata. DhKT è stata precipitata con etanolo e purificata tramite ion-exchange chromatography. La frazione attiva, separata su SDS-PAGE, è risultata essere composta da una singola banda caratterizzata da un peso molecolare di circa 62 KDa. La assenza di frazioni glucosidiche nella DhKT purificata, suggerisce che si tratta di una proteina non glicosilata. Dopo purificazione, DhKT manifesta una attività killer nei confronti di ceppi di Candida spp. entro un ampio range di pH (4.5 – 7.0) e di temperatura (4 – 45°C). Concentrazioni di DhKT pari a 315 ng/ml determinano un effetto fungicida su cellule di Candida glabrata DBVPG 7212, mentre una concentrazione pari a 63.0 ng/ml esercita solo un effetto di tipo fungistatico. 36 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA RUOLO DI PTX3 NELLA RISPOSTA IMMUNE ANTIFUNGINA S. Bozza*, C. Montagnoli*, C. Garlanda+, A. Mantovani+, F. Bistoni* e L. Romani*. Sezione di Microbiologia* Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Perugia e Dipartimento di Immunologia e Biologia Cellulare+ Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano. Le pentraxine classiche sono proteine a struttura pentamerica altamente conservate durante l’evoluzione dal Limulus all’uomo. Queste molecole sono prodotte dal fegato in risposta a vari mediatori dell’infiammazione e si ritiene svolgano un ruolo importante nelle difese naturali dell’organismo. PTX3 o pentraxina lunga si differenzia da quelle note per essere molto più “lunga” e per la sede della sintesi, in quanto è prodotta da vari tipi cellulari, in particolare macrofagi, cellule endoteliali e dendritiche. I livelli plasmatici di PTX3 risultano ridotti in condizioni basali mentre si assiste ad un incremento in seguito all’instaurarsi di condizioni patologiche severe, comprese le patologie infettive. E’ noto che PTX3 è in grado di coniugarsi in maniera specifica ad alcuni microrganismi (batteri e funghi), come ad esempio Aspergillus fumigatus. Nel presente lavoro abbiamo condotto studi al fine di valutare l’attività funzionale di PTX3 in un modello murino di aspergillosi polmonare invasiva (IPA). A tale scopo sono stati utilizzati topi deficienti per PTX3(-/-) i quali risultavano altamente suscettibili all’infezione. La suscettibilità correlava con una significativa carica fungina a livello polmonare e cerebrale. Tuttavia, il trattamento di topi PTX3 (-/-) con PTX3 purificata aumentava il tempo mediano di sopravvivenza degli animali, riduceva significativamente la carica fungina nel parenchima polmonare e migliorava notevolmente il quadro istopatologico. Esperimenti in vitro hanno inoltre dimostrato come la fagocitosi e l’attività conidiocida di macrofagi alveolari di topi PTX-/- risultava significativamente ridotta rispetto ai topi PTX+/+. Questi dati suggeriscono che PTX3 svolge un ruolo importante nelle difese dell’organismo verso agenti patogeni e che il trattamento farmacologico con PTX3 potrebbe essere utile in determinate condizioni morbose, come le infezioni fungine. Finanziato da Progetto Nazionale di Ricerche AIDS 50D.27, “Infezioni opportunistiche e Tubercolosi”. UTILIZZO DI CELLULE DENDRITICHE NELLA VACCINAZIONE ANTIFUNGINA. S. Bellocchio, S. Bozza, C. Montagnoli, R. Gaziano, G. Rossi, G. Nkwanyuo, L. Pitzurra, F. Bistoni, L. Romani. Sezione di Microbiologia- Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche- Università degli Studi di Perugia. Osservazioni recenti sulle attività funzionali di cellule dendritiche (DC) suggeriscono che tali cellule hanno un ruolo “chiave” nell’indirizzare le risposte antifungine specifiche in senso Th1 e Th2 e quindi, in ultima analisi, sono responsabili dell’esito, favorevole o meno, dell’infezione micotica. Considerata la fisiologica dislocazione di DC in distretti come quello cutaneo e mucoso, sedi elettive di funghi commensali, quali Candida albicans, o di funghi acquisiti per via inalatoria, quali Aspergillus fumigatus, lo studio volto a chiarire i meccanismi del “menage a trois”, funghi-DC-linfocita T CD4+, appare quanto mai razionale e potrebbe avere importanti ricadute di ordine vaccinale e terapeutico. Nell’ambito di precedenti ricerche abbiamo già evidenziato come l’abilità di DC pulsate con Candida a indirizzare in senso Th1 e Th2 l’attivazione cellulare dopo trasferimento adottivo in vivo, correlava con la resistenza e la suscettibilità al fungo. In eguale modo anche la trasfezione di DC con RNA fungino risultava essere efficace nell’induzione di un’immunità protettiva antifungina in vivo. Nel presente lavoro abbiamo saggiato l’utilità di DC pulsate con Aspergillus nel conferire resistenza antifungina in vivo. A tale scopo abbiamo valutato : La capacità di attivazione di DC da parte di funghi vitali ed RNA fungini, e se diversi programmi di attivazione siano mediati da diversi recettori di riconoscimento, inclusi Toll-like receptors (TLRs). L’abilità di DC attivate dal fungo a generare un’immunità antifungina in vivo dopo trasferimento adottivo in topi altrimenti suscettibili all’aspergillosi. I risultati hanno dimostrato che: La somministrazione di DC, opportunamente istruite, conferisce immunità protettiva in modelli sperimentali di infezione. DC “pulsate” con RNA proveniente da RNA di conidio inducono, dopo rilascio in vivo, protezione contro il fungo in topi sottoposti a trapianto di midollo allogenico. L’attivazione di specifici programmi nelle DC da parte del fungo vitale e dell’RNA fungino correlano con una diversa espressione dei TLRs. Questi risultati depongono per un ruolo chiave svolto da DC nell’induzione di uno stato immune correlabile alla protezione antifungina e puntano all’uso potenziale di DC trasfettate con RNA come vaccini antinfettivi. Finanziamento da Progetto Nazionale di Ricerche AIDS 50D.27, “Infezioni opportunistiche e Tubercolosi”. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 37 COINVOLGIMENTO DELLE MANNOPROTEINE NELLA PROTEZIONE IMMUNE VERSO I FUNGHI Donatella Pietrella, Cristina Corbucci, Patrizia Lupo, Francesco Bistoni e Anna Vecchiarelli. Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università degli Studi di Perugia, Perugia. Le mannoproteine (MP) sono importanti costituenti strutturali della parete cellulare fungina. Studi recenti, condotti nel nostro laboratorio, hanno dimostrato che la MP di Cryptococcus neoformans (Cn-MP) è in grado di stimolare la risposta blastogenica dei linfociti T in presenza di cellule presentanti l’antigene (APC), di indurre la produzione di IL-12 da parte dei monociti umani e di IFN-g dai linfociti T. In un sistema in vivo, la Cn-MP ha indotto protezione contro il C. neoformans promuovendo una precoce e massiccia risposta T helper di tipo 1 (Th1) correlata con una rapida eliminazione del carico fungino dal cervello. In seguito, la risposta Th1 specifica indotta dalla Cn-MP si è dimostrata attiva nella protezione crociata verso Candida albicans. Tale fenomeno è probabilmente ascrivibile alla presenza di determinanti antigenici comuni tra le MP di C. neoformans e le mannoproteine di C. albicans. Tale ipotesi è suggerita dal fatto che un anticorpo monoclonale specifico verso una mannoproteina di C. albicans (Ca-MP) ha riconosciuto un costituente di circa 100 KDa degli estratti di C. neoformans. Inoltre, la Ca-MP ha indotto, in vivo, una risposta di ipersensibilità di tipo ritardato (DTH) verso la Cn-MP. Poiché l’attivazione delle cellule T da parte della Cn-MP è legata alla presenza esclusiva delle APC, abbiamo analizzato l’interazione della Cn-MP con le cellule dendritiche (DC) considerate le APC per eccellenza. La Cn-MP ha influenzato profondamente la maturazione e l’attivazione delle DC umane facilitandone la funzione accessoria, promuovendo la produzione di citochine proinfiammatorie e stimolando l’attivazione del fattore NF-kB. Questi dati suggeriscono che i funghi potrebbero avere mannoproteine comuni che, potenzialmente, sono in grado di influenzare positivamente il sistema immune; quindi le DC pulsate con la Cn-MP potrebbero essere un potente adiuvante in un vaccino protettivo. SOPRAVVIVENZA INTRAMACROFAGICA DI CEPPI DI CRYPTOCOCCUS NEOFORMANS CON DIVERSA SENSIBILITÀ AL FLUCONAZOLO Chiara Grimaldi, Monica Drago, Anna Rita Miluzio, Maria Maddalena Scaltrito, Francesca Sisto, Donatella Taramelli e Giulia Morace Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano Cryptococcus neoformans è un lievito capsulato che causa infezioni disseminate in individui immunocompromessi, soprattutto in pazienti con HIV. Per i pazienti immunocompromessi e per quelli con AIDS in particolare il regime terapeutico consigliato prevede, dopo il superamento dell’infezione primaria, una terapia di mantenimento con fluconazolo spesso per tutta la vita. Questo potrebbe determinare l’insorgenza di resistenza ai derivati azolici. Per tale motivo si è voluto indagare su tre ceppi di C. neoformans con diversa sensibilità al fluconazolo, utilizzando la linea cellulare macrofagica murina J774 in vitro: se il fluconazolo avesse un effetto immunomodulatorio favorente la fagocitosi se la diversa sensibilità dei ceppi al farmaco influenzasse il killing dei macrofagi attivati e non con interferon gamma ( IFN-g ) se esistesse sinergismo tra fluconazolo ed IFN-g nell’attivazione del killing macrofagico In base ai risultati ottenuti si può affermare che il fluconazolo ha un effetto immunomodulatorio significativo nell’attivare la linea macrofagica utilizzata senza alcuna correlazione alla diversa sensibilità dimostrata in vitro dai ceppi studiati, sebbene siano state la concentrazioni più elevate (quelle al di sopra del valore di MIC) ad evidenziare il maggior effetto attivante. L’ attivazione in vitro da parte dell’ IFN-g, per quanto presente, non è sovrapponibile all’efficacia dimostrata dal farmaco da solo. Inoltre, l’azione combinata dell’IFN-g e del fluconazolo non ha dato risultati sinergici. Lavoro eseguito nell’ambito del progetto COFIN 38 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA DIAGNOSI MOLECOLARE DELL’INFEZIONE DA POLYOMAVIRUS UMANO BKV Simona Marchetti, Marco Ciotti1, Rosalia Graffeo, Rosaria Santangelo, Stefania Manzara, Alessia Siddu, Loredana Della Monica, Giorgio Splendiani2, Paola Cattani, Cartesio Favalli1, Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma 1Laboratorio di Microbiologia e Virologia Clinica e 2Cattedra di Nerfologia, Università di Tor Vergata, Roma Il Polyomavirus umano BK (BKV) appartiene alla famiglia Papovaviridae, è un virus ubiquitario e gran parte della popolazione viene infettata entro i 15 anni di età. Alla prima infezione, in genere asintomatica, segue una latenza a livello dell’apparato urinario. In pazienti con sistema immunitario compromesso, come i trapiantati di rene, le riattivazioni della replicazione virale possono esitare in patologie anche gravi a carico del rene. Con questo studio ci si propone di individuare una metodica diagnostica efficace nel monitoraggio di pazienti immunocompromessi per svelare quelle infezioni attive da BKV che possono costituire un fattore di rischio. In una prima fase, è stata valutata la prevalenza di BKV in campioni di urine ottenuti da pazienti trapiantati di rene e da soggetti sani. Sono stati complessivamente analizzati 52 campioni di urine da 34 pazienti sottoposti a terapia immunosopressiva post-trapianto, ricoverati presso il Policlinico A. Gemelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, e 52 campioni di urine provenienti da 52 soggetti sani come controllo. Tutti i campioni sono stati sottoposti ad isolamento virale, mediante inoculo in colture cellulari e successiva identificazione con anticorpi monoclonali virus-specifici. In ogni campione è stata determinata la presenza di DNA virale mediante PCR qualitativa. I campioni positivi sono stati quindi analizzati mediante Real-time PCR allo scopo di valutare la carica virale in funzione dell’eventuale ruolo patogenetico del BKV. Dei 52 campioni ottenuti da soggetti sani, il 9,6% (5/52) è risultato positivo per DNA di BKV; la carica virale in questi campioni è risultata essere circa 200 copie/ml di urina. Nei pazienti immunodepressi la percentuale è stata, come atteso, superiore, con un 67,6% (23/34) di positivi, nei quali la carica virale era in generale superiore a 1000 copie/ml di urina. I risultati ottenuti in questa fase dello studio hanno mostrato come la Real-time PCR possa essere un valido strumento per il monitoraggio dell’andamento di un’infezione. Infatti il dato quantitativo della carica virale, insieme alla relativa facilità e rapidità di esecuzione del test, consente di individuare quelle infezioni attive, con moltiplicazione persistente del virus, che possono avere un valore predittivo dello sviluppo di nefropatia in pazienti a rischio. POSSIBILE RUOLO DELLE INFEZIONI VIRALI NELL’EZIOPATOGENESI DELLA SCLEROSI MULTIPLA: INDAGINE SU UN GRUPPO DI PAZIENTI CON SM REMITTENTE. M. Mischitelli*, D. Fioriti*, M. Videtta*, M. Santini°, E. Millefiorini°, A.M. Degener^, V. Pietropaolo* *Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, °Dipartimento di Scienze Neurologiche e ^Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma”La Sapienza”. Il possibile ruolo di uno o più agenti infettivi nell’eziologia della sclerosi multipla (SM) è stato da tempo ipotizzato; tuttavia, nonostante nel corso degli ultimi decenni siano stati individuati diversi fattori di rischio e siano state fatte numerose scoperte sui meccanismi patogenetici, l’eziologia della SM è ancora incerta. Inoltre, basandosi sulle evidenze a tutt’oggi disponibili appare probabile che la SM sia una malattia a genesi multifattoriale ed in particolare l’osservazione clinica che spesso infezioni virali banali specialmente delle vie aeree superiori si accompagnano a ricadute di malattia, ha fatto pensare che uno o più agenti virali possano avere un ruolo nella patogenesi della sclerosi multipla. Sulla base di quanto premesso, in questo studio è stata valutata la relazione esistente tra infezioni virali da Poliomavirus BK e JC, Herpesvirus (HHV-1, HHV-2, HHV-8) e la patologia della SM. Sono stati analizzati le cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) di un gruppo di 45 pazienti, (18 uomini e 27 donne) di età compresa tra i 18 ed i 40 anni (età media 29) affetti da SM remittente non in trattamento, per la ricerca di sequenze virali di BKV, JCV, HHV-1, HHV-2 e HHV-8, utilizzando metodiche di PCR. I risultati ottenuti hanno evidenziato che 4 dei 45 pazienti esaminati erano positivi ad uno o più degli agenti virali considerati. Infatti, di questi 1/4 era positivo per infezione da BKV; 2/4 per infezione da HHV-8 e 1/4 evidenziava una coinfezione da JCV + BKV +HHV-8. In nessun paziente sono state ritrovate sequenze virali di HHV-1 e di HHV-2. Il ritrovamento di sequenze genomiche di JCV potrebbe essere legato ad un’azione diretta del virus sugli oligodendrociti produttori della mielina, mentre la presenza di sequenze virali di HHV-8 potrebbe essere associata ad un meccanismo di mimesi molecolare, per cui antigeni comuni al virus e alla proteina basica della mielina susciterebbero la produzione di anticorpi inizialmente prodotti contro il virus e poi contro la mielina stessa. Anche se preliminari, questi risultati mettono in risalto il possibile ruolo di diversi agenti infettivi che in particolari circostanze possono dare inizio alla cascata di eventi immunologici che portano alla formazione della placca di demielinizzazione e alle manifestazioni cliniche della malattia. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 39 VALUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ ANTIVIRALE DEL DISINFETTANTE “STER4SPRAY”MEDIANTE METODICHE TRADIZIONALI E MOLECOLARI Rosalia Graffeo, Rosaria Santangelo, Simona Marchetti, Stefania Manzara, Alessia Siddu, Francesca Bugli, Paola Cattani e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore , Roma L’applicazione di una corretta disinfezione risulta di particolare importanza nella prevenzione della diffusione di alcune importanti malattie infettive. Il controllo della carica microbica contaminante, mediante disinfezione ambientale e strumentale, assicura una migliore protezione a pazienti e personale sanitario, soprattutto in particolari condizioni operative. Numerosi agenti infettivi sono naturalmente presenti nelle secrezioni del cavo orale o nel sangue periferico di pazienti odontoiatrici e l’uso di disinfettanti si rende indispensabile nell’utilizzo di strumentazioni non sterilizzabili con mezzi fisici, come i circuiti idrici di riuniti odontoiatrici. Presso il nostro Istituto è stata svolta una ricerca sperimentale allo scopo di valutare l’efficacia della sostanza disinfettante Ster4Spray (ditta Castellini) proposta per il controllo di eventuali contaminazioni in riuniti odontoiatrici. Per la valutazione dell’attività virocida si è proceduto a saggi d’inibizione dell’infettività in vitro (TCD50) mediante prove di diluizione-neutralizzazione di sospensioni virali, secondo le procedure internazionali e protocolli sperimentali. Sono stati utilizzati ceppi di Enterovirus umani, Herpes simplex tipo 1, virus della febbre gialla e virus della diarrea bovina. I risultati ottenuti hanno evidenziato, per tutti i ceppi virali saggiati, una significativa inibizione dell’infettività in vitro con assenza dell’effetto citopatico già alla concentrazione di 0.5% del disinfettante e al tempo di esposizione di 2 minuti. Per meglio valutare gli effetti della sostanza Ster4Spray sono state allestite prove di determinazione qualitativa (PCR) e quantitativa (Real-time PCR) degli acidi nucleici come modello per lo studio di agenti virali non coltivabili o difficilmente coltivabili (HIV, HBV, HCV). Alla luce dei risultati ottenuti, la ricerca degli acidi nucleici virali è risultata poco efficace per valutare l’attività della sostanza disinfettante non evidenziando una riduzione significativa del DNA o dell’RNA virale nonostante le prove di neutralizzazione, eseguite in parallelo, confermassero la perdita d’infettività dell’agente in esame. E’ stata quindi valutata la determinazione quantitativa di proteine strutturali virali implicate nel processo d’infezione. I risultati ottenuti hanno mostrato una riduzione delle concentrazioni della proteina p24 dell’HIV e dell’HbsAg dell’HBV in relazione alla concentrazione del disinfettante e al tempo d’esposizione allo stesso, suggerendo che tali risultati possono essere indicativi di un’alterazione della struttura proteica virale tale da giustificare una perdita dell’infettività. ATTIVITÀ ANTI-ADENOVIRUS DELLA LATTOFERRINA BOVINA: DIMOSTRAZIONE DI UN LEGAME SPECIFICO A PROTEINE STRUTTURALI VIRALI A. Pietrantoni1, A. M. Di Biase1, A. Tinari1, M. Marchetti1, P. Valenti2, L. Seganti3, F. Superti1 1 Laboratorio di Ultrastrutture, Istituto Superiore di Sanità, Roma 2 Dipartimento di Medicina Sperimentale, II Università di Napoli 3 Dipartimento di Sanità Pubblica, Università “La Sapienza”, Roma La lattoferrina è una glicoproteina di peso molecolare di circa 80 kDa, appartenente al gruppo delle transferrine, che svolge un ruolo importante oltre che nel metabolismo del ferro anche nei meccanismi di difesa dell’ospite verso diversi patogeni, sia direttamente che attraverso la regolazione della risposta infiammatoria. Sebbene l’attività antivirale della lattoferrina rappresenti un’importante funzione biologica, il meccanismo attraverso il quale tale proteina svolge la sua azione non è stato ancora completamente definito. Nostri studi recenti hanno dimostrato che la lattoferrina bovina e la lattoferrina umana inibiscono l’infezione da adenovirus attraverso un meccanismo di competizione con il virus per il legame ai glicosamminoglicani presenti sulla membrana cellulare. In questa ricerca abbiamo studiato ulteriormente il meccanismo dell’attività antiadenovirale della lattoferrina bovina (bLf) analizzando un suo possibile legame specifico con le proteine del virus. Esperimenti di neutralizzazione in cellule HEp-2 hanno dimostrato un’inibizione del 95% dell’infezione virale, supportando l’ipotesi di un legame diretto con il virus. Tale ipotesi è stata successivamente confermata da esperimenti di “dot-blot”. Per meglio caratterizzare questo tipo di interazione, sono stati condotti esperimenti di microscopia elettronica che hanno permesso di visualizzare il legame della bLf con la superfice esterna della particella virale. Successivamente le proteine virali sono state separate tramite elettroforesi in gel di poliacrilammide ed è stata analizzata la loro interazione con la bLf. Questi esperimenti hanno dimostrato un legame diretto tra la lattoferrina e le proteine del capside virale III e IIIa, responsabili dell’interazione tra adenovirus e recettori integrinici. I nostri risultati, nell’insieme, hanno dimostrato che l’attività anti-adenovirale della bLf è dovuta non solo ad una competizione diretta con le particelle virali per un recettore cellulare comune, ma anche ad un legame specifico della proteina con due proteine strutturali virali che giocano un ruolo importante nel processo di infezione cellulare. 40 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA ANALISI ESTENSIVA DI SEQUENZA DEI GENI DELLA TRASCRITTASI INVERSA E DELLA PROTEASI DI HIV-1 IN UNA COORTE CLINICA DI PAZIENTI HIV POSITIVI NAIVE PER LA TERAPIA ANTIRETROVIRALE. Torti C.1, Bono L.1, Quiros-Roldan E.1, Tirelli V.1, Uccelli M.C.1, Giovannelli G.1, Forleo A.1, Gargiulo F.2,Perandin F.2, De Francesco M.2, Manca N.2, Carosi G.1 1Dipartimento di Malattie Infettive, Spedali Civili-Università di Brescia, Brescia 2 Istituto di Microbiologia e Virologia, Spedali Civili- Università di Brescia, Brescia Razionale. La presenza di mutazioni di resistenza in pazienti (pts) naive alla terapia antiretrovirale può condizionarne l’efficacia. Le prevalenze in letteratura appaiono eterogenee, in parte per diversa considerazione delle mutazioni nel computo di prevalenza. La prevalenza è variabile anche a seconda del contesto epidemiologico. Non vi sono studi che analizzino lo spettro completo di mutazioni di HIV in pts naive. Obiettivi. Obiettivo primario: stimare la prevalenza di ogni sostituzione, sia nella RT che nella proteasi (Pro) di HIV-1. Obiettivi secondari : i) valutare la prevalenza di farmaco-resistenza con algoritmi basati su regole; ii) valutare la prevalenza delle mutazioni in funzione della durata dell’infezione, attributi demografici, il fattore di rischio per HIV. Materiali e Metodi. Il genotipo è stato determinato con metodica TRUGENE HIV-1 Assay. I pts sono stati stratificati a seconda della durata dell’infezione (acuti o recentemente infettati <1 anno vs. pts con infezione cronica >1 anno) e in funzione di sesso, età, fattore di rischio. Le mutazioni sono state analizzate come segue: (1) interpretazione delle mutazioni di resistenza secondo algoritmo TRUGENE HIV-1 Genotyping Test Resistance Report (Guidelines 5.0); (2) mutazioni maggiori indicate dalla IAS-USA (March 2003); (3) mutazioni in posizioni di resistenza IAS-USA a significato non noto; (4) silenti; (5) polimorfismi; (6) recentemente identificate. Risultati. Sono stati arruolati 61 pazienti naive accertati. Tranne i polimorfismi, la prevalenza di > 1 mutazione è stata di: 49/61 (80%), 37/61 (60%), 61/61 (100%), per la classe di NRTI, NNRTI e PI, rispettivamente. 10/61isolati (16%) sono stati interpretati possibili resistenti (PR) o resistenti (R) secondo TRUGENE per uno dei farmaci. Le prevalenze di PR+R e delle mutazioni sono illustrate in tabella: TRUGENE (PR+R) PREVALENZA > 1 MUT. IAS (media/pz) PREVALENZA > 1 MUT. POS. IAS (media/pz) PREVALENZA > 1 MUT. SILENTE (media/pz) PREVALENZA > 1 POLIM. (media/pz) PREVALENZA > 1 MUT. POS. NON IAS (media/pz) NRTI (n=61) 9,8% 9,8% (1,5) 6,5% (1,2) 70,5% (1,8) 98,4% (2,6) 34,4% (1,2) NNRTI (n=61) 8,2% 6,5% (1,25) 3,2% (1) 52,5% (1,4) 57,4% (1,2) 1,6% (1) PI (n=61) 0% 90,2% (1,32) 34,4% (1,3) 59% (1,7) 98,4% (2,8) 0% (0) Secondo TRUGENE, la resistenza a >1 classe si è rilevata in 1 pt con infezione recente; tra i pts con infezione recente, la resistenza si è rilevata in 2/9 casi, a causa della L210W e della K103N nella RT rispettivamente. Conclusioni. La prevalenza di resistenze nei pts naive è risultata elevata e ampiamente variabile a seconda delle mutazioni considerate, supportando l’utilità del test in pts naive. La resistenza interpretata secondo algoritmo clinicamente validato è risultata pari a circa il 10% per gli RTI. La prevalenza di mutazioni secondarie o polimorfiche in Pro è molto elevata. CARATTERIZZAZIONE TEMPORALE DELLA FREQUENZA DELLE MUTAZIONI CONFERENTI FARMACO-RESISTENZA PRESENTI NELLA PROTEASI E NELLA TRASCRITTASI INVERSA DI HIV-1 M Santoro1, V Svicher1, C Gori2, F Forbici2, A Cenci1, R D’Arrigo2, MC Bellocchi2, S Giannella2, A Bertoli1, A Antinori2 , CF Perno1,2 and F Ceccherini-Silberstein1 1Università di Roma “Tor Vergata”, Italia; 2INMI “L. Spallanzani” di Roma, Italia Scopo: Studiare l’andamento della frequenza delle mutazioni associate a farmaco-resistenza, presenti nella trascrittasi inversa (RT) e nella proteasi (PR) di HIV-1. Materiali e metodi: La frequenza delle mutazioni e dei farmaci antiretrovirali impiegati nella pratica clinica è stata determinata mediante l’utilizzo di un database costituito da 807 pazienti pluritrattati che hanno eseguito il test di resistenza genotipica in seguito a fallimento terapeutico presso l’ I.R.C.C.S. “Lazzaro Spallanzani” in Roma negli anni 1999-2002. La significatività delle differenze di frequenza delle mutazioni e dell’assunzione dei farmaci nel corso degli anni è stata determinata mediante test del ?2 (p<0,05). Risultati: La frequenza delle mutazioni associate a farmaco -resistenza agli inibitori della PR e agli inibitori non nucleosidici della RT risulta costante nel tempo (p>0,05) indipendentemente dalla somministrazione del farmaco a cui sono associate, con l’eccezione di un aumento (p<0,05) tra il 1999 e il 2001 della mutazione D30N (3,5%-17%), non associato ad un aumento di nelfinavir, e di una netta diminuzione della mutazione Y181C (38%-12,7%) tra il 1999 e il 2002 associata al ridotto uso di nevirapina. Al contrario nei pazienti trattati con inibitori nucleosidici della RT si osserva tra il 1999 e il 2002 una diminuzione (p<0,05) delle mutazioni M41L (55,8%-35,8%), E44D (17,3% -6,3%), D67N (49%-34,6%), V118I (35,6-12,5), L210W (39,4%21,1%), da associare al ridotto uso di D4T, e di due mutazioni recentemente riportate in letteratura il cui ruolo non è ancora stato definito, K43Q (9,6%-1,2%) e E203K (8,6%-2,4%). Conclusioni: Una volta selezionata una mutazione associata ad un determinato farmaco, tale mutazione permane nel tempo anche in seguito ad un cambiamento di terapia, confermando la presenza di meccanismi di cross-resistenza adottati dal virus come escape dal trattamento antiretrovirale. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 41 PREVALENZA E SIGNIFICATO VIROLOGICO DELLE MUTAZIONI ASSOCIATE A FARMACORESISTENZA IN UNA COORTE DI PAZIENTI HIV-1 SIEROPOSITIVI SOTTOPOSTI A UN REGIME TERAPEUTICO CONTENENTE NELFINAVIR I. Bon1, P. Monari1, L. Calza2, S. Lolli1, M. Borderi2, MC. Re1 Sezione di Microbiologia1 e Sezione di Malattie Infettive2, Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale, Università degli Studi di Bologna,Via Massarenti, 9 –40138 Bologna Negli ultimi anni, grazie alla disponibilità di nuovi farmaci per il trattamento dell’infezione da virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV-1), si è osservata una netta riduzione della mortalità nei pazienti sottoposti a terapia antiretrovirale. La terapia però, pur in grado di controllare la replicazione del virus, non sempre riesce a raggiungere un controllo virologico ottimale, a prevenire l’insorgenza delle resistenze e a conservare la funzionalità del sistema immunitario. Al fine di ottenere un controllo prolungato dell’infezione si rende spesso necessario effettuare terapie sequenziali e monitorare la presenza di mutazioni legate a farmacoresitenza, mediante le nuove tecniche di sequenziamento virale. In quest’ottica, abbiamo condotto uno studio longitudinale su 161 pazienti HIV-1 sieropositivi, alcuni con precedenti esperienze antivirali, altri completamente naive, sottoposti, per almeno 24 settimane, a un regime terapeutico di prima scelta con un inibitore della proteasi, il nelfinavir. Sono state analizzate la prevalenza e il significato virologico delle più comuni mutazioni associate a farmacoresistenza in 80 pazienti che presentavano fallimento virologico, al fine di valutare il ruolo del farmaco in un trattamento di prima linea. L’analisi genotipica delle sequenze virali isolate dai pazienti oggetto del nostro studio, ha evidenziato la presenza di una o più mutazioni legate all’utilizzo di NRTI e di inibitori delle proteasi in un alta percentuale di soggetti. In particolare, la presenza della mutazione M184V si è verificata in una alta percentuale di casi (65%) anche se la sua comparsa e/o la contemporanea presenza delle sostituzioni a livello dei codoni 215 e 103 sembrano essere legate a un più favorevole decorso virologico. Solo una piccola parte dei pazienti (7%) che presentavano un aumento dei livelli plasmatici di replicazione virale hanno presentato una mutazione a livello del codone 30 (D30N) da sola o in associazione con N88D. I nostri risultati, seppur limitati ad un numero ristretto di casi, suggeriscono un ruolo chiave del nelfinavir non solo come farmaco di prima scelta in soggetti naive, ma anche in soggetti trattati in passato con altri inibitori della proteasi. DETERMINAZIONE QUANTITATIVA DEL DNA PROVIRALE, MEDIANTE REAL-TIME PCR, IN SOGGETTI HIV-1 SIEROPOSITIVI SOTTOPOSTI A TERAPIA ANTIRETROVIRALE. Vitone F., Gibellini D., Schiavone P., Gori E.; Re M.C. Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Clinica Specialistica e Sperimentale, Università di Bologna, Via Massarenti, 9, 40138. La determinazione dei livelli plasmatici di replicazione virale mediante le metodiche oggi disponibili è considerato il metodo ottimale, consigliato da tutte le linee guida, per monitorare gli effetti terapeutici. Nonostante sia oramai più che evidente che i regimi terapeutici oggi disponibili siano in grado di inibire la replicazione del virus portando i livelli di RNA a limiti non più evidenziabili, numerosi dati di letteratura mettono in evidenza che i livelli di DNA provirale nei linfo-monociti circolanti e nei linfonodi persistono per lunghi periodi di tempo, rappresentando un ostacolo alla eradicazione del virus A tale proposito abbiamo analizzato, mediante il metodo di PCR quantitativa real-time i linfomonociti provenienti da 90 soggetti infetti dal HIV-1, con l’obiettivo di valutare una eventuale relazione tra DNA provirale e RNA plasmatico. Abbiamo suddiviso i pazienti in due gruppi, in base ai livelli di replicazione virale rivelabili (HIV-1 RNA), evidenziando un numero significativo di copie di DNA provirale anche nei soggetti con un viral load inferiore al limite di sensibilità del test (<50 copie di RNA/ml), e livelli consistentemente più elevati di DNA provirale nei pazienti che non avevano riposto alla terapia (HIV-1 RNA > 1x104 copie/ml) I dati ottenuti, seppure preliminari, suggeriscono l’importanza fondamentale della determinazione del provirus di HIV-1 anche nei soggetti in cui i livelli plasmatici di replicazione virale si presentino estremamente contenuti. In conclusione la ricerca del DNA provirale di HIV-1, mediante Real-Time PCR, si propone come una metodologia innovativa in grado di fornire dati quantitativi di estremo interesse nel monitoraggio del paziente HIV infetto sottoposto a terapia, con l’obiettivo primario di quantificare la consistenza del reservoir virale, la cui persistenza contrasta la possibilità di una totale eradicazione dell’infezione da HIV-1. 42 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SEQUENZIAMENTO DELLE REGIONI 5’UTR E NS5B DI UN CEPPO DI HCV CON UN PROFILO ATIPICO AL TEST INNO-LIPA‰ . Maria Carla Liberto*, Angelo G. Lamberti, Angela Quirino , Domenico Focà, Giorgio S. Barreca, Giovanni Matera, Alfredo Focà. Dipartimento di Scienze Mediche, Cattedra di Microbiologia, Università “Magna Graecia”, Catanzaro.Via T. Campanella, 88100, Catanzaro, Italia. E’ noto che HCV, il maggiore responsabile di epatite cronica ad etiologia infettiva, mostra un elevato grado di eterogeneità nella sequenza del suo genoma e che essa è correlata con aspetti epidemiologici, risposta alla terapia, e progressione della malattia cronica. In un precedente studio abbiamo descritto un ceppo di HCV che mostrava un profilo atipico al test INNO-LiPA‰ e tale tipo virale non era stato mai riscontrato prima in Italia. In questo lavoro mostriamo alcuni dati sul sequenziamento delle regioni 5’UTR e NS5B eseguito per una più corretta classificazione del ceppo. Il sequenziamento della regione 5’UTR suggerisce che il ceppo possiede un genotipo 2 in accordo ai risultati del test INNO-LiPATM . Diversi sets di primers universali e specifici sono stati usati per il sequenziamento della regione NS5B. Il confronto con più di 150 varianti genomiche della regione NS5B, di ceppi con genotipo 2 appartenenti al database dei laboratori Innogenetics, ci ha consentito di classificare il ceppo come sottotipo 2c. Riteniamo sia utile sottolineare che per definire una reale classificazione di un ceppo che presenta un profilo atipico al test INNO-LiPA‰ è necessario effettuare il sequenziamento di almeno due regioni del genoma virale. ATTIVITÀ NEUTRALIZZANTE DI FRAMMENTI FAB RICOMBINANTI UMANI DIRETTI VERSO IL VIRUS DELL’EPATITE C (HCV) Rosalia Graffeo, Riccardo Torelli, Francesca Bugli, Rosaria Santangelo, Simona Marchetti, Stefania Manzara, Paola Cattani e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma L’epatite virale C costituisce, a livello mondiale, un importante problema di sanità pubblica. L’infezione da Virus dell’epatite C (HCV) si presenta spesso in forma asintomatica, dando con elevata frequenza forme croniche che possono evolvere in malattie epatiche severe (epatite cronica attiva), associate a cirrosi ed epatocarcinoma. Lo scopo di questo lavoro è stato selezionare e caratterizzare 5 frammenti Fab monoclonali umani, ottenuti da genoteche combinatoriali ad esposizione fagica (phage display library), reattivi nei confronti del Virus dell’epatite C, in particolare con la glicoproteina di superficie E2, implicata nel legame con il recettore cellulare (CD81). Dopo purificazione per immunoaffinità delle singole preparazioni di Fab, è stata saggiata la capacità dei Fab selezionati di neutralizzare in vitro l’ìnfettività virale. Utilizzando sospensioni titolate di sieri umani positivi per HCV, sono state infettate in vitro colture cellulari (Molt-4) sensibili all’HCV. Vista l’impossibilità di osservare un effetto citopatico, l’attività neutralizzante dei Fab è stata saggiata con metodiche molecolari, mediante una RT-PCR ed una Real-time PCR, per valutare quantitativamente l’RNA virale, estratto dalle cellule infettate, prima e dopo esposizione al virus ed al virus trattato con i Fab specifici. Concentrazioni diverse dei suddetti Fab sono state cimentate con diluizioni scalari di sieri HCV positivi (genotipo 1b), a partire da 2x105 copie/ml. I risultati delle prove di neutralizzazione di ogni singolo Fab hanno suggerito di testare un pool dei 5 Fab selezionati allo scopo di rendere più efficace la neutralizzazione dell’infezione, considerando anche che i Fab prescelti riconoscono epitopi diversi della glicoproteina E2. I risultati ottenuti hanno mostrato che il pool contenente concentrazioni equimolari dei singoli Fab è stato in grado di neutralizzare l’infettività di una sospensione virale pari a 1x105 copie/ml. I differenti Fab umani anti-HCV ottenuti mediante phage display library ed espressione del repertorio anticorpale in risposta ad una infezione in vivo, riflettono l’eterogeneità della risposta immune umana nei confronti di antigeni virali come la glicoproteina E2, fondamentale nell’interazione tra il virus dell’epatite C e la cellula bersaglio. La selezione e la caratterizzazione funzionale di Fab umani ricombinanti può aggiungere un tassello interessante nello studio delle complesse relazioni virus-ospite che fortemente condizionano l’evoluzione dell’infezione da HCV. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 43 IL RILASCIO DI IL-8 INDOTTO DALLE PORINE DI Salmonella enterica serovar Typhimurium E’ MEDIATO DA AP-1, NF-kB e DAL PATHWAY DELLE MAPK Mariateresa Vitiello1, Marina D’Isanto1, Marilena Galdiero2, Lucia Peluso1, Annalisa Tortora1, Katia Raieta1, Massimiliano Galdiero2 1Dipartimento di Patologia Generale - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Seconda Università degli Studi di Napoli; 2Dipartimento di Medicina Sperimentale – Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Seconda Università degli Studi di Napoli Tra le proteine maggiori della membrana esterna dei batteri gram-negativi, è ben nota la capacità delle porine di modulare la risposta immunitaria inducendo il rilascio di citochine proinfiammatorie ed immunoregolatrici e l’attivazione dei fattori nucleari di trascrizione attraverso il pattern di chinasi Raf-1/MEK1-2/MAPK. Poiché poco si conosce circa i meccanismi molecolari utilizzati dalle porine per innescare la risposta cellulare, in questo lavoro abbiamo valutato il possibile coinvolgimento delle protein tirosin chinasi (PTK), delle mitogen activated protein chinasi (MAPKs) e dei fattori trascrizionali “activating protein-1” (AP-1) e “nuclear factor kB” (NF-kB) nella produzione di IL-8 mediata dalle porine di Salmonella enterica serovar Typhimurium utilizzando inibitori specifici delle vie di fosforilazione. Sono stati utilizzati i seguenti inibitori: 3,4 dihydroxybenzylidenemalononitrile (tyrphostin 23), inibitore del recettore di EGF (epidermal growth factor); 2’-amino-3’-metossiflavone (PD-098059), inibitore selettivo di MEK1 e della cascata MAPK; 4-(4-fluorofenil)-2-(4-metilsulfonilfenil)-5-(4-piridil)1H-imidazolo (SB-203580), inibitore specifico di p38; N-acetyl-leucinyl-leucinylnorleucinal-H (ALNN), inibitore dell’attività di NF-kB. Gli esperimenti effettuati dimostrano che tutti gli inibitori utilizzati riducono il rilascio di IL-8 dalle cellule THP-1 dopo stimolazione con porine (5mg/ml) o LPS (1mg/ml) avvalorando l’ipotesi che i pathway enzimatici analizzati siano coinvolti nella regolazione della produzione di IL-8 attraverso l’attivazione di diversi fattori di trascrizione tra cui AP-1 ed NF-kB. VALUTAZIONE DEL SISTEMA BDPROBETEC ET PER L’IDENTIFICAZIONE RAPIDA E DIRETTA DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS COMPLEX DA CAMPIONI RESPIRATORI E NON RESPIRATORI Fausta Ardito, Maurizio Sanguinetti, Lucio Romano, Grazia Morandotti, Rosalba Ricci, Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma Introduzione. La lenta crescita di Mycobacterium tuberculosis ritarda la diagnosi clinica e il trattamento favorendo l’ulteriore diffusione della malattia. Per tale motivo, i Centers for Disease Control and Prevention raccomandano l’utilizzo di test diagnostici rapidi per l’identificazione di tale microrganismo. Il sistema BDProbeTec ET (Becton Dickinson Microbiology Systems, Sparks, MD) adotta la tecnologia omogenea SDA (strand displacement amplification) come metodo di amplificazione e il trasferimento di energia (ET, Energy Transfer) fluorescente come metodo di rilevazione della presenza del complesso Mycobacterium tuberculosis (M. tuberculosis, Mycobaterium bovis BCG, Mycobacterium africanum e Mycobacterium microti) direttamente da campioni respiratori. Obiettivo. Valutazione dell’affidabilità del sistema BDProbeTec ET per l’ identificazione del complesso Mycobacterium tuberculosis in campioni respiratori e non- respiratori. Metodi. Sono stati saggiati con il sistema BDProbeTec ET e con l’esame colturale (MGIT, BD) 1027 campioni (726 campioni respiratori e 301 non-respiratori). Nei campioni in cui il BDProbeTec ET dava un risulatto positivo differente da quello dell’esame colturale, la presenza di M. tuberculosis veniva ricercata nella brodo-coltura mediante metodica di “PCR-reverse cross blot hybridation ” basata sul polimorfismo del rDNA 16 S (Romano et al. 2002, J Clin Microbiol, 40; 2002:3499-3501). Risultati.. Sono stati isolati 55 ceppi di M. tuberculosis, 52 (95,4%) sono risultati positivi anche con il BDProbeTec ET. Altri 9 campioni, non cresciuti in coltura, hanno avuto un risultato positivo con il test in esame. Tali campioni, provenienti da pazienti in trattamento antitubercolare erano risultati positivi anche con la “PCR-reverse cross blot hybridation”. La sensibilità la specificità, i valori predittivo positivo e negativo del sistema BDProbeTec ET sono rispettivamente pari a 95,3%, 100%, 100% e 99,7%. Conclusioni. I risultati ottenuti in questo studio dimostrano che il BDProbeTec ET è accurato e affidabile per l’ identificazione rapida di Mycobacterium tuberculosis complex direttamente da campioni respiratori e non-respiratori. 44 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA PREVALENZA DELLE RESISTENZE A LEVOFLOXACINA, AMOXICILLINA, CLARITROMICINA, METRONIDAZOLO E TETRACICLINA NEI CEPPI DI HELICOBACTER PYLORI ISOLATI DA BIOPSIE GASTRICHE DI PAZIENTI NON ERADICATI DA PRECEDENTI TRATTAMENTI TERAPEUTICI G. Branca1, T. Spanu,*G. Cammarota,**A. Gasbarrini, * G.B. Gasbarrini, G. Fadda Istituto di Microbiologia; * Istituto di Medicina Interna, ** Istituto di Patologia Medica, Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma Obiettivo: determinare la prevalenza delle resistenze a levofloxacina, claritromicina, e metronidazolo, amoxicillina e tetraciclina nei ceppi di H. pylori isolati da pazienti precedentemente sottoposti a più cicli di terapia. Metodi:. L’attività in vitro di levofloxcina, amoxicillina, claritromicina, tetraciclina, e metronidazolo nei confronti di 67 ceppi di H. pylori isolati da pazienti precedentemente trattati veniva determinata mediante E-test (AB Biodisk). La resistenza era definita nel seguente modo: amoxicillina ≥ 2 mg/ml, metronidazolo ≥ 8 mg/ml, tetraciclina ≥ 4 mg/ml (BSAC, JAC 2001, 48: Suppl. 1, 77-80), claritromicina ≥ 1 mg/ml (NCCLS. 2002. Performance standards for antimicrobial susceptibility testing. Twelfth informational supplement M100-S12. National Committee for Clinical Laboratory Standards, Wayne, PA) e levofloxacina ≥ 8 mg/ml (breakpoint per batteri gram-negativi, NCCLS 2002). Risultati: Sessantuno ceppi (91%) erano resistenti a claritromicina, 55 (82,1%) a metronidazolo, e 15 (22,4%) a levofloxacina. Sono stati isolati 52 ceppi (77,61%) resistenti a contemporaneamente claritromicina e metronidazolo, 15 (28,8%) dei quali erano resistenti anche a levofloxacina. Conclusioni: La prevalenza della resistenza a claritromicina e metronidazolo è risultata estremamente elevata nei pazienti precedentemente sottoposti a trattamenti terapeutici. La tetraciclina ha presentato una elevata attività in vitro, pertanto, potrebbe essere considerata quale potenziale agente terapeutico nella terapia delle infezione sostenute da ceppi resistenti a claritromicina e metronidazolo. I risultati ottenuti in questo studio suggeriscono che nei pazienti non eradicati da precedenti trattamenti la scelta della terapia antimicrobica dovrebbe essere basata sui risultati dei saggi di sensibilità in vitro. VALUTAZIONE DELLA FLORA MICROBICA IN LATTANTI CON COLICHE GASSOSE N.A.Carlone, V.Tullio, J.Roana, N.Mandras, G.Banche, A.M. Cuffini, E.Bailo*, F.Savino*, C.Guidi*. Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia-Università di Torino *Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza OIRM-Università di Torino La colonizzazione batterica dell’apparato digerente comincia durante il parto ed è un processo lento che richiede 1-2 anni per stabilizzarsi. L’impianto delle diverse specie batteriche è regolato dall’ambiente intestinale (colon) che a sua volta si modifica quando nuove specie vengono ad installarsi. Alterazioni della flora microbica intestinale possono promuovere l’insorgenza di patologie allergiche e gastrointestinali di cui le coliche gassose, soprattutto quelle severe, possono essere considerate la prima espressione nei primi mesi. Scopo di questo studio è stato valutare la flora microbica intestinale in lattanti sani e con coliche gassose. Sono stati raccolti i campioni di feci di bambini di età non superiore ai 3 mesi, allattati esclusivamente al seno, senza recenti episodi di gastroenterite né trattamento con antibiotici o probiotici. Le feci sono state pesate, diluite 1:10 in soluzione fisiologica e seminate su opportuni terreni di coltura per effettuare una valutazione quantitativa (conteggio delle ufc/grammo di feci) e qualitativa (colorazione di Gram, identificazione morfologica e biochimica) dei microrganismi presenti. I risultati evidenziano una differente colonizzazione batterica nei lattanti con e senza coliche. In particolare, i lattanti con coliche hanno evidenziato una maggiore prevalenza di clostridi (p<0.005) e minore di lattobacilli rispetto ai lattanti sani di controllo. E’ da sottolineare che, nell’ambito dei lattobacilli, sono state isolate specie diverse nei due gruppi. Nessuna differenza significativa è stata invece riscontrata per le Enterobacteriaceae e gli enterococchi. Tali risultati suggeriscono che la diversa composizione della flora intestinale possa essere implicata, con meccanismi ancora sconosciuti, nella patogenesi delle coliche gassose. Ulteriori studi sono, tuttavia, necessari per verificare se il dismicrobismo possa rappresentare il substrato per lo sviluppo di atopia, di cui le coliche costituirebbero una delle manifestazioni più precoci. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 45 IL RUOLO DEL PARASSITOLOGO NELLA DIAGNOSTICA EZIOLOGICA DEGLI ASCESSI CEREBRALI IN UN BAMBINO IMMUNOCOMPETENTE Plaisant P, Ranno O*, Valentini P*, Masucci L, Nacci A., Fadda G Istituti di Microbiologia e Clinica Pediatrica*- Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma Sebbene il 12% circa della popolazione mondiale venga infettata da Entamoeba histolytica, solo il 10% dei soggetti sviluppa una sintomatologia clinica ed il 2-20% di questi ha una malattia invasiva. La localizzazione cerebrale è un evento eccezionale (meno dello 0.1% dei pazienti) e si verifica soprattutto in soggetti immunodepressi. La diffusione al SNC avviene per via ematogena; è usuale la contemporanea presenza di infezione epatica e/o polmonare, ma non obbligatoriamente. Le lesioni, singole o multiple, possono essere localizzate in qualunque area cerebrale, più frequentemente nel lobo sinistro. Il nostro paziente, un bambino italiano, immunocompetente, di 6 anni d’età, veniva ricoverato nella Sezione Aggregata di Isolamento Pediatrico del nostro Policlinico con un quadro clinico caratterizzato soprattutto da intensa cefalea frontale e febbre, insorto sette giorni prima in pieno benessere. Una prima valutazione radiologica effettuata mediante TAC cerebrale con m.d.c.e confermata da successiva RMN con gadolinio, metteva in evidenza tre lesioni ipodense con cercine di enhancement in corrispondenza del lobo parietale posteriore destro. Il bambino veniva sottoposto a duplice intervento neurochirurgico di drenaggio del contenuto ascessuale e, successivamente, di asportazione della parete. L’analisi microscopica diretta del fluido drenato e del materiale bioptico, mediante colorazioni permanenti, ha permesso di evidenziare E. histolytica. L’esame microscopico di campioni fecali non ha evidenziato protozoi. Il trattamento combinato chirurgico-antiparassitario con metronidazolo ha permesso la completa guarigione del piccolo paziente, senza reliquati neurologici. VALUTAZIONE DELLE INDAGINI MICROBIOLOGICHE PER LA DIAGNOSI D’INFEZIONE VIRALE IN DONNE IN GRAVIDANZA Manzara S., Santangelo R., Grillo R., 1Masini L., 1Rosati P., 2Ranno O., Torelli R., Cattani P., e Fadda G. Istituto di Microbiologia, 1Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia e 2Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma La gravidanza determina uno stato di relativa immunodepressione che facilita l’instaurazione o la riattivazione di infezioni virali. Potenzialmente tutti i virus che diffondono per via ematica possono essere trasmessi al feto qualora superino la barriera placentare. Scopo di questo lavoro è stato quello di determinare il valore prognostico di esami virologici effettuati in gravidanza. A tal fine sono stati analizzati campioni di liquido amniotico e sangue provenienti da 52 donne in gravidanza, afferenti al Day Hospital di Ostetricia e Ginecologia del Policlinico “A. Gemelli” di Roma. In tutti i casi un sospetto d’infezione virale indicava la ricerca microbiologica dopo amniocentesi. I campioni di liquido amniotico, prelevati durante la 16a settimana di gestazione, sono stati analizzati per la presenza di Cytomegalovirus (CMV) (31 casi), Virus della Varicella-Zoster (VZV) (10 casi) e Virus della Rosolia (11 casi), mediante esame colturale e molecolare. L’esame colturale è stato eseguito mediante inoculo in appropriate linee cellulari e successiva identificazione con anticorpi monoclonali virus-specifici. La ricerca del DNA è stata eseguita mediante PCR qualitativa ed RT-PCR. Per valutare la carica virale nei campioni positivi per il DNA di CMV è stata utilizzata una Real-time PCR. Gli anticorpi virus specifici sono stati testati con metodi immunoenzimatici. Un solo campione di liquido amniotico è risultato positivo, per CMV, all’esame colturale. La ricerca del DNA di CMV è risultata positiva in 6 (19,4%) pazienti. Il 50% di queste presentava IgM positive. Delle 25 (80,6%) pazienti negative per il DNA virale, il 60% è risultato contemporaneamente positivo all’esame sierologico. L’RNA del Virus della Rosolia è stato determinato in 4 (36,3%) degli 11 campioni esaminati. Tutte le pazienti presentavano IgM positive al momento dell’esame. In nessuna delle 10 pazienti esaminate per VZV è stato riscontrato DNA virale, mentre il contemporaneo esame sierologico è risultato positivo in tutti i casi. La discordanza tra la positività sierologia e virologico-molecolare dei risultati ottenuti può essere dovuta alla carica virale, alla risposta immunitaria materna ed all’integrità della barriera placentare. Il significato prognostico dei dati microbiologici ottenuti prevede l’analisi clinica delle pazienti studiate al fine di valutare gli strumenti attualmente disponibili per un approccio diagnostico in caso di sospetta infezione virale in gravidanza. 46 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA INDUZIONE DI RISPOSTA IMMUNITARIA E DI PROTEZIONE DA PARTE DEI VACCINI ANTINFLUENZALI IN SOGGETTI ANZIANI Iorio A.M.*, Lepri E.*, Neri M.*, Camilloni B.*, Basileo M.*, Vannuccini L.§, Spighi M.§, Sigismondi N.**; * Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica , Universita di Perugia e ASL di § Arezzo e di ** Foligno La risposta immunitaria anticorpale e l’induzione di resistenza alla infezione indotta dai vaccini antinfluenzali inattivati di tipo split e commercialmente disponibili per l’inverno 2002/03 è stata studiata in 87 soggetti anziani ospiti di due diverse case di riposo. La immunogenicità del vaccino è stata determinata in base ai titoli anticorpali inibenti la emoagglutinazione (IE) riscontrati in sieri prelevati prima e ad un mese dalla vaccinazione nei confronti dei tre differenti antigeni contenuti nel vaccino utilizzato (A/Moscow/10/99, H3N2; A/New Caledonia/20/99, H1N1 e B/Hong Kong/330/2001). Nella maggior parte dei casi la vaccinazione è stata in grado di indurre aumenti statisticamente significativi delle percentuali di soggetti sieroprotetti (titoli ≥1:40) e dei valori della media geometrica dei titoli (MGT) anticorpali. La risposta è risultata inoltre essere in prevalenza in grado di soddisfare i criteri fissati dalla Commissione Europea per l’accettabilità dei vaccini antinfluenzali in soggetti anziani (presenza dopo vaccinazione di sieroprotetti ≥ 60%, di risposte positive ≥ 30% e di incrementi medi delle MGT ≥ 2). La protezione da parte del vaccino nei confronti delle infezioni influenzali è stata determinata su base sierologica esaminando per ogni soggetto un ulteriore campione di siero prelevato in periodo postepidemico (Aprile 2003). Il riscontro nel campione di siero postepidemico di sieroconversione rispetto al campione prelevato ad un mese dalla vaccinazione è stato considerato segno di avvenuta infezione nel periodo successivo alla vaccinazione stessa. Nel 37% dei volontari residenti in una delle due case di riposo esaminate sono state evidenziate infezioni da virus influenzale A/H3N2. Di queste il 52% si sono verificate in soggetti che non avevano raggiunto titoli anticorpali protettivi dopo vaccinazione e il 48% in volontari con titoli ≥ 1:40. I risultati delle indagini di laboratorio per monitorare la circolazione di virus influenzali fra la popolazione residente nella stessa zona nella quale erano situate le due case di riposo ha evidenziato presenza di virus influenzali di tipo A/H3N2 con caratteristiche antigeniche eterogenee e in alcuni casi distinguibili da quelle del ceppo A/H3N2 incluso nel vaccino. Con il contributo del MURST RISPOSTA IMMUNITARIA ALLA VACCINAZIONE ANTI-EPATITE B IN PAZIENTI CON IDDM Sommese L*, Mattera S*, Sanges MR*, Cafaro MR*, Prisco F, Gemma C, e Iafusco D * Dipartimento di Diagnostica Microbiologica – SUN - Napoli Dipartimento di Pediatria – SUN - Napoli Molti lavori del recente passato si sono rivolti, con risultati piuttosto controversi, allo studio della risposta immunitaria verso la vaccinazione antiepatite B di pazienti con diabete mellito tipo 1 (IDDM) (P. Pozzilli et al., Diabetologia 1987; 30:817-819). Fattori genetici, come la presenza dell’HLA-DR3,DR4,DR7 e B8 che conferiscono suscettibilità al diabete tipo 1, si ritrovano, infatti, molto spesso tra i soggetti sani ipo o non responders al vaccino anti epatite B (D.E. Craven et al., Ann Intern Med 1986; 105:355-360); inoltre è stata dimostrata tra i pazienti con IDDM, una risposta immunologica diversa a seconda del tipo di vaccino (con e senza antigeni pre-S1 e pre-S2) (M. Mancuso et al., Diabetes Care 2001; 24:1841-1842) e del tipo di somministrazione (scarsa risposta nella somministrazione intradermica e buona risposta nella somministrazione intramuscolare) ( S. Li Volti et al,. Arch Dis Child 1998; 78:54-57). In questo studio sono stati selezionati 67 bambini (31 maschi, 36 femmine) con IDDM nati dopo il 1991, anno di introduzione in Italia della vaccinazione obbligatoria verso l’epatite B, tutti sottoposti al ciclo vaccinale di legge. In questo gruppo di bambini si è proceduto alla determinazione del titolo anticorpale anti HBsAg con l’ImmunoAssayChemiLuminescenza (ECLIA) (Roche) ed i risultati sono stati espressi in mIU/ml. Sono stati considerati “non responders” i pazienti nei quali il dosaggio degli anticorpi era < 10 mIU/ml. I bambini non responders sono risultati 18/67 pari al 27%, 9/31 maschi (29%) e 9/36 femmine (25%). Tale dato è sovrapponibile alla percentuale di non responders riportata in letteratura in altre popolazioni nelle quali è obbligatoria la vaccinazione antiepatite come in una popolazione di Taiwan di bambini non diabetici di età inferiore a 15 anni vaccinati nella quale tale percentuale era del 24% (Ni Yen Hsuan et al. Ann Intern Med 2001; 135:796-800). Inoltre nella nostra popolazione di bambini con diabete abbiamo osservato che la percentuale di non responders aumentava con l’età. A 3 anni era del 20% e a 9 anni era del 32%. Anche quest’ulteriore dato è risultato sovrapponibile a quello riportato in letteratura in bambini senegalesi (9-12 anni 32%) (P Coursaget et al J Hepatol,1994; 21:250-254). Conclusioni: dopo l’introduzione della vaccinazione obbligatoria in Italia la percentuale di soggetti non responders tra i pazienti con diabete è risultata sovrapponibile a quella ottenuta in analoghe popolazioni sane. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 47 HERPES SIMPLEX TIPO 1 INDUCE L’ESPRESSIONE DI GENI PRO-SOPRAVVIVENZA NF-KBDIPENDENTI NELLE FASI PRECOCISSIME DELL’INFEZIONE Maria Teresa Sciortino, Maria Antonietta Medici, Donata Perri, Vincenza Valveri, Marco Ciotti, Angela Pia Camuti, Sandro Grelli, Antonio Mastino. Dipartimento di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina. Avevamo già osservato che herpes simplex tipo 1 (HSV-1) è in grado di indurre, nella linea cellulare monocitoide U937, un’immediata attivazione del fattore di trascrizione NF-kB. Abbiamo quindi studiato la capacità di HSV-1 di regolare in cellule monocitoidi la sopravvivenza cellulare nelle fasi precoci dell’infezione, mediante modulazione di NF-kB. NF-kB risultava attivato in cellule U937 anche in seguito al trattamento con HSV-1 inattivato agli UV, con sovranatante di cellule trasfettate con la glicoproteina D (gD) di HSV-1 ovvero direttamente con gD solubile. Parallelamente, le cellule monocitoidi risultavano transitoriamente protette dalla morte cellulare indotta mediante recettore di morte Fas. Abbiamo quindi voluto verificare i meccanismi NFkB-mediati che gD fosse in grado di innescare per il potenziamento della resistenza alla morte indotta via Fas. A tale scopo sono stati condotti esperimenti per valutare l’espressione di noti geni pro-sopravvivenza NF-kB-dipendenti, in cellule U937 trasfettate stabilmente con un vettore di controllo vuoto o con un vettore contenente un mutante murino di IkBa (mIkBa), esposte ad inoculi di HSV-1 inattivato agli UV (HSV-1/UV). Il gene mutato mIkBa risultava in grado di agire come dominante negativo (DN) per l’attivazione di NF-kB umano. I risultati hanno dimostrato che l’esposizione ad HSV-1/UV causava una immediata induzione di alcuni noti geni cellulari pro-sopravvivenza NF-kB-dipendenti e che l’espressione di mIkBa DN sopprimeva completamente la capacità di HSV-1/UV di indurre tale over-espressione. Questi risultati identificano una nuova serie di segnali prosopravvivenza NF-kB-mediati che vengono attivati dall’interazione di HSV-1 con le cellule bersaglio nelle fasi precocissime dell’infezione virale e che possono fornire un meccanismo iniziale in grado di consentire l’avviamento della replicazione virale di HSV-1. ATTIVITA’ MICOBATTERICIDA DI UN DISINFETTANTE CHIMICO A FREDDO: “ADASPOR PRONTO” *Pagnini V., Leone F., Mazzella P., Ardito F., Rota R., Santangelo R. e Fadda G. Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” *International Medical Service IMS, srl Obiettivo: E’ stata valutata l’efficacia micobattericida in vitro di una nuova soluzione disinfettante a base di acido peracetico ed Adazone (“Adaspor pronto”), utilizzata per la disinfezione delle strumentazioni mediche in ambito ospedaliero. Materiali e Metodi: L’attività micobattericida di Adaspor, nei 12 giorni della sua attivazione, è stata valutata seguendo la procedura Europea standard CEN/TC 216 prEN 14348 (2001) che prevede l’utilizzo di un metodo di diluizione-neutralizzazione nei confronti dei seguenti ceppi di riferimento di micobatteri: Mycobacterium tuberculosis ATCC 25177, Mycobacterium avium ATCC15769, Mycobacterium terrae ATCC 15755, Mycobacterium smegmatis CIP 7326. Risultati: La “sospensione test” iniziale relativa a ciascun ceppo saggiato, è risultata tra 1,5 x 108 e 5 x 108 UFC/ml; dopo i tempi di contatto con il disinfettante, rispettivamente di 5 min e 10 min, ed in presenza di sostanza organica (siero albumina bovina ed eritrociti di montone) e dopo 5 minuti di neutralizzazione dell’attività del disinfettante, la conta vitale dei micobatteri è risultata essere uguale a zero (Vc=0) e di conseguenza il numero di micobatteri presenti nella miscela test di diluizione-neutralizzazione era zero (Na=0). La riduzione di vitalità dei micobatteri è risultata sempre maggiore di 5 log in conformità con i criteri di efficacia previsti dalla procedura Europea Standard. Il disinfettante ha dimostrato la sua attività micobattericida in tutti i 12 giorni della sua attivazione, sia nei confronti dei ceppi di micobatteri a crescita lenta (Mycobacterium tuberculosis, Mycobacterium avium e Mycobacterium terrae complex) sia nei confronti dei ceppi a crescita rapida (Mycobacterium smegmatis) a soli 5’ minuti di contatto. Conclusioni: Il disinfettante “Adaspor Pronto” ha mostrato di possedere un’ottima attività micobattericida per tutto il periodo della sua attivazione, riducendo la carica iniziale dei ceppi di riferimento di micobatteri di oltre 5 log. I nostri risultati hanno evidenziato un’attività microbicida rapida (5 minuti) e prolungata nel tempo (12 giorni), dovuta alla peculiare stabilità dei suoi componenti: Adazone ed acido peracetico, che ne garantiscono una durata maggiore nel tempo rispetto ad altre formulazioni chimiche a base di solo acido peracetico. 48 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA STUDIO SULL’ATTIVITÀ ANTIMICROBICA DI UNA RANUNCULACEA: HELLEBORUS BOCCONEI TEN. R. Costanzo 1*, R. Musumeci 1, A. Speciale 1, S. Franco 1, A. Rapisarda 2, L. Iauk 1 e F. Caccamo 1. 1 Dipartimento di Scienze Microbiologiche – Università di Catania 2 Dipartimento Farmaco-Biologico – Università di Messina Il genere Helleborus (Ranunculaceae) comprende circa 15 specie di piante erbacee diffuse principalmente in Europa. Alcune di queste sono note per la loro tossicità, ma anche per l’uso nella medicina popolare e veterinaria. In medicina tradizionale, in Romania gli estratti di alcune specie di Helleborus sono usati per le loro proprietà immunostimolanti oltre che antinfiammatorie in artriti reumatoidi ed infezioni da virus varicella-zooster, mentre in Germania Helleborus niger è usato in medicina omeopatica per meningiti e convulsioni. In Sicilia la radice di Helleborus bocconei Ten. viene utilizzata contro la polmonite bovina. Inoltre, recenti studi farmacologici hanno dimostrato che la radice di Helleborus purpurascens, mediante impianto transcutaneo, determina in animali così trattati un aumento dei livelli di leucociti, neutrofili e fagociti. Studi chimici su Helleborus spp. hanno evidenziato la presenza di lipidi, acidi grassi, sapogenine steroidiche e bufadienolidi. Helleborus ha ricevuto una particolare attenzione essendo l’unico genere delle Ranunculaceae in cui sono stati isolati fitoecdisteroidi, analoghi degli ormoni steroidei degli invertebrati. Helleborus bocconei Ten., sottospecie di siculus, è una pianta erbacea perenne endemica dell’Italia meridionale e della Sicilia, diffusa sui Nebrodi e sul versante nord dell’Etna. Presenta rizoma sotterraneo di colore bruno e fusto erbaceo, eretto, scarsamente pubescente alla base; foglie palmatosette con margine a dentatura profonda e irregolare, con nervature molto prominenti nella pagina inferiore e infiorescenze costituite da 2-3 fiori. Il frutto è un follicolo. Poiché non esistono studi sull’attività antimicrobica di H. bocconei Ten., sono state saggiate le sue possibili proprietà antimicrobiche. L’estratto etanolico delle parti aeree essiccate è stato testato su ceppi ATCC di Staphylococcus spp., Streptococcus spp., Bacillus subtilis, Enterococcus faecalis, Pseudomonas aeruginosa, Escherichia coli, Moraxella catarrhalis, Haemophilus spp. Candida albicans e C. krusei. Sono stati saggiati anche ceppi provenienti da isolamento clinico. L’attività antimicrobica dell’estratto preparato è stata valutata determinando la Concentrazione Minima Inibente (MIC) con il metodo della brododiluizione scalare al doppio, secondo le procedure tecniche raccomandate dal National Committee for Clinical Laboratory Standard (NCCLS 2001). I microrganismi maggiormente sensibili all’estratto sono risultati M. catarrhalis (con MIC fino a 128 mg/l) e S. pneumoniae (con MIC fino a 256 mg/l). TIPIZZAZIONE MOLECOLARE E CARATTERIZZAZIONE DI ESBL DI CEPPI NOSOCOMIALI DI PROVIDENCIA STUARTII MULTIRESISTENTI Teresa Spanu, Lucio Romano, Barbara Fiori, Maurizio Sanguinetti, Brunella Posteraro, Tiziana D’Inzeo e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma La disseminazione di b-lattamasi a spettro esteso (ESBL) mediate da plasmidi nei batteri gram-negativi ha conseguenze rilevanti per il trattamento delle infezioni in ambito ospedaliero, specialmente nei reparti ad alto rischio. A differenza di altre specie di Enterobacteriaceae, in cui tale forma di resistenza è molto diffusa, i batteri appartenenti al genere Providencia sono generalmente più sensibili alle cefalosporine a spettro esteso, sebbene, piuttosto recentemente, sia stata descritta la caratterizzazione in P. stuartii di un nuovo enzima della famiglia delle ESBL TEM, TEM-60. Durante un programma di sorveglianza intraospedaliera dell’antibiotico-resistenza nei batteri gram-negativi, sono stati isolati da pazienti con infezioni nosocomiali ricoverati presso il Policlinico “A. Gemelli” 31 ceppi di P. stuartii con sensibilità intermedia o resistenti alle cefalosporine. I ceppi, inizialmente classificati come produttori di ESBL mediante il saggio di sinergia con doppio disco, sono stati sottoposti ai saggi di sensibilità in vitro agli agenti antibatterici, all’analisi repetitive extragenic palindromic sequence (REP)-PCR e ad isoelectric focusing (IEF). Tutti i ceppi presentavano un unico fenotipo di resistenza, essendo moderatamente o altamente resistenti alle cefalosporine e sensibili all’aztreonam. Inoltre erano resistenti a ciprofloxacina e sensibili ad imipenen e piperacillina/tazobactam. L’ottanta per cento dei ceppi era resistente all’amikacina ed il restante 20% alla gentamicina. L’analisi REP-PCR ha evidenziato l’esistenza di tre genotipi diversi, indicando che i 31 ceppi potevano essere riuniti in tre cluster. Le ESBL sono state caratterizzate mediante IEF che ha rivelato che tutti i ceppi erano produttori di un singolo enzima con un pI compatibile con quello di una b-lattamasi tipo TEM. Tutti i ceppi sono stati ulteriormente caratterizzati mediante il sequenziamento genico delle b-lattamasi prodotte che ha messo in evidenza la presenza di due tipi di TEM, TEM52 e TEM-47. Sulla base dei dati di tipizzazione, è possibile ipotizzare la circolazione nosocomiale di ceppi strettamente collegati da un punto di vista genetico, probabilmente con una comune origine clonale. Peraltro, il riscontro di due sole TEM avvalora tale ipotesi e rende necessario caratterizzare nei ceppi in studio i plasmidi che veicolano tali determinanti di resistenza. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 49 PREVALENZA DELLE RESISTENZA ALLA METICILLINA NEI CEPPI DI STAPHYLOCOCCUS AUREUS RESPONSABILI DI BATTEREMIE COMUNITARIE E NOSOCOMIALI ISOLATI DA DEGENTI DEL POLICLINICO UNIVERSIATRIO “A. GEMELLI” NEL PERIODO 2000-2002. Teresa Spanu*, Fiammetta Leone, Patrizia Mazzella, Tiziana D’Inzeo, Lucio Romano, Maria Teresa Mancini, Carla Mauro, Maurizio Sanguinetti e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma Obiettivo. determinare la prevalenza della resistenza alla meticillina, codificata dal gene mecA, e delle resistenze associate nei ceppi di Staphylococcus aureus responsabili di batteremie comunitarie e nosocomiali nei pazienti ricoverati nel Policlinico Universiatrio “A. Gemelli” nel triennio 2000-2002. Metodi. La presenza di mecA è stata rilevata mediante reazione polimerasica a catena utilizzando la metodica di Geha (J Clin Microbiol 1994;32:1768-1772). L’attività in vitro di ciprofloxacina, clindamicina, eritromicina, linezolid, oxacillina, quinopristina-dalfopristina, rifampicina, trimetoprim-sulfametossazolo, teicoplanina e vancomicina veniva determinata mediante E-test (AB Biodisk). La resistenza era definita secondo i criteri del National Committee for Clinical Laboratory Standards (NCCLS 2002, M100-S12). Risultati. Sono stati isolati 274 ceppi di S. aureus, 87 responsabili di batteriemie comunitarie (£ 48 ore di ricovero) e 187 di batteriemie nosocomiale. Il gene mecA era presente in 13 ceppi (14,9%) di provenienza comunitaria e in 187 (56,7%) nosocomiali, più frequentemente nei reparti di rianimazione e terapie intensive (75,6%) ed in quelli chirurgici (71%) rispetto a reparti medici (46,1%). La maggior parte dei ceppi era resistente a ciprofloxacina, eritromicina, e gentamicina. Nei ceppi mecA-negativi l’eritromicina ha presentato la minore attività in vitro. Non sono stati isolati ceppi resistenti a linezolid, quinopristina-dalfopristina, teicoplanina e vancomicina. Conclusioni. L’incremento della resistenza alla meticillina tra i ceppi di S. aureus responsabili di infezioni severe, le problematiche legate alla diffusione mondiale di ceppi resistenti ai glicopeptidi e alla recente introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci, sottolineano l’importanza di implementare una accurata sorveglianza delle infezioni comunitarie e nosocomiali causate da questi microrganismi. STUDIO EPIDEMIOLOGICO SULLE RESISTENZE DI S. PNEUMONIAE NEGLI ANNI 2001 – 2002 (PROGETTO GISPNEUMO) Gruppo di Studio Italiano Progetto Gispneumo Nell’anno 2000, il Gruppo di Studio Italiano Progetto Gispneumo ha iniziato il monitoraggio delle resistenze dello S. pneumoniae, permettendo sia ai microbiologi che ai clinici di poter acquisire in tempo reale informazioni sull’andamento delle resistenze di questo patogeno e poterle verificare nel tempo. I risultati illustrati sono relativi al biennio 2001-2002. Hanno partecipato a questa indagine 41 laboratori di Microbiologia Clinica nel 2001 e 39 nel 2002, distribuiti su tutto il territorio Italiano. Attraverso l’uso di Internet, sono stati inseriti nel sito www.gispneumo.com i dati sulle resistenze di S. pneumoniae, isolato per lo più da escreato, tampone nasofaringeo, essudato e sangue di pazienti sia ospedalizzati che ambulatoriali, nei confronti dei seguenti antibiotici: penicillina, amoxicillina, eritromicina, rokitamicina, claritromicina, azitromicina, cloramfenicolo, tetraciclina e levofloxacina. Nei due anni sono stati isolati complessivamente 1891 ceppi di S. pneumoniae (882 nel 2001 e 1009 nel 2002). I risultati di questo studio hanno evidenziato che nel nostro Paese la resistenza di questo microrganismo verso penicillina è ancora contenuta (8.2% nel 2001 e 5.5% nel 2002) mentre appaiono più allarmanti quelle nei confronti di eritromicina (26.1% nel 2001 e 32.6% nell’anno successivo) e degli altri macrolidi a 14 e 15 atomi. Per rokitamicina, invece, vengono segnalate percentuali di resistenza decisamente più basse (5.6% nel 2001 e 6.8% nel 2002) paragonabili a quelle riscontrate per penicillina. L’antibiotico che ha fatto registrare le percentuali più basse di resistenza è stata levofloxacina con un valore intorno all’1%. I risultati di questo studio confermano quanto già osservato per S. pyogenes e cioè il differente comportamento “in vitro” del macrolide a 16 atomi rispetto a quelli con anello lattonico a 14 e 15 atomi. Tali osservazioni suggeriscono di inserire la rokitamicina nei test di sensibilità “in vitro” di S. pneumoniae, in modo di fornire al medico una alternativa terapeutica nelle infezioni sostenute da questo microrganismo. 50 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DI CEPPI NOSOCOMIALI DI ACINETOBACTER BAUMANNI CARBAPENEMICI-RESISTENTI Fiammetta Leone, Grazia Morandotti, Teresa Spanu, Maurizio Sanguinetti, Lucio Romano, Brunella Posteraro, Patrizia Mazzella, Livia Mancinelli e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma L’insorgenza e la crescente diffusione della resistenza ai carbapenemici in Acinetobacter baumannii costituiscono un grave problema in ambito ospedaliero, in quanto questi farmaci rivestono un ruolo cruciale per la terapia delle infezioni severe sostenute da questo microrganismo. Durante un programma intraospedaliero di sorveglianza dell’antibiotico-resistenza sono stati isolati 92 ceppi di A. baumannii da pazienti con infezioni nosocomiali ricoverati nel Policlinico “A. Gemelli”. Ottandue ceppi sono risultati resistenti ai carbapenemici. Per la caratterizzazione dei ceppi è stato utilizzato un test genotipico sviluppato di recente, denominato REP-PCR, che è basato sull’amplificazione mediante PCR di sequenze ripetitive palindromiche extrageniche. Tale metodo ha permesso di stabilire che la maggior parte dei ceppi erano genotipicamente indistinguibili o strettamente correlati l’uno con l’altro, evidenziando la presenza di soltanto due genotipi o gruppi. I ceppi appartenenti al primo gruppo erano resistenti all’imipenem mentre nel secondo gruppo erano inclusi ceppi sensibili e resistenti al farmaco. Sulla base dei risultati ottenuti è possibile ipotizzare la trasmissione dello stesso ceppo a più pazienti sebbene ulteriori indagini siano necessarie per accertare se tale trasmissione si sia verificata attraverso un contatto diretto tra pazienti o tramite una sorgente comune di infezione. VALUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ BIOCIDA DI UN DISINFETTANTE CHIMICO A BASE DI ADAZONE ED ACIDO PERACETICO “ADASPOR PRONTO” PER LA STERILIZZAZIONE DI DUODENOSCOPI Leone F., *Pagnini, V Mazzella P., **Costamagna G., **Riccioni M.R., Espinosa S., Fadda G. Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” *International Medical Service IMS, srl **Servizio di Endoscopia Digestiva Chirurgica, Policlinico Universitario “A. Gemelli” Obiettivo: Il nostro studio è stato quello di verificare l’efficacia di un composto chimico a base di Adazone ed Acido peracetico (a bassa concentrazione) utilizzato per la disinfezione e sterilizzazione degli endoscopi, che per la loro peculiare funzione e struttura gli endoscopi sono spesso dei serbatoi di microrganismi, venendo a contatto con mucose e cute non integra di numerosi pazienti. Materiali e Metodi: E’ stata condotta una indagine su 50 duodenoscopi utilizzati per indagini endoscopiche. L’indagine microbiologica sugli endoscopi è stata effettuata seguendo un protocollo che prevede di quantificare ed identificare la flora microbica presente, mediante prelievi sugli strumenti prima e dopo disinfezione nello strumento Medivators che utilizza il disinfettante “Adaspor” per 10 minuti. I prelievi microbiologici sono stati eseguiti sia sulla guaina esterna che nel canale bioptico dell’endoscopio e seminati su specifici terreni secondo la tecnica del replica plating per verificare dopo 48 ore di incubazione a 37°C la presenza delle diverse specie microbiche. Risultati: Tutti i 1200 campioni prelevati dopo sterilizzazione sono risultati negativi, mentre i 1200 tamponi prelevati prima della sterilizzazione sono risultati positivi. I prelievi effettuati nel canale bioptico degli endoscopi presentavano una carica microbica maggiore di quelli effettuati sulla guaina esterna. Le specie microbiche più frequentemente isolate erano: Escherichia coli, Enterococcus fecalis, Pseudomonas aeruginosa e Lieviti. Conclusioni: La sperimentazione condotta dimostra che la procedura del sistema Medivators è pratica, sicura, e senza alcun rischio nell’utilizzo e nella manipolazione. Il tempo di sterilizzazione di soli 10 minuti è risultato valido per tutta la durata dei 12 giorni di attivazione di Adaspor nella disinfettatrice automatica poiché tutti i prelievi effettuati dopo sterilizzazione sono risultati privi di flora microbica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 51 ISOLAMENTO DEL BASIDIOMICETE SCHIZOPHYLLUM COMMUNE DA UN CAMPIONE DI BRONCOASPIRATO V. Tullio, N. Mandras, J.Roana, G. Banche, A. M. Cuffini, N.A. Carlone. Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia Università di Torino La letteratura medica segnala un aumento della frequenza delle basidiomicosi, infezioni fungine provocate da basidiomiceti, in modo particolare dopo l’avvento dell’AIDS. Le basidiospore di questi funghi, disseminate nell’atmosfera e trasportate dal vento o da correnti aeree, possono raggiungere, attraverso la via nasale, vari distretti anatomici provocando sinusiti, polmoniti, meningiti, micetomi, endocarditi e lesioni ulcerose del palato duro. Tra questi miceti lo Schizophyllum commune, saprofita ubiquitario e cosmopolita, sta emergendo recentemente come patogeno. In questo lavoro si segnala l’isolamento di S. commune dal broncoaspirato di un paziente maschio di 59 anni afferente ad una struttura ospedaliera torinese per patologia respiratoria. L’esame colturale su Sabouraud Dextrose Agar rivela, dopo tre settimane di incubazione a 25°C, crescita di una colonia avellanea con basidiocarpo flabellato a forma di conchiglia, incurvato e con imenoforo lamellato. Dall’analisi microscopica si osserva presenza di un micelio settato caratterizzato da “unione a fibbia” e presenza di basidiospore nelle lamelle. Escludendo la presenza di un’inquinamento ambientale per questo distretto usualmente sterile, l’isolamento di S.commune, assai raro in letteratura, sottolinea l’importanza di non sottovalutare quei microrganismi normalmente considerati saprofiti. CORRELAZIONE INVERSA TRA APOPTOSI DEI LINFOCITI CD8+ E CONTE DELLE CELLULE CD4+ IN PAZIENTI HIV SOTTOPOSTI A TERAPIA ANTIRETROVIRALE AD ALTA ATTIVITÀ Sandro Grelli1, Loide Di Traglia1, Vincenzo Vullo3, Francesco Montella4, Cartesio D’Agostini1, Stefano Vella5, Beatrice Macchi2, Cartesio Favalli1, Antonio Mastino6 1Dip. Med. Sperimentale e Sc.Biochimiche, Policlinico “Tor Vergata”, e 2Dip. di Neuroscienze, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma; 3Dip. di Malattie Infettive e Tropicali, Università di Roma “La Sapienza”, Roma; 4Ospedale S. Giovanni, Roma; 5Istituto Superiore di Sanità, Roma; 6Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Moleculari, Università di Messina, Messina. Nei pazienti infettati dal virus dell’immunodeficienza umana tipo 1 (HIV-1) è stata dimostrata una pronta inibizione dell’apoptosi dei linfociti di sangue periferico in risposta alla terapia antiretrovirale ad alta attività (HAART). I dati pubblicati non rivelano comunque se esista un rapporto causale diretto tra l’inibizione dell’apoptosi ed il ripristino delle cellule T CD4+. Inoltre, il contributo delle sottopopolazioni CD4+ e CD8+ nella diminuzione complessiva dell’apoptosi dei linfociti non è stato completamente definito. Per studiare questi aspetti non ancora chiariti, una coorte di pazienti HIV sottoposti ad HAART è stata arruolata in uno studio longitudinale aperto a lungo termine. Sulla base della loro risposta alla terapia, i pazienti sono stati classificati come successi terapeutici (ST, 17 pazienti), risposte discordanti (RD, 2 pazienti) e fallimenti terapeutici (FT, 2 pazienti). In 16 dei 17 pazienti ST, sono stati osservati costanti, notevoli livelli di inibizione dell’apoptosi dei linfociti di sangue periferico, a lungo termine. Nello stesso sottogruppo ST i livelli di apoptosi delle cellule totali erano correlati con i livelli di apoptosi delle cellule CD8+ in modo statisticamente più significativo rispetto ai livelli di apoptosi delle cellule CD4+. Inoltre, nello stesso sottogruppo ST, le conte delle cellule CD4+ erano correlate inversamente in modo altamente significativo con i livelli di apoptosi delle cellule CD8+, ma non con i livelli di apoptosi delle cellule CD4+. I nostri dati suggeriscono che l’aumento dei linfociti CD4+ nei pazienti HIV, in seguito a risposta alla terapia HAART, dipende poco o niente in modo diretto dall’inibizione dell’apoptosi delle cellule CD4+, ma è piuttosto in relazione con modificazione dell’apoptosi che interessano il compartimento delle cellule T CD8+. 52 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CINETICA DELLA PRODUZIONE E DEL RILASCIO DI CITOCHINE DA PARTE DI POPOLAZIONI CELLULARI STIMOLATE CON MYCOBACTERIUM BOVIS BACILLO DI CALMETTE E GUÉRIN (BCG) NELL’UOMO S. Esin, G. Batoni, F. Favilli, M. Pardini, D. Bottai, G. Maisetta, W. Florio, M. Campa Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa E’ stata valutata la cinetica della produzione e del rilascio di citochine da parte di popolazioni cellulari arricchite in linfociti T e cellule natural killer e deplete in monociti e linfociti B (cellule NW) in risposta a BCG vivo. Dato il ruolo chiave svolto dai macrofagi sia nell’immunità naturale che acquisita verso i micobatteri, sono state allestite e comparate due diverse condizioni sperimentali. Nella prima, le cellule NW sono state stimolate con monociti autologhi previamente infettati con BCG che risultava, quindi, localizzato prevalentemente in sede intracellulare. Nella seconda condizione, le cellule NW venivano direttamente incubate con BCG vivo che risultava, quindi, in sede extracellulare. Sia in presenza che in assenza di macrofagi, venivano osservati, nei sopranatanti di coltura, elevati livelli di IFN-g e TNF-a, già a partire dalle 12 ore. I livelli di IFN-g risultavano, al momento del picco (36-48 ore), circa 10 volte più elevati in presenza di BCG extracellulare rispetto alla condizione in cui BCG risultava intramacrofagico. Il rilascio di IL-10 raggiungeva un picco a tempi più tardivi, intorno alle 96 ore, con livelli assoluti circa 5 volte più elevati nelle colture private di macrofagi rispetto a quelle contenenti macrofagi. Un progressivo rilascio di IL5 si osservava nei sopranatanti di coltura a tempi tardivi dall’inizio della stimolazione (120-144 ore) prevalentemente in presenza di macrofagi e, quindi, di BCG intracellulare. In entrambe le condizioni sperimentali, non è stata rilevata alcuna quantità apprezzabile di IL-4, IL-12 e IL-18. Infine, IL-2 era rilevabile, anche se a livelli relativamente bassi (120 pg/ml), quando BCG era extracellulare, mentre non era rilevabile, a livelli apprezzabili, in presenza di macrofagi. L’analisi contemporanea, in citometria a flusso, della produzione intracitoplasmatica di alcune delle citochine sopra analizzate e dell’espressione dei marker di superficie ha dimostrato che il BCG extracellulare, ma non quello intramacrofagico, era in grado di indurre la produzione di elevati livelli di IFN-g da parte di cellule natural killer (NK) e ciò in assenza di apprezzabili livelli di IL-12/IL-18. Tali risultati suggeriscono una modalità alternativa di induzione della produzione di tale citochina da parte di cellule NK umane indipendente dal rilascio di citochine di origine macrofagica. SOLUTI COMPATIBILI DA BATTERI ALOFILI CHE INDUCONO LA PRODUZIONE DI HEATSHOCK PROTEINS IN CHERATINOCITI UMANI Buommino E1., Schiraldi C2., Maresca M. 2, Lamberti M.. e Tufano M1. Dipartimento di Medicina Sperimentale, 1Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, 2Sezione di Biotecnologie e biologia molecolare, Facoltà di Medicina - Seconda Università di Napoli Obiettivi Alcuni batteri alofili, in grado di vivere in condizioni di alta salinità (10% p/v), hanno la capacità di ovviare al forte stress osmotico, sintetizzando particolari molecole denominate soluti compatibili. Tra queste hanno assunto particolare interesse scientifico le ectoine, molecole di tipo aminoacidico, aventi capacità stabilizzanti per enzimi, DNA, RNA, ed anche cellule (1). E’ stato dimostrato che le ectoine possono svolgere un ruolo protettivo per la cute sottoposta a disidratazione ed a stress ambientali. Scopo di questo lavoro è valutare l’influenza di tali molecole nella risposta di cheratinociti umani sottoposti a stress termico, mediante l’analisi dell’espressione delle “heat shock proteins 70” (HSP-70). Materiali e Metodi Le colture primarie di cheratinociti sono state pre-incubate a per 24 h a 37°C in KSFM, in presenza di ectoina a concentrazioni variabili tra 50-500 mg/ml. Successivamente le cellule sono state sottoposte a stress termico per 30 min a 42°C. E’ stata valutata la concentrazione di soluti compatibili nel mezzo condizionato pre e post incubazione per valutare un eventuale assorbimento cellulare, con metodiche HPLC. L’RNA totale è stato estratto dalle cellule controllo e da quelle incubate in presenza di ectoina. Il c-DNA è stato sintetizzato su 100 ng di RNA totali. La RT-PCR è stata eseguita mediante utilizzo di primers specifici per le HSP-70 umane. Per l’esecuzione del western blot sono stati utilizzati estratti proteici degli stessi punti sperimentali. Risultati In tutto l’intervallo di concentrazioni studiate, l’espressione delle HSP-70 è fortemente indotta nelle cellule trattate con ectoina e sottoposte a stress rispetto al controllo. In particolare la concentrazione pari a 100 mg/ml sembrerebbe essere quella che induce maggiormente l’espressione delle HSP-70 rispetto agli altri punti sperimentali. Come controllo positivo sono stati utilizzati cheratinociti incubati per 30 min a 42°C. La sola pre-incubazione con ectoina non induce espressione delle HSP-70. I dati ottenuti mediante RT-PCR sono stati confermati da analisi per western-blot. Questi risultati preliminari sembrano suggerire un potenziale utilizzo di tali soluti compatibili come agenti protettivi per la cute. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 53 A-MSH RIDUCE L’INTERNALIZZAZIONE DI STAPHYLOCCOCCUS AUREUS, MODULA L’ESPRESSIONE DI HSP70, INTEGRINE E CITOCHINE IN CHERATINOCITI UMANI Giovanna Donnarumma, Iole Paoletti, Daniela Criscuolo, Lucia Auricchio, Maria Antonietta Tufano Dipartimento di Medicina Sperimentale Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica Seconda Università degli Studi di Napoli Staphyloccoccus aureus è l’agente etiologico di varie patologie cutanee, che si esacerbano con invasione dei tessuti dell’ospite e severo danno cellulare. L’a-Melanocyte Stimulating Hormone (a-MSH), neuropeptide ad attività antinfiammatoria e antimicrobica è principalmente prodotto dalla ghiandola pituitaria, ma è anche secreto da cellule di diversi distretti inclusi i cheratinociti. In questo studio è stato analizzato il ruolo dell’ a-MSH sulla possibile modulazione di alcune molecole coinvolte nell’internalizzazione di S. aureus, come integrine e proteine da stress, e sull’espressione di citochine in cheratinociti infettati da S. aureus o trattati con Proteina A (PA) ed acido lipotecoico (LTA). Inoltre è stato analizzato l’effetto del neuropeptide sui meccanismi di attivazione trascrizionale indotti da S. aureus, LTA e PA. L’effetto dell’a-MSH sull’internalizzazione di S. aureus è stato valutato, sia mediante saggio di invasione su monostrati semiconflenti di cheratinociti umani pre-trattati o meno con il neuropeptide, sia valutando i livelli di espressione di HSP70 e integrina b1 mediante Western blot. La modulazione dell’espressione di IL-8, TNF-a e ICAM-1 è stata analizzata mediante RT-PCR. Inoltre, per individuare il pathway di trasduzione utilizzato nel nostro modello sperimentale, su lisati cellulari e nucleari sono stati misurati rispettivamente i livelli di espressione di IkB e NFkB mediante Western blot. I nostri risultati dimostrano che l’a-MSH riduce significativamente l’espressione di molecole coinvolte nell’invasività di S. aureus e down-regola l’espressione di citochine proinfiammatorie, inibendo NFkB. Questi dati suggeriscono che a-MSH svolge un ruolo protettivo a livello cutaneo riducendo l’infezione e il processo infiammatorio. TLR4 MEDIA L’ESPRESSIONE DI CITOCHINE PROINFIAMMATORIE IN CELLULE CACO-2 STIMOLATE CON PORINE DI SHIGELLA FLEXNERI Grimaldi E., Donnarumma G., Solla D., Tufano M.A. Dipartimento Di Medicina Sperimentale Sezione Di Microbiologia E Microbiologia Clinica– Seconda Università degli Studi di Napoli Shigella flexneri è un Gram negativo responsabile di patologie infettive intestinali. E’noto che la membrana esterna di questi microrganismi presenta proteine idrofobiche, porine, che, rilasciate durante la replicazione batterica e durante la batteriolisi, possono interagire con la membrana plasmatica delle cellule dell’ospite. Porine purificate posseggono attività immunomodulatorie e procoagulanti e sono considerati determinanti di patogenicità in misura dose dipendente. Recenti studi, indicano che, in cellule epiteliali intestinali, l’attivazione del fattore trascrizionale NF-kB è mediata dal riconoscimento tra prodotti batterici, generati in seguito ad infezione di batteri enteroinvasi, e alcuni recettori appartenenti alla famiglia dei Toll-like receptors (TLRs). Per verificare il coinvolgimento di porine purificate da Shigella flexneri nel processo infiammatorio, abbiamo valutato l’attività di queste proteine sulla produzione di alcune citochine (IL-8, IL-6, TNF-a, IL-1b) e sull’induzione di peptidi antimicrobici, coivolti nella risposta immune innata, quali defensine (HBD-1, HBD-2) in cellule epiteliali intestinali di carcinoma di colon (Caco-2). Nel nostro modello sperimentale l’attivazione del fattore NF-kB, l’induzione delle citochine e delle defensine è stata valutata verificando sia l’upregolazione del recettore TLR4 sia la formazione del complesso TLR4-MD2 nelle prime fasi della trasduzione del segnale . MD2 è una piccola proteina glicosilata che forma un complesso molto stabile con la porzione extracellulare di TLR4, fondamentale per all’attivazione di NF-kB. L’attivazione del fattore NF-kB è stata valutata mediante EMSA e tecniche di Western Blot, mentre la formazione del complesso TLR4-MD2 è stata determinata mediante tecniche di immunoprecipitazione. Tecniche di RT-PCR sono state utilizzate per la valutazione delle citochine IL-8, IL-6, TNF-? e IL-1? e delle defensine HBD-1, HBD-2. I nostri risultati mostrano una chiara modulazione del complesso TLR4-MD2 e la conseguente attivazione del fattore trascrizionale NF-kB. Abbiamo inoltre evidenziato un incremento dell’espressione dell’mRNA di IL-8, TNF-?, IL-1? e HBD-2. Tali dati confermano il ruolo immunomodulatorio delle porine e sottolineano il loro diretto coinvolgimento nella formazione del complesso TLR4-MD2, nell’attivazione di NF-kB e nella conseguente modulazione della risposta immune innata dell’epitelio intestinale. 54 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA ISRAELI SPOTTED FEVER RICKETTSIA: UN NUOVO AGENTE DI FEBBRE BOTTONOSA DEL MEDITERRANEO IN SICILIA – ANALISI MOLECOLARE RETROSPETTIVA. Giovanni M. Giammanco1, Giustina Vitale2, Serafino Mansueto2, Pietro Ammatuna1. 1. Dipartimento di Igiene e Microbiologia - 2. Dipartimento di Medicina Clinica e delle Patologie Emergenti, Università degli Studi di Palermo. La Febbre Bottonosa del Mediterraneo (FBM) è endemica in Italia. La sua diffusione è maggiore in Lazio, Sardegna, Calabria e Sicilia, dove ha raggiunto nel 1998 un tasso di incidenza di 8,8/ 100.000, contro una media nazionale di 1,6. Rickettsia conorii è sempre stata considerata l’unica Rickettsia patogena appartenente al gruppo delle Spotted Fever Rickettsiae (SFR) circolante nell’area del Mediterraneo occidentale. Ma, negli ultimi anni, la presenza di nuove specie di rickettsia patogene è stata dimostrata in Francia (R. slovaca e R. mongolotimonae), in Marocco (R. aeschlimannii), e nell’Africa sub-Sahariana (R. africae). Un’altra rickettsia del gruppo SFR, la Israeli spotted fever Rickettsia, la cui distribuzione geografica sembrava ristretta al solo Israele, è stata isolata anche in Portogallo. Anche in Italia, rickettsie del gruppo SFR diverse da R. conorii sono state isolate da zecche Ixodes ricinus catturate in Trentino e Toscana. Per verificare se anche in Sicilia fossero presenti rickettsie inusuali, è stata da noi effettuata un’analisi molecolare retrospettiva su sequenze genomiche di alcuni ceppi isolati nel 1990 e provenienti dal sangue di pazienti affetti da FBM e dall’emolinfa di zecche Rhipicephalus sanguineus, il vettore della FBM in Sicilia. L’analisi molecolare è stata eseguita su una porzione di 632-pb del gene ompA, amplificata mediante PCR. I prodotti di amplificazione sono stati sottoposti ad analisi di restrizione con le endonucleasi PstI e RsaI. Il riscontro di un peculiare profilo PstI ha permesso di identificare presuntivamente tre isolati clinici umani ed un isolato da artropode, come appartenenti alle Israeli spotted fever Rickettsiae. Per confermare l’identificazione presuntiva, i prodotti PCR sono stati sequenziati e le sequenze ottenute sono state confrontate con quelle di SFR strettamente correlate. I frammenti del gene ompA dei quattro isolati hanno mostrato una completa identità con la sequenza omologa del ceppo di riferimento della Israeli spotted fever Rickettsia. Il riscontro di Israeli spotted fever Rickettsia sia in pazienti affetti da FBM che nell’artropode vettore indica che la distribuzione geografica della Israeli spotted fever è più ampia di quanto finora ipotizzato ed include anche la Sicilia. Questi risultati confermano nostre indagini precedenti sulla circolazione locale di un complesso di Rickettsiae spp. EFFETTO DELLO SWIMMING E DELLA IDROFOBICITÀ SUPERFICIALE DI STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA SULL’ADESIVITÀ E SULLA FORMAZIONE DI BIOFILM SU POLISTIRENE. G. Di Bonaventura, C. Picciani, G. Catamo, R. Piccolomini Laboratorio di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università “G. d’Annunzio”, Chieti. Background: L’adesione di microrganismi a superfici protesiche è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche fisiche del substrato (irregolarità di superficie e differenze di carica elettrica) e le proprietà di superficie batterica, come ad esempio la idrofobicità e la presenza di flagelli. Recentemente (1), è stata rilevata la presenza di flagelli nelle fasi terminali del processo di adesione di S. maltophilia a superfici plastiche suggerendo un ruolo attivo svolto dalla componente flagellare in questo evento. A tutt’oggi, non esistono dati sul contributo della idrofobicità alla produzione di biofilm di S. maltophilia. Scopo: valutare il ruolo svolto dalla motilità (swimming) e dalla idrofobicità di S. maltophilia nel determinismo del processo adesivo e di formazione del biofilm su superfici plastiche. Materiali e metodi: 40 ceppi di S. maltophilia isolati da pazienti neutropenici sono stati saggiati per la loro capacità di produrre biofilm mediante “microtiter plate test” esprimendo i risultati in termini di assorbanza (OD550) dopo colorazione del biofilm con cristalvioletto. L’idrofobicità di superficie cellulare (CSH) delle forme planctoniche di S. maltophilia è stata determinata mediante tecnica di separazione bifasica in esadecano, secondo la metodica di Campanac et al. (2) ed i risultati espressi come proporzione di cellule escluse dalla fase acquosa, secondo l’equazione [(A0-A)/A0]x100, dove A0 ed A sono, rispettivamente, la OD iniziale e finale della fase acquosa. La capacità di swimming di S. maltophilia è stata saggiata su triptone-swim agar (1% triptone, 0.5% NaCl, 0.3% agar) seminato con una singola colonia mediante l’ausilio di un ago. Dopo incubazione a 37°C per 24h, la motilità risulta essere direttamente proporzionale al diametro dell’alone circolare formato dalle cellule batteriche migranti dal punto di inoculazione. La capacità di produrre biofilm è stata correlata a CSH ed allo swimming mediante calcolo dell’indice di correlazione di Pearson (Pearson r), considerando valori di P<0.01 come statisticamente significativi. Risultati: CSH correla positivamente con la produzione di biofilm (Pearson r = 0.468; P < 0.01). Di contro, la motilità per swimming non correla positivamente con la produzione di biofilm (Pearson r = -0,256; P > 0.01). Conclusioni: in contrasto con recenti evidenze sperimentali, i nostri risultati evidenziano come la motilità mediata da flagelli polari non prenda parte attiva al processo di adesione e formazione di biofilm da parte di S. maltophilia. Al contrario, CSH svolge un ruolo critico per la produzione di biofilm da parte di S. maltophilia, suggerendo come l’adesione e la crescita su superfici plastiche rifletta una eterogeneità strutturale e biochimica della popolazione batterica. 1. de Oliveira-Garcia, et al., Emerg. Infect. Dis. 8:918-923, 2002. 2. Campanac, G.D., et al., Ant. Agents Chemother. 46:1469-1474, 2002. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 55 INTERAZIONE TRA SAQUINAVIR E FARMACI ANTIFUNGINI IN CEPPI DI CANDIDA SPP. E DI C.NEOFORMANS. Casolari C*, Rossi T,Baggio G,Zandomeneghi G,Ruberto A,Farina C^, Castelli M. *Dipartimento Misto di Medicina di Laboratorio,Università di Modena e Reggio E. Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Modena e Reggio E. ^Unità Operativa di Microbiologia e Virologia, Ospedali Riuniti di Bergamo. Candidosi e criptococcosi rappresentano le infezioni fungine più frequenti in corso di AIDS. Il trattamento di tali patologie opportunistiche prevede l’impiego di 5-fluorocitosina, amfotericina B e derivati imidazolici come miconazolo e fluconazolo. Scopo del presente studio è quello di accertare se l’uso contemporaneo di un farmaco antivirale con azione antiproteasica ( saquinavir) possa determinare una interazione capace di modificare l’effetto terapeutico dell’antimicotico. 16 ceppi rispettivamente di Candida spp. e di C.neoformans isolati da campioni clinici (sangue e liquor cefalorachidiano) di pazienti con AIDS sono stati testati nei riguardi di 5-fluorocitosina, amfotericina B, miconazolo e fluconazolo a concentrazioni scalari, singolarmente e in associazione con saquinavir, col metodo della diluizione in piastra. Nelle associazioni saquinavir è stato utilizzato alla concentrazione di 18.75?M che risulta essere la più vicina a quella ematica; gli antimicotici a dosi inibenti e sub-inibenti. Le interazioni sono state valutate con l’indice di FIC. Tutti i tests sono stati replicati tre volte. I risultati dimostrano una buona interazione “in vitro” tra saquinavir e le diverse classi di antimicotici utilizzati. In particolare con gli imidazolici miconazolo e fluconazolo, sia su Candida spp. che su C.neoformans, si è ottenuto sinergismo con potenziamento ( FIC index <0.55) o additività (0.55<FIC index<1) mentre le associazioni con gli altri antifungini hanno denotato per lo più indifferenza (1<FIC index<2).In nessun caso si è mai evidenziato antagonismo.L’assenza di quest’ultimo fenomeno indica che le associazioni tra farmaci antivirali e antimicotici possono essere validamente impiegate senza rischio di riduzione dell’effetto terapeutico antifungino mentre l’effetto sinergico evidenziato può essere sfruttato per diminuire eventualmente i dosaggi con conseguente riduzione di effetti tossici collataterali. FARMACODINAMICA DI FLUCONAZOLO, VORICONAZOLO E AMFOTERICINA B VERSO CEPPI “EMERGENTI” DI CANDIDA NON-ALBICANS SPP. ISOLATI DA PAZIENTI NEUTROPENICI Di Bonaventura G.1, D’Antonio D.2, Spedicato I.1, Faricelli F.1, Piccolomini R.1 1Laboratorio di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università “G. d’Annunzio”, Chieti; 2 Servizio di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Ematologia ed Oncologia, Ospedale “Santo Spirito”, ASL Pescara. Background: Recenti evidenze cliniche sottolineano un’aumentata prevalenza, soprattutto nel paziente immunocompromesso, di infezioni sostenute da “nuovi” patogeni fungini, Candida non-albicans, in grado di causare micosi invasive, organizzate in clusters nosocomiali e/o esibenti resistenza acquisita od innata ad uno o più agenti antifungini. Scopo: Studiare la natura della relazione esistente in vitro tra concentrazione ed attività di fluconazolo, voriconazolo ed amfotericina B (AMB) nei confronti di C. kefyr, C. guillermondii e C. lusitaniae isolati da sangue di pazienti neutropenici. Materiali e metodi: 6 isolati di Candida spp. (2 C. kefyr, 2 C. guillermondii e 2 C. lusitaniae) sono stati esposti a concentrazioni di antimicotico comprese tra 0.125x e 8xMIC; l’attività degli antifungini è stata monitorata nel tempo (2, 4, 8, 24, 48 h) mediante conta delle colonie vitali e calcolo delle concentrazioni necessarie per ottenere il 50 ed il 90% dell’attività massima (EC50 e EC90, rispettivamente). L’attività esibita dagli antifungini è stata inoltre descritta mediante l’analisi di curve sigmoidali tipo “dose-effetto”. Risultati: AMB ha evidenziato un’attività fungicida nei confronti di tutti i ceppi saggiati, sebbene la velocità e l’estensione dell’effetto siano risultate essere specie/isolato-specifiche: 1/4xMIC per C. lusitaniae, 1xMIC per C. kefyr, 8xMIC per C. guillermondii. Voriconazolo e fluconazolo esibivano sempre un’attività fungistatica sebbene caratterizzata da differenti effetti sulla crescita del controllo: nessun effetto inibente (1/8, 1/4, 1xMIC fluconazolo; 1/8, 1/4xMIC voriconazolo); lieve riduzione della crescita (1xMIC, voriconazolo); effetto fungistatico indipendente dalla concentrazione impiegata (4x, 8xMIC fluconazolo e voriconazolo). I valori di EC50 e EC90 rimanevano costanti nel tempo per AMB (0.68£EC50£0.96; 1.16£EC90£1.92); tale invariabilità si registrava anche per fluconazolo (1.09£EC50£1.30; 2.05£EC90£2.26) e voriconazolo (0.45£EC50£0.83; 1.41£EC90£1.81) nelle prime 24h, aumentando significativamente dopo 48h di esposizione (EC50=3.42, EC90=4.39, fluconazolo; EC50=1.27, EC90=2.23, voriconazolo). Conclusioni: voriconazolo e fluconazolo esibiscono attività fungistatica indipendente dalla concentrazione testata. Di contro, AMB risulta essere un efficace agente antifungino in grado di esercitare una rapida attività fungicida nei confronti delle Candida spp. testate. 56 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA 3-O-METHYLFUNICONE, UN METABOLITE SECONDARIO PRODOTTO DA PENICILLIUM PINOPHILUM, INDUCE ARRESTO DELLA CRESCITA E APOPTOSI NELLE CELLULE HELA Elisabetta Buommino1, Manuela Orlando1, Rosario Nicoletti2, Maria Antonietta Tufano1 1Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli, 80138 Napoli. 2Istituto Sperimentale del Tabacco, 84018 Scafati. 3-O-methylfunicone (OMF) è un metabolita secondario, prodotto dal fungo Penicillium pinophilum. In questo lavoro dimostriamo che il composto inibisce la proliferazione delle cellule HeLa. In seguito a questa inibizione le cellule trattate vanno incontro al processo apoptotico. Dopo 24 ore di trattamento con OMF (25 mg/ml) mediante RT-PCR è possible evidenziare un significativo aumento dell’espressione dell’mRNA per p21 e una down regolazione dell’espressione della ciclina D1 e della chinasi ciclina dipendente Cdk4. Inoltre da un preliminare studio eseguito al citofluorimetro, si evince che il blocco della crescita indotto dall’OMF non sembra essere fase specifico. L’induzione del processo apoptotico è stato evidenziato dopo 48 e 72 ore di trattamento, mediante estrazione del DNA e metodica dell’annessina V. L’analisi dei classici geni apoptotici ha successivamente dimostrato che il processo indotto è p53 indipendente. Si può ipotizzare che l’azione dell’OMF si esplichi attraverso una perturbazione del ciclo cellulare che manda le cellule HeLa in apoptosi. La capacità del composto di influenzare il ciclo cellulare e di modulare l’apoptosi può essere indicativo per un potenziale sviluppo di tale composto come un nuovo agente nella terapia anti-tumorale. SPF10-LiPA: UNA METODICA SENSIBILE E VERSATILE PER LA DIAGNOSI DI INFEZIONE DA HPV Capra G., Lama A., Giovannelli L., Ammatuna P. Dipartimento di Igiene e Microbiologia - Università di Palermo L’infezione da HPV è associata allo sviluppo di varie lesioni benigne, potenzialmente maligne e maligne delle mucose, ed è in particolare correlata causalmente all’insorgenza del carcinoma della cervice uterina. Tra le varie metodiche di biologia molecolare descritte per la diagnosi di infezione, recentemente è stato sviluppato un sistema basato sull’amplificazione con il set di primers SPF10 di un frammento di 65 bp nella regione L1 e successiva rivelazione mediante ibridazione su strip, Line Probe Assay (LiPA). La metodica permette di identificare 25 genotipi di cui 14 ad alto rischio. Abbiamo applicato questo nuovo sistema a 155 campioni clinici rappresentati da 31 brushing orali, 36 biopsie cervicali paraffinate e 88 scraping cervicali. Tutti i campioni sono stati contemporaneamente saggiati mediante l’amplificazione “two step” con i primers MY09/MY11 e GP5+/GP6+ (nPCR) e successiva analisi della sequenza dei prodotti di PCR. Gli scraping cervicali sono stati, inoltre, analizzati mediante il test di ibridazione in fase liquida Hybride Capture II (HCII), approvato negli Stati Uniti dalla FDA. La frequenza dei campioni positivi è stata del 22.6%, 50% e 54.5% rispettivamente per i brushing orali, biopsie e scraping cervicali per il test LiPA, e del 12.9%, 16.7% e 34% per la nPCR, con un incremento di sensibilità maggiore nel caso delle biopsie cervicali (3 volte). Similmente, la percentuale dei campioni positivi in SPF10-LiPA è risultata essere superiore a quella dell’HCII (54.5% vs 30.7%). La maggiore sensibilità della nuova amplificazione sembra essere dovuta alla migliore efficienza dei primers SPF10 nel rilevare la presenza di alcuni genotipi di HPV: infatti, solamente il test SPF10-LiPA ha identificato i genotipi 51, 54, 68, 39, 31, 66, 44, 70, 42, 52. I genotipi 85, 84, 61 e 83 identificati soltanto dalla nPCR, non erano inclusi nel pool di sonde fornito dal kit. I dati ottenuti indicano che il sistema SPF10-LiPA è una metodica sensibile e versatile per l’identificazione e la genotipizzazione di HPV, anche se necessita di una più ampia validazione clinica prima che possa essere riconosciuta la sua effettiva utilità diagnostica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 57 VALUTAZIONE DELLA PRESENZA DI HPV E TIPIZZAZIONE VIRALE MEDIANTE IBRIDAZIONE INVERSA IN UN CAMPIONE DI DONNE DELLA REGIONE PUGLIA. M. Chironna, A. Lepera*, A. Sallustio, P. Caniglia, M.T. Montagna, M. Quarto DIMIMP- Sez. di Igiene, *DACTI – Sez. di Ginecologia; Università di Bari I papillomavirus (HPV) sono strettamente associati allo sviluppo del carcinoma della cervice uterina. Esistono oltre 100 tipi di HPV dei quali solo alcuni sono associati a carcinoma cervicale o altri carcinomi genitali. La determinazione di HPV è possibile mediante tecniche molecolari (PCR). Distinguere i diversi tipi di HPV è un fattore cruciale per stabilire la probabilità che lesioni genitali progrediscano verso forme neoplastiche maligne. Nel corso del 2003 sono state esaminate pazienti afferenti all’ambulatorio ginecologia delle Cliniche Ostetriche del Policlinico (Università di Bari) con riscontro di lesioni probabilmente riconducibili ad infezione da HPV o con citologia cervico-vaginale suggestiva. Durante visita ginecologica è stato effettuato un tampone cervicale su ciascuna paziente. 3 ml di PBS sono stati aggiunti a ciascun tampone e due aliquote da 1,5 ml sono state centrifugate a 10.000 rpm per 10 minuti. L’estrazione del DNA dai pellet è stata effettuata mediante colonnine Qiagen. L’idoneità di ciascun campione è stata valutata mediante PCR per beta-globina utilizzando i primer GH20-PC04. I campioni idonei sono stati analizzati per HPV mediante PCR con primer SPF10 nella regione L1. I campioni positivi sono stati tipizzati mediante ibridazione inversa con probe in grado di tipizzare fino a 25 genotipi (Inno-LiPA HPV genotyping). Sono state arruolate, fino ad ora, 50 donne e sono stati eseguiti altrettanti tamponi cervico-vaginali. In 7 pazienti è stato diagnosticato carcinoma squamoso della portio e in una paziente adenocarcinoma. Quattro pazienti erano HIV+. Tutti i campioni, tranne 1, sono risultati idonei per la ricerca di HPV. Di questi, 42 sono risultati positivi alla successiva ricerca di HPV (86%) e 7 negativi (14%). Il genotipo di HPV più frequentemente identificato è risultato il 16 (39%) seguito dal 18 (22%), genotipi definiti ad alto rischio in quanto associati frequentemente a lesioni neoplastiche della cervice. Nel 10% dei casi è stato evidenziato il genotipo 6, definito a basso rischio. Inoltre, sono stati identificati i genotipi 31, 33, 51, 52, 56, 58, 61, 66 e 74. Infezioni multiple da HPV sono state riscontrate nel 10% dei casi, prevalentemente HIV+. Il genotipo più frequentemente associato a carcinoma squamoso è risultato il 16, in linea con quanto atteso. Ulteriori indagini consentiranno di valutare meglio l’epidemiologia dell’HPV e l’associazione con i vari quadri citologici e istologici. ANTIBIOTICO-RESISTENZA E “FITNESS COST” IN ISOLATI CLINICI DI PSEUDOMONAS AERUGINOSA ROSARIO MUSUMECI1, SANTINA CARNAZZA2, SALVATORE PUGLISI1, SALVATORE GUGLIELMINO2 e ANNAMARIA SPECIALE1 1 Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Sezione di Microbiologia, Università di Catania 2 Dipartimento di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina I determinanti di antibiotico-resistenza che interferiscono con i normali processi fisiologici di una cellula batterica possono causare una riduzione del fitness biologico in assenza di antibiotico; questo fenomeno è noto come “fitness cost” della resistenza. In altri termini, in una eventuale competizione diretta con ceppi dal fitness inalterato, i ceppi resistenti verrebbero soppiantati; ciononostante, l’antibiotico-resistenza nei batteri persiste ed anzi rappresenta un problema clinico sempre crescente. Se da una parte ciò è riconducibile alla selezione di mutazioni compensatorie che possono diminuire il costo biologico dell’antibioticoresistenza, d’altra parte un ruolo altrettanto importante è stato recentemente attribuito alla selezione delle varianti resistenti che presentano il fitness cost minore. In nostri precedenti studi abbiamo investigato il fitness cost di mutanti resistenti ottenuti tramite un processo in vitro di induzione multi-step di resistenza ai fluorochinoloni di Pseudomonas aeruginosa. Tale sistema modello ha consentito di identificare almeno tre differenti clusters di comportamento per quanto attiene il fitness acquisito dai ceppi resistenti: il fitness cost associato all’antibiotico-resistenza non risulta dunque predittibile, dal momento che esso risulta ceppo- e condizione-specifico. Tali risultati potrebbero condurre a considerazioni più generali riguardo la probabilità di sviluppo e la persistenza di ceppi resistenti: l’espansione in vivo in assenza di antibiotici di mutanti selezionati con costi biologici di resistenza bassi o nulli, o addirittura con fitness migliorati come da noi dimostrato, potrebbe esser responsabile della mancanza di un calo di frequenza dell’antibiotico-resistenza. Oggetto del presente lavoro è stato valutare il fitness cost associato all’acquisizione o meno di antibiotico-resistenza in ceppi di isolamento clinico; a tale scopo, è stata condotta un’analisi comparativa delle caratteristiche di antibiotico-resistenza e del fitness biologico di una varietà di isolati clinici di P. aeruginosa. La sensibilità verso diversi antimicrobici ed i principali parametri di valutazione di fitness biologico sono stati determinati in 85 isolati clinici di P. aeruginosa e l’analisi statistica dei dati ottenuti ha consentito di identificare distinti clusters di antibiotico-resistenza e di fitness cost. 58 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA “BATTERI SENTINELLA” IN AMBITO OSPEDALIERO Grasso E., Grassi P., Trapanotto G., Mazzurco A., Lombardo A.,DimitriouK.,Paratore A. Sciacca A. Laboratorio Microbiologia Azienda Policlinico Università degli studi di Catania La sorveglianza delle infezioni nosocomiali è riconosciuta,da parte di tutti gli operatori come una componente fondamentale dei programmi di controllo ospedalieri. Si discute però sulle modalità di questo controllo, gli strumenti da utilizzare e gli eventi da monitorare. In altre nazioni si mette in atto una sorveglianza che permette di rilevare i microrganismi sentinella che sono in grado di diffondersi rapidamente in ospedale se non controllati adeguatamente. Il laboratorio è una fonte sicura ed economica per identificare questi organismi. Il sistema informatico epicenter Becton Dickinson applicato al Phoenix prevede , con grande facilità, di rilevare e monitorare nel tempo la presenza di patogeni sentinella. In modo discontinuo, per motivi organizzativi interni, il sistema è stato utilizzato nel nostro laboratorio dove affluiscono i campioni dei reparti di pediatria, chirurgia, neurologia, terapia intensiva, terapia intensiva neonatale, day-hospital e ambulatoriali esterni da gennaio 2002 ad agosto 2003. I batteri sentinella sono: Acinetobacter baumannii, Serratia marcescens, Stafilococchi meticillino resistenti, Enterococchi vancomicino resistenti e Gram negativi con EBSL. Su 856 batteri isolati nel 2002 sono stati riscontrati 46 organismi sentinella :S. marcescens (6,5%), E. aerogenes (2,1%), E. cloacae (4,3%), K.oxytoca (2,1%), E.coli (6,5%), K. pneumoniae (13%), P. aeruginosa (8,7%), S.epidermidis (34,8%), S.capitis (4,3%), S.hominis (4,3%), S.warneri (2,1%), S. aureus (2,1%) .Mentre nel 2003 sono stati isolati 70 organismi:E. faecalis (5,7%), E. faecium (1,4%), E.coli (10%), K. pneumoniae (4,3%), P. aeruginosa (12,8%), S.capitis (2,8%), S. epidermidis (21,4%), S.haemolyticus (8,5%). I batteri sentinella sono stati riscontrati sia nei reparti con pazienti a rischio ( terapia intensiva trapianti, ematologia, neonatologia) sia nei reparti di day hospital e ambulatoriali esterni . Questo dato evidenzia come la farmaco resistenza non è solo un problema di pertinenza ospedaliera ma è diffuso anche nei pazienti ambulatoriali. Il supporto informatico, con la possibilità di disporre dei dati in tempo reale, viene oggi in aiuto al laboratorio di microbiologia. Si ha infatti la possibilità di avere dati aggiornati sulle resistenze batteriche, sui patogeni nosocomiali resistenti, sulla prevalenza di un patogeno opportunista in un reparto. Di conseguenza è più facile la predisposizione di piani di controllo e sorveglianza delle infezioni. QUANTIZZAZIONE DI NEISSERIA MENINGITIDIS IN CAMPIONI AUTOPTICI Andreina BAJ1, Gioconda BRIGANTE1, Francesco LUZZARO1, Marco MOTTA2, Mario TAVANI2, Antonio TONIOLO1. Laboratorio di Microbiologia1 e Medicina Legale2, Università dell’Insubria e Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese. Neisseria meningitidis si ritrova nell’orofaringe e nelle tonsille della popolazione adulta con frequenza che può raggiungere il 10% nei periodi non epidemici. I sierogruppi A, B e C sono responsabili della maggior parte della patologia. L’infezione da N. meningitidis è associata ad alta morbidità e mortalità e può essere fatale in poche ore, spesso prima che siano manifesti i segni di meningite. Sono perciò importanti una diagnosi rapida e una terapia aggressiva (Van Looveren et al., 1998; Granier et al., 1998). La diagnosi batteriologica è ostacolata dal trattamento antibiotico in corso e dal fatto che occorrono 12-24 ore per la coltura. Pertanto è molto utile la ricerca del DNA meningococcico mediante amplificazione genica (Borrow et al., 1997; Van Deuren et al., 2000; Taha et al., 2000). Nel nostro laboratorio abbiamo adottato questa metodica da un anno. Abbiamo avuto l’occasione di esaminare due pazienti deceduti entro 24 ore dall’esordio dei sintomi per shock irreversibile, CID e sospetta meningite. Ambedue i pazienti avevano ricevuto una terapia antibiotica adeguata. Le colture effettuate sui campioni autoptici sono risultate negative. Si è pertanto ricercata la presenza del meningococco mediante amplificazione genica con primers per l’rRNA 16S batterico, primers specie-specifici per N. meningitidis e primers capaci di differenziare i sierogruppi B e C. In ambedue i pazienti si è diagnosticata post-mortem l’infezione da N. meningitidis di gruppo B. La ricerca quantitativa del genoma batterico è stata effettuata su omogenati dei diversi organi. In ambedue i pazienti polmone, surrene, sangue midollare sono risultati positivi, mentre pancreas e rene sono risultati negativi. Encefalo, liquido cerebrospinale, fegato, milza e sangue periferico sono risultati positivi in uno o nell’altro paziente. Il numero di equivalenti genomici nei diversi organi è variato da 3x103/g (sangue periferico) a 2x105/g (sangue midollare). Si è pertanto stimata la carica batterica corporea tra 5x107 e 5x109. Poiché 106 CFU di N. meningitidis contengono 400900 EU di endotossina libera, si è valutato che i pazienti siano stati esposti a dosi di endotossina comprese tra 2x104 e 5x106 EU. 100-200 EU rappresentano la DL50 nel topo sensibilizzato con D(+)-galattosamina. Queste osservazioni contribuiscono a comprendere la patogenesi dell’infezione fulminante da N. meningitidis. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 59 SORVEGLIANZA MICROBIOLOGICA DELL’ANTIBIOTICO-RESISTENZA E DELL’INCIDENZA DELLE FARINGOTONSILLITI DA Streptococcus pyogenes NELLA POPOLAZIONE NAPOLETANA Antonietta Rizzo, Raffaella Mancuso2, Rossella Paolillo, Franca Amore2 e Piergiorgio Catalanotti Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università di Napoli, 2DAS di Diagnostica microbiologica, Azienda Universitaria Policlinica S.U.N. Negli ultimi quaranta anni si è osservata una netta diminuzione dei casi di febbre reumatica, la più grave complicanza della faringite da S. pyogenes. D’altro canto, recentemente, è stata descritta la riemergenza di batteri Gram positivi anche nelle patologie generalmente sostenute da batteri Gram negativi. E’ stata, inoltre, descritta un’elevata incidenza, in alcune regioni, di eritromicino-resistenza. Con questo lavoro abbiamo voluto verificare se anche in distretti normalmente colonizzati da batteri Gram negativi vi sia stato, negli ultimi venti anni, un incremento della frequenza di isolamento di streptococchi b-emolitici di gruppo A (GAS). Abbiamo valutato, retrospettivamente, su un totale di 13.678 tamponi faringei, l’incidenza dell’infezione faringo-tonsillare da GAS. Sui ceppi isolati nel primo semestre 2003 si è studiata la resistenza a eritromicina (E), clindamicina, cloramfenicolo, tetraciclina e ofloxacina. L’incidenza di GAS, attestatasi intorno a poco più del 6 % negli anni ’80, ha subito un incremento progressivo fino all’8 % nella seconda metà degli anni ’90. Il trend di incremento ha raggiunto il suo apice nell’anno 2001 (con un’incidenza del 10,5 %). Attualmente è in corso una riduzione dell’incidenza di infezioni faringo-tonsillari da GAS (7,10 % nel primo semestre di questo anno). Relativamente alle farmaco-resistenze, i ceppi di GAS isolati nel primo semestre del 2003 mostrano un livello elevato di eritromicino-resistenza (12%); il 2% dei ceppi è resistente alla clindamicina o al cloramfenicolo, mentre il 100 % è sensibile a tetraciclina e a ofloxacina. La notevole resistenza ai macrolidi pone problemi di terapia nei casi, non infrequenti, di ceppi resistenti alla penicillina. La variabilità nell’incidenza delle infezioni da faringotonsilliti da GAS è posta in relazione alla situazione demografica della popolazione napoletana che, abbastanza omogenea negli anni ’80, è stata oggetto di un notevole flusso migratorio dai paesi extracomunitari. RICERCA DI STR. AGALACTIAE NEI TAMPONI VAGINALI E RETTALI DI DONNE A TERMINE GRAVIDANZA. REALTA’ LOCALE Ferrari Lucio Laboratorio di Microbiologia – Azienda Ospedale di Cremona Introduzione La presenza di Streptococcus agalactiae sulla mucosa vaginale e/o rettale delle donne al termine della gravidanza, rappresenta un grave fattore di rischio infettivo per il nascituro. Lo scopo della ricerca è stato verificare la presenza di Str. agalactiae nei distretti vaginale e rettale delle pazienti gravide afferenti alla Divisione di Ostetricia dell’Ospedale di Cremona, al fine di determinarne la frequenza di colonizzazione. Alle donne risultate colonizzate da Str. agalactiae in uno o in entrambe i distretti, (come da protocollo) è stato somministrato, durante il travaglio, trattamento un profilattico a base di ampicillina per via parenterale. L’efficienza della profilassi è stata poi provata valutando la frequenza con la quale gravide colonizzate da Str. agalactiae hanno partorito neonati colonizzati a loro voltata. Materiali e Metodi E’ stata condotta un’indagine retrospettiva su i dati microbiologici, (relativi alla presenza di Str.agalactiae), provenienti da 2701 donne transitate per Div di Ostetricia dell’Osp. di Cremona nel periodo: gennaio 2001-agosto 2003 e sui 654 nati dalle madri risultate positive. I dati sono riferiti alle indagini colturali dei seguenti materiali biologici: T. Vaginale (TV) e Rettale (TR) prelevati alle gestanti in 36ma settimana di gravidanza e T.Auricolare (TA), T.Faringeo (TF) e T. Rettale (TR) prelevati ai nati partoriti da donne con almeno un tampone risultato positivo per Str. agalactiae. I tamponi sono stati seminati su agar sangue Columbia+CNA (BD) e l’identificazione è stata eseguita mediante test in agglutinazione su vetrino (Oxoid) Risultati e Conclusioni L’analisi dei dati evidenzia 2047 (75.8 %) gestanti risultate negative per entrambe i tamponi, mentre 295 (10.9%) presentano entrambe i campioni positivi. In 271 (10.0 %) donne si evidenzia positività del TR mentre risulta completamente negativo il TV. Solo 88 (3.3%) donne presentano positività del TV non confermata dal TR, che risulta completamente negativo. Globalmente in 654 (24.2%) gestanti è stato isolato Str. agalactiae da almeno uno dei due tamponi effettuati, ciò si traduce in un elevato rischio di trasmissione al nascituro. La frequente positività del TR (271 casi, pari al 10.0%) abbinata ad una negatività del TV sottolinea la necessità di effettuare la ricerca di Str.agalactiae su entrambe i distretti, onde evitare false situazioni negative. Dalle madri positive 53 (7.8%) neonati hanno sviluppato Str.agalactiae da almeno uno dei materiali prelevati. 60 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOPRAVVIVENZA DEGLI STREPTOCOCCHI FECALI/ENTEROCOCCHI NELL’AMBIENTE ACQUATICO D. Benedetti, B. Bonato, V. Marconi, M.M. Lleo, P. Canepari Dipartimento di Patologia, Sezione di Microbiologia, Università di Verona. Quando gli enterococchi presenti nelle feci degli uomini e degli animali vengono rilasciati nell’ambiente incontrano in genere delle condizioni avverse (oligotrofia, basse temperature, elevata salinità, luce solare) che impediscono loro di moltiplicarsi. In conseguenza di ciò, i batteri possono attivare strategie di sopravvivenza, quali lo stato vitale ma non coltivabile (VBNC), che consentono loro di conservare la propria vitalità per tempi anche molto lunghi. Le cellule non coltivabili sono anche in grado di esprimere la loro capacità patogenica, l’eventuale resistenza agli antibiotici e possono recuperare la divisione qualora condizioni ambientali ottimali vengano ripristinate. Per questi motivi i batteri in stato vitale ma non coltivabile possono rappresentare un serbatoio ambientale di forme microbiche potenzialmente pericolose per la salute dell’uomo. Poiché la risposta allo stress è in genere specie oppure ceppo dipendente, abbiamo voluto valutare la sopravvivenza in acque di diversa origine di 12 differenti specie di enterococchi. E’ stato possibile classificare le 12 specie considerate in tre categorie a seconda del tempo necessario ai diversi enterococchi per raggiungere in un microcosmo costituito da acqua di lago lo stato VBNC e quindi perdere completamente la capacità di crescere in terreni di coltura. Anche in microcosmi di acqua di mare le diverse specie si comportano in modo simile anche se in generale la coltivabilità viene conservata per periodi di tempo più brevi. Esperimenti condotti per valutare gli eventuali parametri in grado di influenzare l’attivazione dello stato VBNC hanno permesso di dimostrare che l’oligotrofia risulta essere il parametro che stimola l’entrata dei batteri nello stato di non coltivabilità. La luce e la bassa temperatura condizionano il processo di attivazione dello stato VBNC accelerandolo, in modo particolare se agiscono contemporaneamente. I risultati ottenuti indicano l’opportunità di impiegare per il monitoraggio della qualità microbiologica delle acque tecniche in grado di rilevare la presenza di batteri non coltivabili in quanto questi sono in grado di sopravvivere anche in condizioni che non consentono la loro moltiplicazione. Le differenze a livello di specie per quanto riguarda i tempi di sopravvivenza risultano di particolare importanza all’interno del gruppo degli enterococchi in quanto questi vengono considerati come buoni indicatori di contaminazione fecale dell’ambiente ed in modo particolare delle acque marine. POLYOMAVIRUS UMANO BK E NEFROPATIA POST-TRAPIANTO RENALE: ASPETTI PATOGENETICI E DIAGNOSTICI A.Azzi, R.De Santis, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze F.Ginevri, UO Nefrologia, Istituto G.Gaslini, Genova P.Comoli, Laboratori Sperimentali Area Trapiantologia, Policlinico San Matteo, Pavia L’infezione da polyomavirus umano BK (BKV) è molto diffusa in tutto il mondo come dimostra l’alta prevalenza di anticorpi specifici contro il virus che negli adulti supera il 70%. Negli individui immunocompetenti l’infezione primaria e le più o meno frequenti riattivazioni hanno decorso asintomatico. Nei pazienti immunodepressi invece l’infezione da BKV può causare delle patologie, prevalentemente a carico dell’apparato urinario. BKV è infatti causa di cistite emorragica nei pazienti sottoposti trapianto di midollo osseo. Negli ultimi anni è emersa inoltre una associazione tra infezione da BKV e nefropatia interstiziale nei trapiantati renali che può portare a grave disfunzione e addirittura alla perdita del rene trapiantato. E’, d’altra parte, noto che l’eliminazione urinaria di BKV, come indicatore di infezione attiva, è molto frequente soprattutto nei trapianti di midollo osseo ma anche nei trapiantati renali, anche in assenza di manifestazioni cliniche. Non è ancora chiarito quali siano i meccanismi patogenetici responsabili di tali manifestazioni e quali siano le reali possibilità di una diagnosi precoce della nefropatia BKV- associata, che consenta un migliore approccio terapeutico. Per contribuire a risolvere questi quesiti abbiamo iniziato uno studio della risposta immunitaria cellulo-mediata nei confronti di BKV in soggetti sani, in trapiantati renali “asintomatici” e in trapiantati renali con sospetto di nefropatia BKV associata, tramite test ELISPOT per misurare la frequenza di cellule T BKV specifiche, produttrici di IFN-g Per quanto riguarda l’approccio diagnostico abbiamo utilizzato una PCR quantitativa real-time per determinare l’entità della viruria e delle eventuale viremia, nel tentativo di individuare un indicatore predittivo dello sviluppo di nefropatia da BKV, necessario per poter instaurare una terapia efficace I risultati indicano che la viremia è saltuaria e alti livelli di viremia si riscontrano quando la patologia renale è ormai in fase avanzata, mentre livelli di viruria persistentemente elevati possono precedere la comparsa del danno. Una capacità di riposta cellulare all’infezione sembra praticamente assente nei casi con sospetto di nefropatia BKV-associata, a differenza di quanto preliminarmente osservato in pazienti con viruria asintomatica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 61 LA PROTEINA TAT DI HIV-1 STIMOLA L’ESPRESSIONE DI FATTORI DI CRESCITA E DI CITOCHINE IN CELLULE EPITELIALI MAMMARIE Alessia BETTACCINI1, Andreina BAJ1, Roberto ACCOLLA2, Antonio TONIOLO1 Laboratorio di Microbiologia1 e Laboratorio di Immunologia2, Università dell’Insubria e Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese. L’impiego della proteina Tat come vaccino preventivo o terapeutico anti-HIV-1 è in corso di sperimentazione clinica (Ensoli e Cafaro, 2002). Il razionale è che Tat è fortemente conservata tra i diversi isolati del virus, è secreta, agisce come immunosoppressivo (Zagury et al., 1998) e la risposta immune verso questa proteina protegge contro l’infezione da SHIV (Cafaro et al., 2001) e induce anticorpi neutralizzanti (Marinaro et al., 2003). Per usare preparazioni biologicamente attive di Tat come immunogeno è importante conoscerne gli effetti su vari tipi di cellule anche diverse da quelle del sistema immune. E’ ben documentato, infatti, che HIV infetta e danneggia numerosi tipi di cellule non-linfoidi (Levy, 2001) quali le cellule epiteliali della ghiandola mammaria (Toniolo et al., 1995), dell’intestino (Fantini et al., 1991) e del rene (Conaldi et al., 1998). Il nostro laboratorio ha studiato gli effetti del virus su cellule epiteliali mammarie nell’ambito della trasmissione verticale del virus. In questo studio abbiamo valutato gli effetti della proteina Tat ricombinante su linee di cellule mammarie umane coltivate in vitro: MCF-10A (spontaneamente immortalizzate, non tumorigeniche), MCF-7 (tumorigeniche, ormone-dipendenti), MEC-1 (immortalizzate con SV40, non tumorigeniche) e MEC-2 (immortalizzate con SV40, tumorigeniche, ormone-independenti). A concentrazioni ≥50 ng/ml, Tat ha mostrato un effetto mitogeno sulle quattro linee cellulari coltivate in terreno privo di siero. Anticorpi neutralizzanti anti-Tat hanno bloccato tale effetto. Mediante RT-PCR e l’impiego della tecnologia dei gene arrays abbiamo osservato che Tat esogena aumenta l’espressione di trascritti per alcuni co-recettori di HIV-1 (CCR3, CCR4), di numerosi fattori di crescita e di alcune citochine (VEGF e il suo recettore Flk-1/KDR, CSF-1, TGF-b e IL-19). Tat aumenta anche l’espressione di PCNA e sopprime contemporaneamente l’espressione di p21waf1/p21cip1, p53 e Rb. I risultati suggeriscono che Tat agisca transattivando geni cellulari implicati nella sensibilità al virus e nella crescita cellulare. Particolare interesse riveste il ruolo del fattore angiogenico VEGF (Albini et al., 1996), di CSF-1 un fattore che stimola lo sviluppo della ghiandola mammaria (Pollard e Henninghausen, 1994) e di IL-19 una citochina che regola lo sviluppo e le funzioni delle cellule epiteliali dell’epidermide (Kempuraj et al., 2003). ANALOGHI DEL PEPTIDE T NELLA MODULAZIONE DELLE ATTIVITÀ BIOLOGICHE DEI CHERATINOCITI Rita Greco, Federica Corrado, Brunella Perfetto, Nunzia Canozo, Maria Antonietta Tufano Dipartimento di Medicina Sperimentale, sezione di Microbiologia e Microbiologia clinica Seconda Università degli Studi di Napoli Il Peptide T (PT) è un octapeptide della regione V2 della proteina gp 120 di HIV-1. Dati bibliografici indicano che il PT ha attività antinfiammatoria e che induce in cellule Th2 umane e in cellule mononucleate del sangue periferico la produzione di IL10, potente citochina antinfiammatoria. Studi in vivo dimostrano che il PT è in grado di risolvere patologie infiammatorie cutanee come lesioni psoriasiche. Precedenti studi da noi eseguiti supportano il benefico effetto del PT e suggeriscono il ruolo chiave dei linfociti e dei cheratinociti: il PT agisce su cheratinociti direttamente stimolando la funzione antinfiammatoria, riducendo l’iperproliferazione cellulare e favorendo la rigenerazione dei tessuti (TUFANO M.A., et al. 2002. Immunomodutolatory effects of Peptide T on human keratinocyte cells. BR. J. DERMATOL., 147 (4): 663-669). Dal punto di vista farmacologico, i peptidi non sono buoni agenti terapeutici, poiché hanno un basso potere di assorbimento, sono facilmente metabolizzabili e sono immunogeni. Per questo motivo, usando modelli computerizzati, il gruppo di ricerca del prof. Perez dell’Università Politecnica di Catalogna, ha disegnato molecole di piccole dimensioni che mimano l’azione del PT. Sono stati sintetizzati differenti analoghi e, tra questi, sono state quindi saggiate le attività biologiche di tre molecole: SVT03016, SVT-03017, SVT-03018. In particolare, usando come modello sperimentale cheratinociti umani, è stata valutata l’espressione delle HSP-70 e del TGF-b, indotta rispettivamente dalle tre molecole, mediante analisi per western blot. Inoltre, è stata valutata l’espressione delle molecole di adesione, quali le ICAM, e delle integrine di membrana av, mediante analisi di RT-PCR e western blot. I nostri risultati evidenziano una espressione di HSP-70 e TGF-b simile, per tempi ed intensità, a quelle ottenute mediante stimolazione dei cheratinociti con PT. Anche l’espressione delle ICAM e delle integrine risultano essere sovrapponibili a quelle indotte dal PT; un effetto più evidente si ottiene con SVT-03017. Si può concludere che molecole alternative che ben mimano l’effetto del PT possano rappresentare una alternativa nella strategia terapeutica della psoriasi. 62 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE DIFFERENZIALE DEL GENE GDHA CODIFICANTE LA L-GLUTAMMATO DEI DROGENASI NADP-SPECIFICA (GDH) IN NEISSERIA MENINGITIDIS C. Pagliarulo,2 P. Salvatore,2,3 R. Colicchio,2 M. Bardaro,2 L. R. De Vitis,1 C. Monaco,1 M. Tredici,1 A. Talà,1 C. B. Bruni2 e P. Alifano1. 1Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali, Università degli Studi di Lecce. 2Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”. 3Facoltà di Scienze Biotecnologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Mediante l’analisi del trascrittoma di N. meningitidis è stata evidenziata l’espressione differenziale del gene gdhA in isolati clinici provenienti da malati (ceppi invasivi) e da individui sani (ceppi commensali). In particolare i ceppi appartenenti alle linee ipervirulente ET-5 (sierogruppo B) e IV-I (sierogruppo A) presentano i livelli più elevati di mRNA del gene gdhA. In questi ceppi gdhA è trascritto a partire da due promotori, gdhA P1 e gdhA P2. Al contrario, nei ceppi che hanno bassi livelli di mRNA del gene gdhA, gdhA P2 è inattivo per effetto dei bassi livelli di espressione di gdhR, un gene regolatore associato a gdhA nella mappa genetica. Esperimenti di inattivazione genica hanno confermato che la proteina GdhR regola positivamente l’attività di gdhA P2. La transattivazione di gdhA P2 da parte di GdhR è massima nel terreno complesso GC durante la fase logaritmica tardiva e in un terreno a composizione chimica definita (MCDA) quando il glucosio è utilizzato al posto del lattosio come fonte di carbonio in presenza di glutammato. I ceppi nei quali gdhR è stato inattivato perdono sia la regolazione di gdhA dipendente dalla fase di crescita che la regolazione dipendente dalla fonte di carbonio. Studi di interazione DNA-proteina hanno dimostrato che il 2-oxoglutarato, un prodotto della reazione catabolica della GDH ed un intermedio del ciclo degli acidi tricarbossilici (TCA), inibisce il legame di GdhR a gdhA P2. I livelli di 2-oxoglutarato, effettore negativo di GdhR, variano in funzione della fonte di carbonio disponibile e sono maggiori in presenza di lattato (bassa espressione di gdhA) che in presenza di glucosio (elevata espressione di gdhA). Questi risultati indicano che la funzione principale della GDH sia quella di supportare l’attività del ciclo TCA rifornendolo di 2-oxoglutarato, quando il glutammato è disponibile nell’ambiente. Tale attività enzimatica promuove la stimolazione del metabolismo intermedio, in particolare quando il glucosio prevale sul lattato come fonte di carbonio, come in certi siti dell’ospite rilevanti per il ciclo infettivo del meningococco, quali il sangue ed il liquido cerebrospinale. STUDIO DEI MECCANISMI DI INIBIZIONE DELLA CRESCITA CELLULARE IN VITRO DA PARTE DI TOSSINA COLERICA Augusto Pessina, Cristina Croera, Alessandro Raimondi, Lorena Montesissa e Maria Grazia Neri. Istituto di Microbiologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano. La tossina colerica (TC) è in grado di legarsi a recettori gangliosidici presenti sulla membrana cellulare e quindi di interferire con le funzioni cellulari causando come evento finale l’inibizione della crescita e della proliferazione. La diversa sensibilità cellulare a TC sembra correlata sia con il tipo di ganglioside che con i diversi meccanismi di azione coinvolti che possono essere dipendenti o indipendenti dall’accumulo intracellulare di cAMP ( cellule sensibili e cellule resistenti a CT possono accumulare o non accumulare cAMP). Nel nostro laboratorio, partendo da cellule WEHI-3B (leucemia monomielocitica murina) altamente sensibili a TC ed in grado di accumulare alti livelli di cAMP, è stato selezionato e stabilizzato un subclone TC-resistente (WEHI-3B/CTRES) (Indice di resistenza = 46.000) nel quale la stimolazione con TC non produce aumento di cAMP (pur inducibile con Forskolina) e in cui è assente il ganglioside Gal-GalNac-GM1b che, in WEHI-3B, è il più importante recettore funzionale di TC. In questo modello (WEHI–3B e WEHI-3B/CTRES) abbiamo studiato l’effetto di TC sulla clonogenicità “in vitro”, sul Population Doubling Time (PDT), sull’ apoptosi cellulare e sull’attivazione di Protein Kinasi A ( cAMP dipendente) . L’inibizione della clonogenicità indotta da TC in cellule sensibili è chiaramente correlata con un notevole aumento del valore di PDT e di apoptosi cellulare ( fenomeni non osservati nel clone resistente). L’attività basale di PKA , simile nelle due linee cellulari , è significativamente stimolata dal trattamento con CT ( 6 volte circa) solo in cellule sensibili. In presenza di un inibitore di PKA (H-89) si osserva un significativo blocco della stimolazione di PKA da parte di TC mentre non si osserva diminuzione di apoptosi TC indotta. Sulla base di questi risultati si può supporre che l’inibizione della proliferazione indotta da TC in cellule WEHI-3B sia mediata dalla attivazione di PKA conseguente all’accumulo di cAMP mentre sembra da escludere il ruolo di PKA nel fenomeno apoptotico indotto da TC. La possibilità di disporre di una linea parentale sensibile ed una variante resistente a TC della stessa linea rappresenta un interessante e nuovo modello di investigazione sul quale approfondire le conoscenze sul ruolo biologico svolto da TC su cellule animali. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 63 REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE DI BCA-1 E BLIS IN CELLULE DENDRITICHE INFETTATE DA BARTONELLA HENSELAE. S. Stornello*, D. Ravarino*, W.Vermi#, S. Sozzani§, F.Facchetti#, R. Badolato”, A. Negro Ponzi*, T. Musso*. *Dip. Sanità Pubblica e Microbiologia, Torino, “Dip. Pediatria, Brescia, # Dip. Patologia, Brescia, § Sezione di Patologia Generale e Immunologia Univ. di Brescia. B. henselae è un batterio Gram-negativo che causa la malattia da graffio di gatto (CSD), l’angiomatosi bacillare (BA), la peliosi bacillare e sporadiche complicazioni a carico di organi diversi. L’esito dell’infezione è determinato dalla competenza immunologica dell’ospite. La CSD si manifesta in individui immunocompetenti come linfoadenite regionale subacuta associata a febbre e malessere che guarisce spontaneamente nel giro di pochi mesi. In pazienti immunocompromessi quali i malati di AIDS, gli alcolisti cronici e i portatori di trapianti l’infezione evolve invece in episodi di batteriemia e in fenomeni di angiogenesi nella milza e nel fegato. I meccanismi patogenetici non sono chiariti, tuttavia recenti studi sottolineano il coinvolgimento di cellule della linea monocito/macrofagica sia nella CSD che nell’angiomatosi. La manifestazione istologica caratteristica della CSD è una reazione granulomatosa di tipo suppurativo caratterizzata dalla presenza di linfociti B di tipo monocitoide. L’interazione delle DC con i microrganismi e con citochine proinfiammatorie ne induce la maturazione, che si manifesta con un aumento dell’espressione di molecole costimolatorie e con una modificata risposta alle chemochine. RICERCA DI CHLAMYDIA PNEUMONIAE NEI PBMC: RIPRODUCIBILITÀ DELLA OMPA NESTED PCR TOUCHDOWN Sessa R., Schiavoni G., Di Pietro M., *Petrucca A., Fallucca S., Cipriani P., **Puopolo M., Santino I., del Piano M. Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università “La Sapienza”, Roma *Azienda Ospedaliera S. Andrea, Roma **Dipartimento di Biologia Cellulare e Neuroscienze, Istituto Superiore di Sanità, Roma Negli ultimi anni é stato messo in evidenza il coinvolgimento della Chlamydia pneumoniae nella patogenesi delle malattie aterosclerotiche cardiovascolari attraverso studi sieroepidemiologici, ricerca di DNA di C. pneumoniae, studi in vivo ed in vitro e studi di prevenzione secondaria. Recentemente la C. pneumoniae é stata riscontrata nelle placche ateromatose delle coronarie, della carotide e dell’aorta, mediante polymerase chain reaction (PCR) anche se con risultati discordanti. Diversi autori hanno individuato le cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) quali campioni clinici di elezione per la ricerca di C. pneumoniae nelle infezioni endovascolari, anche se, da una accurata analisi dei dati presenti in letteratura, è emersa, una variabilità nelle percentuali di positività alla C. pneumoniae nei campioni di PBMC; tale variabilità potrebbe essere spiegata dal fatto che vengono utilizzati primers, condizioni di amplificazione e procedure di estrazione differenti. Lo scopo del nostro studio é stato quello di valutare la riproducibilità della ompA nested PCR touchdown nella ricerca di C. pneumoniae in campioni di PBMC. Pertanto é stato sviluppato un modello di regressione per il probit analizzando concentrazioni scalari di C. pneumoniae ATCC AR-39 (2 IFU/ml-0.008 IFU/ml) addizionate ai PBMC isolati da un donatore di sangue negativo alla C. pneumoniae. Tale modello é stato ottenuto elaborando i risultati provenienti da 10 replicati di ciascuna concentrazione utilizzata. I nostri risultati hanno dimostrato che la ompA nested PCR touchdown applicata ai PBMC per la determinazione di C. pneumoniae permette di ottenere elevati livelli di sensibilità e di riproducibilità. 64 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA IDENTIFICAZIONE DI MICOBATTERI NON TUBERCOLARI UTILIZZANDO IL SISTEMA SHERLOCK MICROBIAL IDENTIFICATION SYSTEM (MIS) - GAS CROMATOGRAFIA Mosca A, Barra Parisi G, Carucci A, Miragliotta G Sezione di Microbiologia, Dipartimento MIDIM, Università di Bari, Bari Premessa. La sempre maggiore frequenza di micobatteriosi ha creato l’esigenza di metodiche alternative in grado di identificare le diverse specie di micobatteri non tubercolari (MNT) in modo accurato ed in tempi più brevi rispetto a quelli richiesti dalle metodiche tradizionali. Scopo della ricerca. Valutare il sistema MIS-gas cromatografia per l’identificazione di specie di MNT che più frequentemente vengono isolate da campioni clinici: in particolare abbiamo esaminato ceppi di M. kansasii, M. gordonae, M. avium complex (MAC) e M. fortuitum. Metodologia. Per l’analisi cromatografica i ceppi sono stati seminati su Middlebrook 7H10 agar addizionato di OADC ed incubati a 35 °C in 10% CO2 fino alla comparsa di patina batterica. Questa è stata prelevata e sottoposta ad un processo di saponificazione, metilazione, lavaggio ed estrazione secondo il protocollo della MIS. La corsa gas-cromatografica è completamente automatica in quanto il software Sherlock imposta e controlla tutti i parametri dello strumento durante la corsa. Conclusioni. I risultati ottenuti dimostrano che le specie da noi analizzate presentano dei profili caratteristici per la presenza e/o assenza di particolari acidi grassi che ne consentono l’identificazione. In particolare M. kansasii è caratterizzato dalla presenza di 2,4-diMe-14:0 e 2-Me -12:0 mentre è assente il 16:1w6c. M. gordonae è caratterizzato dalla assenza di 10-Me-18:0 e dalla presenza di 2-Me-14:0; M. fortuitum dalla presenza di 16:1w9c mentre i ceppi del gruppo MAC dalla presenza di due alcool secondari il 2OH-18:0 e 2OH-20:0. Tutte le specie sono state correttamente identificate dal sistema MIS; per i ceppi del gruppo MAC non è stato possibile differenziare M. avium da M. intracellulare. LA BIOLOGIA MOLECOLARE APPLICATA ALLA RICERCA DI BATTERI PATOGENI NEL LIQUIDO ASCITICO B. Bonato?, M.M. Lleò?, S. Fasolato?, P. Angeli?, P. Canepari? 1Dipartimento di Patologia, Sezione di Microbiologia. Università di Verona 2Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale. Università di Padova La peritonite batterica spontanea (PBS) costituisce una grave complicanza in pazienti con patologie epatiche associate ad ascite: batteri di origine enterica attraversano la parete intestinale mediante la traslocazione batterica (TB), raggiungono i linfonodi mesenterici e da qui la circolazione sistemica. La maggior parte delle colture di liquido ascitico (LA) e sangue ottenute da pazienti con ascite associata a PBS, risultano negative nonostante i pazienti presentino chiari segni di infezione. Nel tentativo di incrementare la sensibilità del sistema di rilevamento batterico abbiamo sviluppato un metodo basato su PCR per rilevare l’eventuale presenza di DNA batterico in campioni di pazienti con segni clinici d’infezione ed il cui LA risultava negativo all’esame colturale standard. Poiché oltre il 60% dei casi di PBS sono causati da batteri gram-negativi della flora intestinale (soprattutto Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae), mentre cocchi gram-positivi quali Enterococcus faecalis e Staphylococcus aureus sono coinvolti nel 25% degli episodi infettivi, abbiamo utilizzato una coppia di primer “universali”, cioè in grado di identificare la generica presenza di batteri, ed altri primer specifici in grado di riconoscere le specie batteriche più frequentemente coinvolte. Esperimenti preliminarmente condotti hanno dimostrato la necessità di sottoporre i campioni di LA a parziale purificazione in quanto contenenti molecole organiche responsabili dell’inibizione della reazione di PCR. L’applicazione del protocollo di PCR ai campioni di liquido ascitico provenienti da pazienti selezionati tra quelli ricoverati nei reparti di Clinica Medica dell’Ospedale di Padova, si è rivelato sufficientemente specifico e sensibile ed ha permesso di dimostrare la presenza di generico DNA batterico in 5 campioni su 20 negativi all’esame colturale. I 5 campioni sono stati successivamente sottoposti ad amplificazione del DNA mediante PCR utilizzando primer specifici: in 3 campioni si è dimostrata la presenza di DNA di E. faecalis ed in 2 la presenza di DNA di enterobatteriacee, tuttavia non appartenente alla specie E. coli. I risultati ottenuti, seppure preliminari, indicano chiaramente che la PCR può trovare ampi spazi di applicazione in campo clinico, laddove altre tecniche risultino inadeguate per la ricerca di microorganismi. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 65 CARATTERIZZAZIONE DELLE PROPRIETÀ PROBIOTICHE DI ALCUNI CEPPI APPARTENENTI AL GENERE LACTOBACILLUS SPP. S. Pietronave 1, P. Malfa 2 e M.G. Martinotti1 1 Università del Piemonte Orientale, DISCAFF, Via G. Bovio, 6, 28100 – Novara 2 PROGE FARM s.r.l., Via Croce, 4, 28065 – Cerano (NO) I probiotici, secondo la definizione più largamente accettata dalla comunità scientifica, sono microrganismi vitali, che, se assunti in quantità adeguata, influiscono sull’ospite esercitando effetti benefici sulla salute. Un microrganismo per essere definito probiotico deve rispondere ad alcuni requisiti: sicurezza di impiego, sopravvivenza e persistenza nell’organo bersaglio, interferenza verso patogeni e buone proprietà tecnologiche. Scopo di questo lavoro è stato effettuare una caratterizzazione delle proprietà probiotiche di quattro ceppi di Lactobacillus spp. isolati da secrezioni vaginali (L. plantarum P17630, L. crispatus P17631, L. gasseri P18137) e da intestino (L. gasseri P17632). È stato inizialmente condotto un saggio per valutare la tolleranza dei ceppi al transito gastro-intestinale, utilizzando un metodo in vitro che simulasse l’azione dei succhi gastrico, pancreatico, della bile e della peristalsi. I risultati hanno evidenziato che, ad eccezione del ceppo L. crispatus P17631, gli altri presentavano un notevole grado di sopravvivenza nel tempo. I quattro ceppi dimostravano una tolleranza del 100% alla presenza di sali biliari. Sono state, quindi, valutate le caratteristiche di superficie mediante cromatografia ad affinità elettrostatica superficiale e partizione idrofobica. I risultati hanno evidenziato per i ceppi L. gasseri P17632 ed L. gasseri P18137 una diretta correlazione fra idrofobicità di superficie e capacità di auto-aggregare. E’ stato, infine, valutata l’attività antimicrobica dei ceppi e tutti hanno evidenziato attività inibitoria su diverse specie Gram + e Gram -; inoltre, i due ceppi di L. gasseri P17632 e P18137 hanno evidenziato attività fungistatica sulla crescita di C. albicans. RESISTENZA DI BIFIDOBATTERI AI PROCESSI DI CONGELAMENTO E LIOFILIZZAZIONE. Modesto M., Mattarelli P., Stefanini I., Biavati B.. Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali, Università di Bologna I bifidobatteri sono da alcuni anni entrati nell’alimentazione dell’uomo grazie alla loro importanza quali microrganismi benefici per la salute cioè probiotici. Il largo impiego di bifidobatteri probiotici nei prodotti alimentari e farmaceutici richiede uno studio sempre più approfondito delle caratteristiche di tali ceppi sia in relazione all’ospite, come sopravvivenza ai succhi gastrici e colonizzazione dell’intestino, sia riguardo al loro trattamento in procedimenti industriali come congelamento e liofilizzazione. Nel presente lavoro è stata esaminata la resistenza al congelamento ed alla liofilizzazione di ceppi di bifidobatteri potenzialmente probiotici sia di origine umana sia isolati da prodotti probiotici in commercio. Si sono individuati alcuni ceppi idonei ad un impiego industriale. Sono stati saggiati 17 ceppi appartenenti alle seguenti specie di origine umana: Bifidobacterium bifidum, B. breve, B. catenulatum, B. infantis, B. longum; sono stati, inoltre, esaminati 4 ceppi isolati da prodotti probiotici commerciali. I ceppi sono coltivati in Tryptone-Phytone-Yeast extract a 37 °C in anaerobiosi. Sono stati utilizzati due diversi crioprotettivi, cioè “skim milk” e saccarosio. Per i saggi di sopravvivenza di entrambi i processi di conservazione le cellule sono state sospese nei diversi crioprotettivi. Le conte vitali sono state eseguite al tempo zero, dopo 4 giorni di congelamento a –135 °C e dopo liofilizzazione. I ceppi isolati da prodotti probiotici commerciali, appartenenti alla specie B. animalis, hanno mostrato in assoluto maggior resistenza. Per i bifidobatteri di origine umana saggiati la maggioranza dei ceppi ha mostrato percentuali medio-basse di sopravvivenza sia dopo congelamento (40-60%) che dopo liofilizzazione (10-20%) ad eccezione dei ceppi della specie B. breve e dei ceppi B 600/2 e B 2416 della specie B. catenulatum che hanno mostrato i migliori risultati di sopravvivenza al congelamento (70-90%) e alla liofilizzazione (30-50%). Tali ceppi quindi potrebbero essere idonei ad un uso industriale ed in grado di sostituire B. animalis attualmente utilizzato.Tale esigenza nasce in quanto B. animalis è specie tipica dell’habitat animale e quindi, poco idonea per prodotti destinati all’uomo. In generale si può osservare che la maggior sopravvivenza dei ceppi al congelamento e alla liofilizzazione in saccarosio o “skim-milk” è una caratteristica del ceppo e non della specie ad eccezione della specie B.breve che ha mostrato uniformità di comportamento. 66 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA BATTERI LATTICI PRODUTTORI DI FOLATI IN LATTE DI CAPRA M.G. Sanna., N.P. Mangia., M.A. Murgia, G. Garau, P. Deiana. Dipartimento di Scienze Ambientali Agrarie e Biotecnologie Agroalimentari, Sezione di Microbiologia, Università di Sassari, V.le Italia, 39, 07100 Sassari, Italy Tel. 079229289 Fax. 079229370 E-mail. [email protected] RIASSUNTO Il latte di capra, ipoallergenico, digeribile e di alto valore biologico, è una materia prima eccellente per la trasformazione in yogurt e formaggi freschi, ideale per l’alimentazione dell’infanzia e della terza età, tuttavia il suo valore nutrizionale è sminuito dalla carenza di acido folico e dei suoi vitameri, componenti della dieta essenziali nel metabolismo umano. Al fine di migliorare l’impiego alimentare delle produzioni caprine sarebbe quindi opportuno l’utilizzo di colture di batteri lattici produttori di folati. Sono stati testati per la produzione di folati ceppi di Streptococcus thermophilus, Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus, Lactobacillus delbrueckii subsp. lactis e Lactobacillus helveticus e tra questi sono stati selezionati quelli più rispondenti alle esigenze tecnologiche nella trasformazione del latte di capra. Le analisi effettuate in HPLC hanno riguardato sia i folati totali che i suoi derivati biologicamente attivi quali il 5-metil-tetraidrofolato (5-CH3-THF), il tetraidrofolato (THF) e il 5-formil-tetraidrofolato (5-CHO-THF). I ceppi di S. thermophilus, Lb. delbrueckii subsp. lactis e Lb. helveticus hanno prodotto più folati totali e soprattutto 5-CH3-THF e THF di grande rilevanza nutrizionale, rispetto al Lb. delbrueckii subsp. bulgaricus, che invece sembrerebbe utilizzare i folati. E’ stata verificata inoltre, l’idoneità del latte di capra per la conservazione dei batteri lattici. L’impiego di alcuni ceppi nella produzione di latti fermentati su scala pilota ha consentito di ottenere yogurt di capra con un elevato tenore di folati e con ottime caratteristiche organolettiche. INDAGINE SULLA CONTAMINAZIONE MICROBICA DI MATRICI ALIMENTARI PROVENIENTI DA AZIENDE DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE Sanna A*., Quartuccio M°^, Ingianni A°, Madeddu M.A.°, Coroneo V.*, Pompei R.°^ e Dessì S.*. *Dip. di Sanità Pubblica, °Dip. Di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università di Cagliari, ^Biotecne Cagliari L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che ogni anno, circa il 10 % della popolazione mondiale è colpito da almeno un episodio di patologia tossinfettiva veicolata da alimenti (E. Langiano, 2002). In questo lavoro è stata valutata la qualità igienico-sanitaria di alimenti provenienti da alcune realtà produttive della Sardegna che immettono sul mercato prodotti destinati al consumo da parte di fasce della popolazione ampie e in certi casi anche a rischio (bambini, persone ospedalizzate, anziani). Tutte le realtà considerate in questo studio applicano le disposizioni in materia di HACCP previste dal D.L. n. 155/97 e quando esistenti, anche le disposizioni della normativa relativa ai settori specifici. Materiali e metodi : I campioni sono stati prelevati secondo le norme di legge in materia di campionamento. E’ stata effettuata la determinazione di: conta mesofila, coliformi totali, E. coli, Staphylococcus aureus, Salmonella spp., L. monocytogenes. Risultati : Dal 1 Gennaio al 30 Giugno 2003 sono stati analizzati 1075 campioni di diversa matrice alimentare. Dei 633 campioni di carne e derivati 574 (90,67%) sono risultati soddisfacenti, 39 (6,16%) accettabili, 19 (3%) insoddisfacenti ed 1 è risultato tossico, in quanto contaminato da Salmonella derby. Dei 171 campioni di latte e derivati 150 (88,59%) sono risultati conformi e 21 (12,28%) non conformi. Dei 222 piatti pronti 197 (88,73%) erano soddisfacenti e 25 (11,26%) insoddisfacenti. I campioni di mitili e pesci sono risultati per il 96,91% soddisfacenti e per il 4,08% insoddisfacenti. Discussione e conclusioni: La qualità microbiologica di carni macinate e preparazioni di carni provenienti da stabilimenti disciplinati dal DPR 309/98, è sicuramente migliore di quella degli stessi prodotti prelevati da esercizi commerciali che attuano la vendita al minuto. Il mancato riscontro di indici di contaminazione elevati negli alimenti cotti o nei piatti pronti da somministrare, senza ulteriori trattamenti, nelle mense scolastiche e ospedaliere, o di altre collettività, depone per una corretta modalità di manipolazione e conservazione dei cibi e, soprattutto, per la stesura e il rispetto di efficaci protocolli operativi, come consigliato dal metodo HACCP. Ringraziamenti: Lavoro finanziato dall’Assessorato della Sanità e dal Centro di Programmazione della Regione Sardegna. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 67 ATTIVITA’ IN VITRO DI NUOVI DERIVATI PIRAZOLICI NEI CONFRONTI DI MICETI LIETIVIFORMI M.E. Milici1, C.M. Maida1, F. Barchiesi2, E. Ajello3, L. De Crescenzo1 1 Dipartimento di Igiene e Microbiologia-Università degli Studi di Palermo 2 Istituto di Malattie Infettive e Medicina Pubblica-Università Politecnica delle Marche, Ancona 3 Dipartimento Farmacochimico, Tossicologico e Biologico-Università degli Studi di Palermo L’aumentata prevalenza di micosi invasive causate da specie di Candida non albicans, che possono risultare resistenti sia all’ amfotericina B che agli antifungini azolici è diventato un problema sempre più grave. Di recente è stata inoltre documentata la resistenza di Cryptococcus neoformans al fluconazolo. Di qui la necessità di introdurre nuovi ed efficaci regimi terapeutici alternativi. In questo studio abbiamo valutato l’attività in vitro di nuovi derivati di sintesi nitroso-pirazolici. In particolare, 20 derivati di nuova sintesi sono stati testati vs isolati clinici di lievito appartenenti al genere Candida e Cryptococcus. La loro attività in vitro è stata confrontata con quella di fluconazolo. I saggi di sensibilità sono stati effettuati con la metodica di riferimento (micrometodo di diluizione in brodo NCCLS M 27-A). I dati preliminari consentono di affermare che tali composti presentano nei confronti dei lieviti una elevata attività fungistatica a basse concentrazioni (MIC 0,25-1 mg/ml). Questi valori si mantengono anche per gli isolati con ridotta sensibilità (es.: MIC 8.0 -16 mg/ml) o franca resistenza (es.: MIC ≥64 mg/ml) al fluconazolo. In nostri dati in vitro appaiono molto promettenti e sottolineano la necessità di effettuare ulteriori studi per confermare il potenziale impiego di queste molecole innovative nella terapia delle micosi sistemiche. ANALOGHI AZOLICI DELLA FLUOXETINA, UNA NUOVA CLASSE DI AGENTI ANTIFUNGINI 2 D’Auria FD, 1 Silvestri R, 1Artico M, 1 La Regina G, 1 De Martino G, 2Palamara AT. 1 Dipartimento di Studi Farmaceutici, Università “La Sapienza”, Roma, Italia 2 Istituto di Microbiologia, Facoltà di Farmacia, Università “La Sapienza”, Roma, Italia La ricerca di agenti chemioterapici utili per il trattamento di infezioni fungine è in continua evoluzione, sia per i crescenti fenomeni di farmaco resistenza verso i derivati azolici sia per la ricerca di molecole a bassa tossicità per l’ospite. Inoltre la terapia delle infezioni fungine sistemiche è ancora largamente indoddisfacente, rimanendo elevato il tasso di mortalità. Alcuni autori hanno evidenziato che farmaci ad attività psicotropa, sono in grado di svolgere un’azione antifungina. Un esempio è rappresentato dalla sertralina che inibisce significativamente la crescita di Aspergillus spp e Candida spp. Sulla base di tali risultati, il nostro studio è stato volto a stabilire se composti strutturalmente correlati al farmaco psicotropo fluoxetina, potessero presentare azione antifungina verso alcuni tra i più comuni funghi patogeni per l’uomo. Abbiamo voluto inoltre analizzare in quale modo l’introduzione di un gruppo imidazolico possa incrementare l’efficacia antifungina della fluoxetina. A questo scopo, sono stati saggiati ceppi di Candida albicans, Cryptococcus neoformans, Aspergillus spp e dermatofiti, seguendo per l’analisi della MIC procedure conformi a quelle proposte dall’NCCLS. I risultati ottenuti hanno dimostrato che tra le nuove sostanze saggiate, quelle contenenti un gruppo imidazolico, presentano un’attività antifungina superiore alla fluoxetina. In particolare, nei confronti di C.albicans le sostanze RS2186 (MFC range 4-16mg/L) e RS2196 (MFC range 8-16mg/L) mostrano un’azione fungicida a dosi comparabili al Miconazolo (MFC range 4-32mg/L). Per quanto riguarda C. neoformans i valori di MFC delle due sostanze sono compresi tra 4-8 mg/L (fluoxetina 16mg/L, miconazolo 2-4mg/L). Verso i dermatofiti, RS2186 presenta una buona azione antifungina verso Trichophyton mentagrophytes (MFC 8mg/L, fluoxetina MFC 32mg/L) Microsporum audoinii (MFC 4mg/L, fluoxetina MFC 32mg/L) e M.canis (MFC 8mg/L, fluoxetina MFC 64mg/L). Verso Aspergillus niger i valori di MFC sono di 32mg/L (fluoxetina MFC 16mg/L). L’attività fungicida a basse dosi e l’ampio spettro d’azione, candidano le sostanze saggiate a promettenti sussidi per la terapia antimicotica. Ulteriori studi sono attualmente in corso per definire in maggior dettaglio efficacia terapeutica e meccanismo d’azione. 68 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA DERIVATI CICLICI ISOTIOSEMICARBAZONICI COME APPROCCIO ALTERNATIVO NELLA TERAPIA DELLE INFEZIONI SOSTENUTE DA CANDIDA SPP. R. Borgna1, M. C. Cardia2, A. Sanna1, E. Piras1, C. Sanna1, B. Saddi3, E. Maccioni2, A. De Logu1 1Dip. Scienze e Tecnologie Biomediche, Sezione di Microbiologia Medica, Università di Cagliari 2Dip. Farmaco Chimico Tecnologico, Università di Cagliari 3Laboratorio di Analisi, Ospedale SS. Trinità, ASL 8, Cagliari Il numero di farmaci antifungini disponibili per il trattamento delle micosi profonde è attualmente limitato. L’amfotericina B (AMB) rimane il farmaco di scelta in considerazione dell’ampio spettro d’azione e dalla potente attività fungicida, ma la sua tossicità è nota. Sebbene gli antifungini azolici siano meno tossici dell’AMB, la loro efficacia terapeutica non è sempre soddisfacente, in particolare nel paziente immunodepresso, in conseguenza della modesta attività fungicida. Inoltre negli ultimi anni è significativamente aumentata la frequenza dell’isolamento di ceppi di Candida multiazolo-resistenti, in particolare nell’ambito di specie diverse da C. albicans. Emerge dunque la necessità di nuove molecole antifungine dotate di attività fungicida, ampio spettro d’azione e bassa tossicità. Abbiamo sintetizzato una serie di derivati isotiosemicarbazonici ed analoghi ciclici che hanno evidenziato una significativa attività, determinata secondo il metodo M27A del NCCLS, nei confronti di C. albicans ATCC 10231 e di 104 isolati clinici di Candida spp. In particolare, un derivato ciclico isotiosemicarbazonico ha mostrato una maggiore attività di miconazolo e nistatina nei confronti di C. albicans ed una attività comparabile a quella mostrata da AMB e fluconazolo. Tuttavia la attività fungicida di tale derivato è notevolmente superiore a quella mostrata dal fluconazolo e comparabile a quella dell’AMB. Una maggiore attività rispetto a quella del fluconazolo e dell’AMB è stata osservata anche nei confronti degli isolati di C. krusei e di C. parapsilosis, mentre risultati sovrapponibili sono stati determinati per C. tropicalis e C. glabrata. Gli studi di tossicità in vitro, effettuati su monostrati di cellule Vero mediante riduzione di sali di tetrazolio, hanno evidenziato valori di CC50 decisamente superiori a quelli dell’AMB e paragonabili a quelli mostrati dal fluconazolo. Il rapporto CC50/MIC nei confronti di C. albicans è stato determinato a >641 per il derivato isotiosemicarbazonico e per fluconazolo e a 31.3 per AMB. In considerazione della potente attività fungicida e dei bassi valori di tossicità, i derivati isotiosemicarbazonici posso dunque rappresentare un approccio alternativo per lo sviluppo di nuovi farmaci per il trattamento delle infezioni sostenute da Candida spp. EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DI INFEZIONI DA ASTROVIRUS A PALERMO. S. De Grazia1, G. M. Giammanco1, C. Colomba 2, A. Cascio3, S. Arista1 1Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università di Palermo; 2Istituto di Patologia Infettiva e Virologia, Università di Palermo; 3Clinica delle Malattie Infettive, Università di Messina. Gli astrovirus umani sono stati associati con episodi di enterite acuta in piccoli bambini. Le infezioni si manifestano sovente come casi sporadici, ma possono assumere carattere epidemico. Sono state descritte infezioni nosocomiali ed infezioni persistenti in pazienti immunocompromessi. Infezioni da astrovirus sono state riscontrate sia in paesi industrializzati che in via di sviluppo, con incidenza variabile dal 2 al 9%. Gli astrovirus posseggono un genoma a RNA a singolo filamento, organizzato in tre frammenti di lettura: ORF1a, ORF1b ed ORF2. I primi due codificano per le proteine funzionali, il terzo per la proteina del capside. Il nostro studio è stato effettuato su 153 bambini, di età inferiore a 4 anni, ricoverati con sintomatologia diarroica presso l’Ospedale “G. Di Cristina”di Palermo nel periodo settembre 1999 - agosto 2000. I pazienti sono stati selezionati in quanto è stata esclusa una infezione da rotavirus e da enterobatteri patogeni classici. Da ogni bambino è stato ottenuto un campione di feci entro 24 ore dal ricovero per escludere le infezioni nosocomiali. La ricerca diretta di antigeni di astrovirus è stata effettuata mediante test immunoenzimatico (IDEIA, Dako Ltd). I campioni positivi sono stati confermati mediante RT-PCR, utilizzando primers per la regione ORF2. Tale reazione, che consente di evidenziare un amplificato di 449 pb, è stata effettuata prima e dopo coltivazione in cellule di epatoma PLC/PRF/5. I ceppi virali sono stati genotipizzati mediante sequenziamento di un frammento di 348 pb della regione ORF2. E’ stata diagnosticata un’infezione da astrovirus in 5 pazienti (3,3%). In tutti i casi è stata evidenziata una positività in RT-PCR, sia prima che dopo coltivazione “in vitro”. La tipizzazione molecolare ha dimostrato una prevalente circolazione di ceppi appartenenti al genotipo HAst-1; in un caso è stato riscontrato un ceppo di genotipo Hast-3. L’analisi filogenetica ha evidenziato la circolazione contemporanea di cloni diversi. I nostri risultati concordano con quanto riscontrato in altre aree geografiche, relativamente ad una prevalente circolazione del genotipo HAst-1. Il test EIA da noi impiegato ha dimostrato una elevata specificità, in quanto tutti i campioni positivi sono stati confermati in RT-PCR. Maggiori dati sulla circolazione di astrovirus in Italia permetteranno di meglio valutare l’epidemiologia di questi virus. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 69 UN SAGGIO IMMUNOBLOT PER LA DIAGNOSI SIEROLOGICA DELLA SINDROME RESPIRATORIA ACUTA (SARS) BASATO SULL’IMPIEGO DI PROTEINE RICOMBINANTI. Paola Di Bonito, Alessandra Carattoli, Felicia Grasso, Alessandra Ciervo, Colomba Giorgi, Antonio Cassone e Gruppo GLSARS /ISS. Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, ROMA La SARS è una nuova malattia emersa nella provincia cinese di Guangdong agli inizi del 2003 e rapidamente diffusasi in Cina, in altre nazioni asiatiche e di altri continenti sì da essere dichiarata dall’OMS “un’emergenza globale”. Nonostante in Italia e nel resto d’Europa, siano stati importati solo pochi casi, l’allarme sanitario e sociale causato da questa emergenza è stato altissimo, con la generale presa di coscienza della necessità di prepararsi adeguatamente, soprattutto ad una rapida e precisa diagnosi differenziale, nel caso la sindrome si ripresenti nel prossimo inverno con maggiore vigore e capacità diffusiva. Il nuovo Coronavirus SARS-CoV, è attualmente riconosciuto come l’agente eziologico della SARS. La pronta identificazione di questo virus e delle risposte immunologiche da esso elicitate indotte sono i capiosaldi per il controllo della SARS. Allo scopo di sviluppare saggi diagnostici sierologici, i geni di due proteine strutturali del virus CoVdi SARS-CoV sono stati clonati mediante RT-PCR da RNA genomico ottenuto dal supernatante di cellule infettate con il ceppo Frankfurt di SARS-CoV gentilmente ottenuto dal network europeo della SARS. La nucleoproteina virale (N), tre suoi frammenti (N1, N2, N3), la proteina di membrana M ed il suo dominio COOH terminale (M2) sono state espresse in E.coli fuse con una coda di sei istidine e purificate mediante cromatografia per affinità su resina Ni-NTA. Le proteine purificate sono state quindi usate in un saggio immunoblot per rivelare IgG specifiche in campioni di sieri di pazienti di SARS (positivi in immunofluorescenza su monostrati di cellule infette da SARS-CoV). Sieri umani ottenuti da individui sani o infettati con altri patogeni respiratori sono stati usati come controllo. I risultati preliminari finora ottenuti indicano che una regione particolarmente immunogenica della nucleoproteina N ha buone caratteristiche per essere impiegata in un saggio immunoblot specifico e sensibile in quanto tutti i sieri positivi in immunofluorescenza sono risultati positivi, ad alto titolo, mentre nessuno dei sieri di controllo ha dato reazione positiva alla diluizione impiegata. Studi sono in corso per espandere queste osservazioni in una larga casistica e per generare un saggio immunoenzimatico in formato ELISA trasferibile a laboratori non di riferimento. Gruppo SARS/ISS : C.Belotti,(Segr.)A.Cassone (Coordinatore), A.Carattoli, A.Ciervo, L.Di Trani,.L.Fiore, L.Nicoletti, M.Rapicetta, G.Rezza, S.Salmaso. INFEZIONE DA COXSACKIEVIRUS B E PATOLOGIE AUTOIMMUNI: POSSIBILE RUOLO DELLA REPLICAZIONE PERSISTENTE DI QUESTI AGENTI VIRALI IN CELLULE ENDOTELIALI MICROVASCOLARI Zanone MM, Bottelli A*, Ferioli E*, Favaro E, Camussi G, Conaldi PG* *Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Università dell’Insubria; Dipartimento di Medicina Interna e Centro Ricerche di Medicina Sperimentale, Università di Torino I coxsackievirus B (CVB) causano una vasta gamma di manifestazioni patologiche. Sulla base di dati clinici e sperimentali è stato ipotizzato il loro coinvolgimento in malattie di grande rilievo clinico a patogenesi autoimmune, quali il diabete di tipo 1. L’interazione dei CVB con le cellule endoteliali (EC) può condizionare il loro accesso ai differenti organi e lo sviluppo a livello parenchimale di processi infiammatori cronici e autoimmuni, dato il ruolo giocato dalle EC nel controllo del “traffico leucocitario” e nella presentazione antigenica. Nostri studi precedenti hanno dimostrato la capacità dei CVB di infettare le EC dei vasi venosi. Poiché è presumibile che eventuali processi patogenetici si sviluppino a livello del microcircolo, in questo studio abbiamo indagato gli effetti dei CVB su EC microvascolari. I risultati ottenuti indicano che i CVB possono stabilire una infezione persistente anche a carico di tali cellule. La replicazione dei CVB non determina effetti citopatici rilevanti, ma causa una modificazione del fenotipo immunologico delle EC microvascolari. In particolare, i CVB non inducono l’espressione di molecole costimolatorie come CD40 e HLA di classe II, ma attivano l’espressione delle molecole di adesione ICAM-1 e VCAM. Tale fenomeno è, almeno in parte, mediato dalle citochine proinfiammatorie IL-6 e IL-8 la cui sintesi, assieme a quella di TNFa, risulta attivata nelle colture infettate. Parallelamente all’incremento delle molecole di adesione, l’analisi al FACS ha messo in evidenza un’aumentata adesività delle EC microvascolari infettate da CVB sia ai linfociti T che ai monociti. Questi risultati dimostrano la possibilità che i CVB inducano uno stato di infezione persistente dell’endotelio del microcircolo dei vari organi e modulino a tale livello il reclutamento selettivo di popolazioni linfocitarie nel corso delle risposte immuni organo-specifiche. Per valutare l’importanza del fenomeno nella patogenesi del diabete di tipo 1, stiamo mettendo a punto un modello sperimentale di infezione di EC delle isole pancreatiche. Risultati preliminari indicano che i CVB replicano in forma persistente e non citolitica anche in questo tipo di EC. Ciò permetterà di valutare l’influenza dei CVB sulla capacità di tali cellule di reclutare cloni di linfociti T specifici per auto-antigeni diabetogeni. 70 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CARICA VIRALE ED ESPRESSIONE DEI GENI LITICI DI EBV NEL SANGUE PERIFERICO DI TRAPIANTATI RENALI Chiara Merlino, Massimiliano Bergallo, Roberta Daniele, Sonia Tarallo, Alessandro Negro Ponzi, e Rossana Cavallo Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, S.C. Virologia, Università di Torino Nei pazienti trapiantati renali è descritto un aumentato rischio di disordini linfoproliferativi post-trapianto (PTLD) che consistono in un ampia gamma di manifestazioni patologiche, dall’iperplasia linfoide ai linfomi. E’ ormai riconosciuta una forte correlazione tra l’infezione da EBV, il grado ed il tipo di immunosoppressione e l’insorgenza di PTLD. Recentemente, è stata descritta una correlazione tra l’incidenza di PTLD e la quantità di EBV-DNA, misurata mediante PCR quantitativa, nel sangue periferico di questi pazienti. La valutazione della viremia da EBV sembra, quindi, essere un utile indicatore prognostico del rischio di sviluppare una PTLD. Dal momento che i nostri studi hanno dimostrato, in accordo con quanto riportato in letteratura, che la carica di EBV-DNA nei linfomonociti presenta un andamento fluttuante e che è assente nel siero di trapiantati renali asintomatici, in questo studio abbiamo valutato in parallelo la carica virale e l’espressione dei geni virali litici nel sangue periferico di questi pazienti, allo scopo di evidenziare l’attivazione dell’infezione litica, ulteriore parametro per la valutazione dei pazienti a rischio di PTLD. La carica di EBV-DNA è stata quantificata nei linfomonociti di 46 trapiantati renali (29 maschi, 17 femmine, età media 51,6 +/- 11,5 anni; mediana del tempo dal trapianto 60 mesi; 21 in terapia con FK506 e 25 in ciclosporina A) mediante PCR quantitativa-competitiva messa a punto nel nostro laboratorio, mentre gli RNA messaggeri (m-RNA) relativi ai geni litici (BZLF-1; BALF-2; BcLF1) sono stati determinati mediante nested RT-PCR da noi sviluppata. COSTRUZIONE DEL PLASMIDE PEB-C PER LA QUANTIFICAZIONE DELL’EBV-DNA MEDIANTE PCR Massimiliano Bergallo, Chiara Merlino, Franca Sinesi, Roberta Daniele, Valentino Granero, Alessandro Negro Ponzi e Rossana Cavallo Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, S.C. Virologia, Università di Torino I disordini linfoproliferativi post-trapianto (PTLD) rappresentano una grave complicanza che può verificarsi nei portatori di trapianto d’organo. E’ stata descritta una forte correlazione tra l’infezione da EBV, il grado ed il tipo di immunosoppressione e l’insorgenza di PTLD. Poiché il virus di Epstein-Barr è caratterizzato dal fenomeno della latenza, la sola determinazione del DNA virale nel sangue periferico mediante PCR qualitativa risulta di scarsa utilità. L’utilizzo di una metodica di PCR quantitativa, invece, permette di valutare l’andamento dell’infezione in riferimento ai livelli basali dei singoli pazienti. Questo lavoro descrive lo sviluppo di un protocollo per la quantificazione del DNA dell’EBV al fine di monitorare l’infezione da EBV. Il protocollo prevede uno screening mediante PCR semi-quantitativa dei campioni contenenti un numero ≥103 genomi virali/105 linfomonociti o 100 ml di siero, seguito da una quantificazione più precisa della carica virale dei campioni che superano tale soglia, mediante PCR quantitativa-competitiva (QC-PCR). La costruzione del competitore si è basata sulle differenti dimensioni degli ampliconi del wild- type e del competitore (171 bp vs. 247 bp). Il DNA competitore (pEB-C) differisce dal DNA bersaglio (pEB171) per l’inserzione di un frammento di 76bp ottenuta mediante la tecnica del DNA ricombinante. I risultati ottenuti mostrano che sia il competitore sia il bersaglio vengono amplificati con la stessa cinetica ed efficienza, se coamplificati con la medesima miscela di reazione. Nella PCR semi-quantitativa vengono utilizzate, come standard esterno, una serie di quattro diluizioni scalari di pEB171, da 50 a 1000 copie, ciascuna contenente 50 copie del plasmide pEB-C per calibrare lo standard esterno e per controllare la presenza di eventuali inibitori della Taq polimerasi nei campioni. La QC-PCR si basa sulla coamplificazione del campione con quattro diluizioni del competitore pEB-C (standard interno) contenenti 1.000, 5.000, 10.000, e 50.000 copie, rispettivamente. In conclusione, il protocollo sopra descritto per la quantificazione della carica virale dell’EBV in campioni di siero e linfomonociti può rivelarsi un valido strumento per valutare l’andamento dell’infezione nei soggetti portatori di trapianto d’organo allo scopo di individuare le riattivazioni virali e studiarne il ruolo nell’insorgenza dei disordini linfoproliferativi post-trapianto. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 71 STUDIO DELL’ INTERAZIONE IN VITRO TRA MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS H37RV E CELLULE DI MICROGLIA FETALE UMANA MEDIANTE METODICHE MOLECOLARI Giuseppina Palmieri1, Germano Orrù1, Gesuina Pusceddu1, Valeria Sogos2, Camilla Reali2, Maria Antonietta Marcialis3 Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Trapianti d’Organo, Sez. Microbiologia, Università degli Studi di Cagliari1 Dipartimento di Citomorfologia, Università degli Studi di Cagliari2 Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Sez. Microbiologia Medica, Università degli Studi di Cagliari3 I meccanismi patogenetici tra Mycobacterium tuberculosis e cellule del Sistema Nervoso Centrale (SNC) non sono ancora del tutto conosciuti. Nell’ ambito delle patologie che coinvolgono il distretto cerebrale, una delle forme più gravi è rappresentata dall’ infezione con micobatteri tubercolari che può portare alla meningite tubercolare. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di elaborare un modello sperimentale in vitro utilizzando linee cellulari di microglia fetale umana infettate con ceppi di Mycobacterium tuberculosis H37Rv, utilizzando sia metodiche tradizionali ( colturali e morfologiche) sia molecolari (RT e real-time PCR). Dopo l’infezione a tempi differenti (da 30 min a 48 ore) sono stati eseguiti diversi prelievi per valutare: (i) il titolo del M. tuberculosis presente nel terreno di coltura e all’interno delle cellule gliali, (ii) l’espressione delle differenti citochine (IL-1, IL-10, TNF-a) in risposta all’ infezione. Il titolo dei micobatteri è stato ottenuto mediante PCR real-time valutando le copie di DNA presenti nel campione in esame, mediante l’amplificazione di un frammento specifico per M. tuberculosis relativo al gene 16s rRNA. I risultati mostrano che il massimo dell’internalizzazione del microrganismo si osserva 16 ore dopo l’infezione.Utilizzando nelle stesse condizioni sperimentali il ceppo H37Ra si osserva una diminuzione dell’ efficienza di internalizzazione di circa 103 volte. L’ infezione della microglia con il micobatterio determina modificazioni nell’ espressione delle citochine in particolare si osserva un’inibizione dell’ espressione di IL-1 e IL-10 fin dalle prime ore dall’ infezione, mentre l’ inibizione del TNF-a avviene in tempi più lunghi. Il modello sperimentale di infezione che prevede l’ utilizzo di cellule gliali permette di studiare il ruolo del micobatterio nella patogenesi della meningite tubercolare; inoltre l’utilizzo di metodiche molecolari quantitative come la PCR real-time, rappresenta un sistema ottimale per valutare in modo efficace il corso del processo infettivo. PREVALENZA DI RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI IN PATOGENI RESPONSABILI DI INFEZIONI DELLE BASSE VIE RESPIRATORIE: RISULTATI DELLO STUDIO PROTEKT ITALY 2002. Gualco L.1*, A. Marchese1, S. Marchetti2, F. Ardito2, M. Mezzatesta3, S. Stefani3, G. Fadda2, G. Nicoletti3 e G.C. Schito1 Istituti di Microbiologia, Università di Genova1, Roma2 e Catania3 Lo studio epidemiologico Protekt Italy ha analizzato la sensibilità a diversi antibiotici dei principali patogeni respiratori comunitari isolati in Italia nel 2002. Sono stati studiati 843 ceppi di S.pneumoniae, 1106 S.pyogenes, 326 H.influenzae, 209 M.catarrhalis e 468 S.aureus oxacillino-sensibili, isolati nel 2002 presso 49 laboratori di Microbiologia Clinica, distribuiti uniformemente in tutto il territorio nazionale. La sensibilità in vitro a 20 antibiotici è stata determinata con il metodo della microdiluizione in brodo, come descritto dall’NCCLS 2002. La percentuale di resistenza alla penicillina in S.pneumoniae è risultata pari al 16%, con un alto livello di resistenza attestato al 7%, mentre gli pneumococchi resistenti ai macrolidi hanno raggiunto il 33%. Gli antibiotici che si sono dimostrati più attivi sono stati: telitromicina (TEL) (97.5% di ceppi sensibili), levofloxacina (LEV) (98.1%), rifampicina (98.1%), amoxicillina (AMX) (96.0%), cefotaxime (94.2%) e ceftriaxone (92.6%). In S.pyogenes è stata invece osservata un’elevata percentuale di resistenza ai macrolidi (23.5%), confermando dati riportati da studi precedenti. TEL è risultata attiva nei confronti della maggior parte degli stipiti refrattari a eritromicina (95% di sensibilità). Il 19% degli isolati di H.influenzae è risultato produttore di b-lattamasi. Un’alta percentuale di resistenza è stata trovata solo per claritromicina (22.4%) e cotrimossazolo (SXT) (26.4%). Gli altri antibiotici testati: cefalosporine di 3a generazione, LEV, azitromicina (AZI), TEL, cloramfenicolo (CHL) e tetraciclina (TET) hanno dimostrato una forte attività, con una percentuale pari al 99-100% di ceppi sensibili. In M.catarrhalis le percentuali di sensibilità variavano da 85.6 % SXT a 100% per: cefalosporine di 3a generazione, LEV, AZI, TET, AMX-clavulanato e TEL. Gli antibiotici più attivi nei confronti di S.aureus oxacillino-sensibile sono risultati: teicoplanina, cefalosporine di 3a generazione, CHL, SXT, LEV, TEL, con una percentuale di sensibilità oscillante tra il 100 e il 95%. Questo studio ha evidenziato che la resistenza agli antimicrobici tra i patogeni respiratori di origine comunitaria circolanti in Italia è in aumento. Complessivamente, TEL, LEV, cefalosporine di 3a generazione e AMX-clavulanato si sono dimostrati gli antibiotici più potenti. 72 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SENSIBILITÀ DI STAFILOCOCCHI METICILLINO RESISTENTI ALL’OLIO ESSENZIALE DI ORIGANO ED AI SUOI MAGGIORI COMPONENTI CARVACROLO E TIMOLO A. Nostroa, A.R. Blancoc, M.A. Cannatellia, V. Eneac, G. Flaminib, I. Morellib, A. D. Musolinoa, A. Sudano Roccaroc, V. Alonzoa a Dipartimento Farmaco-Biologico, Sezione Microbiologia, Facoltà di Farmacia. Università degli Studi di Messina. b Dipartimento di Chimica Bioorganica e Biofarmacia, Facoltà di Farmacia. Università di Pisa. c Dipartimento R&D, SIFI S.p.A, Catania. Negli ultimi anni si è assistito ad un crescente interesse verso i batteri Gram positivi in quanto sono tra i maggiori responsabili di infezioni nosocomiali ed acquisite in comunità. Tra gli isolati batterici quelli che destano grande preoccupazione in ambito terapeutico sono gli Stafilococchi meticillino resistenti sia MRSA che MRSE. Malgrado l’utilizzo di disinfettanti per il controllo e la diffusione di tali infezioni, l’insorgenza di resistenze a questi agenti rende necessarie strategie alternative. Le proprietà antimicrobiche di alcuni oli essenziali sono note da anni ma solo di recente l’attenzione è stata rivolta su un loro potenziale utilizzo come rimedi per l’eradicazione degli MRS. L’olio estratto dall’origano è un forte antisettico e, tra tutti gli oli essenziali, viene considerato uno dei più potenti antibatterici. Noto per molto tempo come rimedio popolare, solamente di recente è stato studiato per le sue caratteristiche quali proprietà diaforetiche, carminative, antispasmodiche ed antimicrobiche. Lo scopo di tale studio è stato quello di valutare la sensibilità di isolati clinici di S. aureus e S. epidermidis all’olio essenziale di origano ed ai suoi maggiori componenti carvacrolo e timolo. I ceppi (26 MSS e 21 MRS) sono stati caratterizzati per la resistenza alla meticillina mediante l’utilizzo di tre metodiche quali: E-test, PCR per la presenza del gene mecA , PBP2’ LA test. La composizione qualitativa e quantitativa dell’olio essenziale di origano analizzata tramite GC/EIMS ha rilevato carvacrolo e timolo come maggiori componenti l’olio (38.7%). I risultati chiaramente dimostrano la sensibilità dei ceppi all’olio essenziale senza differenze significative tra MSS e MRS (test esatto di Fisher p>0.05). I valori di MIC sono stati pari a 0.06-0.0125% v/v per l’olio essenziale di origano, mentre per carvacrolo e timolo (sostanze pure, Aldrich) i valori di MIC sono stati pari a 0.0150.03% ed a 0.03-0.06% v/v rispettivamente. La sensibilità all’olio essenziale è risultata, inoltre, indipendente da patterns di resistenze ad altri agenti antimicrobici. INTERAZIONE SINERGICA DI VANCOMICINA CON CEFTAZIDIME E TOBRAMICINA NEI CONFRONTI DI PSEUDOMONAS AERUGINOSA. Bertero F., Marchese A., Debbia E.A. Sez. di Microbiologia, Università di Genova. Le infezioni sostenute da P.aeruginosa sono difficili da trattare a causa della sempre più frequente concomitante resistenza a più classi di antibiotici presente in questo patogeno. La vancomicina è una potente molecola attiva sui gram-positivi verso la quale la resistenza spontanea è pressochè inesistente. Nei gram-negativi l’ingresso dei farmaci è impedito dal lipopolisaccaride (LPS). È stato ipotizzato che alcuni farmaci potessero in qualche modo disorganizzare la struttura dell’LPS e favorire l’ingresso della vancomicina nei gram.negativi. Per valutare nuove possibili opzioni terapeutiche, il ceftazidime (CAZ) e la tobramicina (TOB) sono stati saggiati in combinazione con la vancomicina (VAN). Almeno 109 CFU/ml sono state seminate su piastre contenenti una concentrazione fissa di VAN (500 mg/L) e dosi scalari (2x, 4x, 8x, e 16xMIC) di CAZ o TOB. I sopravvissuti sono stati contati dopo 48 ore a 37°C. I risultati sono stati interpretati come sinergismo (99%), additività (90%) e indifferenza (0-10%) sulla base della riduzione delle CFU/ml ritrovate con gli antibiotici in combinazione rispetto al singolo composto più attivo. CAZ in combinazione con VAN ha reagito in modo sinergico in 16/41 casi, additività è stata trovata in 17/41 interazioni e 8 saggi su 41 hanno mostrato indifferenza. Quando TOB è stata aggiunta a VAN è stato registrato sinergismo in 8/41 casi, 15/41 interazioni sono risultate additive e le rimanenti 18 hanno mostrato una reazione indifferente. In nessuna condizione sperimentale è stato osservato antagonismo. La concentrazione di VAN (500mg/L) è stata quella che ha dato preliminarmente i risultati riproducibili rispetto a dosi inferiori. VAN ha dimostrato di interagire in modo favorevole con gli altri antibiotici saggiati nei confronti di P.aeruginosa. Questo dato può suggerire una nuova e interessante opzione per il trattamento di questo patogeno specialmente in situazioni dove questi farmaci possono essere amministrati per via topica. La possibilità di usare VAN in condizioni meno restrittive è oggetto di studio a causa del modo d’azione di questa molecola che raramente seleziona microrganismi resistenti. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 73 ATTIVITÀ “IN VITRO” DI DIVERSI COMPOSTI ANTIMICROBICI VERSO CEPPI DI MYCOBACTERIUM AVIUM SUBSPECIES PARATUBERCULOSIS ISOLATI DA ANIMALI AFFETTI DAL MORBO DI JOHNE E DA PAZIENTI CON IL MORBO DI CROHN. Molicotti P., Zanetti S., Cannas S., Ziccheddu M., e Sechi L.A. Dipartimento di Scienze Biomediche, sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università degli studi di Sassari La possibilità che Mycobacterium avium subspecies paratuberculosis (agente eziologico della malattia di Johne nei ruminanti) possa essere la causa del morbo di Crohn è stato proposto sin dal 1913 da Dalziel ma non è mai stato dimostrato in maniera convincente. Solo recentemente la presenza di M. paratuberculosis è stata osservata in più del 70% dei pazienti affetti dal morbo di Crohn da diversi gruppi di ricercatori. Allo scopo di mettere a punto una terapia efficace per questi pazienti abbiamo saggiato la suscettibilità di diversi ceppi di M. paratuberculosis, isolati da pazienti affetti dal morbo di Crohn e da animali affetti dalla malattia di Johne, verso diversi antibiotici usati comunemente per la terapia contro i micobatteri quali Rifampicina, Dapsone, Claritromicina, Ciprofloxacina, Etambutolo e Streptomicina alle dosi comunemente usate per M. avium. Il saggio è stato eseguito in coltura liquida negli strumenti Bactec 460 TB e MGIT (sistema non radiometrico) entrambi della Becton Dickinson. I ceppi saggiati hanno mostrato essere maggiormente sensibili agli antibiotici Rifampicina e Claritromicina sebbene sono stati messi in evidenza anche ceppi resistenti verso questi antibiotici. Non sono state evidenziate particolari differenze fra i ceppi di provenienza animale ed umana. I risultati ottenuti mettono in evidenza che per mettere a punto una terapia efficace nei pazienti Crohn, positivi al M. paratuberculosis, non basta utilizzare gli antibiotici usati per debellare i micobatteri non tubercolari, ma occorre saggiare la suscettibilità agli antibiotici del ceppo isolato per combattere efficacemente l’agente infettivo in luce anche del lungo periodo di trattamento (da uno a due anni) che questi pazienti devono affrontare. STUDI PRELIMINARI SULLA ATTIVITÀ ANTI-MICROBICA DI OLI ESSENZIALI ESTRATTI DA PIANTE AROMATICHE DELLA SARDEGNA NORD-ORIENTALE. Antonella Deriu, Leonardo A. Sechi, Donatella Usai, Stefania Zanetti Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università degli Studi di Sassari Lo studio riguarda le proprietà anti-microbiche di oli essenziali estratti da Helichrysum italicum, Myrtus communis (rustiche), Mentha piperita, Rosmarinus officinalis, Salvia officinalis (coltivate), provenienti dalla zona di Calangianus (Sardegna nordorientale). I saggi sono stati effettuati su 6 ceppi batterici ATCC (Staphylococcus aureus, Enterococcus faecalis, Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa, Salmonella tiphimurium), 3 ceppi di origine clinica (Klebsiella pneumoniae, Aeromonas sobria, Aeromonas hydrophila), 2 ceppi di origine ambientale (Vibrio vulnificus, Vibrio alginolyticus). L’attività degli olii essenziali è stata valutata anche su 3 lieviti di provenienza clinica: Rodotorula rubra, Candida albicans e Candida glabra. Dopo aggiunta di Tween 80 alla concentrazione finale dello 0,5% e diluizioni seriali (dal 10 allo 0,01%) è stato determinato il valore delle M.I.C. (Minimum Inhibitory Concentration) e delle M.B.C. (inimum Bactericidal Concentration). L’olio essenziale di Myrtus communis ha espresso più forte attività antimicrobica verso tutti i microrganismi saggiati, con valori di M.B.C. tra 0,01% e 2,5% (v/v). 74 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EMERGENZA DI CEPPI DI PSEUDOMONAS AERUGINOSA PRODUTTORI DI METALLO-B-LATTAMASI E. Edalucci, C. Lagatolla, E. Medessi, L. Dolzani, F. Gionechetti, R. Spinelli, C. Monti-Bragadin e E.A. Tonin. Dipartimento di scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia, Università di Trieste. Durante gli ultimi 3 anni sono stati raccolti, presso il Laboratorio di Microbiologia Clinica dell’Ospedale di Cattinara (Trieste), 165 isolati clinici di Pseudomonas aeruginosa resistenti all’imipenem (MIC ≥ 16 mg/ml). Su tutti questi ceppi è stata cercata la presenza dei determinanti genici blaVIM mediante dot blot. Questi esperimenti hanno dimostrato la presenza del determinante in 122 ceppi (circa 74%), di questi 110 (90%) possedevano la variante all’elica blaVIM1 e 12 (10%) la variante blaVIM2. La tipizzazione molecolare di questi ceppi, realizzata con due metodi diversi (RAPD e analisi mediante AFLP), ha rivelato che la maggior parte di essi (78%) mostrava una stretta correlazione epidemiologica. Entrambi i metodi infatti identificavano due cluster (indicati con le lettere A e B) che includevano ceppi con indice di similarità di Dice superiore all’88%. 4 ceppi blaVIMpositivi non mostravano correlazione né tra loro né con i due cluster citati in precedenza e per questo venivano considerati sporadici. Il cluster A comprendeva 119 isolati clinici, 109 dei quali (92%) erano portatori della variante all’elica blaVIM1, 10 invece erano blaVIM-negativi. Questi ceppi erano ampiamente distribuiti in numerosi reparti ospedalieri e, addirittura, 11 di loro provenivano da pazienti ambulatoriali. Il cluster B includeva 11 ceppi, 10 dei quali erano portatori del determinante blaVIM2 mentre un ceppo era blaVIM-negativo. La loro distribuzione in ambito ospedaliero riguardava 4 diversi reparti. L’analisi di questi dati dimostra tuttavia che nel tempo l’isolamento di questi ceppi è andato incontro a profonde modificazioni. Infatti, mentre il cluster A, e di conseguenza il determinante blaVIM1, è andato via via diffondendosi fino a caratterizzare più del 20% di tutti gli isolati clinici di Pseudomonas, il cluster B, e quindi il determinante blaVIM2, è di fatto scomparso. Interessante ci pare anche il dato relativo allo studio di ceppi della nostra collezione isolati prima del 1999. In questi erano assolutamente assenti sia i determinanti blaVIM sia i cluster citati in precedenza. SENSIBILITÀ AI FARMACI ANTIMICROBICI E DISTRIBUZIONE DEI SIEROTIPI CAPSULARI IN STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE CIRCOLANTE IN ITALIA NEL PERIODO 2000-2002: RISULTATI DELLO STUDIO S.E.M.P.R.E. A.Marchese1*, M. Bozzolasco1, I. Cochetti2, M.P. Montanari2, A.M. Speciale3, S.R. Musumeci3, P.E.Varaldo2, G. Nicoletti3 e G.C. Schito1 Istituti di Microbiologia delle Università di Genova1, Ancona2, e Catania3 Allo studio S.E.M.P.R.E. svoltosi nel periodo 2000-2002 hanno partecipato 20 centri ben distribuiti sul territorio nazionale che hanno raccolto 1623 S.pneumoniae isolati da pazienti affetti da infezioni respiratorie. Gli stipiti sono stati identificati secondo procedure standard e saggiati per la sensibilità a 8 diverse molecole antimicrobiche (penicillina, amoxicillina, cefaclor, cefuroxime, cefotaxime, claritromicina, levofloxacina e teicoplanina) mediante la metodica dell’e-test presso ciascun centro partecipante. I microrganismi sono stati successivamente inviati a 3 centri coordinatori (Genova, Ancona, Catania), dove la sensibilità è stata valutata a 9 farmaci (penicillina, amoxicillina, amoxicillina/clavulanato, cefaclor, claritromicina, ciprofloxacina, levofloxacina, rifampicina e tetraciclina) secondo il metodo della microdiluizione raccomandato dall’NCCLS. Tutti i ceppi di S.pneumoniae sono pervenuti al centro di Genova, dove sono stati sierotipizzati. Globalmente i risultati ottenuti con la metodica dell’e-test sono risultati sovrapponibili a quelli forniti dalla microdiluizione. La resistenza globale a penicillina è aumentata dal 15.2% nel 2000 al 16.1% nel 2002. Nell’ultimo anno di studio l’alto livello di resistenza alla penicillina (11.3%) ha superato il basso livello (4.8%). Similmente è stato registrato un aumento di resistenza ai macrolidi dal 38.9% al 43.7%. Nei confronti di tutti gli stipiti raccolti i farmaci più attivi sono risultati amoxicillina, amoxicillina-clavulanato, levofloxacina e rifampicina (> 99% di ceppi sensibili), seguiti da penicillina (85.3%), cefaclor (82.6%), tetraciclina (69.0%) e claritromicina (58.7%). I sierotipi riscontrati più frequentemente in ordine decrescente sono risultati: 23F (15.8%), 3 (10.8%), 19F (9.1%), 6B (7.2%), 19A (6.9%), 6A (4.8%), 9L (2.6%), 9V (2.1%), 7F, 9N e 18C (1.9% ciascuno). In conclusione, negli ultimi tre anni in Italia si è osservato un costante aumento della resistenza a penicillina e macrolidi, mentre l’attività del fluorochinolone levofloxacina si è mantenuta estremamente soddisfacente. I sierotipi più frequentemente isolati in questo periodo, fatta eccezione per il tipo 3, rappresentano i determinanti capsulari che più comunemente vengono isolati anche nel resto del mondo e pertanto inclusi nel nuovo vaccino eptavalente. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 75 DIFFUSIONE DI S.PNEUMONIAE TRA BAMBINI DELLE SCUOLE MATERNE Grassi P.*,Grasso E*.,Sciacca A*,Cuccia M.°,Lo GrandeA °, Sorge G.,∑ Di Giorgio A.∑,Caruso P.∑ °Usl 3 Catania Servizio di epidemiologia, ∑Clinica Pediatrica Azienda Policlinico, *Laboratorio microbiologia Azienda Policlinico Università degli studi di Catania S.pneumoniae è da sempre, specie in età pediatrica, considerato agente etiologico di sinusiti, otiti medie, meningiti, e benchè l’incidenza sia diminuita, rimane l’agente causale delle polmoniti in particolare di quelle acquisite in comunità. Inoltre il S. pneumoniae può far parte della flora saprofita del cavo oro-faringeo in individui sani con percentuali che possono raggiungere anche il 70% . Non sono stati ancora chiariti i meccanismi che portano a interrompere lo stato di commensale per sfociare nelle patologie suddette. L’invasività è dovuta alla capsula che svolge un effetto antifagocitario, è necessario quindi che l’ospite abbia una risposta immune adeguata con anticorpi altamente protettivi tipo specifici , T-indipendenti, opsonizzanti . In questi ultimi anni alla patogenicità del batterio si è associata una multiresistenza nei confronti degli antibiotici comunemente usati quali penicilline, macrolidi, cefalosporine, cotrimoxazolo.. Abbiamo voluto individuare, prima di una campagna vaccinale, la prevalenza dei portatori in una popolazione pediatrica ed evidenziarne la sensibilità dei ceppi isolati. Hanno preso parte allo studio 103 bambini provenienti da asili nido, l’età era compresa da 3 mesi a 36 mesi. Ad ognuno è stata effettuata un’anamnesi e una visita medica accurata. Il prelievo rino-faringeo è stato eseguito mediante tampone con anima metallica piegato a 45° gradi. Il tampone veniva strisciato immediatamente su piastra di agar triptosio con 5% di sangue, inviato in laboratorio e incubato in termostato a 37°C. Sulle colonie sospette è stata valutata la sensibilità all’optochina. L’identificazione è stata confermata col sistema automatico Vitek. La percentuale di bambini portatori è stata del 17,4 %. Abbiamo saggiato,con metodica di Kirby Bauer su piastre di Muller Hinton con 5 % di sangue di montone, la sensibilità alla amoxacillina, oxacillina, ciprofloxacina, levofloxacina, cefotaxime, ceftriaxone. Tutti i 18 ceppi di S.pneumoniae sono risultati sensibili agli antibiotici saggiati. La percentuale di positività riscontrata in questo studio giustifica la campagna vaccinale eseguita nei bambini in questa fascia di età, in cui l’ immaturità del sistema immunitario, li rende soggetti a infezioni delle vie respiratorie sostenute da questi germi. La resistenza agli antibiotici riportata da più AA non è stata riscontrata nei 18 stipiti di S.pneumoniae isolati dai tamponi rinofaringei del nostro studio. LA FIBROSI CISTICA IN PUGLIA: RISULTATI DI UNA SORVEGLIANZA MICROBIOLOGICA NEL BIENNIO 2000/02. F Paglionico, G Caggiano, D Tatò, A Manca*, MT Montagna DIMIMP- Sezione Igiene, * Dip Biomedicina Età Evolutiva – Pediatria II, Università di Bari Obiettivi. La severa patologia di base, unitamente all’aggressivo trattamento antibiotico a lungo termine, espone i malati di fibrosi cistica (F.C.) alla colonizzazione da parte di patogeni opportunisti spesso refrattari alle convenzionali terapie. In Puglia il Centro Regionale di Riferimento per la F.C. ha steso un protocollo di sorveglianza microbiologica allo scopo di studiare la prevalenza e la farmacoresistenza dei microrganismi che colonizzano le basse vie respiratorie dei pazienti afferenti al Centro. Metodi. Nel biennio 2000/02 sono stati esaminati 138 pz (età 3-35 anni). Le indagini sono state effettuate su espettorato, BAL e/o BA mediante esame microscopico e colturale, con eventuale identificazione e antibiogramma degli stipiti isolati. Risultati. Una severa colonizzazione delle vie respiratorie è stata riscontrata in 122 pz (88.4%). Di questi, 97 (79.5%) presentavano un’infezione batterica, di cui 57 in associazione a specie diverse con una netta prevalenza di S. aureus, P. aeruginosa, e B. cepacia. Nei restanti 25 pz (20.5%) è stata evidenziata una complicanza fungina per lo più da A. fumigatus, A. flavus e C. albicans; tra queste, 20 erano associate a specie batteriche diverse. Inoltre, in due pz, già positivi per B. cepacia e con uno stato avanzato della patologia di base, sono stati ripetutamente isolati ceppi di Blastoschizomyces capitatus. Discussione. La F.C. è una malattia che riconosce nell’evoluzione patogenetica un’estrema multifattorialità. I pz affetti da tale patologia sono generalmente esposti ad infezioni miste, sia batteriche che micotiche, spesso di difficile gestione terapeutica. Infatti, poiché sottoposti a periodici cicli di terapia antibiotica, risulta sempre più frequente il riscontro di ceppi multiresistenti ai comuni antibiotici e protocolli di terapie combinate. Ne consegue, pertanto, la necessità di valutare a fondo tutti i fattori in grado di influenzare la gestione terapeutica, soprattutto in caso di avanzato danno polmonare e colonizzazione da Burkholderia cepacia. Nel nostro caso, inoltre, il riscontro di complicanze da Blastoschizomyces capitatus sottolinea la predisposizione di questi pz a sovrainfezioni inconsuete, per cui diventa necessaria una costante sorveglianza microbiologica al fine di controllare le complicanze e prevenire, o ridurre al minimo, l’insorgenza di sovrainfezioni spesso letali. 76 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SIEROTIPIZZAZIONE E TIPIZZAZIONE GENETICA DI CEPPI DI CAMPYLOBACTER JEJUNI ISOLATI DA GALLINE OVAIOLE IN ALLEVAMENTI DELLA PUGLIA Di Modugno G., Parisi A., Pennelli D, Di Modugno D, Montagna C. Dipartimento di Sanità e Benessere animale - Sezione di Patologia Aviare Facoltà di M. Veterinaria - Università degli Studi Strada Prov. per Casamassima Km 3-70010 Valenzano (Bari) Istituto Zooprofilattico della Puglia e Basilicata. Sez: di Putignano (Bari) Campylobacter jejuni è segnalato in molti Paesi sviluppati del mondo quale importante agente eziologico di enterocolite nell’uomo. Significativi fattori di rischio sanitario sono rappresentati dalla manipolazione e dal consumo di prodotti di origine avicola inquinati (carni e/o uova). In allevamenti della Puglia, C. jejuni è stato segnalato diffuso in percentuali variabili da 0,0 al 73,3% delle ovaiole nei gruppi esaminati (N° 14). La tipizzazione biochimica (secondo Lior) ha evidenziato la prevalenza (51,7%) del biotipo 1, spesso associato a focolai di enterite nell’uomo. La determinazione del sierogruppo di appartenenza di 19 stipiti del germe, isolati da n° 8 diversi gruppi di ovaiole è stata effettuata, secondo lo schema di Penner utilizzando antisieri di coniglio forniti in Kit per la reazione di emoagglutinazione passiva (Biogenetics). I risultati hanno consentito di assegnare i ceppi in esame a n° 4 diversi sierogruppi (A,B,E,K). Nel solo flock F di ovaiole, dalle quali è stato isolato un più elevato numero di ceppi di C. jejuni (n°8 in totale) è stato registrato l’appartenenza del germe in maggioranza (75%) al sierogruppo A, confermando (come anche da precedenti ricerche di biotipizzazione e genotipizzazione) l’ipotesi della prevalenza di un’unica (o di poche) fonte di introduzione e di propagazione del germe nell’allevamento. Le prove di sierotipizzazione, hanno anche dimostrato un alto numero di isolati non tipizzabili (36,8%), ponendo evidenti limiti alle indagini epidemiologiche. Inoltre, hanno mostrato che i risultati ottenuti non erano correlabili con quelli ottenuti con gli stessi stipiti sottoposti a biotipizzazione. Su questi stessi germi è stata eseguita anche la tipizzazione del gene della Flagellina A seguendo il protocollo CAMPYNET, utilizzando enzimi di restrizione Hinf 1 e Dde 1 (New England Biolabs). L’uso di questa tecnica ha evidenziato una più efficace differenziazione tra i ceppi esaminati; sono stati, infatti, ottenuti n°3 profili genetici con l’endonucleasi Hinf 1 e ben 9 con Dde 1. I dati ottenuti con la tipizzazione genetica non erano correlabili con quelli ottenuti dalla biotipizzazione o dalla sierotipizzazione degli isolati. PRODUZIONE E UTILIZZAZIONE DI ENZIMI DA SCARTI AGROALIMENTARI G. Mandalari1, C.B. Faulds2, A.I. Sancho2, R.B. Lo Curto3, G. Bisignano1 e K.W. Waldron2 1Dipartimento Farmaco-Biologico, Università di Messina, 2Food Materials Science Division, Institute of Food Research, Norwich, UK, 3Dipartimento di Chimica Organica e Biologica, Università di Messina. Le grandi quantità di residui agricoli ed agro-industriali, oltre a determinare un deterioramento ambientale, producono uno spreco notevole di materiale potenzialmente riciclabile che potrebbe fornire, dopo opportuno trattamento, un certo numero di prodotti ad alto valore aggiunto: oltre 100 milioni di tonnellate di materiale di scarto sono prodotti nel mondo occidentale annualmente dalle industrie agroalimentari. L’orzo esausto di birreria (OEB) e la crusca di frumento (CF) costituiscono due co-prodotti derivanti dalla produzione della birra e dalla lavorazione del frumento: essi contengono zuccheri, proteine, minerali e composti biologicamente attivi. Il frazionamento o la solubilizzazione di tali co-prodotti potrebbe fornire materiali di elevato valore aggiunto e facilitare lo smaltimento razionale dei rifiuti solidi (1). Lo scopo del lavoro riguarda lo studio della composizione di OEB e CF mediante trattamenti enzimatici finalizzati alla solubilizzazione della biomassa ed al rilascio di composti fenolici. Entrambi i materiali sono stati utilizzati anche come substrato per lo sviluppo di microrganismi idrolitici. La maggior parte dei composti fenolici presente in detti materiali è stata solubilizzata mediante estrazioni sequenziali con alcali a gradazione crescente. Le frazioni più ricche in ferulati contenevano gran parte degli arabinoxilani solubilizzati, dato che evidenzia una associazione dei composti fenolici con i polimeri di xilosio e arabinosio. Il trattamento con Ultraflo, una preparazione enzimatica da H. insolens, ha consentito la riduzione della biomassa di circa il 30% per entrambi i materiali (Fig 1). L’azione sinergica di Ultraflo con una xilanasi da T. viride (2) e di un’altra feruloil esterasi da A. niger in combinazione con la xilanasi, ha permesso di rilasciare gran parte dei ferulati presenti nelle frazioni estratte. Buoni livelli di feruloil esterasi e xilanasi sono stati anche ottenuti utilizzando sia l’OEB che la CF come fonti di carbonio per lo sviluppo di H. grisea var. thermoidea, T. stipitatus e T. viride. I migliori risultati sono stati ottenuti dallo sviluppo di H. grisea su OEB alla velocità di agitazione di 150rpm. 1 - Garrote G, Dominguez H, Parajo JC (1999) J. Chem Technol Biotechnol 74: 1101-1109. 2 - Bartolomé B, Faulds CB, Tuohy M, Hazlewood GP, Gilbert HJ, Williamson G (1995) Biotechnol Appl Biochem 22: 65-73. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 77 IDENTIFICAZIONE DI SINORHIZOBIUM MELILOTI E SINORHIZOBIUM MEDICAE ISOLATI DA NODULI DI MEDICAGO SPP. DIFFUSE IN AMBIENTE MEDITERRANEO G. GarauA, J.G. HowiesonB, W.G. ReeveB, D. JamesB, M. CareddaA, R. MarongiuA, M.G. SannaA e P. DeianaA A Dipartimento di Scienze Ambientali Agrarie e Biotecnologie Agro-Alimentari, Università di Sassari ,V.le Italia, 39 - 07100 Sassari B Centre for Rhizobium Studies, Murdoch University, Murdoch, WA 6150, Australia Indirizzo e-mail del primo autore: [email protected] Riassunto I rizobi azotofissatori associati al genere Medicago L. appartengono alle specie strettamente correlate Sinorhizobium meliloti e S. medicae. Stipiti batterici isolati da noduli radicali di diverse specie di Medicago diffuse in ambiente mediterraneo sono stati caratterizzati dal punto di vista simbiotico e genetico al fine di identificare i ceppi appartenenti alle due specie. Tutti i 44 ceppi testati sono risultati infettivi, ossia capaci di indurre noduli radicali (nod+), ed effettivi, ovvero in grado di fissare l’azoto atmosferico (fix+), quando inoculati sulla specie M. sativa. Quando combinati con la specie M. polymorpha, 23 ceppi sono risultati infettivi ed effettivi, mentre i restanti 21 hanno indotto la formazione di soli noduli ineffettivi (fix-). Questi risultati confermano il ruolo chiave delle specie M. sativa e M. polymorpha nella classificazione dei rizobi associati alle mediche (Medicago spp.). I ceppi effettivi su M. polymorpha sono stati infatti classificati come S. medicae, mentre quelli solamente infettivi (fix-) come S. meliloti. Sulla base dei fingerprinting ottenuti mediante ERIC-PCR i 44 ceppi testati sono stati suddivisi in due gruppi divergenti. Un gruppo conteneva tutti i 23 ceppi effettivi (nod+, fix+) su M. polymorpha, mentre l’altro raggruppava quelli ineffettivi (fix-). L’ ERIC-PCR per la sua semplicità, può dunque rappresentare uno strumento innovativo per la rapida identificazione delle due specie batteriche. I risultati ottenuti hanno inoltre mostrato che l’isolamento di S. medicae avveniva prevalentemente da specie di Medicago caratterizzate da un buon adattamento alla crescita e persistenza in suoli moderatamente acidi (M. arabica e M. murex). Al contrario i ceppi di S. meliloti sono stati in gran parte isolati da specie di Medicago maggiormente diffuse in suoli con pH neutri o alcalini (M. littoralis, M. sativa e M. tornata). Questi risultati suggeriscono un adattamento preferenziale delle due specie rizobiche a differenti Medicago spp. occupanti nicchie ecologiche particolari. DESCRIZIONE DI UN IMPIANTO SEMIAUTOMATIZZATO PER LA COLTIVAZIONE MASSIVA DI ALGHE UNICELLULARI DA UTILIZZARE A SCOPO ALIMENTARE E FARMACEUTICO. D. Deidda°, A. Rosa^, M. Deiana^, A. Serra°, MA. Dessì^, R. Pompei°§ ° Biotecne Cagliari, ^ Dip. Biologia Sperimentale, Sez. Patologia Generale, §Dip. Di Scienze e Tecnologie Biomediche, Sez. Microbiologia Applicata, Univ. Cagliari Premessa - La coltivazione delle alghe è diventata un’attività di grande importanza industriale per la produzione di biomasse a scopo alimentare, mangimistico e per ottenere prodotti farmaceutici e cosmetici. Presso il Consorzio Biotecne di Cagliari è stato messo a punto un sistema di produzione semiautomatizzato, semplificato e standardizzato, atto a produrre alte concentrazioni di colture singole e axeniche di microalghe in volumi discreti per poterne valutare l’utilità come integratori alimentari (produttori d’acidi grassi polinsaturi) o per la produzione di sostanze ad azione farmacologica (attività citotossica e antibiotica). Materiali e metodi - A tal fine è stato realizzato un modulo di produzione microalgale costituito da sei contenitori sterili in Perspex chiusi ermeticamente delle dimensioni di 60 L, in cui avvengono tutte le fasi di crescita delle microalghe. I cilindri sono stati alloggiati all’interno di una struttura d’acciaio zincato che a sua volta fa da supporto all’impianto idrico, a quello di aerazione (arricchita di CO2) e d’illuminazione, con annessi filtri e lampade UV disinfettanti. Sono state allestite tre differenti monocolture algali, di cui una d’acqua dolce, Haematococcus pluvialis e due d’acqua marina Chlorella minutissima e Tetraselmis suecica. La metodologia di coltura applicata all’impianto è a ciclo semicontinuo, ossia un compromesso tra la propagazione progressiva e il ciclo continuo. In sintesi, trattasi di colture tenute in fase esponenziale di crescita attraverso appropriate diluizioni d’acqua salmastra e/o dolce ultrafiltrata, e fertilizzata con sali, vitamine e oligoelementi (Soluzione di Walne), con un passaggio progressivo da piccoli (5 L) a grandi volumi (60 L) sotto l’illuminazione continua o seguendo i cicli circadiani (1 Klux Lampade Fluora) con o senza insufflazione di CO2, ad una temperatura costante per ogni produzione compresa tra 18 e 22 °C. Risultati e conclusioni - I saggi biologici eseguiti hanno dimostrato che delle tre microalghe in studio, due di esse esercitano un’interessante attività citotossica sia su cellule tumorali animali (VERO ed MDCK), che umane (Hela) e tutte si sono rivelate buone produttrici di acidi grassi omega-3. Ringraziamenti: questo lavoro è stato finanziato da Biotecne con fondi del Centro regionale di Programmazione della Regione Sardegna. 78 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CARATTERIZZAZIONE DI LIEVITI INTESTINALI ISOLATI DA PESCI DEL GENERE MUGIL Samuela Laconi1, Giorgio Lampis1,2 e Raffaello Pompei1,2 1Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Sezione di Microbiologia Applicata e Tecnologie Biomediche, Università di Cagliari; 2Biotecne Cagliari Premessa: La somministrazione di lieviti selezionati riveste un’importanza notevole nella catena alimentare dei pesci d’allevamento, sopratutto nelle forme larvali e giovanili, per l’apporto di proteine nobili e vitamine, di cui tali microrganismi sono ricchi. I pesci del genere Mugil, a cui appartengono almeno 6 specie riconosciute nel Mediterraneo, sono un comune alimento per l’uomo, in particolare nel Sud Italia e nelle isole. Una specie appartenente a tale genere, il Mugil cephalus, comunemente conosciuto come “cefalo”, riveste un’importanza ancora maggiore per la produzione della “Bottarga”, costituita da uova salate ed essicate. Piano di lavoro: In questo lavoro è stata svolta un’indagine conoscitiva sui lieviti intestinali di diverse specie di muggini, nell’intento di caratterizzare i ceppi isolati per specie o genere di appartenenza, proprietà organolettiche, nutrizionali e di antagonismo nei confronti di microrganismi patogeni. Materiali e metodi: Sono state esaminate le specie M. auratus, M. chelo, M. capito, M. saliens e M.cephalus, provenienti da allevamenti sardi, prevalentemente della zona di Oristano. Per ciascun ceppo sono state caratterizzate e vengono riportate le seguenti proprietà: 1) produzione degli enzimi proteasi, lipasi e amilasi, 2) attività antagonista verso microrganismi patogeni in coltura mista, 3) adesività in vitro a cellule Caco2, 4) identificazione presunta. Risultati e Conclusioni: Sono stati isolati e caratterizzati 42 ceppi di lieviti. Almeno 3 presentavano un’elevata capacità di ederire alle cellule Caco2. Diversi ceppi erano in grado di antagonizzare la crescita di E. coli, L. monocytogenes e S. aureus su vari terreni di coltura ( in particolare Potato Dextrose agar e Muller-Hinton). L’identificazione con metodi tradizionali si è dimostrata particolarmente difficoltosa. La maggior parte degli isolati apparteneva ai generi Candida, Cryptococcus, Trichosporon, Rodococcus e Pichia. La possibilità di utilizzare alcuni dei lieviti selezionati negli allevamenti intensivi di muggini da Bottarga per migliorare la qualità e quantità del prodotto viene criticamente analizzata. Ringraziamenti: lavoro cofinanziato dal MIUR (Prin 2001) e dalla Fondazione Banco di Sardegna. CLONAGGIO DI ANTICORPI MONOCLONALI UMANI RICOMBINANTI DIRETTI VERSO LA PROTEINA VP2 DEL PARVOVIRUS UMANO B19 F. Scarpini*, A. Desogus°, D. Moretti*, G.M. Rossolini*, R. Pompei^° *Dip. di Biologia Molecolare, Sez. di Microbiologia, Univ. di Siena, °Biotecne Cagliari, ^Dip. Di Scienze e Tecnologie Biomediche, Sez. Microbiologia Applicata, Università di Cagliari. Premessa. Il Parvovirus umano B19 è un virus a DNA appartenente alla famiglia Parvoviridae, sottofamiglia Parvovirinae, genere Erythrovirus. L’infezione può causare megaloeritema infettivo e crisi anemiche aplastiche transitorie. L’infezione è altamente contaggiosa, e può essere particolarmente pericolosa nelle donne in gravidanza per le conseguenze sul feto (idrope fetale e morte intrauterina del feto) e negli individui immunocompromessi, dove si ha una persistente viremia con anemia cronica. Il capside virale è costituito da due polipeptidi, VP1 e VP2: il primo costituisce circa il 4% delle proteine del capside e differisce dal secondo per la presenza di una regione aggiuntiva all’estremità amino-terminale; VP2 costituisce circa il 96% delle proteine capsidiche. Epitopi neutralizzanti sono stati mappati su entrambi i componenti capsidici. Piano di lavoro. L’acquisizione di nuove conoscenze sulla risposta anticorpale umana all’infezione da Parvovirus umano B19 e la disponibilità di anticorpi monoclonali umani diretti verso antigeni virali potrebbero essere utili sia per la prevenzione dell’infezione virale, sia per l’attenuazione degli effetti delle viremie persistenti. In questo lavoro sono stati clonati e prodotti anticorpi monoclonali umani ricombinanti anti-VP2. Materiali e Metodi. E’ stata costruita una genoteca combinatoria di frammenti anticorpali Fab da un paziente sierologicamente positivo per l’antigene VP2 virale. Nel vettore utilizzato, di tipo phage-display, sono stati clonati i cDNA per le catene leggere di tipo k e per le catene pesanti di sottoclasse gamma 1. La selezione dei cloni batterici producenti i rFab virus-specifici è stata condotta mediante quattro cicli di “panning” utilizzando la proteina VP2 ricombinante. Successivamente al panning, sono state saggiate le preparazioni grezze di rFab con test ELISA. Risultati. Sono stati isolati 3 cloni producenti rFab monoclonali umani, che reagivano in modo specifico con la proteina capsidica VP2. Conclusioni. Per il crescente numero di pazienti immunocompromessi e per la gravità delle forme che in essi si manifesta, tali anticorpi potrebbero essere potenzialmente utili a scopo profilattico/terapeutico per la loro attività neutralizzante sul Parvovirus B19. Ringraziamenti: Lavoro finanziato da Biotecne Cagliari, con contributo del Centro di Programmazione della Regione Sardegna. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 79 ESOPRODOTTO BATTERIOCINA-LIKE AD ATTIVITÀ ANTIVIRALE ED IMMUNOSTIMOLANTE A. Arena.*, B. Pavone.*, A. Marino, L. Lombardo, G. Bisignano Dipartimento Farmaco-Biologico. Sezione di Microbiologia. Università degli Studi di Messina. * Unita’ di Microbiologia, Facolta’ di Medicina e Chirurgia, Policlinico Universitario “G. Martino” Messina. La possibilità di influenzare il corso di un’infezione virale interferendo sulla risposta immunitaria dell’organismo, che si può ottenere sia con molecole di sintesi che con molecole di origine naturale e batterica, rappresenta il presupposto per l’applicazione, sempre più frequente in terapia, di farmaci immunomodulatori. Nel presente lavoro, considerando che lo studio sugli immunomodulatori biologici antivirali deve valutare sia la capacità di interferire sui meccanismi di replicazione virale sia quella di interagire con le componenti cellulari del sistema immune, sono stati analizzati gli effetti di una molecola batteriocina-like prodotta da E. durans sia sulla replicazione del virus herpes simplex tipo-2 (HSV-2) che sulla produzione di citochine (IFN-g, IFN-a, TNF- a, IL-12) implicate nella risposta immune antivirale. Sono state utilizzate come sistema cellulare colture di cellule umane mononucleate del sangue periferico (PBMC) di donatori sani. I risultati ottenuti hanno dimostrato che l’esoprodotto inibisce la replicazione di HSV-2 ed è in grado di stimolare le PBMC a produrre apprezzabili quantità di TNF- a e di IL-12. La produzione di IFN- g e di IFN- a non è stata significativa. L’attivita’ evidenziata è stata ritenuta dose-dipendente. INFLUENZA DI E. COLI (ATCC E O157) SUI COSTITUENTI AD ATTIVITÀ ANTIOSSIDANTE PRESENTI NEL SUCCO D’ARANCIA CITRUS SINENSIS. A. Marino, C. Fiorentino, G. Crisafi, A. Tomaino, F. Cimino, *M. Lo Presti, *P. Dugo, A. Nostro, V. Alonzo. Dipartimento Farmaco-Biologico - *Dipartimento Farmaco-Chimico. Università degli Studi di Messina. Nel succo d’arancia l’attività antiossidante è dovuta principalmente alla presenza di alcuni costituenti quali l’acido ascorbico e le antocianine. Obiettivo di questo lavoro è stato quello di valutare l’influenza di una contaminazione da ceppi di Escherichia coli (ATCC e O157) sull’attività antiossidante del succo d’arancia fresco Citrus sinensis (varietà Moro, Sanguinello e Tarocco) mantenuto a temperatura refrigerata per quattro settimane. E’ stata saggiata la capacità di sopravvivenza di entrambi i ceppi; sono state monitorate le concentrazioni di acido ascorbico e di antocianine; è stata rilevata l’attività antiossidante, nelle tre varietà di succo. I risultati mostrano che E. coli ATCC può sopravvivere per almeno quattro settimane nel succo di tutte le varietà mentre E coli O157 sembra essere più sensibile alle varietà Moro e Tarocco dove il tasso di mortalità registrato è più elevato. Nel succo varietà Tarocco la degradazione delle antocianine e dell’acido ascorbico così come la riduzione dell’attività antiossidante sono graduali nei campioni contaminati e non. Nel succo varietà Moro l’acido ascorbico si degrada quasi completamente alla quarta settimana nel campione di controllo e in quello contaminato da E. coli O157; non ci sono differenze nella degradazione delle antocianine tra i campioni di succo contaminati. Nel succo varietà Sanguinello contaminato da E.coli ATCC, si evidenzia una maggiore degradazione delle antocianine. Nei campioni di controllo di entrambe le varietà si osserva una degradazione fino alla terza settimana e un aumento della concentrazione alla quarta. L’attività antiossidante si riduce meno nei succhi contaminati che non nei rispettivi succhi di controllo. 80 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CARATTERIZZAZIONE DELL’ATTIVITÀ ANTIMICOTICA DI UNA NUOVA CLASSE DI DERIVATI PIRROL-IMIDAZOLICI. Letizia Angiolellaa, Alessandra Ciocci a, Maria Vittoria Pasceri a, Roberto Di Santo b, Roberta Costi b, Michela Forte b, Marino Artico b, Anna Teresa Palamara a. a” Istituto di Microbiologia, Università di Roma “La Sapienza”, bIstituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti” Dipartimento di Studi Farmaceutici, P.le A. Moro 5, 00185 Roma Il considerevole aumento di infezioni opportunistiche in pazienti immunocompromessi rende indispensabile l’individuazione e la sintesi di nuovi farmaci antinfettivi. Lo studio strutturale di derivati azolici ad attività antifungina (come il bifonazolo, il miconazolo, il fluconazolo, ecc.). ha messo in evidenza il ruolo fondamentale che svolge l’unità farN macogenica 1-benzilimidazolica. Sulla base dei risultati ottenuti e di precedenti esperienze del nostro gruppo, sono stati progettati e reaR1 N lizzati derivati 1-[(aril)(4-aril-1H-pirrol-3-il)metil]-1H-imidazolici (1) che sono risultati potenti agenti anti-Candida [1-3]. Una caratteristica strutturale di questi composti è di contenere sia il nucleo 1-benzilimidazolico che quello arilpirrolico, in modo da riunire in un’unica struttura le caratteristiche chimiR2 che degli antifungini imidazolici e dell’antibiotico antimicotico pirrolnitrina (Pyroace, Micutrin). N In questo studio sono stati sintetizzati e testati contro vari ceppi di Candida albicans una serie di composti N-alchil derivati di 1 al fine di approfondire le relazioni tra struttura chimica ed attività microR biologica. I risultati ottenuti indicano che l’introduzione di alcuni gruppi alchilici sull’azoto pirrolico 1 determina un incremento significativo dell’attività antifungina del farmaco rispetto ai derivati non alchilati testati precedentemente. R = CH3, C2H5, C3H7, CH2-c-C3H7, CH=CH2,CH2CH=CH2, CH2CH=C(CH3)2, CH=CHCOOCH3, Ph R1 = 4-Cl, 2,4-Cl2 R2 = H, 2,4-Cl2 [1] Artico, M.; Di Santo, R.; Costi, R.; Massa, S.; Retico, A.; Artico, M.; Apuzzo, G.; Simonetti, G.; Strippoli, V. J. Med. Chem. 1995, 38, 4223. [2] Tafi, A.; Anastassopoulou, J.; Theophanides, T.; Botta, M.; Corelli, F.; Massa, S.; Artico, M.; Costi, R.; Di Santo, R.; Ragno, R. J. Med. Chem. 1996, 39, 1227. [3] Tafi, A.; Costi, R.; Botta, M.; Di Santo, R.; Corelli, F.; Massa, S.; Ciacci, A.; Manetti, F.; Artico, M. J. Med. Chem. 2002, 45, 2720. RILEVAZIONE DI HTLV-I MEDIANTE HEMI-NESTED PCR Monica Sassi, Paola Monari, Roberta Gorini, Davide Gibellini, Maria Carla Re Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Bologna, Via Massarenti 9-40138 Bologna, Italia. La diagnosi d’infezione da HTLV-I (human T cell leukemia/lymphoma virus) si basa essenzialmente sulla ricerca, nel siero del paziente, di anticorpi specifici mediante metodiche immunoenzimatiche e/o immunoblotting, Nonostante recentemente i livelli di sensibilità e di specificità dei test disponibili in commercio siano nettamente aumentati, numerosi dati di letteratura riportano un numero non esiguo di risultati indeterminati. Al fine di potere risolvere il quesito diagnostico, nei casi in cui si verificano risultati “dubbi”, all’inizio degli anni ‘90 in diversi laboratori è stato messo a punto lo studio del genoma virale, previa amplicazione mediante PCR, metodica che rappresenta sicuramente il “golden standard” per la diagnosi d’infezione. Nel nostro laboratorio abbiamo studiato la possibilità di applicazione di una PCR hemi-nested per la rilevazione di DNA provirale HTLV-I, in campioni cellulari (PBMCs) provenienti da soggetti con risultato sierologico positivo o indeterminato. Questo metodo si basa su due amplificazioni successive, in cui la prima permette l’amplificazione di una regione di 188bp del gene pol di HTLV-I, mentre la seconda determina un’amplificazione hemi-nested della regione pol di 188bp ottenendo un amplicone di 117bp. La scelta di questa particolare regione del genoma deriva dal basso livello di variabilità del gene pol nel genoma del retrovirus. A tale scopo abbiamo analizzato i linfomonociti provenienti da 182 soggetti, i quali presentavano risultati sierologici positivi o indeterminati. L’analisi effettuata mediante PCR hemi-nested ha permesso di risolvere rapidamente il dubbio diagnostico legato ai metodi sierologici utilizzati, permettendoci di escludere la presenza del virus e/o di prodotti virali nella maggior parte dei campioni esaminati e rivelando la presenza di DNA provirale HTLV-I solo in due soggetti.. La tipologia dell’estrazione di DNA, l’assenza di problemi durante la fase di amplificazione, la rapidità, e gli alti livelli di sensibilità rappresentano le caratteristiche e i peculiari vantaggi di questa metodica, che ne suggeriscono un’ampia applicazione come nuovo strumento diagnostico. Anche se la diffusione dell’infezione è ristretta a determinate aree geografiche, l’incremento dell’immigrazione da zone ad alta endemicità e le modalità di trasmissione devono richiedere controlli epidemiologici al fine di verificare la presenza di nuove infezioni. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 81 RILEVAZIONE DI MULTIPLI GENOTIPI DI HPV NEL CANCRO DEL POLMONE MEDIANTE IBRIDAZIONE INVERSA. *Marco Ciotti, *Pierpaolo Paba, †Vincenzo Ambrogi, *Arrigo Benedetto, †Tommaso C. Mineo, ‡Kari Syrjänen, and *Cartesio Favalli *Laboratorio di Microbiologia e Virologia Clinica, Università di Tor Vergata, Roma; †Dipartimento di Chirurgia Toracica, Università di Tor Vergata, Roma; ‡Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica, Istituto Superiore di Sanità (ISS), Roma, ITALIA. Il virus del Papilloma umano (HPV) è stato ritrovato in circa il 20% dei carcinomi polmonari. I tipi 16 e 18 sono i due più prevalenti, mentre le infezioni multiple sono state trovate solo occasionalmente. Nel nostro lavoro abbiamo analizzato una serie di 24 pazienti con cancro del polmone non a piccole cellule (11 squamosi, 9 adenocarcinomi, 1 carcinoma a grandi cellule e 3 anaplastici) usando la reazione polimerasica a catena e l’ibridazione inversa (Innolipa, Innogenetics) per identificare i genotipi specifici. Usando i primers degenerati di Manos (MY09 e MY11) localizzati all’interno della regione L1 dell’HPV, solo un caso (4,1%) era primitivo. Mentre, l’amplificazione con i primers SPF che amplificano un frammento più piccolo del gene L1, ha dato 9 positivi su 24 (37,5%). Tutti i casi positivi sono stati infettati da genotipi multipli (HPV 16, 18, 31, 45, 66) eccetto uno. L’HPV DNA è stato detectato nel 54,5% dei carcinomi squamosi e nel 33,3% dei carcinomi non squamosi. I dati analizzati evidenziano una relazione tra l’HPV ed il tumore del polmone, e supportano l’ipotesi che le infezioni multiple con tipi oncogenici di HPV potrebbero avere un ruolo nella cancerogenesi polmonare. TAK-779 BLOCCA IL CORECETTORE CCR5 ED INIBISCE FORTEMENTE LA REPLICAZIONE DI CEPPI MONOCITOTROPI DI HIV, IN VITRO ED IN VIVO. Aquaro S.1, Schols D.2, Ranazzi A.1, De Clercq E.2, Caliò R.1, CF. Perno1 1Università di Roma “Tor Vergata”, Roma, Italia; 2Rega Instituute, Università Cattolica di Lovanio, Belgio. I monociti-macrofagici (M/M) sono un reservoir cruciale di HIV-1. Una volta infettati dal virus, i M/M giocano un ruolo fondamentale nella patogenesi della malattia. I M/M hanno la capacità di fondere con i linfociti T helper CD4+, trasmettere il virus, ed indurre effetti citopatici ed apoptosi in diversi tipi cellulari. Normalmente i M/M sono infettati da ceppi virali di HIV-1 che usano il corecettore CCR5 (ceppi R5). TAK-779 è un composto non peptidico che lega prevalentemente il CCR5. L’attività antivirale verso HIV-1 di TAK-779 è stata studiata in cellule mononucleate del sangue (PBMC) ed in cellule di linea transfettate con CCR5, ma a tutt’oggi mancano dati nei M/M. La nostra ricerca è stata condotta al fine di colmare questa lacuna nella letteratura scientifica. I M/M utilizzati in questo studio sono stati ottenuti dal sangue periferico di donatori volontari sani ed infettati in vitro con HIV-1. TAK-779 ha inibito, con modalità dose-dipendente, il flusso di calcio indotto dalla CC-chemiochina MIP-1 sia in M/M che in cellule transfettate con CCR5 (range EC50: 4-40 ng/ml). Attività anti-HIV-1 di TAK-779 è stata valutata in M/M infettati con diversi ceppi R5. TAK-779 ha inibito potentemente la replicazione virale sia di ceppi R5 adattati in laboratorio (BaL e ADA) sia di un isolato clinico R5-dipendente (EC50: 50 ng/ml). Alla concentrazione di 2 ?g/ml TAK-779 ha inibito la replicazione di HIV-1 del 99% (EC99) rispetto ai controlli. In tutti i casi l’inibizione è rimasta stabile fino al 21 giorno di infezione (fine dell’esperimento). Inoltre, TAK-779 (1 ug/ml) ha fortemente inibito la formazione di sincizi nelle colture di M/M infettate da HIV-1. Successivamente, l’efficacia antivirale di TAK-779 è stata valutata in vivo in topi SCID. I M/M infettati da HIV-1 e non trattati hanno provocato una severa deplezione dei linfociti T helper CD4+ nei topi SCID ricostituiti con PBMC di donatori sani. Di contro, i linfociti T helper CD4+ sono stati completamente preservati nei topi che avevano ricevuto M/M infettati con HIV-1 e trattati con TAK-779. In conclusione, alla luce dei risultati ottenuti, possiamo affermare che TAK-779 ha una potente attività anti-HIV-1 poiché impedisce in maniera stabile l’entrata di ceppi R5 nei M/M; di conseguenza, inibisce il trasferimento dell’infezione alle cellule linfocitarie bloccando la progressione degli eventi patogenetici. 82 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EVOLUZIONE DEL GENE ENV DI HIV-1 IN BAMBINI CON RISPOSTA DISCORDANTE ALLA TERAPIA ANTIRETROVIRALE P. Bagnarelli1, M. Vecchi1, M. Burighel2, D Bellanova2, S. Menzo1, A. De Rossi2 e M. Clementi3 1Istituto di Microbiologia e Sci. Biomediche, Università Politecnica delle Marche, Ancona; 2Dipartimento di Oncologia Scienze Chirurgiche, Università di Padova, Padova; 3Laboratorio di Microbiologia e Virologia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano. E’ stato eseguito uno studio per valutare l’evoluzione del gene env di HIV-1 in 8 soggetti peditrici in fallimento virologico. HIV1 viremia, HIV-1-DNA provirale quantitativo, determinazione quantitativa dei TRECs, tipizzazione linfocitaria e definizione del numero di linfociti T CD4+ e CD8+ sia memory che naive sono stati controllati per un periodo medio di 14.5 mesi. Nonostante la persistenza dello stato viremico 5 degli 8 bambini hanno mostrato un significativo incremento dei linfociti T CD4+, in particolare sostenuto dall’aumento del numero di cellule CD4+ naive, che correlava con il recupero della funzionalità timica (incremento nel numero di TRECs e di cellule CD8+ naive). Nonostante il target della terapia sia il gene pol non si può escludere che la strettoia genetica determinata dal farmaco modifichi la distribuzione delle varianti del gene env presenti nella quasispecie virale. L’evoluzione del gene env è stata, pertanto, valutata nei campioni di plasma pre- e post-terapia mediante amplificazione, clonaggio, sequenziamento del frammento di env che comprende la regione C2-V5 della gp120. I programmi PAUP*, Phylip e MEGA sono stati utilizzati per analizzare le relazioni filogenetiche e la pressione selettiva esercitata sul frammento C2-V5 e sul V3 loop. Infine, è stato valutato il fenotipo virale conferito al ceppo virale NL4-3 dalla sequenza V3 prevalente in ciascun campione utilizzando un saggio di ricombinazione genetica. I risultati ottenuti indicano un’evoluzione del gene env nella maggior parte dei casi di fallimento virologico evidenziata non solo dal distinto raggruppamento di varianti virali relative ai due campioni in 6/8 bambini ma anche dal livello di selezione positiva esercitata sul gene in 5 di questi 6 soggetti. Inoltre, il rapporto tra la pressione selettiva esercitata sulla sequenza V3 rispetto all’intera sequenza C2-V5 è significativamente più elevato nei bambini che mostrano recupero della funzione immune e non negli altri (p= 0.0253). Infine, l’importanza dell’evoluzione del V3 rispetto al fenotipo virale viene chiaramente dimostrata dalla perdita di varianti X4-tropiche a favore di varianti R5-tropiche in 2 dei casi con documentato recuparo immunologico. In conclusione, il recupero immnologico conseguente alla terapia virolgicamente inefficace è un elemento selettivo che guida l’evoluzione del V3 loop verso varianti virali meno patogene. MODULAZIONE DELL’APOPTOSI NEL CORSO DELLL’INFEZIONE IN VITRO UMANI DA PARTE DI HTLV-1. DI LINFOCITI Claudia Matteucci1, Emanuela Balestrieri2, Beatrice Macchi3, Antonio Mastino2 1Dip. di Med. Sperimentale e Sc. Biochimiche, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma; 2Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina; 3Dip. di Neuroscienze, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma. La soppressione dell’apoptosi dei linfociti è stata proposta come uno dei meccanismi coinvolti nel processo di trasformazione del retrovirus umano human T-cell leukaemia/lymphotropic virus type-1 (HTLV-1). Esistono comunque evidenze sperimentali che HTLV-1 e la sua proteina Tax siano in grado anche di indurre apoptosi in vitro. Allo scopo di dirimere questo apparente paradosso abbiamo monitorato nel tempo l’apoptosi di colture primarie di linfociti di sangue periferico (PBL) di donatori sani infettate in vitro con HTLV-1. I risultati hanno mostrato alti livelli di apoptosi nelle colture infettate con HTLV-1 durante le prime settimane dopo l’infezione. Tale apoptosi non era in relazione alla presenza di cellule non infettate nella coltura, come dimostrato con una metodica in grado di evidenziare simultaneamente apoptosi e presenza di genoma virale mediate un saggio FISH, a livello di singola cellula. Successivamente, si osservava un lento e progressivo decremento dell’ apoptosi nelle colture infette destinate all’immortalizzazione. Se la IL-2 nel mezzo era sostituita dalla IL-4, consentendo alle cellule di essere efficacemente infettate da HTLV-1 ma non immortalizzate, i livelli di apoptosi avevano la tendenza ad aumentare col tempo, anziché diminuire. La cascata delle caspasi era attivata in modo rimarchevole nelle colture di PBL infettate di recente da HTLV-1, ma l’apoptosi era solo parzialmente inibita dagli inibitori delle caspasi saggiati. Anche se l’apoptosi spontanea era relativamente bassa nelle colture di PBL a lungo termine IL-2-dipendenti immortalizzate dall’infezione in vitro con HTLV-1, l’espressione del recettore di morte Fas e la sua funzione erano ben conservate nelle stesse colture. Queste osservazioni forniscono un nuovo razionale per spiegare il duplice effetto di HTLV-1 nel controllo della morte cellulare apoptotica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 83 INIBIZIONE IN VITRO DELLA REPLICAZIONE DI HIV-1 DA PARTE DI UN PNA ANTI-GENE NON FORMANTE TRIPLA ELICA Caterina Delfina Pesce#, Francesca Bolacchi*, Barbara Bongiovanni#, Federica Cisotta*, Cecilia Drapeau*, Domenico Ombres#, Silvia Diviacco°, Franco Quadrifoglio° , Giovanni Rocchi*, Alberto Bergamini* #Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche e *Dipartimento di Sanità Pubblica e Biologia Cellulare, Università di Roma “Tor Vergata”. °Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università di Udine. Nell’infezione da HIV-1 l’uso di molecole anti-gene in grado di inibire l’attività trascrizionale del DNA virale integrato potrebbe rappresentare una efficace strategia per bloccare il virus anche nei reservoirs infettati in forma latente sui quali le terapie antiretrovirali attualmente in uso non hanno effetto. I PNA (peptide nucleic acid), analoghi nucleotidici a scheletro peptidico, sono molecole resistenti a nucleasi e proteasi in grado di formare ibridi estremamente stabili con DNA o RNA. Oligomeri aventi questa struttura sono risultati capaci di controllare l’attività trascrizionale formando complessi stabili a tripla elica con tratti di DNA a doppio filamento a sequenza omopurinica/omopirimidinica; inoltre, a differenza di qualsiasi oligonucleotide sintetico, nella forma di “bis-PNA”, possono operare un processo, indicato come “strand displacement”, avente come risultato la separazione dei due filamenti originari della doppia elica e la formazione di una tripla elica dalla quale rimane escluso il filamento omopirimidinico. In questo studio abbiamo esplorato la possibilità di inibire la trascrizione di HIV-1 mediante interazione specifica del PNA con il DNA duplex provirale senza formazione di tripla elica. A questo scopo un PNA lungo 15 basi, avente come bersaglio una sequenza del DNA provirale, è stato legato covalentemente ad un segnale di localizzazione nucleare (NLS) di natura peptidica e inviato in cellule intatte in coltura. Il PNA è risultato in grado di inibire la replicazione virale in cellule H9 e in macrofagi infettati cronicamente con HIV-1 e di proteggere dalla riattivazione di HIV-1, indotta da mitogeni, linfociti infettati con tre differenti isolati HIV-1 resistenti alla HAART. Tali effetti sono stati dimostrati tramite valutazione della produzione dell’antigene p24 nei sovranatanti delle colture e dell’accumulo virale intracellulare. La marcata riduzione di RNA virale evidenziata, tramite RT-PCR, nelle cellule infette esposte al PNA ha dimostrato che l’oligomero inibisce la replicazione virale agendo a livello trascrizionale. CARATTERIZZAZIONE FUNZIONALE IN VITRO E IN VIVO DELLA PROTEINA ORF-A DEL VIRUS DELL’IMMUNODEFICIENZA FELINA Pistello Mauro1, Bonci Francesca1, Fittipaldi Antonio2, Zoppè Monica3, Michelini Monica1, Matteucci Donatella1, Poli Alessandro4, Flynn J.Norman5, Giacca Mauro2 and Bendinelli Mauro1 1Centro Retrovirus e Sezione Virologia, Dipartimento di Patologia Sperimentale, Università di Pisa, 2Scuola Normale Superiore, 3Istituto di Fisiologia Clinica, Consiglio Nazionale delle Ricerche e 4Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa, Pisa; 5Dipartimento di Patologia Veterinaria, Università di Glasgow, Glasgow, GB. Il gene ORF-A del virus dell’immunodeficienza felina (FIV) codifica per una proteina simile a Tat degli altri lentivirus. Studi precedenti hanno mostrato che ORF-A è necessario per una efficiente replicazione virale in vitro e in vivo, ma il suo ruolo non è stato completamente chiarito. Al fine di analizzare le proprietà biologiche e biochimiche della proteina, abbiamo condotto uno studio in vitro per valutare attività transattivante, localizzazione cellulare ed interazione con proteine cellulari note per interagire specificamente con HIV-Tat. Inoltre, per chiarire il ruolo della proteina in vivo, sono stati saggiati per tropismo cellulare e patogenicità cloni molecolari FIV mutanti in ORF-A. Gli studi in vitro hanno dimostrato che ORF-A ha una debole attività transattivante che aumenta però in presenza di coattivatori trascrizionali di HIV-Tat, è localizzata a livello perinucleare ed il suo dominio basico è importante per l’entrata nella cellula. Nel loro complesso, i risultati suggeriscono che ORF-A non rappresenta un critico transattivatore virale ma potrebbe avere altre funzioni non ancora riconosciute. Tale conclusione è confermata da studi di cinetica di replicazione di cloni molecolari FIV contenenti una diversa combinazione di stop codon e delezioni in ORF-A. In vitro, i cloni mutanti crescevano con efficienza simile al wild-type su fibroblasti renali e macrofagi, mentre non erano in grado di replicare su linee cellulari T e linfoblasti primari. Tre mutanti saggiati in vivo hanno mostrato proprietà di crescita simili a quelle osservate in vitro ed hanno indotto infezioni di minore entità rispetto al clone wildtype. A due anni dall’infezione, inoltre, mentre nel sistema nervoso centrale degli animali inoculati con il clone wild-type è stata osservata marcata gliosi e severa astrogliosi, due cloni mutanti non hanno prodotto alterazioni evidenti ed un terzo clone ha indotto solo una leggera gliosi. Non sono emerse invece differenze significative nei tessuti linfoidi dei diversi gruppi di animali. Questi risultati indicano quindi che ORF-A è importante per la neuropatogenicità di FIV. 84 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA M40401 BLOCCA I PROCESSI MATURATIVI DI HIV E PREVIENE IL DANNO NEURONALE INDOTTO DA MACROFAGI INFETTATI. Pollicita M.1, Ranazzi A.1, Di Santo F.1, Matteucci C.1, Balestra E.1, Mollace E.2, Muscoli C.1, Ceccherini F.1, Caliò R.1, Perno CF.1, Aquaro S.1 1Università di Roma Tor Vergata, Roma; 2Università della Magna Graecia, Catanzaro. HIV aumenta la produzione di composti ossidanti implicati nella replicazione virale ed inducenti apoptosi. I macrofagi (M/M) infettati da HIV producono anioni superossido ed altri fattori solubili ad attività neurotossica responsabili di apoptosi. M40401 è un composto non-peptidico mimetico dell’enzima superossido dismutasi. L’efficacia antiapoptotica di M40401 è stata valutata in cellule neuronali, e studiati l’attività anti-HIV, ed il meccanismo d’azione. Cellule di neuroblastoma umano SH-SY5Y sono state esposte sia ai sovranatanti, sia al virus prodotti da M/M infettati da HIV. L’analisi citofluorimetrica (FACS) ha evidenziato la presenza di apoptosi solo nelle cellule esposte al virus. L’apoptosi cellulare, dopo il 5° giorno, era del 42,87% (p=0,0005), con picco al 6° giorno dallo stimolo, con il 92,77% (p=0,001) di cellule positive. Si è osservato che solo i ceppi con tropismo macrofagico (M-tropic, CCR5 using), ma non i linfocitotropi (T-tropic, CXCR4 using), inducono apoptosi. Il trattamento con M40401 (20uM) ha ridotto l’apoptosi al 18,92% (p<0,001). L’induzione di apoptosi è correlata all’espressione dei corecettori virali. Parallelamente, M40401 è in grado di inibire la replicazione di HIV nei M/M. La concentrazione 30uM riduce del 99% (p=0,001) la replicazione virale misurata come espressione di rilascio di HIV-p24 (ELISA). In accordo con questo dato, M40401 ha inibito la maturazione delle proteine del capside come risulta dal calo dell’espressione intracellulare sia del precursore p55 che della p24 (Immunoblotting). Inoltre, la capacità infettante delle particelle virali prodotte durante il trattamento con M40401 è risultata essere diminuita di oltre un log rispetto al controllo. L’inibizione virale è accompagnata dal blocco della formazione di perossinitriti (nitrotyrosine staining) nei macrofagi infettati da HIV durante il trattamento con M40401 (30 uM). I dati sembrano quindi indicare un’alterazione dei processi di maturazione del virus in presenza di M40401, mediata dal riequilibrio dello stato ossidativo cellulare. I risultati evidenziano l’importanza dello stress ossidativo sia nell’induzione di apoptosi sia nella replicazione virale, e forniscono indicazioni utili per un utilizzo di M40401 nella prevenzione del danno neuronale in corso di infezione da HIV. Inoltre, la capacità di M40401 di inibire la maturazione di HIV suggerisce l’impiego di farmaci SOD-mimetici nella terapia antiretrovirale. IDENTIFICAZIONE E CARATTERIZZAZIONE DI MUTAZIONI DELLA PROTEASI E DELLA TRASCRITTASI INVERSA DI HIV-1 NON ANCORA ASSOCIATE A FARMACO-RESISTENZA V Svicher1, M Santoro1, F Forbici2, C Gori2, A Cenci1, R D’Arrigo2, MC Bellocchi2, S Giannella2, A Bertoli1, A Antinori2, CF Perno1,2 and F Ceccherini-Silberstein1. 1Università di Roma “Tor Vergata”, Italia; 2INMI “L. Spallanzani” di Roma, Italia Scopo: Caratterizzare mutazioni, recentemente riportate in letteratura, presenti nella proteasi (PR) e nella trascrittasi inversa (RT) di HIV-1 il cui ruolo non è ancora noto. Materiali e Metodi: Sono state analizzate sequenze ottenute dal plasma di 457 pazienti naive, 638 trattati con almeno un inibitore della PR e 802 trattati con almeno un inibitore nucleosidico della RT. L’analisi di tali sequenze ha consentito di identificare alcune mutazioni di significato sconosciuto, o comunque finora mai associate a resistenza a farmaci antivirali (PR: T12A, G16E, K20I, K43T, K55R, Q58E, I62V, L63Q, L63S, H69N, I72T, T74S, I85V, Q92K, C95F; RT: K20R, T39A, K43E, K43Q, R83K, K122E, E203K, D218E, V276I, Q278H, R284K, T286A). Il test del ?2 ha consentito di stabilire la significatività delle differenze di frequenza delle mutazioni tra pazienti naive e trattati e la significatività di associazione (p<0,05) delle mutazioni tra di loro e con i farmaci antiretrovirali utilizzati nella pratica clinica. Risultati: (i) Le seguenti mutazioni (con frequenza 0-2% nei naive) aumentano (p<0,05) nei trattati: PR: K43T, K55R, Q58E, T74S, I85V, Q92K, C95F; RT: K43E, K43Q, E203K, D218E, Q278H, R284K; (ii) Alcune mutazioni (gia’ presenti nei naive con frequenza > 2%) aumentano (p<0,05) nei trattati: PR: K20I, I62V, I72T; RT: K20R, T39A, K122E, T286A; (iii) Altre mutazioni sono presenti nei naive, ma diminuiscono (p<0,05) nei trattati: PR: T12A, G16E, L63Q, L63S, H69N; RT: R83K, V276I. Le mutazioni nella PR sono presenti principalmente in pazienti trattati con nelfinavir (T12A, K20I, K20T, Q58E, I62V, L63S, H69N, T74S, I72T, Q92K), con indinavir (G16E, K55R, I85V, C95F) e con ritonavir (K43T), mentre le mutazioni nella RT in pazienti trattati con lamivudina (K20R, K43Q, R83K, D218E, R284K, T286A) e stavudina (T39A, K43E, K122E, E203K, V276I, Q278H). Conclusioni: I dati dei gruppi (i) e (ii) indicano che alcune mutazioni, poco o per nulla tollerate in assenza di terapia, svolgono un ruolo compensatorio (aumento di fitness?) in caso di trattamento antivirale; i dati del gruppo (iii) invece, indicano che alcune mutazioni finora sconosciute potrebbero impedire l’accumulo di mutazioni associate a farmaco-resistenza, e che pertanto tendono a scomparire durante il trattamento antivirale. Studi in vitro potranno verificare le ipotesi suddette. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 85 EFFETTO DEL TRATTAMENTO PROLUNGATO CON “TRIZIVIR” SULL’ATTIVITA’ ANTIVIRALE E LA CONCENTRAZIONE INTRACELLULARE DEGLI ANALOGHI NUCLEOSIDICI. O.Turriziani, P.Pagnotti, I. Solimeo, O.Butera, A. Maffeo, G.Antonelli. Dipartimento Medicina Sperimentale e Patologia, Sezione di Virologia. Università “La Sapienza” Roma E’ noto che l’efficacia di un farmaco antivirale dipende essenzialmente dalla concentrazione che esso raggiunge all’interno della cellula bersaglio. Ne consegue che qualsiasi fattore cellulare che alteri, o più propriamente riduca, la concentrazione del farmaco, può contribuire in modo diretto o indiretto alla riduzione della attività antivirale e terapeutica del composto stesso. Allo scopo di verificare la possibilità che il trattamento prolungato con inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI) possa indurre modificazioni metaboliche cellulari che riducano la concentrazione intracellulare dei farmaci, abbiamo trattato la linea cellulare linfoblastoide CEM con tre NRTI ampiamente utilizzati nel trattamento dell’infezione da HIV e presenti nella preparazione “TRIZIVIR”: zidovudina (AZT), lamivudina (3TC) e abacavir (ABC). Dopo circa 6 mesi di trattamento abbiamo ottenuto una linea cellulare (CEMZLA) con una rilevante resistenza alla attività antivirale dell’AZT (circa 30 volte), una modesta resistenza alla attività del 3TC (circa 5 volte) e completamente sensibile all’attività dell’ABC. La ridotta sensibilità della linea CEMZLA alla AZT è dovuta ad una forte riduzione (circa 200 volte) della attività della timidina chinasi (TK) chinasi, enzima responsabile della formazione di AZT-monofosfato (AZT-MP). Saggi eseguiti allo scopo di misurare la quantità di AZT-TP nelle CEMZLA e nella linea parentale hanno dimostrato che, dopo trattamento con AZT, la linea resistente presenta una concentrazione di AZT-TP, che rappresenta la forma ttiva del composto, 20 volte più bassa di quella rilevata nelle CEM. Il difetto della attività della TK nelle CEMZLA è un meccanismo altamente stabile che non richiede la presenza dei composti per essere mantenuto in quanto, anche dopo 6 mesi di coltura in assenza dei farmaci, le CEMZLA continuano ad avere una attività di TK ridotta. Per quanto riguarda la modesta resistenza al 3TC, non è stato osservata alcuna alterazione dell’enzima citidina chinasi, responsabile della fosforilazione di questo composto. Attualmente sono in corso studi volti a valutare la presenza di eventuali trasportatori di membrana che potrebbero essere responsabili della diminuita sensibilità delle CEMZLA al 3TC. In esperimenti paralleli abbiamo potuto dimostrare che l’ABC da solo non è in grado di selezionare cellule resistenti alla sua attività antivirale mentre l’AZT ed, in minor misura, il 3TC lo sono. Alla luce di queste considerazioni e dei dati presentati nel presente lavoro, è possibile ipotizzare che le vie di attivazione dei vari farmaci che compongono il TRIZIVIR non subiscano interferenze dal trattamento in combinazione e che la capacità di “indurre” resistenza cellulare non è condivisa in ugual misura da tutti gli analoghi nucleosidici. IFN-I COME ADIUVANTE MUCOSALE NELLA VACCINAZIONE INFLUENZALE. L. Bracci, I. Canini , S. Puzelli, P. Sestili, M. Venditti, I. Donatelli , F. Belardelli, E. Proietti. Laboratorio di Virologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma. La produzione di antigeni sempre più specifici e sicuri ma meno immunogenici, ha reso necessaria la ricerca di nuovi adiuvanti per potenziare la risposta immunitaria. In quest’ottica si inseriscono i nostri studi sull’attività adiuvante dell’Interferone di tipo I (IFN-I), una famiglia di citochine tradizionalmente considerate ad attività antivirale. In un recente studio su modelli murini, il sistema IFN-I si è dimostrato indispensabile per il funzionamento di alcuni tra i principali adiuvanti di tipo Th-1 (IFA, CFA or CpG ODN) e un ottimo adiuvante nella vaccinazione sistemica contro l’influenza. In questo lavoro abbiamo approfondito lo studio della capacità adiuvante di IFN-I, somministrandolo intranasalmente insieme al vaccino influenzale (HA), seguendo due diversi protocolli di vaccinazione. Un solo inoculo di vaccino+IFN-I in topi anestetizzati ha protetto il 100% dei topi dall’infezione con dosi letali di virus influenzale, contro un’afficacacia del 50% osservata nei topi trattati con il solo vaccino. Dall’analisi della risposta anticorpale indotta, è emerso che l’IFN di tipo I induce un generale aumento del titolo anticorpale specifico rispetto al solo vaccino, con particolare effetto sulle IgG2a e IgA. Per limitare l’assorbimento dell’antigene alla mucosa nasale, riducendo così peraltro il rischio di danno polmonare, abbiamo messo a punto un altro protocollo di vaccinazione che prevede la somministrazione frazionata (6 dosi da 8ul a 30 minuti di distanza l’una dall’altra) del vaccino o vaccino + IFN in topi svegli. Anche in questo caso l’IFN di tipo I si è dimostrato un ottimo adiuvante, stimolando la produzione di IgA sieriche e in particolare di IgA secretorie a livello della mucosa nasale e polmonare. Dal momento che l’IFN-I è tra le citochine più usate nella pratica clinica, la scoperta di un’attività adiuvante sia sistemica che locale apre ottime prospettive nella ricerca di nuove strategie di vaccinazione. 86 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA UTILITÀ CLINICA DELLA CORRETTA GENOTIPIZZAZIONE DI PAPILLOMAVIRUS UMANI M. A. De Francesco, F. Gargiulo, C. Pollara, L. Terlenghi, M. Gelmi, F. Perandin, Esteban Villanueva P., G. Ravizzola, R. Negrini e N. Manca Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Brescia Le ricerche degli ultimi venti anni hanno dimostrato che più del 90% dei campioni di tessuto prelevato da pazienti affetti da cancro invasivo della cervice uterina contengono DNA di papillomavirus umano (HPV). Questa scoperta ha importanti applicazioni per la prevenzione di questo tumore, che rappresenta il 12% delle neoplasie femminili con un’incidenza di più di 400.000 casi per anno. L’inserimento di indagini per il rilevamento di DNA di HPV nei programmi di screening potrebbe portare ad identificare donne ad alto rischio per lo sviluppo del cancro della cervice e permettere terapie più blande nei casi di anormalità citologiche lievi che non presentano i tipi di HPV correlati allo sviluppo di neoplasie maligne. Poiché la persistenza di una infezione con HPV, definita come presenza di un particolare genotipo di HPV ad alto rischio in due indipendenti campioni cervicali ottenuti ad un intervallo di sei mesi, è il più importante fattore predittivo per lo sviluppo di carcinoma cervicale, l’esatta identificazione dello specifico genotipo di HPV è di particolare utilità clinica. Per genotipizzare i papillomavirus abbiamo eseguito reazioni di PCR con i primers MY09/MY11 e sequenziato il prodotto di amplificazione. Dei 100 campioni clinici analizzati, abbiamo trovato 81 positivi: 70 ad alto rischio (HPV-58, 33, 16, 31, 45, 18, 73, 56, 66, 39, 52, 84) e 11 a basso rischio (HPV-6, 11, 53, 83). Inoltre, abbiamo rilevato che tale indagine diagnostica mostra una buona specificità ed accuratezza. Infatti, sette campioni genotipizzati a basso rischio (HPV 53, 83) erano stati identificati come tipi ad alto rischio in altri test di tipizzazione. ESPRESSIONE DEL GENE INTERFERON-INDUCIBILE IFI16 NEI CARCINOMI A CELLULE SQUAMOSE DEL DISTRETTO CAPO-COLLO: CORRELAZIONE CON LE INFEZIONI DA HPV E CON L’INDICE PROLIFERATIVO Marco De Andrea1,2, Barbara Azzimonti2, Marco Pagano3, Michele Mondini1,2, Guido Monga2, Massimo Tommasino4, Paolo Aluffi2, Santo Landolfo1, Marisa Gariglio2 - (1Dip.to di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università degli Studi di Torino; 2Dip.to di Scienze Mediche, Università del Piemonte Orientale, Novara; 3Dip.to di Chirurgia Patologica,Ospedale San Giovanni, Torino; 4Unit of Infection and Cancer, IARC, Lione, Francia) I papillomavirus (HPV) mucosali ad alto rischio, agenti causali del cancro della cervice e della regione ano-genitale, sono probabilmente coinvolti anche nella eziologia di alcuni carcinomi a cellule squamose del distretto capo-collo (HNSCC, head and neck squamous cell carcinomas). In seguito all’espressione delle oncoproteine E6 ed E7, il virus è in grado di interferire con alcuni meccanismi cruciali per il normale ciclo cellulare, inibendo l’attività di proteine chiave come p53 e pRb. Inoltre, alcuni studi in vitro hanno dimostrato la capacità di tali oncoproteine di controllare la via che porta all’espressione dei geni indotti dall’interferon (IFN). Tra questi, abbiamo dimostrato che IFI16, un membro della famiglia HIN200, non è ristretto alle cellule del sistema ematopoietico, ma è espresso anche in cellule epiteliali ed endoteliali. La sua espressione risulta prominente negli epiteli squamosi stratificati, in particolare nelle cellule basali dei compartimenti proliferanti, per diminuire gradualmente nello strato soprabasale più differenziato. Al fine di determinare se l’espressione di IFI16 fosse in vivo inversamente proporzionale all’attività proliferativa, abbiamo paragonato, tramite analisi immunoistochimica, la reattività per IFI16 in una serie di carcinomi HNSCC, mettendola in relazione con l’indice proliferativo e con l’espressione del regolatore del ciclo cellulare pRb. Inoltre, tramite analisi per PCR, abbiamo valutato la presenza di HPV. L’attività proliferativa, definita tramite marcatura per la proteina Ki67, è risultata così correlata in modo diretto con la differenziazione tumorale e con il grading istologico ed in modo inverso con l’espressione di IFI16 (p<0.05). Inoltre, tumori poco proliferanti, positivi per IFI16, sono risultati positivi anche per pRb. Poiché era già stato dimostrato che le proteine della famiglia HIN200 sono in grado di esercitare un’attività anti-proliferativa, la correlazione tra livello di IFI16, immunoreattività per pRb, basso grading istologico, basso indice proliferativo e presenza di HPV suggerisce che l’espressione di IFI16 possa identificare un gruppo di tumori ad aggressività ridotta. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 87 SEQUENZE DEL GENE E6 E GRADO DI ONCOGENITÀ: CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI HPV RARI O DI RECENTE ISOLAMENTO. Anna Marta Degener*, Consuelo Rizzo*, Alessandra Pierangeli*, Rosita Verteramo°, Ettore Calzolari° e Ferdinando Dianzani *Dip. di Medicina Sperimentale e Patologia, Sezione di Virologia, °Dip. di Scienze Ginecologiche, Università “La Sapienza” e Libera Università Campus Biomedico, Roma I genotipi di Papillomavirus umano (HPV) identificati sono ormai più di 100; tra questi i tipi 16,18,31,33,35,39,45,51,52,56,58,59,66 e 68 sono considerati carcinogeni di gruppo I. Data la scarsità di dati sul potenziale oncogeno dei tipi di recente isolamento e dei ceppi rari, abbiamo analizzato le sequenze dell’oncoproteina virale E6, responsabile della degradazione dell’oncosoppressore cellulare p53, di diversi tipi di HPV, provenienti da campioni clinici nel tentativo di caratterizzarne l’oncogenicità. La pE6 presenta una regione di legame alla p53 ben conservata sia nei tipi ad alto che a basso rischio ed una regione di degradazione con maggiore variabilità; di fatto la degradazione di p53 avviene efficientemente solo nei ceppi oncogeni. Il confronto delle sequenze della pE6 dei genotipi rari o emergenti con la pE6 di HPV ad alto rischio è stata quindi effettuata confrontando le sequenze della regione di degradazione. Sono stati analizzati campioni di cellule esfoliative vaginali prelevate a donne afferenti alla Ginecologia del Policlinico Umberto I, Roma. I campioni idonei sono stati sottoposti a PCR per il gene E6 e parte del gene E7 con 4 coppie di primer degenerati (LCRF1-2-3-4 ed E7R1-2-3-4). I prodotti di PCR purificati sono stati sequenziati e le sequenze confrontate in banca dati per la tipizzazione. Sono stati presi in esame in questo studio isolati dei genotipi di HPV 30, 53, 73, 74, 84, 87, 91 (come esempi di tipi di recente isolamento o rari). In primo luogo è stata allineata la pE6 di HPV16, 18 e 56; nella regione di degradazione di p53 (da C-30 a L-110) sono stati individuati gli amminoacidi coinvolti attivamente in questa funzione. Successivamente sulle sequenze amminoacidiche dei nostri ceppi sono stati evidenziati gli amminoacidi identici, le sostituzioni conservative e quelle semiconservative. I genotipi 73, 74, 53 e 30 presentano sequenze molto simili agli HPV ad alto rischio, mentre le mutazioni ritrovate negli altri isolati analizzati mostrano una maggiore variabilità. Inoltre l’allineamento dei genotipi 84 e 87 anche con HPV6 (a basso rischio) non ha evidenziato un livello di omologia significativo. Dato che una maggiore variabilità di questa regione sembra essere una caratteristica degli HPV a basso rischio, probabilmente gli HPV84 e 87 potrebbero rientrare in questo gruppo. L’analisi molecolare della capacità di degradazione di p53 della proteina E6 dei genotipi rari di HPV potrebbe risultare di valido supporto alla pratica clinica come parametro predittivo del grado di oncogenicità dell’HPV presente nel campione biologico e di valido aiuto nello scelta del trattamento e per il follow up del paziente. TECNICHE DI PCR REAL-TIME E SVILUPPO DI METODI DI CALIBRAZIONE INTERNA PER LA DETERMINAZIONE QUANTITATIVA DEL DNA DI PARVOVIRUS B19. Giorgio Gallinella, Claudia Filippone, Francesca Bonvicini, Stefania Delbarba, Elisabetta Manaresi, Marialuisa Zerbini, Monica Musiani. Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale – Sezione di Microbiologia Università degli Studi di Bologna. La diagnosi di infezione da Parvovirus B19 si avvale in modo determinante della ricerca diretta del DNA virale mediante tecniche di amplificazione molecolare. A questo scopo, le tecniche di PCR real-time offrono vantaggi legati alla rapidità del saggio e alla possibilità di ottenere una valutazione quantitativa del bersaglio virale presente nei campioni in esame. Tali saggi devono essere accuratamente progettati, relativamente al tipo di determinazione quantitativa, se relativa oppure assoluta, e al tipo di calibrazione interna necessaria per una corretta valutazione dei dati. Nel nostro lavoro abbiamo sviluppato due diverse tecniche di PCR real-time e calibrazione interna per la quantificazione del DNA di Parvovirus B19 in campioni di siero o plasma. Sono stati valutati due differenti saggi utilizzando il sistema LightCycler, con rivelazione dei prodotti di amplificazione mediante fluorocromo SybrGreen oppure mediante specifiche sonde oligonucleotidiche FRET, e per ciascun caso sono stati sviluppati diversi sistemi di calibrazione. Nel primo caso è stato utilizzato DNA esogeno non correlato al DNA virale, aggiunto in quantità definita a monte del processo analitico come bersaglio di riferimento. I due bersagli sono stati quindi rivelati in due parallele reazioni di amplificazione utilizzando il fluorocromo SybrGreen e per ciascuno di essi è stato definito un ciclo soglia, invariante rispetto alla quantità di prodotto di amplificazione. L’applicazione di un opportuno modello matematico ha permesso di ottenere una quantificazione relativa del bersaglio virale presente nei campioni in esame rispetto ad un campione a titolo noto. Nel secondo caso è stato utilizzato DNA esogeno competitore rispetto al DNA virale, aggiunto ai campioni a monte del processo analitico. Entrambi i bersagli, virale e competitore, sono stati coamplificati e rivelati mediante emissione FRET di specifiche sonde oligonucleotidiche. La coamplificazione dei bersagli ha permesso una calibrazione interna delle reazioni di amplificazione, mentre una quantificazione assoluta è stata ottenuta con riferimento a curve di calibrazione esterna. L’ottimizzazione di questi protocolli ha portato alla possibilità di rivelare e quantificare correttamente il DNA di parvovirus B19, con un limite di rivelazione di 103 copie/ml. Entrambi i metodi sono stati applicati alla ricerca della presenza di parvovirus B19 in campioni di siero ottenuti nel corso di infezioni croniche, allo scopo di monitorare l’andamento della viremia, ed in campioni di pool di plasma destinati alla produzione di emoderivati, allo scopo di discriminare pool contaminati al di sopra di un valore soglia accettato di 104 UI/ml. 88 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA ATTIVITÀ IMMUNOMODULANTE DI TTV: PRIMA EVIDENZA IN BAMBINI CON PATOLOGIE RESPIRATORIE Fabrizio Maggi1*, Massimo Pifferi2, Elena Tempestini1, Claudia Fornai1, Letizia Lanini1, Elisabetta Andreoli1, Maria Linda Vatteroni1, Silvano Presciuttini1, Mauro Pistello1, and Mauro Bendinelli1. Sez. Virologia e Centro Retrovirus, Dip. di Patologia Sperimentale1, Dip. di Pediatria2, Università di Pisa, Pisa. Il virus TT (TTV) é il prototipo di un vasto gruppo di piccoli virus a singolo filamento circolare di DNA provvisoriamente classificati nel nuovo genere Anellovirus. Caratteristica peculiare di questi agenti è l’elevata frequenza con cui essi si riscontrano nel plasma indicando che la cronicizzazione è un esito molto comune dell’infezione. Poiché il virus è acquisito già nei primi anni di vita, la popolazione infantile rappresenta il campione più indicato per investigare i possibili effetti dell’infezione primaria da TTV sul sistema immunitario. Recentemente, mediante metodi di PCR real-time e genogruppo-specifica, abbiamo caratterizzato il TTV presente in un gruppo di 157 bambini al di sotto dei due anni di età ricoverati per malattie respiratorie acute (MRA) ed abbiamo dimostrato che il tratto respiratorio rappresenta un importante sito di replicazione primaria del virus. Inoltre, pur non trovando diretta evidenza che TTV sia la causa di MRA, i titoli del virus nel naso e nel plasma erano costantemente più elevati nei pazienti con broncopolmonite (BP) che in quelli con patologie più lievi, suggerendo che il virus possa avere un ruolo nella malattia respiratoria (J Virol, 2003). Abbiamo ora investigato i rapporti fra TTV e sottopopolazioni linfocitarie in 40 bambini selezionati casualmente, 18 dei quali con diagnosi di BP. I risultati hanno mostrano che i titoli di TTV nel naso e nel plasma sono correlati negativamente con la percentuale di linfociti CD3 e CD4 e correlati positivamente con la percentuale di linfociti CD19 circolanti e che tali correlazioni non dipendono dalla gravità della patologia respiratoria osservata. Inoltre, bambini infettati con certi genogruppi di TTV hanno mostrato più basse percentuali di linfociti CD3 e CD4, lasciando supporre differenti potenziali patogeni fra le diverse forme genetiche del virus. I virus del gruppo TT sembrano dunque in grado di alterare i rapporti fra le differenti popolazioni linfocitarie dell’ospite infettato, esibendo un potenziale effetto immunomodulante. Ulteriori indagini sono comunque necessarie per valutare se questo effetto di TTV possa essere clinicamente rilevante. * Autore corrispondente: Sezione Virologia e Centro Retrovirus, Dipartimento di Patologia Sperimentale, Università di Pisa, via San Zeno 37, I-56127 Pisa. Tel: +39 050 221.3677. Fax: +39 050 221.3639. E-mail: [email protected]. STATO FISICO ED ESPRESSIONE DI HPV NEI CARCINOMI CERCICALI. * Pierpaolo Paba, *Marco Ciotti, *Arrigo Benedetto, ‡Kari Syrjänen, ‡Margherita Branca and *Cartesio Favalli *Laboratorio di Microbiologia e Virologia Clinica, Università di Tor Vergata, Roma; ‡Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica, Istituto Superiore di Sanità (ISS), Roma, ITALIA. E’ noto che alcuni tipi oncogenici di Papillomavirus umani (HPV) sono agenti eziologici primari del carcinoma della cervice uterina. L’oncogenicità dell’HPV è legata alla sua capacità di interferire con il ciclo cellulare attraverso le proteine E6 ed E7 che inattivano rispettivamente p53 e pRb. Lo scopo del presente studio era quello di rilevare e tipizzare l’HPV nei casi di cancro della cervice uterina e di studiarne lo stato fisico. A questo scopo abbiamo analizzato 102 campioni di cervice uterina fissati in paraffina provenienti dall’archivio del Laboratorio di Anatomia Patologica dell’Università di Trieste. La ricerca del genoma dell’HPV è stata eseguita attraverso l’uso di tre set di primers: MY09/MY11, GP5+/GP6+, SPF.I suddetti di primers amplificano frammenti di lunghezza diversa del gene capsidico L1. Sul totale di 102 campioni 33 (32,3%) sono risultati positivi con MY09/MY11. I primers SPF hanno portato la positività al 75,4% (77 casi positivi). Tra i 24 campioni negativi sia con MY09/MY11 che con SPF 12 (50%) si sono amplificati utilizzando i primers GP5+/GP6+. La tipizzazione è stata effettuata utilizzando la tecnica dell’ibridazione inversa (Innolipa). Nel 73% (57 casi) dei positivi si è riscontrato un solo genotipo virale mentre nel 24,3% (19 casi) erano presenti contemporaneamente da 2 a 4 virotipi diversi. L’HPV 16 è stato isolato nel 67,1% di tutte le infezioni, seguito poi dall’HPV 33 (15,7%), HPV 18 (10,5%) e dagli altri HPV (31, 45, 58, 51, 52, 54, 56). Il 33% delle donne con infezioni singole ed il 36,8% con infezioni multiple presentavano metastasi a distanza. Altri 6 campioni negativi con i primers per il gene L1 risultavano positivi con primers specifici per i geni E6 ed E7 dei papillomi 16 e 18. In conclusione quindi si può affermare che il 90,2% dei carcinomi analizzati conteneva il DNA di HPV. Il fenotipo metastatico si associa sia ai casi con singole infezioni e multiple. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 89 SENSIBILITA’ DEL VIRUS DELLA SARS AGLI INTERFERONI Carolina Scagnolari1, Francesca Bellomi1, Paola Di Marco1, Gabriella De Vito1, Giuseppina Stillitano1, Elisa Vicenzi2, Filippo Canducci3, Massimo Clementi3, Guido Antonelli1. 1-Dip Medicina Sperimentale e Patologia, Sezione di Virologia, Università “La Sapienza”; 2- Unità di “Immunopatogenesi dell’AIDS” , Istituto Scientifico San Raffaele, Milano; 3- Laboratorio di Microbiologia e Virologia , Università “Vita-Salute” e Istituto Scientifico San Raffaele, Milano La “severe acute respiratory syndrome” (SARS) è una malattia infettiva causata da un virus, recentemente identificato, appartenente alla famiglia Coronaviridae. Il quadro clinico della SARS, a differenza delle comuni infezioni umane da coronavirus, puo’ comportare una grave compromissione del tessuto polmonare che in una certa percentuale dei casi può essere associata ad esito fatale. Attualmente, nonostante numerosi agenti antivirali siano in fase di sperimentazione, non esiste una terapia efficace per il trattamento delle infezioni da SARS Coronavirus (SARSCo-V). Alla luce delle considerazioni sopra esposte, l’obiettivo che ci siamo proposti è stato quello di esaminare, in vitro, la sensibilita’ del SARSCo-V agli interferon (IFN) alfa, beta, gamma. In particolare la valutazione dell’attività antivirale degli IFN nei confronti del virus della SARS è stata effettuata infettando le cellule di rene di scimmia verde africana (VERO) con il virus della SARS (MOI: 0,1 PFU/cellula ; il ceppo utilizzato e’ l’HSR1 isolato nell’Aprile 2003 a Milano da un paziente proveniente dall’Asia) e misurando il valore della dose inibente il 50% (IC50) della replicazione virale. Esperimenti analoghi sono stati eseguiti con il virus dell’encefalomiocardite (EMC) al fine di paragonare la sensibilità agli IFN del SARSCo-V con un virus IFN-sensibile. I risultati preliminari, indicano che gli IFN presentano, in vitro, una attività antivirale verso il SARSCo-V, sebbene le concentrazioni di IFN alfa, beta, gamma necessarie per ottenere l’inibizione della replicazione virale siano significativamente maggiori rispetto a quelle utilizzate per virus EMC. L’IFN beta1b sembra essere più efficace nell’inibire la replicazione del SARS Co-V rispetto agli altri IFN testati (IFN alfa2b, IFN gamma); la combinazione di IFN-beta1b e IFN gamma sembra particolarmente efficace nell’inibire la replicazione di SARSCoV. In conclusione nell’insieme i risultati mostrano che il virus della SARS presenta una modesta sensibilità all’azione antivirale degli IFN se paragonata a quella di un virus notoriamente sensibile all’IFN. Il significato biologico e clinico-terapeutico di tali osservazioni è ancora oggetto di studio. INFEZIONE DA PARVOVIRUS UMANO B19 IN COLTURE PRIMARIE DI FIBROBLASTI K.Zakrzewska, A.Azzi, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze; R.Cortivo, C.Tonelli, S.Panfilo, G.Abatangelo, Dipartimento di Istologia, Microbiologia e Biotecnologie Mediche, Università di Padova; C.Ferri, Dipartimento di Reumatologia, Università di Modena Le principali cellule bersaglio dell’infezione da parvovirus B19 sono i progenitori eritroidi. Su tali cellule sono espressi sia l’antigene P, da tempo noto come recettore per il parvovirus B19, che a5b1 integrine, recentemente individuate come co-recettore, essenziale per l’ingresso del virus. Queste molecole sono tuttavia presenti sulla superficie di diverse altre cellule, la cui infezione potrebbe spiegare in parte l’ampio spettro di malattie associate all’infezione da B19. E’ inoltre noto che la permissività delle cellule per la replicazione virale è condizionata dalla presenza di fattori cellulari espressi prevalentemente nelle cellule in fase S. Studi precedenti, anche del nostro gruppo, hanno dimostrato che i fibroblasti in vivo possono essere infettati da parvovirus B19. Abbiamo quindi intrapreso uno studio volto a chiarire la natura del rapporto virus-cellula, B19-fibroblasti, e le conseguenze dell’infezione a livello cellulare. Colture primarie di fibroblasti umani, ottenuti da prepuzio, sono state incubate in presenza di siero viremico, contenente una elevata concentrazione di DNA virale la cui infettività era stata dimostrata e titolata in cellule UT7 Epo. All’inizio dell’infezione (tempo 0) e dopo 1,2 e 6 giorni dall’infezione le cellule sono state raccolte e sottoposte ad estrazione degli acidi nucleici. Si è proceduto quindi alla ricerca dei marcatori di infezione, rappresentati dal DNA virale e dagli mRNA sia per la proteina non strutturale NS1 che per la proteina capsidica VP1. Non è stato dimostrato un aumento significativo del DNA virale nelle cellule infettate, superiore ad un logaritmo tra il tempo 0 e 1,2 e 6 giorni. La ricerca degli mRNA sia per NS1 che per VP1 è invece risultata positiva dopo 1,2 e 6 giorni. Prove preliminare non depongono per la produzione di particelle virali infettanti nelle colture di fibroblasti infettate in vitro, che risulterebbero quindi suscettibili ma scarsamente permissive per la replicazione virale. 90 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA INIBIZIONE DELLA REPLICAZIONE DI HCV MEDIANTE ESPRESSIONE INTRACELLULARE DI UN ANTICORPO MONOCLONALE UMANO RICOMBINANTE DIRETTO CONTRO LA PROTEINA VIRALE NS3 R.Burioni1, N. Mancini1,2, F. Canducci2, S. Carletti2, A. Grieco1, M. Perotti1, G. Serafini1, E. Berardinelli1, P.E. Varaldo1 , S.Dash3 e M. Clementi2 1 Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marche, Ancona 2 Università “Vita-Salute San Raffaele”, Istituto Scientifico San Raffaele, Laboratorio di Microbiologia, Diagnostica e Ricerca San Raffaele, Milano 1Department of Pathology, Tulane University School of Medicine, New Orleans, USA L’immunizzazione intracellulare, ottenuta esprimendo all’interno delle cellule anticorpi in grado di inibire funzioni cruciali di virus patogeni, rappresenta una strategia antivirale innovativa. La proteina NS3 (NS3/HCV) del virus dell’epatite C (HCV), che agisce come proteasi, elicasi ed NTPasi nella cellula infettata, rappresenta un bersaglio ideale per un simile approccio, considerato che le sue funzioni sono indispensabili per la replicazione del virus. Il nostro lavoro è stato finalizzato alla valutazione dell’inibizione delle funzioni enzimatiche di NS3/HCV da parte di un frammento Fab di anticorpo monoclonale umano (NS3-c7) specifico per NS3 e derivato dal repertorio immune di un paziente HCV positivo. Successivamente è stata valutata l’inibizione della replicazione di HCV in cellule coltivate mediante espressione intracellulare dell’anticorpo IgG1 derivato dal frammento anticorpale in questione. Il gene codificante per NS3 è stato amplificato mediante PCR da un clone di cDNA ed è stato espresso in E.coli. La proteina così prodotta è stata purificata e di essa è stata saggiata in vitro l’attività elicasica ed ATPasica in presenza ed in assenza di Fab c7 purificato. Utilizzando i geni della regione variabile del Fab NS3-c7 è stato costruito un vettore in grado di esprimere una IgG1 in cellule HepG2 transfettate ed è stata saggiata in un modello molecolare di replicazione di HCV la capacità inibitoria dell’anticorpo intracellulare mediante la metodica di ribonuclease protection assay (RPA). I risultati hanno mostrato come l’anticorpo NS3-c7 inibisca l’attività elicasica senza influenzare quella NTPasica. L’anticorpo espresso intracellularmente come IgG1 contrasta la replicazione di HCV in un modello cellulare come dimostrato dalla diminuzione dell’intermedio replicativo di HCV. HUMAN HERPESVIRUS 6 U94/REP INHIBITS VIRAL REPLICATION Caselli E., Bracci A., Galvan M., Rotola A., Cassai E., and Di Luca D. Department of Experimental & Diagnostic Medicine, Section of Microbiology, University of Ferrara, Ferrara, Italy. E-mail: [email protected] Human herpesvirus 6 (HHV-6) is the causative agent of exanthem subitum, and its reactivation from latency has been associated to severe pathologies correlated to immunosuppression. Several evidences suggest that the gene U94/rep plays an important role in viral latency. In fact PBMCs of latently infected individuals transcribe U94 mRNA in the absence of other viral messengers, the presence of U94/Rep in specifically transformed cell lines inhibits HHV-6 superinfection, and amplicons containing lytic replication origin do not replicate in the presence of U94/rep. U94/rep represents a unique characteristic of HHV-6 genome, having no homologous counterpart in other members of the herpesvirus family; nevertheless its function is still unclear. With the aim to analyze its biological function, the full length gene was cloned and expressed in a prokaryotic system. The protein was purified under denaturing conditions and characterized by immunoblotting, with an antiserum obtained by specific DNA-immunization. The purified protein was shown to react in ELISA and Western blot with HHV-6 positive human sera. When added to the culture medium of cell cultures infected with different human herpesviruses, it significantly inhibited the production of HHV-6 (both variant A and B), in a dose-dependent fashion. The presence of U94/Rep also inhibited HHV-7 production, although this virus does not encode a U94/rep homologous. By contrast, no effect was detected upon HSV-1 replication. These results suggest that U94/Rep has a crucial role in the regulation of HHV-6 replication. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 91 IMMUNIZZAZIONE GENETICA NEI CONFRONTI DI BOVID HERPESVIRUS-1. PROVE PRELIMINARI ESEGUITE SUL VITELLO. Castrucci G., Ferrari M.*, Amici A.**, Petrini S.**, Tosini A.*, Salvatori D.**, Sardonini Q.*** Università di Perugia; *Istituto Zooprofilattico Sperimentale, Brescia; **Università di Camerino (MC); ***A.S.L.1, Pesaro, Distretto di Novafeltria. RIASSUNTO È stato saggiato sul vitello il potere immunogeno di un vaccino DNA nei confronti di Bovid herpesvirus-1 (BHV-1). Il vaccino era costituito dalla forma antigenica priva del determinante di transmembrana codificata dal gene gD di BHV-1, inserito nel DNA di un plasmide di uno stipite di E.coli. Sono stati vaccinati 9 vitelli per le vie intramuscolare (i.m.), intradermica (i.d.) e intranasale (i.n.), utilizzando 3 vitelli per ciascuna via con concentrazioni da 500 mg (i.m.) a 250 mg (i.d. e i.n.). Come controllo un vitello per ciascuna delle vie menzionate veniva inoculato con il solo vettore plasmidico. Sono stati eseguiti tre interventi a distanza di 20 giorni l’uno dall’altro, sia con il vaccino che con il vettore plasmidico. Dopo 79 giorni dal primo intervento vaccinale, i 12 vitelli dell’esperimento, unitamente a 3 vitelli vergini sono stati infettati con BHV-1 virulento. Dai risultati ottenuti si deduce quanto segue. Il vaccino non ha protetto gli animali nei confronti dell’infezione sperimentale conferita con BHV-1. Tuttavia, nei vitelli inoculati i.m. è stata evidenziata sieroconversione significativa verso BHV-1 a 21 giorni dalla vaccinazione. Negli stessi vitelli, dopo l’infezione il titolo degli anticorpi neutralizzanti verso BHV-1 ha subito un incremento di circa 4 log2. La comparsa di anticorpi per BHV-1, sia nei vitelli vaccinati per le vie i.d e i.n., come nei controlli, è stata osservata per la prima volta dopo 14 giorni dall’infezione. Inoltre, la durata della eliminazione del virus da parte dei vitelli vaccinati è stata più breve rispetto ai controlli. I risultati esposti forniscono lo spunto per la esecuzione di ulteriori indagini sul vaccino DNA impiegato. Tali indagini prevedono un perfezionamento della metodologia, come ad esempio un inoculo più consistente e, allo stesso tempo la scelta della via i.m. per la somministrazione del vaccino. HHV-6 MODULA LA PRODUZIONE DI CHEMOCHINE PROINFIAMMATORIE IN COLTURE CELLULARI PRIMARIE DI ORIGINE ENDOTELIALE S. Fiorentini1, D. Di Luca2, M. Comar3, A. Caruso1 1Cattedra di Microbiologia, Università di Brescia, P.le Spedali Civili 1, 25123 Brescia 2Cattedra di Microbiologia, Università di Ferrara, via Borsari 46, 44100 Ferrara 3Istituto di Igiene, Università di Trieste , via dell’Istria 65/1, 34137 Trieste HHV-6 è un b-herpesvirus in grado di infettare cellule di diversa origine tissutale. Questo virus è stato messo in relazione con diverse patologie, tutte caratterizzate dalla presenza di processi infiammatori indotti da una alterata produzione di chemochine. Nel nostro studio abbiamo dimostrato che il ceppo virale U1102 è capace di infettare in maniera persistente cellule endoteliali (ECs) sia derivate da tessuto fetale (HUVEC, Human umbilical veins endothelial cells) che da tessuto adulto macrovascolare (ECs aortiche) e microvascolare (di derivazione cardiaca) senza indurre effetti citopatici evidenti. L’amplificazione del genoma virale tramite in situ PCR ci ha permesso di verificare la presenza del virus all’interno delle cellule 3, 7 e 14 giorni dopo l’infezione. Ad ognuno dei tempi presi in esame abbiamo messo in evidenza che le sequenze virali erano presenti nel 20% delle HUVEC, nel 10% delle cellule aortiche e soltanto nell’1% delle cellule delle ECs microvascolari. Indipendentemente dall’origine tissutale delle ECs, l’infezione con HHV6 incrementava fortemente la loro capacità di produrre IL-8 ed MCP-1 ed induceva inoltre la sintesi de novo della chemochina RANTES, con differenze significative tra la produzione osservata per le cellule aortiche e quelle microvascolari. Abbiamo infatti osservato che le colture di cellule microvascolari infette esprimevano elevate quantità di RANTES, nonostante la loro minor suscettibilità al virus rispetto alle altre cellule prese in esame. Abbiamo inoltre dimostrato che per la produzione di chemochine era necessario avere un genoma virale attivo, poiché il virus inattivato con radiazioni UV non induceva né la sintesi di RANTES né la iperproduzione di IL-8 e MCP-1. La loro produzione veniva invece indotta anche in assenza di replicazione virale attiva. Le ECs infettate con HHV-6 esprimono e rilasciano RANTES nonostante la presenza nelle colture infette dei trascritti virali per U51, gene virale che codifica una molecola “chemokine receptor-like” precedentemente dimostrata iin grado di sequestrare RANTES in modo attivo e di renderlo indisponibile per la secrezione. Nel loro insieme i nostri dati mettono in evidenza come HHV-6 possa svolgere un ruolo chiave nell’alterare la biologia dei sistemi endoteliali e nello sviluppo di processi infiammatori. 92 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA LA PROTEINA M45 DEL CITOMEGALOVIRUS MURINO NON È UNA SUBUNITÀ FUNZIONALE DELLA RIBONUCLEOTIDE REDUTTASI MA È ESSENZIALE PER LA PATOGENESI 1Lembo D., 1Donalisio M., 1Cornaglia M., 2Koszinowski U., 3Thelander L., 1Landolfo S. 1Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università degli Studi di Torino 2Ludwig Maximilians University, Munich 3Department of Medical Biochemistry and Biophysics, Umea University. La ribonucleotide reduttasi (RNR) è un enzima fondamentale per la sintesi del DNA in quanto catalizza la riduzione dei ribonucleotidi in desossiribonucleotidi (dNTP). Esso è costituito dall’associazione delle subunità R1 e R2 la cui espressione è strettamente regolata dalla progressione del ciclo cellulare. Gli herpesvirus appartententi alle sottofamiglie alfa e gamma codificano per entrambe le subunità enzimatiche ottenendo quindi un adeguato rifornimento di dNTP anche in cellule non proliferanti. Al contrario, i beta-herpesvirus, tra cui il citomegalovirus (CMV), codificano esclusivamente per un omologo della subunità R1, non esprimendo pertanto una RNR funzionale. La nostra ricerca si è proposta di chiarire come il CMV ottenga livelli di dNTP sufficienti per la propria replicazione in cellule non proliferanti e di definire la funzione della subunità R1 virale, utilizzando come modello sperimentale il CMV murino (MCMV). Il gene M45 di MCMV codifica per una proteina che mostra una parziale omologia con le subunità R1 di altri herpesvirus. Tuttavia, l’assenza di alcuni residui catalitici ritenuti fondamentali per l’attività enzimatica rende improbabile che tale proteina possa comportarsi come una subunità funzionale. Gli studi di espressione e di localizzazione intracellulare dimostrano che la proteina M45 è rilevabile a partire da 12 ore dall’infezione, localizzandosi nel citoplasma della cellula infetta. Inoltre, essa è associata con la particella virale. I saggi enzimatici condotti in vitro dimostrano che la proteina M45 non è un omologo funzionale di una subunità R1 e non altera l’attività e il controllo allosterico della RNR cellulare. Per replicarsi in cellule quiescenti il virus ha evoluto la capacità di stimolare l’espressione e l’attività dell’enzima cellulare. Virus mutanti in cui il gene M45 è stato inattivato presentano una ridotta crescita in vitro, non si replicano negli organi bersaglio dei topi Balb/c e non uccidono i topi immunodeficienti SCID. Questi risultati suggeriscono che l’M45 abbia acquisito durante l’evoluzione una nuova funzione indispensabile per la replicazione virale e la patogenesi in vivo. VALUTAZIONE DEL SISTEMA REAL-TIME PCR “MADE IN HOME” PER UNA DIAGNOSI QUANTITATIVA RAPIDA E SENSIBILE DEL VIRUS EPSTEIN-BARR. Perandin F., De Francesco M., Terlenghi L., Pollora P., Esteban Villanueva P., Gargiulo F. e Manca N. Dipartimento di Diagnostica di Laboratorio-Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Brescia Il Virus Epstein-Barr (EBV) è un virus ad ampia diffusione nell’uomo con tropismo per i linfociti B. E’ l’agente eziologico della mononucleosi infettiva ed è associato a numerose patologie di interesse umano quali il carcinoma nasofaringeo, il linfoma di Burkitt e numerosi linfomi a carico delle cellule di tipo B in pazienti immunosoppressi. Dopo l’infezione primaria, il virus permane nell’organismo in fase latente, per cui è necessario per la diagnosi di attiva e persistente infezione da EBV, poter disporre di un sistema rapido e sensibile per quantificare il virus presente nell’individuo. Lo scopo di questo studio è quello di mettere a punto e valutare un sistema di Real-time PCR quantitativa altamente specifica e sensibile per quantificare il numero di copie di EBV presente nei campioni clinici. L’analisi è stata eseguita su DNA estratto da: 50 campioni di sangue intero di donatori, 5 lineee cellulari immortalizzate EBV positive ottenute nel nostro laboratorio e da sovranatante di 7 colture cellulari infettate con virus erpetico HSV-1 e HSV-2. Con l’impiego dello strumento ABIPRISM 7700 è stata amplificata la regione Bam HI-W e Bam HI-K, codificante rispettivamente per la regione del promotore e per EBNA-1. La reazione di PCR quantitativa in Real-time si è dimostrata altamente sensibile e specifica. Infatti tutte le 7 colture di HSV-1 e HSV-2 sono risultate negative, solo 5 campioni di donatori hanno dato una debole positività, permettendoci di stabilire il cutoff a 4x10^4 genomi virali/ml. Tutte le linee cellulari EBV immortalizzate presentavano il virus con un range di 5x10^4 / >4x10^5 genomi virali/ml. Il sistema risulta perciò essere sensibile e specifico, di facile impiego da parte di qualsiasi operatore e rapido, poiché consente di fare una quantificazione in 2hr. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 93 VALUTAZIONE DELLA PRESENZA DI IMMUNOCOMPLESSI CIRCOLANTI IN PAZIENTI HCV POSITIVI F.Bambacioni1, E. Riva1, F. Bellomi2, F. Abbruzzese1, F. Maggi3, G. Antonelli2, F. Dianzani1. 1Università Campus Bio-Medico, 2Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università La Sapienza, Roma 3Dipartimento di Patologia Sperimentale, Pisa, Italia Lo scopo principale di questo studio è valutare se alcuni marcatori dell’ospite, soprattutto la presenza di immunocomplessi circolanti (IC), possano essere correlati con il decorso dell’infezione cronica del virus HCV ed in particolare con i marcatori virologici dell’infezione. Abbiamo quindi valutato la presenza di IC in 34 soggetti con infezione cronica da HCV, eterogenei per genotipo e mai sottoposti a terapia. Il genotipo di HCV è stato identificato tramite INNO-LIPA HCV II. Gli IC sono stati isolati dal plasma in seguito ad adsorbimento su biglie magnetiche rivestite con proteina A, capace di legare il frammento Fc di IgG. La quota di virus adsorbito, e non, è stata valutata determinando quantitativamente l’HCV-RNA legato ad ogni singolo passaggio sulle biglie o presente nel campione raccolto dopo l’ultimo adsorbimento. I risultati mostrano che la maggior parte del virus risulta legato ad anticorpi in forma di IC circolanti, senza sostanziali differenze per quanto riguarda i genotipi 1b, 2a/2c e 3a. Al contrario, una minore quantita’ di IC è stata rilevata nel caso del genotipo 4, dove è possibile infatti ritrovare il virus libero non associato ad anticorpi in 6 campioni su 10 analizzati, suggerendo così una correlazione tra genotipo di HCV e quantita’ di IC. Inoltre la carica virale al “baseline” non sembra correlare con la quantità di IC. Al fine di identificare gli epitopi virali riconosciuti dagli anticorpi, gli IC sono stati sottoposti ad analisi tramite INNO LIA HCV Ab, in seguito a dissociazione acida. Gli anticorpi legati agli IC sono stati confrontati con quelli presenti nel campione di partenza. La reattività relativa alle diverse proteine di HCV è risultata invariata in termini qualitativi e moderatamente ridotta in termini quantitativi negli anticorpi ottenuti dopo dissociazione degli IC. Rimangono attualmente in corso di studio le analisi molecolari volte a caratterizzare la variabilità del virus circolante e di quello presente negli IC. Riteniamo che lo studio della presenza e della frequenza di IC nell’infezione da HCV nonché la loro caratterizzazione “ex vivo” possa avere importanti risvolti patogenetici soprattutto se si considera che l’assenza di un sistema efficace di infezione “in vitro” ha reso fino ad oggi difficile lo studio degli anticorpi neutralizzanti anti-HCV e la loro caratterizzazione. INFEZIONE ATTIVA DA CYTOMEGALOVIRUS: DIAGNOSI MICROBIOLOGICA MEDIANTE RICERCA DI ANTIGENI VIRALI (PP65) E REAL-TIME PCR. Rosaria Santangelo, Stefania Manzara, Rosalia Graffeo, Simona Marchetti, Alessia Siddu, Riccardo Torelli, Loredana Della Monica, Paola Cattani e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Una caratteristica comune a tutti gli Herpesvirus è quella di stabilire infezioni persistenti, nelle quali lo stato di latenza può essere interrotto da riattivazioni del ciclo replicativo virale. In particolare, nel caso del Cytomegalovirus (CMV), la fase attiva dell’infezione, conseguente ad infezione primaria o a riattivazione, può rappresentare un’importante causa di morbilità e mortalità, soprattutto in determinate condizioni cliniche. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di confrontare e valutare le metodiche diagnostiche attualmente disponibili per la determinazione di un’infezione attiva da CMV. A tal fine, sono stati analizzati 152 campioni di sangue provenienti da pazienti ricoverati presso i reparti di Ematologia e Trapianti d’Organo del Policlinico “A. Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Per la ricerca del CMV sono state utilizzate tre differenti metodiche: la ricerca di antigeni virali (pp65) nel sangue periferico (antigenemia per CMV), la determinazione qualitativa del DNA virale mediante PCR e la determinazione della carica virale mediante Real-Time PCR. Dei 152 campioni pervenuti, 94 hanno permesso l’esecuzione dell’antigenemia per CMV ed è risultato positivo per la presenza di antigeni virali il 21,3% dei campioni. Un’aliquota di ciascuno dei 152 campioni è stata sottoposta ad estrazione del DNA. Mediante PCR qualitativa, DNA di CMV è stato riscontrato in 57 (37.5%) campioni. La determinazione quantitativa (Real-Time PCR) ha dato risultato positivo nel 32.9% dei campioni, mostrando una sensibilità, per le due metodiche, pressoché sovrapponibile. I risultati ottenuti con la Real-Time sono stati quindi confrontati con quelli ottenuti dall’antigenemia ed hanno evidenziato una significativa corrispondenza tra i due esami. Per i 58 campioni con un numero di cellule insufficiente per eseguire correttamente l’antigenemia, i risultati ottenuti dalla RealTime PCR sono stati valutati rispetto a quelli della PCR qualitativa. L’analisi dei risultati ottenuti evidenzia i vantaggi di una metodica molecolare quantitativa (Real-Time PCR) che può rappresentare una valida alternativa, soprattutto nei casi in cui il campione potrebbe non essere idoneo (pazienti immunocompromessi), per l’esecuzione dell’antigenemia, esame che, per altro, presenta una significatività indiscutibile per l’individuazione di un’infezione attiva da CMV. 94 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA MSRV (MULTIPLE SCLEROSIS-ASSOCIATED RETROVIRUS) E’ PRODOTTO, E MODULATO DA CITOCHINE, IN VITRO SOLO DA LINFO-MONOCITI DI SOGGETTI MSRV-POSITIVI E NON DA QUELLI DI SOGGETTI MSRV-NEGATIVI: IMPLICAZIONI PATOGENETICHE E VIROLOGICHE. Serra C*, Mameli G* , Arru G, Sotgiu S #, Dolei A* * Sez.Microbiologia Sperim. e Clin., Dip.Scienze Biomediche; #Clinica Neurologica,Univ. Sassari. La sclerosi multipla (SM) è una malattia infiammatoria demielinizzante cronica del sistema nervoso centrale, la cui patogenesi origina dall’interazione tra fattori genetici e ambientali, che determinano l’insorgere di una complessa risposta (auto)immunitaria. Dei virus sono coinvolti nei meccanismi di innesco e di progressione della MS, tra i quali l’MSRV (Multiple Sclerosis-associated RetroVirus), appartenente alla famiglia HERV-W dei retrovirus endogeni umani, con proprietà gliotossiche, superantigeniche e fusogeniche, capace di produrre virioni extracellulari infettanti. Abbiamo recentemente dimostrato (1) che la forma extracellulare dell’MSRV è presente nel plasma del 100% dei pazienti affetti da MS e nel 12% dei controlli sani di etnia sarda. La presenza di tale virus nel liquor è legata alla progressione temporale della malattia essendo riscontrabile nel 50% dei pazienti all’esordio e nel 100% dei pazienti con storia clinica di MS superiore ai quattro anni. Un nostro studio longitudinale (2) di tre anni, condotto su pazienti con MS attiva, ha mostrato che, mentre i pazienti che all’inizio dello studio avevano un liquor MSRV(-), presentano un decorso di SM stabile, i pazienti che all’inizio dello studio avevano un liquor MSRV(+) mostrano all’esame clinico dopo tre anni un decorso maggiormente disabilitante, che aveva richiesto trattamenti farmacologici. Allo scopo di chiarire se MSRV abbia un ruolo nella patogenesi della MS, dato che le citochine hanno un ruolo chiave nell’innesco e nella progressione della MS, abbiamo effettuato un studio in vitro sull’influenza sul rilascio dell’MSRV da parte di alcune citochine, di cui si sa che in vivo sono o dannose o benefiche per il decorso della malattia. Sono state ottenute cellule mononucleate circolanti (PBMC) da donatori sani, positivi o negativi per MSRV extracellulare circolante, e sono state trattate in coltura con mitogeni e/o citochine. I risultati (3) hanno evidenziato che i PBMC provenienti da donatori MSRV(+) rilasciano MSRV in coltura; il virus si accumula nel terreno in funzione del tempo e dell’attivazione cellulare da parte di mitogeni. Le citochine proinfiammatorie nocive nella MS, quali TNF-?, IFN-?, IL-6 e IL-4, stimolano la produzione di MSRV, in modo dose-dipendente, mentre l’IFN-?, che viene usato in terapia, ha un potente effetto inibitorio su MSRV. Sorprendentemente, i PBMC di soggetti MSRV(-) non producono virus extracellulare, né spontaneamente, né dopo trattamento con citochine, e non si osserva neanche trascrizione di RNA virale intracellulare. Benché non sia stato ancora definito il ruolo dell’MSRV nella MS, i dati ottenuti mostrano un interessante parallelismo tra gli effetti mediati dalle citochine sulla produzione di MSRV in vitro e gli effetti esercitati dalle stesse sulla MS in vivo. Ciò potrebbe indicare MSRV come un possibile nuovo bersaglio terapeutico nella MS. L’assenza di espressione e di rilascio virale da cellule di soggetti MSRV(-), anche dopo stimoli, potrebbe suggerire che MSRV sia un virus esogeno, e non endogeno. Dolei et al. Multiple sclerosis-associated retrovirus (MSRV) in Sardinian MS patients. Neurology 2002, 58: 471-473 Sotgiu et al. Multiple sclerosis (MS)-associated retrovirus and MS prognosis: an observational study. Neurology 2002, 50:1071-1073 Serra et al. In vitro modulation of the multiple sclerosis (MS)-associated retrovirus (MSRV) by cytokines: implications for MS pathogenesis. J Neurovirology in press EPIDEMIOLOGIA DELLE ONICOMICOSI A CATANIA Oliveri S., Greco A.M., Nicoletti G. Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche U.O. Laboratorio Analisi, Azienda Policlinico, Università di Catania La prevalenza delle onicomicosi e la loro eziologia variano in relazione alla popolazione presa in esame. Dati relativi alle onicomicosi nell’area di Catania erano stati da noi rilevati dal 1991 al 2000 presso il Dipartimento di Scienze Microbiologiche. Con il trasferimento dell’attività di diagnostica micologica presso l’U.O. Laboratorio Analisi dell’Azienda Policlinico è stato possibile esaminare un elevato numero di casi, i cui dati riportiamo in questa presentazione. Da novembre 2001 ad agosto 2003 sono giunti alla nostra osservazione 250 casi di sospetta onicomicosi, 84 maschi e 166 femmine. La diagnosi di onicomicosi è stata confermata in 144 casi, 52 maschi (36,1%) e 92 femmine (63,9 %). Di particolare interesse microbiologico sono alcuni casi nei quali non c’è corrispondenza tra l’esame microscopico e quello colturale. In 11 pazienti, 9 femmine e 2 maschi, è stato ottenuto un esame microscopico negativo ed un esame colturale positivo: 9 isolamenti di lieviti (Candida), 2 di ifomiceti (Aspergillus, Alternaria). In 7 casi, 4 femmine e 3 maschi, invece è stato ottenuto un esame microscopico positivo per frammenti di ife ed un esame colturale negativo. Sono stati isolati complessivamente 175 ceppi, 99 lieviti (56,6 %) e 76 ifomiceti(43,4 %) , con prevalenza di ifomiceti nei maschi (58,7 %) e di lieviti nelle femmine (65,2 %). I dermatofiti presentano la medesima frequenza in entrambi i sessi, mentre diversa è quella degli ifomiceti non-dermatofiti; questi ultimi, complessivamente rappresentano il 25,1 % dei ceppi isolati con un incremento del 5 % rispetto ai dati precedenti. In particolare, un incremento è stato rilevato per il genere Acremonium: 2,1 % (1996), 6,8 % (2000), 9,2 % (2003); un decremento per Alternaria, 6,4 % (1996), 3,4 % (2000), 2,6 % (2003). Per Aspergillus, Fusarium e Scopulariopsis è stata rilevata una frequenza variabile. Tra i lieviti, il genere Candida presenta un frequenza pressoché costante: 97,9 % (1996), 97,8 % (2000) 97,0 % (2003). Rilevante il dato di C. albicans e C. parapsilosis, che insieme rappresentano il 78 % dei lieviti isolati, per le quali si è osservata nel 2003 una inversione di prevalenza: C. albicans, 38,4% e C. parapsilosis, 41,4 %. Tra i 250 pazienti sottoposti ad esame micologico, 42 (16,8 %) avevano effettuato precedenti cicli terapeutici sulla base di una diagnosi esclusivamente clinica. Di questi, 22 (54,8 %) sono risultati positivi agli esami microscopico e colturale, confermando la necessità di una accurata diagnosi di laboratorio. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 95 TRIPLICE AZIONE DI UN ANTICORPO MONOCLONALE SPECIFICO PER UNA MANNOPROTEINA PARIETALE DA STRESS DI CANDIDA ALBICANS Conti S.1, Ponton J.2, Moragues M.D.3, Magliani W.1, Arseni S.1, Salati A.1, Polonelli L.1 1Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Università degli Studi di Parma, Parma, 2Departamento de Inmunología, Microbiología y Parasitología, e 3Departamento de Enfermería I, Facultad de Medicina y Odontología, Universidad del País Vasco, Bilbao, Vizcaya, Spain Un anticorpo monoclonale (mAbC7), prodotto nei confronti di una mannoproteina parietale da stress (SMP200) principale bersaglio delle IgA secretorie umane in corso di candidosi delle mucose, ha mostrato di esplicare una triplice attività nei confronti di Candida albicans: i) inibitoria dell’adesività a cellule HEP-2 ed epiteliali orali; ii) inibitoria della germinazione; e iii) candidacida diretta. MAbC7 ha mostrato di reagire con un epitopo proteico di SMP200 prevalentemente espresso sui tubuli germinativi di C. albicans e sulla parete di C. lusitaniae, Cryptococcus neoformans, Aspergillus fumigatus e Scedosporium prolificans. Nei confronti di C. albicans mAbC7 ha causato una inibizione dell’adesività a cellule HEP-2 pari al 31,1% e a cellule epiteliali orali del 55,3% e un decremento nella filamentazione pari al 38,5%. L’attività microbicida di mAbC7 è risultata variabile dal 34,2% all’88,7% nei confronti di C. albicans, C. lusitaniae, C. neoformans, A. fumigatus e S. prolificans. L’attività microbicida di mAbC7 sembra essere correlata a quella di anticorpi antiidiotipici immagini interne di una tossina killer di lievito (mAbK10) reattivi con un epitopo glucidico (? glucano) di SMP200. I risultati suggeriscono l’esistenza di una famiglia di anticorpi microbicidi di potenziale interesse terapeutico per il trattamento di numerose malattie da infezione. RUOLO DI PTX3 NELLA RISPOSTA IMMUNE ANTIFUNGINA S. Bozza*, C. Montagnoli*, C. Garlanda+, A. Mantovani+, F. Bistoni* e L. Romani*. Sezione di Microbiologia* Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Perugia e Dipartimento di Immunologia e Biologia Cellulare+ Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano. Le pentraxine classiche sono proteine a struttura pentamerica altamente conservate durante l’evoluzione dal Limulus all’uomo. Queste molecole sono prodotte dal fegato in risposta a vari mediatori dell’infiammazione e si ritiene svolgano un ruolo importante nelle difese naturali dell’organismo. PTX3 o pentraxina lunga si differenzia da quelle note per essere molto più “lunga” e per la sede della sintesi, in quanto è prodotta da vari tipi cellulari, in particolare macrofagi, cellule endoteliali e dendritiche. I livelli plasmatici di PTX3 risultano ridotti in condizioni basali mentre si assiste ad un incremento in seguito all’instaurarsi di condizioni patologiche severe, comprese le patologie infettive. E’ noto che PTX3 è in grado di coniugarsi in maniera specifica ad alcuni microrganismi (batteri e funghi), come ad esempio Aspergillus fumigatus. Nel presente lavoro abbiamo condotto studi al fine di valutare l’attività funzionale di PTX3 in un modello murino di aspergillosi polmonare invasiva (IPA). A tale scopo sono stati utilizzati topi deficienti per PTX3(-/-) i quali risultavano altamente suscettibili all’infezione. La suscettibilità correlava con una significativa carica fungina a livello polmonare e cerebrale. Tuttavia, il trattamento di topi PTX3 (-/-) con PTX3 purificata aumentava il tempo mediano di sopravvivenza degli animali, riduceva significativamente la carica fungina nel parenchima polmonare e migliorava notevolmente il quadro istopatologico. Esperimenti in vitro hanno inoltre dimostrato come la fagocitosi e l’attività conidiocida di macrofagi alveolari di topi PTX-/- risultava significativamente ridotta rispetto ai topi PTX+/+. Questi dati suggeriscono che PTX3 svolge un ruolo importante nelle difese dell’organismo verso agenti patogeni e che il trattamento farmacologico con PTX3 potrebbe essere utile in determinate condizioni morbose, come le infezioni fungine. Finanziato da Progetto Nazionale di Ricerche AIDS 50D.27, “Infezioni opportunistiche e Tubercolosi”. 96 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA UTILIZZO DI CELLULE DENDRITICHE NELLA VACCINAZIONE ANTIFUNGINA. S. Bellocchio, S. Bozza, C. Montagnoli, R. Gaziano, G. Rossi, G. Nkwanyuo, L. Pitzurra, F. Bistoni, L. Romani. Sezione di Microbiologia- Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche- Università degli Studi di Perugia. Osservazioni recenti sulle attività funzionali di cellule dendritiche (DC) suggeriscono che tali cellule hanno un ruolo “chiave” nell’indirizzare le risposte antifungine specifiche in senso Th1 e Th2 e quindi, in ultima analisi, sono responsabili dell’esito, favorevole o meno, dell’infezione micotica. Considerata la fisiologica dislocazione di DC in distretti come quello cutaneo e mucoso, sedi elettive di funghi commensali, quali Candida albicans, o di funghi acquisiti per via inalatoria, quali Aspergillus fumigatus, lo studio volto a chiarire i meccanismi del “menage a trois”, funghi-DC-linfocita T CD4+, appare quanto mai razionale e potrebbe avere importanti ricadute di ordine vaccinale e terapeutico. Nell’ambito di precedenti ricerche abbiamo già evidenziato come l’abilità di DC pulsate con Candida a indirizzare in senso Th1 e Th2 l’attivazione cellulare dopo trasferimento adottivo in vivo, correlava con la resistenza e la suscettibilità al fungo. In eguale modo anche la trasfezione di DC con RNA fungino risultava essere efficace nell’induzione di un’immunità protettiva antifungina in vivo. Nel presente lavoro abbiamo saggiato l’utilità di DC pulsate con Aspergillus nel conferire resistenza antifungina in vivo. A tale scopo abbiamo valutato : La capacità di attivazione di DC da parte di funghi vitali ed RNA fungini, e se diversi programmi di attivazione siano mediati da diversi recettori di riconoscimento, inclusi Toll-like receptors (TLRs). L’abilità di DC attivate dal fungo a generare un’immunità antifungina in vivo dopo trasferimento adottivo in topi altrimenti suscettibili all’aspergillosi. I risultati hanno dimostrato che: La somministrazione di DC, opportunamente istruite, conferisce immunità protettiva in modelli sperimentali di infezione. DC “pulsate” con RNA proveniente da RNA di conidio inducono, dopo rilascio in vivo, protezione contro il fungo in topi sottoposti a trapianto di midollo allogenico. L’attivazione di specifici programmi nelle DC da parte del fungo vitale e dell’RNA fungino correlano con una diversa espressione dei TLRs. Questi risultati depongono per un ruolo chiave svolto da DC nell’induzione di uno stato immune correlabile alla protezione antifungina e puntano all’uso potenziale di DC trasfettate con RNA come vaccini antinfettivi. Finanziamento da Progetto Nazionale di Ricerche AIDS 50D.27, “Infezioni opportunistiche e Tubercolosi”. CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI GLICOPROTEINE CRIPTOCOCCICHE CAPACI DI INDURRE RISPOSTE UMORALI Carmelo Biondo, Concetta Beninati, Mauro Bombaci, Luciano Messina, Giuseppe Mancuso, Angelina Midiri, Roberta Galbo e Giuseppe Teti Dipartimento di Patologia e Microbiologia Sperimentale, Università di Messina, Italia Abstract Mentre è nota l’efficacia funzionale degli anticorpi diretti contro il glucuronoxilomannano (GXM), il principale polisaccaride capsulare, poco si conosce sulle risposte umorali nei confronti di altri antigeni criptococcici. Allo scopo di identificare nuovi antigeni, potenzialmente utili per il controllo della criptococccosi, sieri di pazienti AIDS affetti da questa malattia sono stati saggiati per l’immunoreattività con frazioni cromatografiche ottenute da surnatanti di coltura criptococcici del ceppo acapsulato Cap 67. L’analisi tramite Western blot ha dimostrato la presenza di quattro bande ad elevato peso molecolare che reagivano fortemente con la maggior parte dei sieri testati. Due bande aventi, rispettivamente, pesi molecolari di 115 e 84 kDa, risultarono contenere una significativa quantità di oligosaccaridi legati con legame “N-linked”, come dimostrato dalla diminuzione del loro peso molecolare di queste proteine dopo trattamento con peptido N-glycanase F (PNGase F). Le sequenze amino terminali di queste due ultime bande sono state utilizzate per ricercare le sequenze codificanti per le stesse (TBLASTN) nelle banche dati dei progetti genoma di C. neoformans. Basandosi su queste sequenze, è stato possibile sintetizzare due sonde di DNA utilizzate per isolare da una libreria di cDNA due cloni contenenti i geni codificanti per le proteine criptococciche. L’analisi delle sequenze nucleotidiche indicava, per le proteine di 115 e 84 kDa, una notevole omologia con rispettivamente, le carbossilesterasi e le deacetilasi di altri organismi sia procariotici che eucariotici. In conclusione, sono state identificate due nuove glicoproteine come principali bersagli della risposta umorale in corso di criptococcosi. Questi dati potrebbero rivelarsi utili per la messa a punto di nuove strategie profilattiche o terapeutiche per il controllo della criptococcosi. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 97 TIMOSINA ALFA1 ATTIVA I RECETTORI TOLL-LIKE IN RISPOSTA AD ASPERGILLUS FUMIGATUS. R. Gaziano*, S. Bozza^, C. Montagnoli^, S. Bellocchio^, L. Pitzurra^, P. Di Francesco*, G. Rasi*, L. Romani^, F. Bistoni^, E. Garaci* *Sezione di Microbiologia, Dip. Med. Sper. Sc. Bioch. Univ. Tor Vergata, Roma e ^Sezione di Microbiologia, Dip. Med. Sper. Sc. Bioch. Univ. Perugia. Aspergillus fumigatus è un fungo ubiquitario ed opportunista che provoca affezioni respiratorie di natura allergica ed infettiva. Nei pazienti neutropenici o altrimenti immunocompromessi, IPA, caratterizzata da invasione ifale e distruzione del tessuto polmonare, è la più comune manifestazione di infezione da Aspergillus, sebbene si possano verificare anche infezioni locali . La disseminazione da queste porte di ingresso ad altri organi può essere un evento secondario in circa il 20% dei casi. L’assenza fino ad oggi di una terapia efficace nei confronti di tali infezioni ha posto nuovi interrogativi. Sulla base di ciò abbiamo tentato di comprendere i meccanismi immunologici coinvolti nella risposta immunitaria naturale ed acquisita che si sviluppa in seguito al contatto con il fungo al fine di individuare possibili nuovi approcci terapeutici, come ad esempio l’utilizzo di Biological Response Modifiers (BRMs). In tal senso è noto che il peptide Timosina alfa 1 (Ta1), uno dei membri della famiglia dei fattori timici, e’ un BRM dotato di notevoli proprieta’ immunomodulanti. In questo lavoro dimostriamo che la Timosina alfa 1 induce in vitro maturazione e produzione di IL-12 in cellule dendritiche (DCs) attraverso l’attivazione del p38 mitogen-activated protein kinase/NF-KB-dependent pathway e coinvolgendo diversi Toll-like receptors. Studi in vivo suggeriscono che Ta1 induce l’attivazione della risposta mediata dai linfociti Th1 con una notevole efficacia nei riguardi dell’infezione indotta in un modello preclinico di trapianto di midollo allogenico. In conclusione, ai ben noti effetti immunomodulanti di Ta1, puo’ essere aggiunto un effetto stimolante diretto su cellule effettrici della risposta naturale antifungina, nonche’ un’azione sulla risposta protettiva Th1, tramite un’attivita’ “adiuvante-simile” su DC. Finanziato da Progetto AIDS 50D.27, MinSan ICS 120.5/RF00.121, FIRB RBNE01P4B5-00 CARATTERIZZAZIONE BIOCHIMICA DEI CEPPI RESISTENTI DI CANDIDA ALBICANS L. Angiolella1 , M.V. Pasceri1, A.Ciocci1, B.Maras2, F. De Bernardis3, A. Cassone3, A.Palamara1. 1Istituto di Microbiologia, Facoltà di Farmacia, Univ. “La Sapienza” Roma. 2Dipartimento di Biologia Molecolare, Univ. “La Sapienza” Roma. 3 Dipartimento di malattie infettive, parassitarie e immuno-mediate.Istituto Superiore di Sanità, Roma. Le principali proteine associate al glucano (GAP) identificate nella parete cellulare di C.albicans sono l’enolasi con peso molecolare di 46 kDa, una aldolasi con peso molecolare di 40,6 kDa ed una fosfogliceromutasi con peso molecolare di 29 kDa, tutte proteine appartenenti al pathway gli colitico. In presenza di dosi subinibenti di antimicotici (fluconazolo o FK463), cellule lievito di C.albicans sensibili, presentano dei cambiamenti nella composizione delle GAP della parete cellulare, infatti è possibile osservare la quasi totale scomparsa dell’enolasi e dell’aldolasi la comparsa di un doppietto proteico con peso molecolare di 33-34 kDa corrispondente rispettivamente ad un’altra isoforma della fosfogliceromutasi e alla b 1-3 glucanasi, un enzima coinvolto nell’idrolisi del b-glucano.1,2 E’ stato invece interessante osservare che nei ceppi resistenti le GAP non presentano nessun tipo di modulazione anche dopo trattamento con alte concentrazioni di antimicotici. L’enolasi rimane presente e non scompare mentre la b 1-3 glucanasi è appena accennata, ed anche l’aldolasi non presenta modificazioni. Partendo da queste evidenze sperimentali ci siamo proposti di caratterizzare l’ attività biochimica dei ceppi resistenti di C.albicans. Studi eseguiti sull’attività enzimatica dell’enolasi parietale dei ceppi resistenti ha messo in evidenza un notevole incremento dell’attività enzimatica rispetto all’enolasi parietale presente nei ceppi sensibili o all’enolasi presente nel citoplasma. Studi condotti “in vivo” hanno mostrato un insospettato aumento della virulenza nei ceppi resistenti di C.albicans. Inoltre test preliminari eseguiti sull’attività ossido-riduttiva delle cellule resistenti ha messo in evidenza una diminuzione del rapporto tra il glutatione ossidato e quello ridotto rispetto ai ceppi sensibili, suggerendo quindi che probabilmente le modificazioni dell’attività biochimiche dei ceppi resistenti contribuiscono ad aumentare la virulenza in C.albicans. Bibliografia Angiolella, L., Facchin M., Stringaro A., Maras B., Simonetti N. and Cassone A. Identification of glucan-associated enolase as a main cell wall protein of Candida albicans and an indirect target of lipopeptide antimycotics. The Journal of Infection Disease : 1996, 173, 684-690. Angiolella L., Micocci M.M., D’Alessio S., Girolamo A, Maras B., Cassone A. Identification of Major Glucan-associated cell wall proteins of Candida albicans and their role in fluconazole resistance. Antimicrobial agents and Chemotherapy 2002, 46, 1688-94. 98 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA L’ACCUMULO DI CA++ MITOCONDRIALE È ESSENZIALE PER L’ATTIVITÀ CANDIDACIDA DEL PEPTIDE N TERMINALE DELLA LATTOFERRINA UMANA 1,2Antonella Lupetti, 3Carlo P. J. M. Brouwer, 2Sonia Senesi, 2Mario Campa, 1Jaap T. van Dissel, e 1Peter H. Nibbering. 1Department of Infectious Diseases, Leiden University Medical Centre, Leiden, 3AM Pharma, Bunnik, Olanda, 2Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa, Pisa, Italia. Studi recenti hanno dimostrato che il peptide N terminale della lattoferrina umana, hLF(1-11), ha un’efficace attività di killing verso ceppi di Candida albicans fluconazolo resistenti e che tale attività coinvolge l’attivazione mitocondriale con sintesi e secrezione di ATP e di specie reattive per l’ossigeno. Il presente studio evidenzia il ruolo del Ca++ nell’attivazione mitocondriale e nell’attività candidacida esercitata dal peptide hLF(1-11). I risultati hanno evidenziato che EGTA, un chelante del Ca++, blocca (P<0.05) l’attività candidacida di hLF(1-11), mentre la combinazione di uno ionoforo con CaCl2, di per sé non candidacida, determina ulteriore aumento del killing esercitato dalla più alta concentrazione di hLF(1-11) saggiata. In accordo con questi dati, hLF(1-11) induce un significativo influsso di Ca++, FCCP e CCCP, che, a loro volta, inibiscono l’accumulo di Ca++ nei mitocondri, riducono sia l’attività candidacida (P<0.05) che l’attivazione mitocondriale (P<0.05) indotti da hLF(1-11); ciò indica che l’accumulo di Ca++ mitocondriale è essenziale per l’attivazione di tali organelli e, di conseguenza, anche per l’attività candidacida del peptide. Inoltre, dantrolene ed ossalato, agenti che inibiscono il rilascio di Ca++ dai depositi intracellulari, così come concentrazioni millimolari di CaCl2, diminuiscono sia l’attività candidacida di hLF(1-11) che l’attivazione mitocondriale indotta dal peptide. In conclusione, i risultati ottenuti dimostrano che il Ca++ è essenziale, anche se un aumento della sua concentrazione intracellulare non è sufficiente, per l’attivazione mitocondriale e, di conseguenza, per l’attività candidacida indotta da hLF(1-11). CARATTERIZZAZIONE DI CEPPI DI CANDIDA GLABRATA AZOLO-RESISTENTI ISOLATI NEL CORSO DI UN PROGRAMMA OSPEDALIERO DI SORVEGLIANZA DELLA FARMACO-RESISTENZA Brunella Posteraro, Maurizio Sanguinetti, Barbara Fiori, Marilena La Sorda, Angelica Franco e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Negli ultimi anni, Candida glabrata è emersa come un patogeno fungino significativo soprattutto per i pazienti ospedalizzati affetti da gravi patologie. In particolare, l’incremento di prevalenza di ceppi di C. glabrata con una ridotta sensibilità agli azoli, come fluconazolo ed itraconazolo, ha messo in evidenza importanti aspetti riguardanti l’uso empirico dei farmaci antifungini, specialmente in pazienti a rischio di infezioni sistemiche, e la necessità di studi periodici di sorveglianza intra-ospedaliera della resistenza. Recenti studi sui meccanismi di resistenza agli azoli in C. glabrata hanno dimostrato il coinvolgimento sia del gene ERG11 che codifica per l’enzima P450-lanosterolo demetilasi, che dei geni CgCDR1 e CgCDR2 che codificano per ben note pompe di efflusso. Durante un periodo di osservazione epidemiologica della farmaco-resistenza della durata di 3 anni (2001-2003), 202 ceppi di C. glabrata isolati da pazienti ricoverati presso il Policlinico Universitario “A. Gemelli” sono stati sottoposti al saggio della sensibilità ai farmaci antifungini amfotericina B, fluconazolo, itraconazolo, ketoconazolo e voriconazolo. Di tali ceppi, 15 (7.4%) sono risultati resistenti agli azoli. Questi sono stati sottoposti all’analisi del DNA cariotipo, dell’espressione dei geni ERG11, CgCDR1 e CgCDR2 mediante real-time RT-PCR quantitativa, e della sequenza del gene ERG11. Nello studio sono stati inclusi 3 ceppi sensibili isolati da 3 degli stessi pazienti e 2 ceppi di controllo. Come era da attendersi, all’analisi del cariotipo, tutti i ceppi con l’esclusione delle tre coppie di ceppi sequenziali, hanno mostrato un diverso profilo, ciò a dimostrazione dell’unicità dei singoli ceppi. L’analisi dell’espressione genica ha indicato che i 15 ceppi resistenti esprimevano i geni CgCDR1 e CgCDR2 con valori variabili tra 3.5 e 118 volte superiori rispetto al controllo (ceppo sensibile), mentre il gene ERG11 risultava normalmente espresso. Nessun aumento di espressione dei tre geni è stato invece osservato nei ceppi sensibili. L’analisi della sequenza del gene ERG11 ha rivelato l’assenza di mutazioni puntiformi in tutti i ceppi in esame, indicando che tale meccanismo, peraltro operante in ceppi resistenti di C. albicans, non contribuisce alla genesi della resistenza agli azoli in C. glabrata. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 99 MULTI-LOCUS SEQUENCE TYPING SYSTEM COME STRUMENTO DI ELEZIONE PER L’ANALISI DELL’EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DI CANDIDA ALBICANS A. Tavanti1,3, A. Davidson1, N.A.R. Gow1, M. J. Maiden2, S. Senesi3, F.C. Odds1 1Department of Molecular & Cell Biology, Institute of Medical Sciences, University of Aberdeen, UK; 2 The Peter Medawar Building for Pathogen Research and Departmen of Zoology, University of Oxford, UK and 3Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa, Italy. I tradizionali metodi di caratterizzazione genotipica utilizzati nello studio dell’epidemiologia molecolare di Candida albicans presentano il limite di dipendere dall’interpretazione soggettiva dello sperimentatore. Ciò ha reso difficile la comparazione dei risultati tra i diversi laboratori e la creazione di un sistema di nomenclatura universale. La tecnica MLST (multi-locus sequence typing), che prevede l’amplificazione di porzioni di geni housekeeping ed il successivo sequenziamento dei frammenti ottenuti, si è dimostrata un potente strumento discriminativo nella tipizzazione di molte specie batteriche (N. meningitidis, C. jejuni, S. pneumoniae, S. aureus). Nel presente studio, tale sistema di genotipizzazione è stato applicato a 75 ceppi di C. albicans, 48 dei quali provenienti da aree geografiche e sedi di infezione diverse, 15 isolati sequenziali ottenuti da due pazienti affetti da candidosi e 2 ceppi di riferimento. Lo schema MLST utilizzato in questo lavoro, include 4 frammenti precedentemente descritti (ADP1, RPN2, SYA1, VPS13) e 4 nuovi frammenti AAT1a, AAT1b, MPI, ZWF1. In totale, sono stati identificati 87 siti polimorfici nella popolazione in studio, portando alla discriminazione di 46 su 50 ceppi provenienti da aree geografiche e siti di infezione diversi; sono risultati identici il ceppo di riferimento SC5314 ed un suo mutante ottenuto per delezione del gene URA3, a sottolineare il potere discriminativo e la riproducibilità di questa metodica. Per le due serie di ceppi isolati sequenzialmente da due pazienti è stata osservata identità di ceppo in un caso ed elevata correlazione nell’altro. Polimorfismi di natura eterozigotica sono stati osservati per tutti i siti polimorfici ad eccezione di 16 (18.4%). Inoltre, 35 su 87 mutazioni nella sequenza genica (41%), hanno dato luogo a sostituzioni aminoacidiche non sinonime. In conclusione, la metodica MLST, oltre a garantire una genotipizzazione indipendente dall’interpretazione soggettiva, consente di monitorare mutazioni che si accumulano lentamente nell’ambito di una popolazione e può costituire, quindi, un utile strumento per meglio comprendere le basi genetiche delle relazioni ospite-parassita. INFLUENZA DI FATTORI ABIOTICI SULLA PRODUZIONE DI BIOFILM DA PARTE DI STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA. G. Di Bonaventura, C. Cordone, R. Piccolomini Laboratorio di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università “G. d’Annunzio”, Chieti. Background: S. maltophilia è un patogeno nosocomiale emergente associato a numerose malattie infettive ed infezioni opportuniste, soprattutto nel paziente immunocompromesso. Questo batterio è in grado di aderire ad impianti biomedicali organizzandosi in biofilm che, esibendo il loro caratteristico fenotipo multiresistente, causano la cronicizzazione di infezioni quali quelle associate a cateteri e le infezioni polmonari in pazienti con fibrosi cistica. In tal senso, la comprensione dei fattori che regolano il biofilm risulta cruciale per sviluppare adeguate strategie di controllo. Scopo: valutare l’influenza della temperatura (18°C, 32°C, 37°C), dell’atmosfera (aerobiosi, anaerobiosi, carbossifilia) e delle condizioni dinamiche [statica, bassa agitazione (60 rpm), elevata agitazione (120 rpm)] sulla capacità di produrre biofilm da parte di S. maltophilia. Materiali e metodi: 44 isolati clinici di S. maltophilia collezionati da pazienti neutropenici sono stati saggiati per la loro capacità di produrre biofilm mediante “microtiter plate test” e la quantità di biofilm formata è stata espressa come densità ottica a 550nm (OD550) mediante l’ausilio di un lettore automatizzato di piastre microtiter. La capacità adesiva degli isolati testati è stata classificata secondo i criteri indicati da Christensen et al. (1). L’analisi statistica dei risultati è stata condotta mediante tests non parametrici (Friedman test, Dunns post-test), considerando valori di P<0.01 statisticamente significativi. Risultati: la maggior parte dei ceppi testati risultava essere fortemente adesiva (OD550>0.322) (93.2%, 95.5%, 88.6%, 90.9%, 90.9% e 88.6% a 37°C, 32°C, 18°C, carbossifilia, 120 rpm e 60 rpm, rispettivamente) sotto tutte le condizioni testate, tranne che in anaerobiosi (13.6%). La produzione di biofilm non veniva modificata in maniera significativa a 32°C, 18°C, carbossifilia e 120 rpm (OD550 mediana=0.642, 0.631, 0.606, 0.556, rispettivamente; P>0.05), mentre l’incubazione a 32°C permetteva la formazione di biofilms più rilevanti (P<0.01) rispetto a quelli ottenuti a 37°C e 60 rpm. In anaerobiosi, S. maltophilia produceva quantità di biofilm significativamente minori rispetto alle altre condizioni testate. Conclusioni: la capacità dimostrata da S. maltophilia nel produrre quantità rilevanti di biofilm a temperature simili a quelle cutanee (32°C) ed in condizioni di carbossifilia suggeriscono, rispettivamente, un ruolo patogenetico del microrganismo nelle infezioni ematiche catetere-correlate e la sua attitudine a produrre biofilm in ambienti a ridotta tensione di ossigeno, quali sono le aree ipossiche recentemente (2) evidenziate all’interno della massa mucosa delle vie respiratorie in pazienti affetti da fibrosi cistica. 1. Christensen, G.D., et al., J. Clin. Microbiol. 22:996-1006, 1985. 2. Worlitzsch, D., et al., J. Clin. Invest. 109:317-325, 2002. 100 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SPIROCHETOSI INTESTINALE DA BRACHYSPIRA AALBORGI E DA B. AALBORGI E B. PILOSICOLI: DESCRIZIONE DEI PRIMI CASI Calderaro A., Piccolo G., Bommezzadri S., Incaprera M., Villanacci V1., Zuelli C., Guégan R., Arcangeletti M.C., Medici M.C., Dettori G., Chezzi C. Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Parma, Viale Gramsci 14 43100 Parma; 1Secondo Dipartimento di Patologia Chirurgica, Spedali Civili, Università di Brescia, via Spedali Civili 1, 25123 Brescia. La spirochetosi intestinale umana (SIU) è causata dalla spirocheta Brachyspira pilosicoli. B. aalborgi, recentemente considerata potenziale agente eziologico di tale affezione è stata isolata fino ad oggi in soli due casi al mondo da biopsie intestinali. In questo studio riportiamo la descrizione di 5 casi di SIU da B. aalborgi in pazienti italiani e, per la prima volta in assoluto, l’isolamento della spirocheta da feci umane con un metodo messo a punto nel nostro laboratorio. Cinque pazienti con diarrea mucosa cronica, perdita di peso, rettorragia, sospetto carcinoma del retto (4 casi) e con sospetto morbo di Crohn (1 caso), sono stati sottoposti a colonscopia. Uno dei 5 pazienti è deceduto per tromboembolia polmonare. Le biopsie intestinali dei 5 pazienti sono state sottoposte ad esame istologico e, insieme ai campioni di feci di 4 dei 5 pazienti, ad estrazione del DNA seguita da due diversi tipi di amplificazione (PCR 16S e PCR nox) specifiche per il genere Brachyspira. I due tipi di amplificati sono stati sottoposti a digestione enzimatica e successiva analisi dei frammenti di restrizione (RFLPPCR). Inoltre, aliquote degli stessi campioni di 4 dei 5 pazienti, sono state utilizzate per l’isolamento delle spirochete nel terreno Blood Agar Modificato addizionato di Spectinomicina e Rifampicina (BAM-SR). L’esame istologico delle biopsie intestinali dei 5 pazienti ha evidenziato l’adesione di spirochete agli enterociti del colon che presentavano microvilli diradati e quasi totalmente distrutti in corrispondenza di siti di invaginazione della mucosa nelle sedi di inserzione delle spirochete. Spirochete sono state isolate dai 4 campioni di feci e dalle biopsie rettali di tutti i pazienti e identificate fenotipicamente e geneticamente (mediante RFLP-PCR) come B. aalborgi (4 casi) e B. pilosicoli + B. aalborgi (1 caso). I risultati di questo studio dimostrano che B. aalborgi può essere isolata da campioni di feci umane e non solo da biopsie intestinali e che il metodo RFLP-PCR direttamente applicato sui campioni biologici (feci e biopsie intestinali) consente una diagnosi rapida dei casi di SIU ancora indaginosa e poco praticata. L’ECTOENZIMA CD38 È UN NUOVO MARCATORE DI MATURAZIONE DI CELLULE DENDRITICHE UMANE E REGOLA L’ESPRESSIONE DI CD83 E LA PRODUZIONE DI IL-12. Giorgio Fedele*, Loredana Frasca*, Raffaella Palazzo*, Fabiana Spensieri, Enza Ferrero†, Fabio Malavasi† and Clara Maria Ausiello*. *Dipartimento di Malattie Infettive Parassitarie e Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, ROMA; †Laboratorio di Immunogenetica, Dipartimento di Genetica, Biologia e Biochimica e Centro di Ricerca per la Medicina Sperimentale, Università di Torino, TORINO. Le cellule dendritiche (DC) svolgono un ruolo centrale nella risposta immunitaria in quanto costituiscono un ponte tra l’immunità naturale e l’immunità acquisita. Il processo di maturazione delle DC comporta un significativo riassetto dell’espressione genica ed è accompagnato dalla comparsa di specifici marcatori di superficie. Il repertorio delle molecole di membrana che correlano positivamente o negativamente con il processo di maturazione è in parte ancora ignoto e può comprendere recettori già noti per essere coinvolti nella regolazione delle risposte immunitarie. CD38 è un ectoenzima che catalizza la sintesi di ADP ribosio ciclico, ed è espresso in differenti sottopopolazioni leucocitarie. CD38 è anche un recettore capace di trasdurre segnali all’interno della cellula. Gli effetti mediati includono la produzione di citochine pro-infiammatorie e regolatorie in cellule linfoidi, la proliferazione di linfociti T, e la protezione dall’apoptosi in linfociti B maturi. Poichè l’espressione di CD38 è spesso correlata con precisi stadi di differenziamento e maturazione, e poiché, come recettore, è coinvolto nella regolazione di importanti risposte immunitarie, abbiamo voluto verificare se CD38 fosse espresso in DC umane e quale ruolo funzionale potesse eventualmente svolgere. Le conclusioni principali sono: i) CD38 è un nuovo marcatore di maturazione per le DC umane, infatti viene espresso dai monociti, modulato negativamente durante il loro differenziamento in DC immature, e poi re-espresso in DC mature. L’entità dell’espressione di CD38 sulle DC mature dipende dallo stimolo utilizzato, con LPS > IFN-gamma > stimolazione attraverso il CD40. ii) Le molecole di CD38 sintetizzate de novo sono enzimaticamente attive e iii) la loro espressione è dipendente dall’attività del fattore di trascrizione NF-kB. iv) CD38 non è unicamente un marcatore di maturazione delle DC, ma gioca un ruolo centrale nel processo maturativo, infatti la sua attivazione induce incremento dell’espressione di CD83 e della sintesi di IL-12, mentre il blocco del suo legame con il controrecettore CD31 inibisce sia l’espressione di CD83 che la secrezione di IL-12. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 101 VERIFICA DI UN METODO QUALITATIVO/QUANTITATIVO PER LA RILEVAZIONE DI LISTERIA MONOCYTOGENES IN CAMPIONI DI CARNE Ingianni A.*, Quartuccio M.*^, Madeddu M.A.*, Sanna A.°, Coroneo V.°, Dessì S.°, Pompei R.*^ *Dip. di Scienze e Tecnologie Biomediche, °Dip. di Sanità Pubblica, Università di Cagliari, ^Biotecne Cagliari La Listeria monocytogenes è un microrganismo responsabile di gravi infezioni umane (listeriosi neonatale, setticemie, endocarditi, meningiti), che colpiscono particolari classi di pazienti, come donne gravide, immmunocompromessi, anziani. La trasmissione dell’infezione avviene principalmente attraverso gli alimenti non cotti. Nel nostro laboratorio è stato realizzato un nuovo metodo qualitativo/quantitativo che utilizza delle membrane di nylon per filtrare e concentrare gli omogenati ed una sonda a DNA specifica marcata con digossigenina in grado di ibridizzare specificatamente con il DNA delle colonie di L.monocytogenes. E’ stata effettuata la verifica di questo nuovo metodo molecolare su 262 campioni di carne e suoi derivati. La verifica è stata effettuata analizzando i campioni per la ricerca di L.monocytogenes mediante tecnica culturale e biochimica tradizionale, con la nuova tecnica di ibridazione e mediante PCR (amplificazione del gene specifico dell’internalina di L.monocytogenes). METODO Sono stati pesati 10 gr dei campioni, diluiti in 90 ml di acqua peptonata tamponata ed omogenizzati in Stomacher. L’analisi culturale e biochimica è stata condotta seguendo metodi convenzionali. Dagli omogenati è stato estratto il DNA ed effettuata la PCR con dei primers specifici per il gene dell’internalina della L.monocytogenes. Infine 10 ml dell’omogenato sono stati filtrati attraverso delle membrane di nylon con porosità da 0,45 mm, che sono state deposte su piastrine Petri contenenti terreno Aloa ed incubate a 37°C. Una volta contate le colonie azzurre cresciute sulle membrane, è stato fissato il DNA e si è proceduto alla ibridazione con la sonda a DNA marcata con digossigenenina, specifica per l’internalina della L.monocytogenes. La positività della reazione era evidenziata dalla presenza di un precipitato insolubile blu-viola scuro in corrispondenza di ogni colonia di L.monocytogenes. RISULTATI E CONCLUSIONI: La presenza della L.monocytogenes, su 262 campioni di divesa origine di carne, è stata evidenziata in 35 casi mediante l’esame culturale, in 21 con la PCR e in 38 con la nuova metodica di ibridazione. Abbiamo potuto verificare che il nuovo metodo è risultato di semplice ed economica esecuzione, specifico e più sensibile dei metodi tradizionali e della PCR, con la possibilità di dare una risposta quantitativa/qualitativa in circa 36 ore. Lavoro cofinanziato da Biotecne e dall’Assessorato alla Sanità della Regione Sardegna INFLUENZA DELL’N-ACETYLCYSTEINE SULLA PRODUZIONE DI BIOFILM E CORRELAZIONE CON L’ANTIBIOTICO RESISTENZA NEI CONFRONTI DI STAFILOCOCCHI COAGULASI NEGATIVI. V. Cuteri1, L. Bastianini3, M.L. Marenzoni2, F. Panzarella1, C. Valente2 1 Dipartimento Scienze Veterinarie, Università di Camerino, Matelica (MC) 2 Dipartimento Tecnologie e Biotecnologie delle Produzioni Animali – Sez. Malattie Infettive, Università di Perugia, Perugia 3 Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche – Sez. Microbiologia - Università di Perugia, Perugia Riassunto Molti stafilococchi coagulasi negativi, in particolare Staphylococcus epidermidis, sono considerati patogeni opportunisti in grado di colonizzare i materiali plastici mediante la formazione di biofilm. In seguito alla formazione di biofilm si ritiene comunemente che gli antibiotici perdano in parte la loro azione terapeutica. Lo scopo del lavoro è stato quello di verificare l’effetto della N-Acetilcisteina (NAC) sulla formazione di biofilm e di valutare il comportamento del microrganismo nei confronti degli antibiotici. La produzione di biofilm è stata valutata su microrganismi sia di origine umana che veterinaria utilizzando il metodo su micropiastra colorata con Alcian Blu. Tutti gli stipiti, a prescindere dalla formazione di biofilm, sono stati trattati, a dosi e tempi diversi, con NAC e successivamente, per ogni stafilococco, è stata valutata la MIC impiegando gli antibiotici di uso comune. I dati sono stati elaborati statisticamente. Nessuna associazione è stata rilevata tra la produzione di biofilm e l’antibiotico resistenza contrariamente a quanto comunemente affermato. Batteri con diversa capacità di produrre biofilm non presentavano MIC diverse. La NAC era in grado di limitare la formazione di biofilm solo se somministrata contemporaneamente alla semina del batterio mentre non mostrava la stessa efficacia se aggiunta in tempi successivi (6 e 24 ore). 102 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA AUTOIMMUNITÀ INDOTTA DA HELICOBACTER PYLORI: SIGNIFICATO CLINICO E APPLICAZIONI DIAGNOSTICHE. Riccardo Negrini, Nino Manca. Istituto di Microbiologia e Virologia. Spedali Civili. Università di Brescia. E’ ormai ampiamente dimostrato che l’infezione da Helicobacter pylori (HP) è il principale fattore di rischio per lo sviluppo di un carcinoma dello stomaco. Anche la gastrite atrofica, riconosciuta essere un importante fattore di rischio già prima della scoperta del batterio, è risultata essere una conseguenza dell’infezione. La progressione di una semplice gastrite da HP verso l’atrofia o il cancro interessa solo una piccola parte della popolazione. Si pensa ad un meccanismo multifattoriale, dove giocano fattori legati all’ambiente, all’alimentazione, all’ospite e al batterio stesso. Noi abbiamo precedentemente dimostrato che l’HP, con un meccanismo di “antigenic mimicry”, ha un forte potere di indurre una reazione autoimmunitaria, sia nel topo che nell’uomo. Nel topo Balb/c, fino al 30% degli anticorpi monoclonali anti-HP ottenuti dalla sensibilizzazione con un pool di isolati batterici cross-reagiscono con la mucosa gastrica. Il bersaglio principale sono determinanti antigenici correlati con i gruppi sanguigni, in particolare Lewis x, Lewis y, Lewis b, e Le d (H tipo 1). Tali determinanti, di natura carboidratica, sono espressi nell’antigene O dell’LPS della maggior parte dei ceppi di HP e sono anche costitutivi di glicoproteine dell’epitelio gastrico, inclusa la mucina superficiale. Nell’uomo, la presenza di infezione si accompagna per il 60-70% ad autoanticorpi anti-stomaco. La reazione autoimmune interessa prevalentemente le mucine epiteliali, ed è particolarmente intensa nei confronti delle cellule della zona rigenerativa, probabilmente perché vengono coinvolti uno o più antigeni criptici smascherati durante la replicazione cellulare. La presenza di autoanticorpi è correlata con la gravità della gastrite, in particolare con il grado di infiltrazione leucocitaria e con la presenza di fenomeni di atrofia e di metaplasia intestinale. La natura cross-reattiva degli autoanticorpi è dimostrata dalla loro neutralizzazione dopo preadsorbimento del siero con una sospensione di HP. Ceppi di HP isolati da pazienti con grave gastrite atrofica hanno una maggiore capacità di indurre autoanticorpi rispetto a ceppi isolati da pazienti asintomatici. Questi dati dimostrano che nell’associazione con la gastrite atrofica, gli autoanticorpi sono più una causa che un effetto. Le ricerche mirate a definire se anche nell’uomo gli antigeni di Lewis sono il principale bersaglio della reazione autoimmunitaria crociata, hanno dato risultati contrastanti. Recenti ricerche suggeriscono che sono in causa anche altri determinanti espressi dall’antigene O dell’LPS. (risultati non pubblicati). Lo sviluppo di queste ricerche è la messa a punto di tests sierologici immunoenzimatici predittivi di una gastrite di grado severo, utilizzabili per selezionare per la terapia eradicante i pazienti a rischio di neoplasia. CLONAGGIO MOLECOLARE E CARATTERIZZATIONE IMMUNOLOGICA PRELIMINARE DELLA PROTEINA PPE44 DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS Bonanni, D., L. Rindi, N. Lari, C. Garzelli Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa, I-56127 Pisa Il genoma di Mycobacterium tuberculosis codifica per 68 proteine ricche in glicina e asparagina caratterizzate da un dominio conservato N-terminale di circa 180 aminoacidi, comprendente il motivo aminoacidico prolina-prolina-acido glutamico (PPE) e da un segmento variabile C-terminale. Le proteine PPE sono antigenicamente polimorfiche e si ritiene che abbiano un significato immunologico nell’infezione tubercolare, probabilmente come fonte di variabilità antigenica e/o inibendo la processazione dell’antigene. Sulla base di precedenti studi in cui avevamo dimostrato che il gene Rv2770c di M. tuberculosis H37Rv, codificante per la proteina PPE44, è sottoespresso nel ceppo attenuato H37Ra, è stata intrapresa una ricerca volta a definire il ruolo della proteina PPE44 nell’infezione tubercolare. A tale scopo, il gene Rv2770c di M. tuberculosis H37Rv, ottenuto mediante PCR con primers specifici fiancheggianti la regione codificante, è stato clonato in E. coli XL1Blue nel plasmide pQE-30 UA. Dopo sequenziamento nucleotidico per verificare il corretto orientamento dell’inserto, il DNA plasmidico ottenuto è stato impiegato per trasformare E. coli M15(pREP4); l’espressione della proteina PPPE44 ricombinante (rPPE44) è stata indotta mediante IPTG e verificata mediante analisi SDS-PAGE e immunoblotting con anticorpo anti-(His)5; la proteina rPPE44 è stata infine purificata per affinità con agarosio-acido nitrilotriacetico Ni2+. Studi preliminari hanno dimostrato che la proteina rPPE44 induce proliferazione cellulare e produzione di interferon-g (IFN-g) in colture di linfociti di sangue periferico di individui tubercolino-positivi, analogamente al derivato proteico purificato della tubercolina (PPD). L’infezione sperimentale per via sottocutanea di topi BALB/c con Mycobacterium bovis BCG induce anticorpi IgG anti-rPPE44 e una debole risposta immune T-dipendente anti-rPPE44, rispetto a quella anti-PPD, valutata in vitro come produzione di IFN-g in colture di splenociti e di cellule di linfonodi drenanti ed in vivo come incremento di spessore del cuscinetto plantare dopo challenge specifico intracutaneo. Nel complesso, i dati immunologici preliminari indicano che la proteina PPE44 costituisce un nuovo antigene di M. tuberculosis espresso nel corso dell’infezione tubercolare, il cui ruolo merita di essere approfondito. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 103 RUOLO DELLA PROTEINA DI SECREZIONE SA5K NELLA VIRULENZA DI MYCOBACTERIUM BOVIS BCG D. Bottai, S. Esin, G. Batoni, G. Maisetta, M. Pardini, F. Favilli, W. Florio, M. Campa. Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università degli Studi di Pisa L’identificazione di fattori di virulenza di Mycobacterium tuberculosis riveste un’importanza notevole sia per il disegno di nuovi farmaci antitubercolari, sia per l’allestimento di un nuovo vaccino contro la tubercolosi. Una proteina di secrezione di M. tubercolosis/M. bovis BCG di 8.3 kDa, denominata SA5K, è stata precedentemente identificata e caratterizzata nel nostro laboratorio. Allo scopo di valutare il possibile ruolo di SA5K nella virulenza del bacillo tubercolare, è stato allestito un ceppo mutante di BCG (BCGsa5k::aph), mancante di una copia funzionale del gene SA5K. Parallelamente, è stato allestito anche un ceppo complementato (BCG/34), ottenuto mediante l’introduzione di una copia integra del gene SA5K nel genoma del ceppo mutato. L’analisi mediante Western blotting dei filtrati di coltura di BCG/34 ha dimostrato che in tale ceppo è stata ripristinata la capacità di produrre la proteina in quantità paragonabile a quella del ceppo parentale. Allo scopo di valutare se la mutazione del gene SA5K alterasse la crescita intracellulare di BCG, monostrati macrofagici umani, ottenuti da donatori sani, sono stati infettati con i ceppi mutato, parentale e complementato ad una molteplicità di infezione di 1:10 (batteri:cellule). Nessuna differenza significativa è stata rilevata tra i tre ceppi nel numero di CFU recuperate dopo la fagocitosi, indicando che l’interruzione del gene SA5K non influenza la capacità di BCG di invadere macrofagi umani. Al contrario, BCGsa5k::aph ha mostrato una capacità di crescita intracellulare significativamente inferiore rispetto ai ceppi parentale e complementato, come indicato dal più basso numero di CFU ottenute a tutti i tempi analizzati. Tali risultati suggeriscono che la proteina SA5K possa essere coinvolta nei meccanismi di sopravvivenza e/o moltiplicazione di BCG all’interno di macrofagi. Allo scopo di valutare se la mutazione del gene SA5K potesse influenzare la replicazione batterica anche nel corso dell’infezione, è stata confrontata la crescita di BCGsa5k::aph e BCG parentale in topi BALB/c infettati per via endovenosa, determinando il numero di CFU in vari organi (milza, fegato e polmone) a diversi tempi dall’infezione (1-5 settimane). In tutti gli organi analizzati, il numero di CFU di BCGsa5k::aph è risultato significativamente inferiore rispetto a quello ottenuto per il ceppo parentale, suggerendo un’attenuazione della virulenza del ceppo mutato anche in vivo. DIAGNOSI RAPIDA DELLE INFEZIONI DA MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS E QUANTIFICAZIONE DELLA CARICA BATTERICA MEDIANTE DUE SAGGI CALIBRATI DI REAL-TIME PCR Broccolo F.1,2, C.E. Cocuzza1, L. A. Sechi4, A. Lazzarin3, P. Scarpellini3, M. Malnati2 1Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano-Bicocca; 2Unità di Virologia Umana; 3Divisione di Malattie Infettive, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano; 4Divisione di Clinica e Microbiologia Sperimentale, Università di Sassari Le applicazioni di tecniche molecolari per la diagnosi e il monitoraggio clinico dell’infezione da Mycobacterium tuberculosis sono in continuo aumento. Il laboratorio di microbiologia rimane tuttavia fedele all’esame microscopico e colturale, in quanto i sistemi di PCR sviluppati sino ad oggi mostrano buoni livelli di sensibilità e specificità (90-100%) soltanto su campioni risultati positivi all’esame microscopico. Quindi, l’uso di saggi di PCR è ancora limitato a quei casi di malattia severa acuta (es. meningite) in cui il clinico necessita, per la scelta dell’approccio terapeutico, di una rapida identificazione di M. tuberculosis. Sono stati sviluppati due saggi di Realtime PCR (TaqMan), disegnati su due regioni distinte del genoma di M. tuberculosis, IS6110, un elemento d’inserzione multicopia e senX3-regX3 IR., per la rapida identificazione dell’agente infettivo e per la quantificazione della carica micobatterica. Entrambi i saggi sono risultati accurati, sensibili e specifici mostrando un diverso pattern di riconoscimento di M. tuberculosis: ad ampio spettro per la specie di M. tuberculosis (compresi ceppi senza la regione IS6110), per il saggio disegnato sulla regione IS6110 e ristretto al M. tuberculosis complex per il saggio basato sulla regione senX3-regX. Sensibilità e specificità clinica di entrambi i saggi é stata valutata prima usando DNA purificato da 71 isolati di varie specie batteriche appartenenti al M. tuberculosis complex o a specie atipiche e da 10 patogeni non micobatterici e poi da 121 campioni clinici (sputum, escreati, fluido da sondino nasogastico, fluido cerebrospinale e urine) collezionati da 83 pazienti, 20 dei quali con TB. I risultati di entrambi saggi sono stati confrontati all’esame microscopico e colturale: esame microscopico (sensibilità 61%, specificità 97%), colturale (sensibilità 72%, specificità 97%), saggio TaqMan IS6110 (sensibilità 98%, specificità 97%), saggio TaqMan senX3-regX3 (sensibilità 94%, specificità 100%). La carica batterica è stata inoltre confrontata con il livello di DNA, valutato con il saggio TaqMan senX3-regX3, su 51 campioni stratificati in 3 gruppi: gruppo 1 (n=30 campioni) contenente campioni positivi all’esame microscopico e colturale, gruppo 2 (n=12) positivo per uno dei due saggi e gruppo 3 (n=9) negativi per entrambi. La carica di M. tuberculosis differiva significativamente tra tutti i gruppi (gruppo 1 vs.gruppo 2, P<0.01; gruppo 1 vs gruppo 3, P<0.0005; gruppo 2 vs. gruppo 3, P<0.05) dimostrando un buon livello di correlazione tra carica bacillare e livelli di DNA. Inoltre l’aggiunta di un calibratore (DNA sintetico) prima della procedura d’estrazione permetteva di misurare l’efficienza di recupero del DNA e controllare la presenza d’inibitori della PCR. Infine livelli ridotti di DNA di M. tuberculosis sono stati osservati in pazienti esito terapeutico positivo, suggerendo un potenziale utilizzo di questo saggio per il monitoraggio dell’efficacia del trattamento. In conclusione, questo saggio calibrato di Real-time PCR multiplex rappresenta un mezzo diagnostico utile sia per la rapida identificazione delle infezioni da M. tuberculosis direttamente da campioni clinici che per il monitoraggio del trattamento antitubercolare. 104 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA IS6110-RFLP E SPOLIGOTYPING DI CEPPI DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS ISOLATI IN TOSCANA NEL 2002 Lari1, N., L. Rindi1, D. Bonanni1, E. Tortoli2, C. Garzelli1 1Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa, I56127 Pisa; 2Centro Regionale di Riferimento per i Micobatteri, Laboratorio di Microbiologia e Virologia, Ospedale Careggi, I-50134 Firenze La recente scoperta di elementi trasponibili in Mycobacterium tuberculosis, in particolare la sequenza di inserzione IS6110, ha consentito l’allestimento di un metodo di tipizzazione molecolare basato sul polimorfismo della lunghezza dei frammenti di restrizione IS6110-specifici (IS6110-RFLP), che rappresenta la base per lo studio dell’epidemiologia molecolare della tubercolosi (TB). Nel presente lavoro si riporta la tipizzazione IS6110-RFLP di 249 ceppi di M. tuberculosis complex, isolati da altrettanti pazienti, che rappresentano pressoché la totalità degli isolati in Toscana nel corso dell’anno 2002. L’analisi IS6110-RFLP ha consentito di individuare 225 profili di bandeggio unici e 56 ceppi (22.5%) che si presentavano in clusters di pochi elementi identici. In particolare, 19 clusters erano costituiti da 2 ceppi, 3 clusters da 3 ceppi, 1 cluster da 4 ceppi ed 1 cluster da 5 ceppi identici. Siccome si ritiene che i clusters comprendano i ceppi implicati in infezioni tubercolari di recente acquisizione, se ne deduce che in Toscana la trasmissione della TB è comparabile a quella dei Paesi a bassa incidenza di TB, anche se sono da segnalare sporadici episodi di microfocolai epidemici. I ceppi sono stati inoltre sottoposti ad analisi “Spoligotyping”, una tecnica molecolare basata sul polimorfismo delle regioni spaziatrici (spacers) del locus DR (Direct Repeats) di M. tuberculosis che, sebbene dotata di un minor potere discriminativo rispetto alla tipizzazione IS6110-RFLP, consente l’individuazione dei ceppi della famiglia denominata Beijing o W, i cui membri stanno destando allarme a livello mondiale per le potenzialità di rapida diffusione, di maggior virulenza e di acquisizione di farmaco-resistenza multipla. L’analisi Spoligotyping dei 249 ceppi ha individuato 7 ceppi di genotipo Beijing/W, 5 dei quali isolati da pazienti immigrati, dimostrando così per la prima volta la loro presenza e diffusione anche in Italia. I 7 ceppi Beijing/W isolati in Toscana nel 2002 si sono rivelati comunque suscettibili ai farmaci anti-tubercolari di prima scelta. VALUTAZIONE DELLA REAL TIME PCR NELLA DIAGNOSI DELLE INFEZIONI DA MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS. Ortu S., Molicotti P., Sechi L.A., *Pirina P., **Saba F., **Maida I., **Ciliano M., **Mura M., Zanetti S. Dip. di Scienze Biomediche - Sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica. *Clinica Tisiologica e Malattie dell’Apparato Respiratorio, Università degli Studi di Sassari. **Clinica Malattie Infettive e Parassitarie, Università degli Studi di Sassari. La tubercolosi, tra le malattie infettive che colpiscono l’uomo, rappresenta ancora oggi una delle principali cause di morte nel mondo ed è responsabile di circa 2 milioni di decessi ogni anno. L’isolamento del Mycobacterium tuberculosis, l’agente infettivo, richiede non meno di 2 settimane di incubazione, si è quindi reso necessario lo sviluppo di tecniche molecolari per l’identificazione rapida del batterio. Tra queste la Real Time PCR si sta rivelando di particolare interesse ai fini diagnostici, infatti con tale metodo è possibile sia un’analisi qualitativa che quantitativa del prodotto di amplificazione per mezzo di un segnale fluorescente. Scopo del nostro studio è stato quello di valutare questo nuovo sistema di identificazione e di quantificazione del Mycobacterium tuberculosis direttamente dal campione clinico. Sono stati esaminati 187 campioni clinici, 52 campioni di Urine, 50 campioni di Espettorato, 20 Lavaggi Gastrici, 16 Liquor, 12 Bronco-Aspirati, 8 Biopsie cutanee, 6 campioni di Liquido Pleurico, 6 Linfonodi, 4 campioni di Sangue Midollare e 13 campioni di varia origine. La Real Time PCR ha identificato Mycobacterium tuberculosis in 35 campioni, di questi 19 sono risultati positivi all’esame colturale (Bactec MGIT 960) e 12 positivi all’esame microscopico; alcuni campioni clinici risultati positivi soltanto con la Real Time PCR appartengono a pazienti in regime terapeutico. I dati ottenuti da questi studi preliminari indicano che la Real Time PCR dimostra ai fini diagnostici una elevata sensibilità, rapidità e soprattutto attendibilità rispetto ad altre metodiche quali la PCR tradizionale. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 105 ESPRESSIONE E PURIFICAZIONE DELLA PROTEINA HBHA METILATA IN MYCOBACTERIUM SMEGMATIS. Cinzia Pusceddu1, Giovanni Delogu1, Alessandra Bua1, Marcela Parra3, Michael J. Brennan3, Giovanni Fadda2, Stefania Zanetti1. 1Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari; 2Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; 3Laboratory of Mycobacterial Diseases and Cellular Immunology,.Center for Biologics Evaluation and Research, Food and Drug Administration, Bethesda, MD (USA). L’HBHA (Heparin-Bindindig Haemagglutinin) è una adesina coinvolta nel processo di disseminazione di Mycobacterium tuberculosis dal sito di infezione primaria ed è stata proposta come candidato per lo sviluppo di un nuovo vaccino contro la tubercolosi. La proteina HBHA ricombinante espressa in Escherichia coli non è metilata, mentre quella ottenuta da M. tuberculosis (HBHA nativa) è metilata e la metilazione conferisce caratteristiche immunologiche importanti. Poiché la proteina HBHA non è espressa in micobatteri avirulenti, scopo del presente studio è stato quello di esprimere la HBHA in micobatteri non virulenti e sviluppare un rapido e semplice protocollo di purificazione. La sequenza completa del gene che codifica l’HBHA è stata clonata nel plasmide pMV206, sia “in frame” con un promotore forte, che con il proprio promotore. Per i costrutti ottenuti con pMV206 sono stati utilizzati sia il gene intero che codifica HBHA, sia frammenti di esso, legati con sequenze che codificano sequenze segnale di diversi antigeni di micobatteri attivamente secreti (Ag85A, Ag85B, MPT64 e MPT63). I costrutti ottenuti sono stati elettroporati in Mycobacterium smegmatis e i ceppi ricombinanti ottenuti sono stati analizzati per la presenza della proteina HBHA con gli anticorpi monoclonali D2 e E4. I nostri risultati indicano che: a) l’over-espressione della proteina HBHA può essere tossica per Mycobacterium smegmatis; b) per ottenere l’HBHA metilata è necessario che sia espressa la proteina intera; c) la fusione con sequenze segnale blocca il processo di metilazione. Abbiamo, inoltre, ottenuto un ceppo ricombinante di M. smegmatis (pMV3-38) che esprime la proteina HBHA legata ad una coda di istidina. L’utilizzo di questo ceppo ha consentito di sviluppare un nuovo protocollo che risulta rapido ed efficace e che permette di la purificazione di elevate quantità di proteina. Tali studi potrebbero facilitare gli esperimenti volti allo sviluppo di nuovi strumenti profilattici che utilizzano la proteina HBHA. DETERMINAZIONE RAPIDA DELLA RESISTENZA ALLA RIFAMPICINA E ALL’ISONIAZIDE IN CEPPI CLINICI DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS MEDIANTE LA TECNOLOGIA “MICROELECTRONIC ARRAY” Maurizio Sanguinetti, Stefania Ranno, Linda Novarese, Barbara Fiori, Fausta Ardito, Brunella Posteraro e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma In coincidenza dell’aumento del numero di casi di tubercolosi in molti paesi industrializzati, negli ultimi anni si è assistito alla comparsa di ceppi di Mycobacterium tuberculosis farmaco-resistenti. È noto che mutazioni in una corta sequenza del gene rpoB conferiscono resistenza alla rifampicina (RIF), mentre le variazioni nucleotidiche nel codone 315 del gene katG sono state associate con la resistenza all’isoniazide (INH). Tali variazioni di sequenza rappresentano un ottimo bersaglio per lo sviluppo di metodi basati sull’uso di sonde. La tecnologia “microelectronic array”, recentemente introdotta da Nanogen per l’analisi del polimorfismo a singolo nucleotide (SNP), potrebbe essere applicata per la determinazione dell’antibiotico-resistenza. Per mezzo dello strumento NanoChipTM Molecular Biology Workstation, prodotti di PCR biotinilati derivati dai campioni da saggiare possono essere depositati elettronicamente sulla superficie di un microchip, dove molecole “stabilizer” ed oligomeri “reporter” marcati con i fluorofori Cy3 o Cy5 per ciascun gene di interesse sono fatti ibridare. L’intensità di fluorescenza rilevata per ciascun “reporter” permette di discriminare tra presenza e assenza di mutazione. Sono state disegnate quattro coppie di oligonucleotidi, ciascuna specifica per uno dei codoni dei geni target (315 di katG; 516, 526 e 531 di rpoB). In ogni coppia, l’oligomero “stabilizer” mantiene denaturata la doppia elica durante l’ibridazione dell’oligomero “reporter” che riconosce e si lega alla sequenza “wild type” del gene target. Sono stati quindi analizzati 10 ceppi clinici di M. tuberculosis resistenti ad INH e RIF, in cui la presenza di mutazioni è stata accertata mediante sequenziamento genico. Da tali ceppi sono state amplificate mediante PCR le regioni dei geni katG e rpoB, che sono state quindi analizzate mediante il sistema Nanogen. Inoltre, sono stati inclusi come controlli il ceppo di riferimento H37Rv (pansensibile) e due ceppi clinici sensibili a INH e RIF. In nessun caso gli oligomeri “reporter” sono stati in grado di ibridare con gli amplificati dei ceppi resistenti, mentre si legavano correttamente a quelli dei ceppi di controllo sensibili. I risultati dimostrano che la suddetta tecnologia potrebbe essere applicata per lo screening rapido di resistenza ad INH e RIF in M. tuberculosis. 106 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA RISPOSTA ANTICORPALE VERSO ANTIGENI DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS IN SIERI DI PAZIENTI CON MALATTIA TUBERCOLARE Alessandra Bua, Cinzia Pusceddu, Giovanni Delogu, Leonardo Sechi, Stefania Zanetti, Piero Pirina*, F. Saba**, M.S. Mura** Dipartimento Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia Università degli Studi di Sassari; * Tisiologia e Malattie dell’Apparato Respiratorio Università degli Studi di Sassari; ** Malattie Infettive e Parassitarie. La tubercolosi rappresenta ancora oggi un’emergenza sanitaria globale. Lo sviluppo di sistemi diagnostici più specifici e sensibili potrebbe fornire un importante contributo per la messa a punto di nuovi strumenti di controllo e di prevenzione. Allo scopo di mettere a punto un nuovo sistema di diagnosi sierologica, sono stati selezionati ed espressi in Escherichia coli antigeni di Mycobacterium tuberculosis (Ag85B, 1818cPE_PGRS, 1818cPE e HBHA). Le proteine purificate sono state utilizzate per saggiare, in test immunoenzimatici (ELISA), la presenza di anticorpi IgG specifici in sieri umani. Inoltre, poiché la proteina HBHA risulta essere metilata nella forma nativa ma non in quella ricombinante, allo scopo di valutare l’importanza della metilazione nel riconoscimento antigenico, sono state utilizzate entrambe le proteine purificate. In questo lavoro sono stati analizzati 80 sieri di pazienti provenienti dalla Clinica Tisiologica e dal reparto di Malattie Infettive dell’Università di Sassari (pazienti PPD negativi, pazienti PPD positivi dopo vaccinazione con BCG, pazienti PPD positivi malati di tubercolosi e PPD positivi con coinfezioni). I nostri primi risultati dimostrano che:1) gli antigeni Ag85B, 1818cPE_PGRS e 1818cPE mostrano una ridotta reattività nei confronti dei sieri umani da noi saggiati; 2) tra gli antigeni analizzati la proteina HBHA mostra la maggiore sensibilità nei confronti dei sieri di pazienti con tubercolosi polmonare. L’HBHA potrebbe rappresentare pertanto un promettente candidato per la messa a punto di un nuovo sistema per la sierodiagnosi delle infezioni da M. tuberculosis. L’INFEZIONE DA BORDETELLA PERTUSSIS IN CELLULE DENDRITICHE UMANE PROMUOVE LA PRODUZIONE DI ELEVATI LIVELLI DI IL-10 INIBENDO LA PRODUZIONE DI IL-12. Fabiana Spensieri, Giorgio Fedele, Paola Stefanelli, Cecilia Fazio, Raffaella Palazzo, Paola Mastrantonio Clara M. Ausiello Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma Bordetella pertussis è l’agente eziologico della pertosse, un’infezione acuta delle vie respiratorie. Il batterio codifica diversi fattori di virulenza i quali giocano un ruolo nell’infezione del tratto respiratorio e nell’induzione di una risposta immunitaria sia anticorpale che cellulare. I meccanismi che sono implicati nei processi di “escape” indotti dalla B. pertussis durante l’infezione e quelli alla base dei processi di protezione indotti dalla vaccinazione sono ancora poco chiari. Dato il ruolo centrale delle cellule dendritiche (DC) nell’ambito della risposta immunitaria, sono stati condotti esperimenti di infezione con B. pertussis di DC derivate da monociti umani. Oltre al ceppo WT, sono stati utilizzati ceppi mutanti per i fattori di virulenza presenti nei vaccini acellulari, come la tossina della pertosse (Ptx-), l’adesina emagglutinina filamentosa (Fha-) e l’adesina pertactina (Prn-). Si è utilizzato, inoltre, il mutante per la tossina adenilatociclasi (Act-) inquanto la tossina presenta importanti attività sul sistema immunitario. La B. pertussis è fagocitata dalle DC. Il mutante Prn- viene internalizzato in misura maggiore rispetto al ceppo WT mentre Act- ha un andamento parallelo al ceppo WT. La presenza della PTX sembra ostacolare l’entrata del batterio nelle DC mentre la FHA sembra essere un fattore importante per l’adesione e di conseguenza per la sua internalizzazione. Una volta internalizzato, il batterio non è in grado di sopravvivere a lungo, confermando studi precedenti condotti su neutrofili e macrofagi. Le DC stimolate con B. pertussis sono indotte rapidamente a maturazione ed esprimono marcatori molecolari di maturazione e molecole co-stimolatorie dei linfociti T. Una volta infettate le DC producono grandi quantità di IL-10 mentre la produzione di IL-12 è praticamente assente. Tali DC sono in grado di presentare molecole antigeniche ai linfociti T eterologhi inducendone una buona proliferazione ed inoltre di polarizzare i linfociti T “naïve” verso un fenotipo misto Th1/Th2 con produzione di IFN-g (Th1), IL-4 e IL-5 (Th2). In conclusione, l’elevata produzione di IL-10 indotta dall’infezione con B. pertussis nelle DC inibisce la produzione di IL-12 che ha un ruolo chiave nell’induzione di risposte immunitarie protettive nei confronti del batterio. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 107 STUDI DI INIBIZIONE DELL’ADESIVITÀ DI V.PARAHAEMOLYTICUS A CELLULE EPITELIALI MEDIANTE ANALISI CITOFLUORIMETRICA. Baffone W.1, Falcioni T.2 , Vittoria E.1, Zucchini A.3, Citterio B.1, Papa S.3 1Istituto di Scienze Tossicologiche, Igienistiche ed Ambientali, 2Istituto di Scienze Morfologiche, 3Centro di Citometria e Citofluorimetria, Università di Urbino, Urbino (Italy) L’adesione batterica alla cellula ospite è una interazione altamente specifica mediata da molecole espresse sulla loro superficie che può essere inibita da diversi carboidrati. Lo studio dell’inibizione dell’adesione, pertanto, può risultare importante nella caratterizzazione delle adesine batteriche coinvolte nel processo di colonizzazione di agenti patogeni nell’organismo umano. Nel presente lavoro l’inibizione dell’adesività è stata valutata in uno stipite ambientale di Vibrio parahaemolyticus, specie microbica per la quale è già stata dimostrata una correlazione positiva tra emoagglutinazione mannosio-sensibile e adesività del vibrione agli enterociti. Parallelamente alla classica osservazione al microscopio ottico è stata impiegata l’analisi citofluorimetrica. La metodica adottata per valutare quantitativamente l’inibizione dell’adesione alla cellula ospite prevede l’identificazione delle cellule batteriche adese con anticorpo primario (anti-V.parahaemolyticus preparato nel nostro laboratorio) e anticorpo secondario coniugato con FITC. La concentrazione degli anticorpi e la specificità di legame sono state valutate eseguendo prove preliminari al fine di ottimizzare la procedura di analisi. Monostrati cellulari di Hep-2 sono stati infettati con i batteri, previa incubazione per 30 minuti con i monosaccaridi in esame (D–glucosio, D-mannosio, D-fucosio, D-galattosio e N-acetil-galattosamina) e successiva aggiunta di anticorpo primario e secondario. La lettura citofluorimetrica ha permesso di valutare la diminuzione del numero di vibrioni adesi alla superficie delle cellule epiteliali dopo incubazione in presenza di D-mannosio, mediante l’evidenziazione della riduzione di intensità di fluorescenza rispetto ai controlli; nessuna variazione di fluorescenza è stata riscontrata quando sono stati impiegati D-fucoso, D-glucoso, D-galattoso e N-acetil-galattosamina. In conclusione, i risultati evidenziano che l’attacco di Vibrio parahaemolyticus alla cellula ospite è prevalentemente mediato da adesine mannosio-sensibili e che l’analisi citofluorimetrica, in combinazione con la tecnica di immunofluorescenza indiretta, appare essere una metodica rapida ed attendibile per la valutazione quantitativa del processo adesivo. PATOGENICITÀ E ANTIBIOTICO-RESISTENZA IN CAMPYLOBACTER. G. A. Botta 1, 2, A.R. Ismaeel 2, K. Bindayna 2, A. Arzese 1, A. Jamsheer 3, A. Qarieballa 3, A.A. Mahmeed 3, V. Rotimi 4. 1 Cattedra di Microbiologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Udine; 2 Arabian Gulf University, Bahrain; 3 Salmaniya Medical Complex, Baharain; 4. School of Medicine, Kuwait. Il nostro Gruppo Internazionale è interessato a patologie infettive dell’infanzia, con attenzione all’apparato gastrointestinale: vengono qui presentati i risultati ottenuti sia nel settore clinico sia molecolare, utilizzando come modello Campylobacter jejuni (C.j.). A partire da 96 isolati clinici di C.j. raccolti in due strutture ospedaliere,1 veniva valutata la patogenicità dei microorganismi mediante saggio dell’invasività e della produzione di tossina su HeLa e INT 407. A livello molecolare, mediante PCR, veniva sondata negli stessi ceppi clinici.la presenza dei geni correlati con la produzione di tossina citoletale distensiva e con l’invasività (cdtB e iam). A livello clinico, veniva valutata la correlazione tra decorso clinico e gravità dell’infezione. La coprocoltura routinaria prevedeva la ricerca di un ampio spettro di patogeni batterici, virali e parassitari. Entrambi i fattori CDT e IAM erano identificati nel 52% degli stipiti di C.j. isolati da pazienti sintomatici, nel 27% era presente solo CDT; nell’11% dei pazienti sintomatici gli isolati non presentavano nessuno dei due geni. Ciò suggerisce che siano coinvolti altri fattori di patogenicità di C.j, o che esistano ceppi di C.j non patogeni, o infine che la patologia fosse sostenuta da germi insoliti. La sensibilità antimicrobica di 60 C.j. era saggiata mediante E-test e il metodo di diluizione in agar. Gli stipiti risultavano resistenti a ciprofloxacina (81.7%), tetraciclina (38.3%) ed eritromicina (5%). Non si sono osservate discrepanze tra i metodi utilizzati. E’ verosimile che il grado di resistenza al farmaco chinolonico sia correlato con il largo impiego extraospedaliero di tali antibiotici. Ulteriori studi effettuati dal nostro Gruppo hanno approfondito l’ interazione antibiotici-fattori di patogenicità, mediante esposizione a concentrazioni sub-inibenti di eritromicina e di ciprofloxacina di gruppi CDT-PCR positivi e CDT-PCR negativi di stipiti di C.j. L’esposizione ai farmaci determinava un aumento di tossina prodotta in base al saggio su HeLa e INT 407: ciò costituisce una chiara evidenza sperimentale alla generale raccomandazione di evitare trattamenti antibiotici non necessari a pazienti affetti da infezione da C.j. CDT-positivi. 1. A.Y. Ismaeel, et al. Saudi Medical Journal 2002, vol. 23(9): 1064-1069. 108 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CHLAMYDIA PNEUMONIAE ED L’HSP60 NELLE SINDROMI CORONARICHE ACUTE: STUDIO DELLA RISPOSTA IMMUNE UMORALE E CELLULO-MEDIATA. Alessandra Ciervo1, Marisa Benagiano2, Luigi Marzio Biasucci3, Attilio Maseri4, Filippo Crea3, Gianfranco Del Prete2, Antonio Cassone1. 1Dipartimento di Malattie Infettive Parassitarie ed Immunomediate, Laboratorio di Batteriologia e Micologia Medica, Istituto Superiore di Sanità, Roma. 2Dipartimento di Medicina Interna, Università di Firenze. 3Istituto di Cardiologia, Università Cattolica, Roma. 4Dipartimento di Cardiotoracica e Vascolare, Università Vita e Salute, Milano. Le sindromi coronariche acute (ACS) e l’aterosclerosicostituiscono una delle maggiori cause di morte nei paesi industrializzati. La lesione aterosclerotica può portare alla lenta ma progressiva formazione della placca derivante da specifici meccanismi molecolari sia umorale che cellulo-mediata. Inoltre il continuo e prolungato stimolo alla base di tale meccanismo innesca un processo infiammatorio di tipo autoimmunela cui instabilità è fortemente influenzata da fattori dell’ospite di natura infiammatoria , da risposte anti-infettive e probabilmente anche autoimmuni. Un particolare interesse ha e sta tuttora sollevando,è stato sollevato dall’ipotesi di una la stretta correlazione tra questa patologia e l’infezione cronica da Chlamydia pneumoniae (CP). Inoltre Iin tale contesto molti autori ritengono che la proteina heat-shock 60 di clamidia (CP-HSP60) e/o umana possa/no rappresentare un particolare stimolo antigenico capace di suscitare una forte risposta immune con rilevanti sequele immunopatologiche ed instabilità della placca ateromatosa. In un nostro recente studio metodologico abbiamo osservato una elevata presenza di anticorpi IgG anti CP-HSP60 in soggetti con ACS (99%), mentre tali anticorpi erano assenti una bassa presenza (20%) nei soggetti con angina stabile e 0% nei nei soggetti di controllo. Al contrario una bassa correlazione (r = 0.56) è stata trovata in tutti i soggetti tra la sieroreattività IgG ELISA e la MIF (microimmunofluorescenza) che rivela titoli anticorpali verso l’intero patogeno. La metodica utilizzata in tale indagine è stata un’ELISA indiretta house-made che utilizza la CP-HSP60 ricombinante come antigene. Abbiamo quindi eseguito uno studioIn uno studio successivo (2) ma strettamente collegato a quello già menzionato, l’ELISA che ci ha permesso di ricercare gli anticorpi specifici anti-CP-HSP60 in un follow-up di pazienti ben caratterizzati per i fattori di rischio di ACS e che avevano subito uno o più episodi di cardiopatia ischemicanei sieri dei pazienti ma anche di misurarne il titolo ed in 41 pazienti ACS, con la disponibilità di un secondo campione di siero a distanza di 350 ± 260 giorni, è stato possibile eseguire uno studio di follow-up. In tutti questi pazienti il titolo anticorpale anti-CP-HSP60 diminuiva da 0.88 ± 0.25 a 0.45 ± 0.14 (P < 0.0001) e 12 di essi si negativizzavano,entro un periodo di follow-up di 350 +-260 giorni. ‘E di rilievo il fatto che mentre i titoli MIF rimanevano invariati. Questi studi suggeriscono che gli anticorpi verso CP-HSP60 potrebbero essere considerati dei marcatori altamente sensibili nelle ACS. Un terzo lavoro (3) ci ha permesso diAbbiamo infine condotto condurre degli studi d’immunità cellulo-mediata utilizzando su linfociti-T attivati in vivo infiltranti placche aterosclerotiche di pazienti con o senza anticorpi anti-CP. Da tutte In tutte le lesioni aterosclerotiche positive in PCR per CP sono stati generati cloni CD4+ , predominantemente con profilo Th1 , molti dei quali riconoscevano antigeni di CP, in particolare CP-HSP60è stata riscontrata una predominanza di linfociti T helper di tipo 1 (Th1) con specifico pattern citochinico. Inoltre, soltanto nelle placche dei pazienti CP sieropositivi sono state trovate cellule T specifiche per CP, per CP-HSP60, per altre proteine ricombinanti di CP, nonché tramite amplificazione genica per PCR è stato rilevato il DNA del batterio. Nell’insieme, i dati ottenuti rendono probabile un ruolo delle risposte umorali e cellulari a C. pneumonate nella patogenesi se non nell’eziologia delle cardiopatie ischemiche, almeno in alcune categorie di soggetti.Tutti questi dati che confermano una fine specificità, mettono in evidenza un preciso ruolo antigenico di CP e di alcuni suoi componenti e prodotti. E’ possibile speculare che i macrofagi presentanti l’antigene nelle placche possano divenire bersagli di azioni citotossica e proapoptotica da parte di cellule Th1 attivate conducendo un’intenso processo infiammatorio amplificando e complicando la lesione aterosclerotica EFFETTI BENEFICI DEL PEPTIDE PR-39 IN UN MODELLO DI SHOCK ENDOTOSSICO NEONATALE MURINO V. CUSUMANO, D. DELFINO, V.V. CUSUMANO Dipartimento di Patologia e Microbiologia Sperimentale.Università di Messina Allo scopo di accertare eventuali effetti protettivi del peptide antibatterico PR-39, che sappiamo essere dotato di un effetto inibitore sull’espressione del gene responsabile della sintesi dell’NF-kB, si è impiegato un modello murino di shock endotossico neonatale. I topolini neonati sono stati inoculati con il peptide 2 ore prima, contemporaneamente e 6 ore dopo l’induzione dello shock mediante lipopolisaccaride di E.coli. Si è osservato che la percentuale di mortalità era più bassa nei topolini trattati col peptide rispetto ai controlli ma la differenza di mortalità era significativa soltanto negli animali trattati prima o in contemporanea all’induzione dello shock. E’ stata anche allestita una curva dose-azione. In considerazione del fatto che il Tumor necrosis factor (TNF) è stato riconosciuto come principale responsabile dello shock endotossico nel neonato , si è proceduto al suo dosaggio nel sangue dei topolini trattati col peptide e di quelli controllo. Negli animali pretrattati col peptide o inoculati in contemporanea con LPS si è osservato una netta diminuzione della produzione di TNF rispetto ai controlli. I risultati ottenuti teorizzano la possibilità dell’impiego del peptide antibatterico PR-39 nella prevenzione e nella cura dello shock endotossico neonatale, una patologia caratterizzata dall’elevata letalità e dalla scarsa efficacia della tradizionale terapia. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 109 L’INFEZIONE DA BORDETELLA PERTUSSIS IN CELLULE DENDRITICHE UMANE PROMUOVE LA PRODUZIONE DI ELEVATI LIVELLI DI IL-10 INIBENDO LA PRODUZIONE DI IL-12. Fabiana Spensieri, Giorgio Fedele, Paola Stefanelli, Cecilia Fazio, Raffaella Palazzo, Paola Mastrantonio Clara M. Ausiello Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma Bordetella pertussis è l’agente eziologico della pertosse, un’infezione acuta delle vie respiratorie. Il batterio codifica diversi fattori di virulenza i quali giocano un ruolo nell’infezione del tratto respiratorio e nell’induzione di una risposta immunitaria sia anticorpale che cellulare. I meccanismi che sono implicati nei processi di “escape” indotti dalla B. pertussis durante l’infezione e quelli alla base dei processi di protezione indotti dalla vaccinazione sono ancora poco chiari. Dato il ruolo centrale delle cellule dendritiche (DC) nell’ambito della risposta immunitaria, sono stati condotti esperimenti di infezione con B. pertussis di DC derivate da monociti umani. Oltre al ceppo WT, sono stati utilizzati ceppi mutanti per i fattori di virulenza presenti nei vaccini acellulari, come la tossina della pertosse (Ptx-), l’adesina emagglutinina filamentosa (Fha-) e l’adesina pertactina (Prn-). Si è utilizzato, inoltre, il mutante per la tossina adenilatociclasi (Act-) inquanto la tossina presenta importanti attività sul sistema immunitario. La B. pertussis è fagocitata dalle DC. Il mutante Prn- viene internalizzato in misura maggiore rispetto al ceppo WT mentre Act- ha un andamento parallelo al ceppo WT. La presenza della PTX sembra ostacolare l’entrata del batterio nelle DC mentre la FHA sembra essere un fattore importante per l’adesione e di conseguenza per la sua internalizzazione. Una volta internalizzato, il batterio non è in grado di sopravvivere a lungo, confermando studi precedenti condotti su neutrofili e macrofagi. Le DC stimolate con B. pertussis sono indotte rapidamente a maturazione ed esprimono marcatori molecolari di maturazione e molecole co-stimolatorie dei linfociti T. Una volta infettate le DC producono grandi quantità di IL-10 mentre la produzione di IL-12 è praticamente assente. Tali DC sono in grado di presentare molecole antigeniche ai linfociti T eterologhi inducendone una buona proliferazione ed inoltre di polarizzare i linfociti T “naïve” verso un fenotipo misto Th1/Th2 con produzione di IFN-g (Th1), IL-4 e IL-5 (Th2). In conclusione, l’elevata produzione di IL-10 indotta dall’infezione con B. pertussis nelle DC inibisce la produzione di IL-12 che ha un ruolo chiave nell’induzione di risposte immunitarie protettive nei confronti del batterio. IL FATTORE CITOTOSSICO NECROTIZZANTE 1 (CNF1) DI ESCHERICHIA COLI COME AGENTE PRO-INFIAMMATORIO E MODULANTE IL SISTEMA IMMUNE L. FALZANO*, M.G. QUARANTA∑, E. STRAFACE, A. FABBRI*, M. VIORA∑, W. MALORNI, C. FIORENTINI* * Laboratorio di Ultrastrutture e ∑ Laboratorio di Immunologia, Istituto Superiore di Sanità, Istituto Superiore di Sanità, Viale Regina Elena, 299 – 00161 Roma. La secrezione di tossine proteiche che modulano l’attività delle GTPasi della famiglia Rho, proteine coinvolte principalmente nell’organizzazione delle proteine citoscheletriche e nella trascrizione, può influenzare la patogenesi e l’insorgenza di malattie causate da diverse specie batteriche. Il Fattore Citotossico Necrotizzante 1 (CNF1), una tossina proteica prodotta da numerosi ceppi patogeni di Escherichia coli che attiva permanentemente le Rho GTPasi (1), è stata oggetto di numerosi studi volti a chiarire il suo ruolo quale fattore di virulenza. In particolare, è stata dimostrata la capacità del CNF1 di a) promuovere la trascrizione e il rilascio di citochine proinfiammatorie e di indurre un aumento nella produzione di specie attive dell’ ossigeno (ROS) in cellule uroepiteliali; b) promuovere la macropinocitosi in cellule epiteliali, un fenomeno citoscheletro-dipendente che porta alla cattura di batteri patogeni e alla rimozione di cellule apoptotiche (2, 3). Il CNF1 quindi può essere considerato un elemento chiave nell’infiammazione e nei processi infettivi provocati da ceppi uropatogeni di E. coli. La sua attività sulle Rho GTPasi, inoltre lo candida a modulatore del sistema immune mucosale. Il nostro gruppo ha recentemente osservato che l’attivazione delle Rho GTPasi, e in particolare di Rac, dovuta l’attività enzimatica del CNF1 rappresenta un pre-requisito fondamentale sia nella fase di “binding” che nell’attività citotossica delle cellule “Natural killer” (NK), la cui funzione è strettamente dipendente dal citoscheletro. Questi risultati ci indicano come le tossine batteriche che agiscono sulle Rho GTPasi possano giocare un ruolo fondamentale nella modulazione del sistema immune interferendo con la funzione o il differenziamento delle cellule che regolano la risposta immune locale. References Flatau et al. (1997). Nature 387: 729-733. Falzano et al., (2003). Infect. Immun.71: 4178-4181. Fiorentini et al. (2001). Mol. Biol. Cell 12:2061-2073. 110 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA ENZIMI DELLA FAMIGLIA CTX-M IN ISOLATI OSPEDALIERI E COMUNITARI DI ESCHERICHIA COLI G. Brigante1, F. Luzzaro1, M. Perilli2, A. Colì1, D. Ettorre2, G. M. Rossolini3, G. Amicosante2, A. Toniolo1 1Laboratorio di Microbiologia, Ospedale di Circolo e Università dell’Insubria, Varese, 2Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università di L’Aquila, 3Dipartimento di Biologia Molecolare, Università di Siena Obiettivi: Gli enzimi della famiglia CTX-M sono beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL), in grado cioè di idrolizzare anche le cefalosporine di ultima generazione. Negli ultimi anni questi enzimi sono stati descritti con sempre maggiore frequenza in Europa. In Italia i dati sulla diffusione e la prevalenza di questi enzimi sono scarsi. Nel nostro studio abbiamo valutato la presenza di ESBL di tipo CTX-M negli isolati clinici di Escherichia coli. Materiali e Metodi: Sono stati studiati complessivamente 12.386 isolati non duplicati di E. coli raccolti presso l’Ospedale di Circolo di Varese negli anni 2000-2002. In accordo con i criteri NCCLS, gli isolati sono stati considerati come sospetti produttori di ESBL quando la MIC per cefotaxime e/o ceftazidime era ≥ 2 mg/L. Il test di sinergia secondo Jarlier è stato utilizzato come test di conferma. Gli isolati ESBL-positivi sono stati poi studiati mediante ibridizzazione con probes specifici per rilevare la presenza di geni codificanti per la produzione di enzimi di tipo CTX-M. Risultati: Sono stati identificati 26 ceppi di E. coli CTX-M-positivi. La maggior parte degli isolati era caratterizzata da MIC elevate per cefotaxime (> 32 mg/L) e MIC di 1-2 mg/L per il ceftazidime. Alcuni isolati presentavano MIC elevate per tutte le cefalosporine, incluso il ceftazidime. L’espressione di CTX-M è risultata associata con la resistenza a tetraciclina, co-trimoxazolo e ciprofloxacina. In alcuni casi i geni CTX-M sono risultati trasferibili mediante coniugazione. I batteri CTX-M-positivi provenivano sia da pazienti ambulatoriali che da pazienti ospedalizzati. La maggior parte degli isolati era responsabile di infezione del tratto urinario, ma in alcuni casi gli isolati sono stati ottenuti anche da basse vie respiratorie, ferite chirurgiche e sangue. Cinque pazienti ambulatoriali hanno presentato infezioni urinarie ricorrenti causate da ceppi CTX-M-positivi. Conclusioni: Lo studio dimostra la diffusione di enzimi di tipo CTX-M in isolati di E. coli presenti nella nostra realtà locale e mette in evidenza il loro ruolo anche nelle infezioni ricorrenti. Un costante monitoraggio è necessario per valutare le dinamiche della diffusione di questi nuovi determinanti di resistenza. IDENTIFICAZIONE E CARATTERIZZAZIONE DI UNA NUOVA VARIANTE DEL GENE BLAVIM1, CODIFICANTE PER UNA METALLO- B-LATTAMASI IN PSEUDOMONAS AERUGINOSA V. Corsini, A. Bertozzi, G. Pardini, E. Ghelardi, M. Campa, S. Senesi, L. Ceccherini-Nelli Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa La famiglia delle b-lattamasi comprende una classe di enzimi che richiedono un cofattore metallico, quale zinco o cadmio, per la loro attività catalitica. Questi enzimi, definiti metallo b-lattamasi (MBL), sono particolarmente diffusi nei batteri Gram-negativi, quali Pseudomonas spp., Stenotrophomonas spp. ed Acinetobacter spp. Scopo dello studio è stato quello di valutare il contributo di MBL nella resistenza ai carbapenemici in ceppi di P. aeruginosa multiresistenti a b-lattamici. A tale scopo, da una collezione di 829 isolati clinici, sono stati selezionati 80 ceppi multiresistenti a b-lattamici. Tra questi, due isolati clinici, di seguito denominati Pa92 e Pa300, sono risultati produttori di MBL. Allo scopo di caratterizzare quale gene, tra quelli compresi nella famiglia MBL (sottofamiglie blavim e blaimp ) conferisse il fenotipo di resistenza in Pa92 e Pa300, è stata effettuata una amplificazione del DNA genomico e plasmidico in PCR con primer specifici per i geni blavim e blaimp. Gli amplificati, ottenuti esclusivamente dal DNA genomico, sono stati clonati in un ceppo di E. coli sensibile ai b-lattamici, utilizzando il plasmide pBAD202/D topoisomerasi. L’analisi della sequenza ha dimostrato che: (i) il gene codificante per MBL nel ceppo Pa300 è identico al gene blavim1 (omologia del 100% tra le rispettive sequenze nucleotidiche); ( ii) il gene presente nel ceppo Pa92, pur avendo una porzione omologa al gene blavim4, presentava, a monte del primo codone d’inizio della traduzione, una regione di 54 nucleotidi, nella giusta cornice di lettura, non identificata in banca dati. E’ stato dimostrato, inoltre, mediante RT-PCR, che entrambi i geni blavim venivano trascritti in P. aeruginosa, e che le proteine codificate dai due geni blavim, clonati in E. coli, portavano all’espressione, valutata mediante immunoblot, di due MBL metabolicamente attive. Infatti, i ceppi di E. coli, trasformati con i geni blavim acquisivano resistenza verso tutti i farmaci b-lattamici saggiati, compresi i carbapenemici. In conclusione, il presente studio ha permesso di identificare una nuova variante del gene blavim1, da noi denominata blavim5, codificante per una b-lattamasi metallo dipendente attiva cui è ascrivibile la multiresistenza del ceppo Pa92 a composti b-lattamici. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 111 DIVERSITÀ DELLE METALLO-B-LATTAMASI DI TIPO IMP IN ITALIA: CARATTERIZZAZIONE DI IMP-13, UNA NUOVA VARIANTE ALTAMENTE DIVERGENTE J.-D. DOCQUIER, C. MUGNAIOLI, G. AMICOSANTE*, G.M. ROSSOLINI Dipartimento di Biologia Molecolare, Sezione di Microbiologia, Università di Siena, e *Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università di L’Aquila. L’importanza delle metallo-b-lattamasi come determinanti di resistenza acquisita in Pseudomonas spp., Acinetobacter spp., e in altri patogeni opportunisti Gram-negativi è dovuta alle loro caratteristiche funzionali: capacità di idrolizzare con alta efficienza i carbapenemi e le cefalosporine a spettro esteso, e resistenza agli inattivatori delle b-lattamasi (acido clavulanico e solfoni dell’acido penicillanico). In Italia sono state identificate diverse varianti di enzimi di tipo IMP, che mostrano una considerevole divergenza strutturale rispetto ad IMP-1. In questo lavoro viene descritta la caratterizzazione di una nuova variante IMP, IMP13, identificata in un isolato clinico di Pseudomonas aeruginosa. I profili di sensibilità sono stati determinati secondo i criteri del NCCLS. La natura del determinante codificante la metallo-blattamasi acquisita, e del suo supporto genetico, è stata studiata mediante esperimenti di ibridazione e una tecnica di mappatura mediante PCR e sequenziamento diretto dei prodotti di amplificazione. L’enzima è stato purificato mediante cromatografia da Escherichia coli BL21(DE3) trasformato con un plasmide ricombinante derivato dal vettore pET-9a, dove il gene blaIMP13 è stato clonato sotto il controllo transcrizionale del promotore T7. I parametri cinetici (kcat e Km) di IMP-13 sono stati determinati registrando spettrofotometricamente l’idrolisi di substrati b-lattamici in condizione di velocità iniziale, nelle stesse condizione di tampone e temperatura utilizzate per lo studio di IMP-1. P. aeruginosa AT-07/02 è stato isolato presso l’Ospedale di Atri nel 2002. AT-07/02 mostra un fenotipo di multi-resistenza comprendente carbapenemi e cefalosporine a spettro esteso. La metallo-b-lattamasi IMP-13 mostra una divergenza notevole (dal 7 al 15%) rispetto a tutte le altre varianti IMP finora descritte. IMP-13 è codificata da una cassetta genica inserita in un integrone di classe 1 localizzato sul cromosoma, che contiene anche una cassetta aacA4 codificante un aminoglicoside-acetiltransferasi. In E. coli, la produzione di IMP-13 conferisce una riduzione della sensibilità a molti b-lattamici. La caratterizzazione biochimica dell’enzima purificato ha rivelato delle significative differenze funzionali sia rispetto all’enzima IMP-1, sia rispetto alle altre varianti IMP trovate in Italia (IMP-2 e IMP-12). PRIMO ISOLAMENTO DI KLEBSIELLA PNEUMONIAE E DI ENTEROBACTER CLOACAE PRODUTTORI DELLA METALLO-BETA-LATTAMASI VIM-1 F. Luzzaro1, J.-D. Docquier2, A. Endimiani1, C. Colinon2, G. Lombardi1, G. Amicosante3, G. M. Rossolini2, A. Toniolo1 1Laboratorio di Microbiologia, Ospedale di Circolo e Università dell’Insubria, Varese, 2Dipartimento di Biologia Molecolare, Università di Siena, 3Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università di L’Aquila Obiettivi: Le metallo-beta-lattamasi (MBL) acquisite di tipo VIM sono nuovi e temibili determinanti di resistenza in grado di idrolizzare quasi tutti i beta-lattamici, inclusi i carbapenemici. Le MBL sono per lo più codificate da elementi genetici mobili e si ritrovano più comunemente nei batteri Gram-negativi non fermentanti ma la loro frequenza negli enterobatteri è in aumento. In Europa, la produzione dell’enzima VIM-1 fra le Enterobacteriaceae è stata dimostrata solo in un isolato di Escherichia coli. Nel nostro studio riportiamo per la prima volta l’isolamento di ceppi di Klebsiella pneumoniae e di Enterobacter cloacae VIM1-positivi. Metodi: La sensibilità agli antibiotici è stata determinata ed interpretata sulla base dei criteri NCCLS. La presenza e la natura dei geni codificanti per le MBL è stata studiata mediante valutazione dell’attività idrolitica verso imipenem, ibridizzazione con sonde specifiche dopo amplificazione mediante PCR e sequenziamento. Risultati: Nel giugno 2002 sono stati isolati un ceppo di K. pneumoniae ed uno di E. cloacae caratterizzati da resistenza multipla ai farmaci e diminuita sensibilità ai carbapenemici. Gli isolati provenivano dal drenaggio addominale di un paziente ricoverato nel reparto di Terapia intensiva dell’Ospedale di Circolo di Varese e sottoposto a terapia con imipenem da 4 settimane. L’attività idrolitica verso l’imipenem era inibita dall’aggiunta di EDTA. La RFLP-multiplex PCR indicava la presenza del gene blaVIM-1. Il dato è stato confermato mediante il sequenziamento diretto del DNA. In entrambi gli isolati il determinante genico era trasportato su un plasmide, apparentemente identico, che è stato trasferito in E. coli mediante coniugazione. Conclusioni: Lo studio riporta per la prima volta l’isolamento di ceppi di K. pneumoniae e di E. cloacae VIM-1-positivi. Nella nostra esperienza è risultata una diretta correlazione fra trattamento terapeutico con imipenem e selezione di batteri produttori di MBL. La diffusione di carbapenemasi veicolate da plasmidi coniugativi in differenti specie di enterobatteri è particolarmente allarmante e sottolinea la necessità di un programma di sorveglianza continua orientato a rivelare questi importanti determinanti di resistenza tra gli enterobatteri di isolamento clinico. 112 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA CLONAGGIO E CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DEL GENE ANIA DI NEISSERIA MENINGITIDIS Paola Stefanelli1*, Gianni Colotti2, Arianna Neri1, Cecilia Fazio1, Rodolfo Ippoliti3, Paola Mastrantonio1 1 Laboratorio di Batteriologia e Micologia Medica, Istituto Superiore di Sanita’, Roma 2 Dipartimento di Scienze Biochimiche, Universita’ La Sapienza, Roma 3 Dipartimento di Biologia di Base ed Applicata, Università degli Studi di L’Aquila Diversi studi hanno dimostrato che il prodotto del gene aniA, ad attivita’ nitrito reduttasica inducibile, e’ una lipoproteina della membrana esterna necessaria per la denitrificazione durante la crescita anaerobia di Neisseria. In diverse fasi della colonizzazione e infezione del batterio esistono concentrazioni limitate di ossigeno e quindi, la capacita’ di utilizzare la denitrificazione, via NO, grazie alla presenza anche di questo enzima, rende il batterio in grado di sopravvivere all’effetto tossico di composti dell’NO, prodotti dai macrofagi presenti nel nasofaringe, o da condizioni di stress ambientale. Scopi dello studio sono: 1) clonare ed esprimere il prodotto del gene aniA del ceppo di riferimento N. meningitidis MC58, per poi caratterizzarlo biochimicamente; 2) studiare la conservazione del gene aniA tra ceppi diversi di meningococco attraverso analisi di sequenza; 3) valutare l’espressione, mediante mRNA e RT-PCR, della proteina prodotta in diverse condizioni sperimentali. Dopo amplificazione in PCR, il gene aniA e’ stato interamente sequenziato (1,172 bp) per 7 ceppi di N. meningitidis di cui 6 invasivi e 1 isolato da un portatore. L’analisi di sequenza ha messo in evidenza un‘elevata similitudine tra i ceppi ed in 1 ceppo invasivo, la presenza di una delezione di 4 aminoacidi ( PAET) in posizione aminoacidica 28 e di una inserzione di 9 aminoacidi (ATGQGGGAA) in posizione 110. Dal ceppo di N. meningitidis MC58 e’ stata clonata ed espressa la proteina AniA utilizzando il vettore di clonaggio pET28 in cellule di E. coli BL21(DE3) indotte con 1mM IPTG. La proteina AniA del ceppo MC58 e’ sempre espressa sia in condizioni aerobie che anaerobie di crescita in presenza o assenza di composti dell’NO (es.NaNO2), come dimostrato dal’analisi dell’mRNA e RT-PCR. E’ possibile ipotizzare che la capacita’ di N. meningitidis di crescere grazie alla denitrificazione puo’ essere fisiologicamente rilevante nelle varie fasi di infezione in vivo ed anche nella protezione verso composti esogeni dell’NO prodotti, ad esempio, dai macrofagi residenti nel nasofaringe. CORRELAZIONI EPIDEMIOLOGICHE E MOLECOLARI TRA ENTEROCOCCHI VANCOMICINORESISTENTI (VRE) DI ORIGINE UMANA E ANIMALE ISOLATI IN ITALIA E IN NORVEGIA. F. Biavasco1, G. Donelli2, B. Facinelli1,G. Foglia1, C. Paoletti1, I. Cochetti1, E. Guaglianone1,2, A. Sundsfjord3, C. Pruzzo1. 1 Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marche, Ancona. 2. Istituto Superiore di Sanità, Roma. 3 Institute of Medical Biology, University of Tromso, Norway. Sono stati raccolti e analizzati 141 VRE di origine umana e animale provenienti da diverse regioni d’Italia e 10 VRE (5 umani e 5 animali) isolati in Norvegia. I VRE di origine umana sono risultati appartenere ai genotipi vanA (N=70, appartenenti alle specie E. faecium e E. faecalis) e vanC (N=21, appartenenti alle specie E. gallinarum e E. casseliflavus); fra quelli di origine animale 47 (appartenenti alle specie E. faecium, E. durans e E. hirae) avevano un genotipo vanA e 2, entrambi E. gallinarum, avevano uno, un genotipo vanC-1, e l’altro, un genotipo misto vanA/vanC-1. La tipizzazione mediante PFGE dei ceppi vanA ha evidenziato la presenza di cluster distinti per i ceppi umani e per quelli animali, indicando una sostanziale mancanza di correlazione clonale tra ceppi di diversa origine. Trentanove ceppi vanA umani e 30 animali sono stati ulteriormente analizzati per la localizzazione, (mediante ibridazione con opportune sonde del contenuto plasmidico e dei frammenti di restrizione del DNA totale digerito con CeuI) e la caratterizzazione (condotta mediante amplificazione genica dell’intero traspostone utilizzando primer per le IRs, seguita da digestione con ClaI, e delle regioni orf2-vanX, seguita da digestione con DdeI, e vanX-vanZ dell’elemento Tn1546. In generale, la localizzazione plasmidica era più frequente di quella cromosomica, ad eccezione dei ceppi intestinali umani per cui è stata riscontrata la situazione inversa. La tipizzazione degli elementi Tn1546 ha messo in evidenza la presenza di un elemento completo in 32 ceppi umani e 22 animali; questi ultimi mostravano tutti, così come 27 dei 32 ceppi umani, un profilo ClaI identico a quello del prototipo. Tra i ceppi che non avevano amplificato con i primer specifici per le IRs, 4 ceppi umani e tutti e 8 quelli animali mostravano un profilo DdeI della regione orf2-vanX indistinguibile da quello del prototipo e in tutti, a parte in uno dei ceppi animali, è stata evidenziata la presenza della regione vanX-vanZ. I risultati ottenuti mostrano che: i VRE umani e animali differiscono sia a livello clonale che a livello dei determinanti di resistenza; esistono delle relazioni clonali tra ceppi della stessa origine provenienti da diverse aree geografiche; confrontati con i VRE animali, quelli umani mostrano una maggiore correlazione epidemiologica, ma una maggiore variabilità a livello degli elementi Tn1546. Ricerca finanziata dalla Comunità Europea (contratto no. QLK2-CT-2002-00843). SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 113 LA LINEA GENETICA C1 IDENTIFICATA MEDIANTE MLST INCLUDE ENTEROCOCCUS FAECIUM VANCOMICINO-RESISTENTI RESPONSABILI DI UNA NUOVA EPIDEMIA NOSOCOMIALE NEL NORD ITALIA Maria Grazia Bonora,1 Marco Ligozzi,1 Maria De Fatima,1 Luciana Bragagnolo,2 Antonio Goglio,3 Gian Carlo Guazzotti,4 e Roberta Fontana1 Sezione Microbiologia, Dipartimento di Patologia, Università di Verona, Verona,1 Ospedale San Bortolo, Vicenza,2 Ospedali Riuniti, Bergamo,3 Ospedale Sant’Andrea, Vercelli,4. Enterococchi vancomicino-resistenti sono attualmente il terzo, in ordine di frequenza, agente eziologico responsabile di infezioni nosocomiali. Vari approcci molecolari hanno inoltre permesso di evidenziare la presenza di un ampio serbatoio di Enterococcus faecium vancomicino-resistente (VREF) a livello ambientale ed animale. In questo studio abbiamo utilizzato una tecnica di tipizzazione recentemente proposta, la Multilocus Sequence Typing (MLST), per stabilire la relazione filogenetica tra VREFs isolati da pazienti ospedalizzati e VREFs di origine non umana (feci di pollame e prodotti carnei), raccolti nel Nord Italia durante il periodo 1993-2001. Mediante PFGE e MLST sono stati analizzati cinque ceppi umani rappresentativi della recente epidemia (2000-2001) che ha coinvolto sei diversi ospedali nel Nord Italia, e nove ceppi di origine umana e ambientale rappresentativi del periodo 1993-1999. Lo schema di tipizzazione (Homan et al., 2002, J. Clin. Microb., 40:1963-1971) si basa sul sequenziamento di 7 geni “housekeeping” - adk, atpA, ddl, gyd, gdh, purK, e pstS. Nei 14 ceppi analizzati, il numero di alleli per ogni gene varia da 1 (gyd) a 8 (atpA). Gli isolati appartengono a nove diversi “Sequence Types” (STs). Tutti i ceppi clinici responsabili dell’epidemia del biennio 2000-2001 mostrano PFGE-pattern identico o strettamente correlato e sono raggruppati nel ST78. Tali ceppi presentano 6 alleli in comune con il ceppo CA20, rappresentativo di una precedente epidemia di VREF (Ospedale S. Bortolo di Vicenza, 1993-1999), apparentemente non correlato (PFGE) agli isolati della nuova epidemia. La MLST ha confermato la mancanza di correlazione genetica, già dimostrata dalla PFGE, tra ceppi umani e non umani. Gli isolati appartengono a tre principali linee genetiche: il gruppo A include 2 dei 3 ceppi isolati dalla carne; il gruppo B quattro ceppi animali e un ceppo della carne; e il gruppo C gli isolati clinici di entrambe le epidemie e un ceppo animale. Tutti gli isolati epidemici sono definiti dalla presenza dello stesso allele del gene purK (allele 1), e sono PCR-positivi per il gene di virulenza ed epidemicità esp. Inoltre i ceppi umani appartengono alla stessa sublinea genetica C1, che include isolati con distribuzione mondiale. Lo schema MLST proposto da Homan et al. per E. faecium, costituisce un metodo nonambiguo e di grande applicazione per la tipizzazione di isolati umani e non-umani e studi epidemiologici a lungo termine. ANALISI COMPARATIVA DEI PRODOTTI DI ESPRESSIONE SIPA, SOPA, SOPB, SOPD, SOPE2 DI SALMONELLA ENTERICA SEROVARS TYPHIMURIUM E ABORTUSOVIS IN UN MODELLO DI INFEZIONE DI CELLULE EPITELIALI IN COLTURA. D.Bacciua, G. Falchia, A.Spazziania, N. A. Canu, Ga, Leorib, S.Rubino,a S. Uzzaua aDipartimento di Scienze Biomediche, Sez.di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università di Sassari. bIstituto Zooprofilattico Sperimentale della Sardegna, Sassari Salmonella enterica serovar Typhimurium possiede cinque proteine effettrici (SipA, SopA, SopB, SopD e SopE2) responsabili dell’enterite infiammatoria. Due di questi effettori sono assenti nel serovar Typhi (non-enteritogeno) in quanto sopA e sopE2 sono pseudogeni Lo scopo di questo studio è stato quello di stabilire se il serovar Abortusovis, patogeno adattato all’ospite ovino e responsabile di infezione sistemica con scarsa o assente enterite, possieda i geni sipA e sopABDE2 e di comparare i livelli dei loro prodotti di espressione con i rispettivi alleli del serovar Typhimurium. I cinque geni sono stati identificati nel serovar Abortusovis mediante PCR. Sulla base di analisi di sequenza è stato possibile disegnare oligonucleotidi appropriati per la costruzione di ceppi epitope[3XFLAG]-tagged in entrambi i serovars. A differenza di quanto osservato nel serovar Typhi, tutti e cinque i geni “pro-infiammatori” sono attivi nel serovar Abortusovis. È stato quindi paragonato il livello di espressione delle proteine in ceppi dei serovars Typhimurium e Abortusovis cresciuti in terreno LB e in batteri intracellulari recuperati da cellule epiteliali Hep-2 infettate. Ciascuno dei ceppi usati conteneva un secondo tag/FLAG in un gene cromosomale costitutivamente espresso, il gene cat, utilizzato come riferimento interno. Le proteine sono state rivelate mediante analisi con western blot con l’utilizzo di anticorpi monoclonali anti-FLAG. Tramite un digital imager è stato possibile quantificare i livelli di espressione proteica. I risultati hanno mostrato che il serovar Typhimurium cresciuto in LB produce livelli fino ad otto volte più alti di questi effettori (es. SopA) rispetto al serovar Abortusovis. L’analisi dei batteri intracellulari, mediante saggio di protezione alla gentamicina, ha consentito di rivelare un aumento dei livelli di SipA, SopA, SopB e SopD nel serovar Typhimurium. Un simile aumento è stato osservato nel serovar Abortusovis solo per gli effettori SipA e SopB. I dati di questo studio suggeriscono che l’assenza di enterocolite negli ovini infettati col serovar Abortusovis potrebbe essere dovuta ad un’espressione relativamente bassa degli effettori associati ad enterite, piuttosto che all’assenza di geni funzionali. 114 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA I LOOP SUPERFICIALI DELLA PORINA P2 DI HAEMOPHILUS INFLUENZAE MODULANO L’ATTIVITA’ DELLE MITOGEN-ACTIVATED PROTEIN KINASES Marina D’Isanto1, Mariateresa Vitiello1, Marilena Galdiero2, Stefania Galdiero3, Domenica Capasso3, Paola Rotondo1, Carmela Moccia1 1Dipartimento di Patologia Generale - Facoltà di Medicina e Chirurgia - Seconda Università degli Studi di Napoli; 2Dipartimento di Medicina Sperimentale – Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica - Facoltà di Medicina e Chirurgia Seconda Università degli Studi di Napoli; 3Dipartimento di Chimica Biologica & Istituto di Biostrutture e Bioimmagini – CNR, Università di Napoli “Federico II” L’attivazione della risposta immunologica ed infiammatoria viene mediata dall’interazione tra il batterio o uno dei suoi componenti e l’ospite, inducendo fosforilazione di network di chinasi coinvolte nella trasduzione del segnale di attivazione intracellulare. Tra i sistemi enzimatici di trasduzione del segnale meglio conosciuti e più studiati vi è quello delle Mitogen-Activated Protein Kinases (MAPKs). Recenti studi hanno proposto che la capacità dei batteri gram-negativi di causare ricorrenti infezioni possa essere attribuita alla variabilità antigenica dei loop delle proteine della membrana esterna esposti in superficie. In questo studio, è stato sviluppato un modello tridimensionale della porina P2, proteina più abbondante della membrana esterna di Haemophilus influenzae, sfruttando tecniche di modelling molecolare, sulla base di alcune caratteristiche strutturali comuni a tutte le porine di cui è nota la struttura tridimensionale (OmpK36 di Klebsiella pneumonie e PhoE e OmpF di Escherichia coli). In seguito sono stati sintetizzati una serie di peptidi corrispondenti ai loop che secondo il modello progettato risultano esposti in superficie valutando la loro capacità di innescare un processo a catena di fosforilazione intracellulare che coinvolga le MAPK. In accordo con il modello, in un’analisi preliminare della relazione struttura–funzione della porina, i risultati ottenuti dimostrano che i loop esposti in superficie risultano capaci di indurre fosforilazione di MEK1-MEK2/MAPK, mentre quelli interni alle sequenze ? non presentano un effetto evidente sull’attività enzimatica. In particolare, i peptidi corrispondenti ai loop L5 (Lys206 a Gly219), L6B (Ser239 a Lys253) e L7 (Thr280 a Lys287) attivano essenzialmente JNK e p38, così come la proteina intera. IL LOCUS IFM CONTROLLA LA FORMAZIONE DI FLAGELLI SU SUPERFICI SOLIDE E IL DIFFERENZIAMENTO SWARMING IN BACILLUS SUBTILIS E. Ghelardi, F. Celandroni, S. Salvetti, E. M. Parisio, A. Galizzi*, S. Senesi Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa e * Dipartimento di Genetica e Microbiologia A. Buzzati-Traverso, Università di Pavia Il flagello batterico è una struttura complessa ed essenziale per la motilità swimming in mezzo liquido, così come per la motilità swarming, una forma specializzata di movimento cellulare collettivo indotto dal contatto con superfici solide. Lo swarming batterico è caratterizzato dalla produzione di cellule swarm, che sono più lunghe e ricche di flagelli delle cellule propagate in terreno liquido. Sebbene la conoscenza dei processi che governano la produzione di flagelli nei batteri Gram-positivi sia essenzialmente il risultato di studi effettuati su Bacillus subtilis, per questo microrganismo non esistono dati circa la regolazione della produzione di flagelli in risposta al contatto con una superficie solida. Il presente studio descrive l’isolamento di un mutante ipermobile di B. subtilis, denominato PB5249, caratterizzato da una mutazione nel locus ifm, capace di influenzare il grado di motilità ed il numero di flagelli in terreno liquido. Quando fatto crescere su terreno solido, il ceppo PB5249 produce cellule lunghe ed iperflagellate, che mostrano un incremento di circa 10 volte nella flagellina presente in sede extracellulare, rispetto alle cellule propagate in terreno liquido; questa osservazione indica che il ceppo PB5249 è dotato di motilità swarming. Al contrario, il ceppo parentale (PB1831), così come altri ceppi di laboratorio caratterizzati dal locus ifm selvaggio, sono incapaci di risposta swarming, essendo completamente privi di flagelli quando propagati su substrati solidi. In queste condizionil’espressione del gene codificante la flagellina (hag) è, infatti, completamente inibita, mentre vengono trascritti numerosi geni dell’operone della motilità/chemiotassi, compreso sigD, codificante un fattore sigma (sD), la cui espressione è necessaria affinché hag sia espresso. L’analisi di due mutanti, PB1831pSIGD e PB5148, derivati dal ceppo PB1831 e caratterizzati, rispettivamente, da presenza di un plasmide portante il gene sigD sotto il controllo di un promotore inducibile, e da delezione del gene flgM, ha permesso di valutare il ruolo di sD e di FlgM, un fattore anti-sigma capace di legare sD bloccandone l’attività. I risultati ottenuti suggeriscono che il locus ifm abbia un ruolo determinante nel controllo dell’espressione di questi geni in risposta al contatto con superfici solide in B. subtilis. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 115 IL SITO DI INSERZIONE DEL TRASPOSONE CONIUGATIVO TN1207.3 NEL CROMOSOMA DELLO STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE FRANCESCO IANNELLI 1, MARIA SANTAGATI 2, MARCO R. OGGIONI 1, STEFANIA STEFANI 2, GIANNI POZZI1; 1Università di Siena, Siena, Italy, 2Università di Catania, Catania, Italy. Il gene mef(A) che conferisce il fenotipo M di resistenza ai macrolidi, negli streptococchi è veicolato da trasposoni coniugativi (CT). Il trasposone Tn1207.1 lungo 7.244 bp è stato trovato in un ceppo clinico di S. pneumoniae, mentre il Tn1207.3 è stato descritto in ceppo clinico di S. pyogenes. Il CT Tn1207.3 è lungo 52 kb e, a differenza del Tn1207.1, può essere trasferito per coniugazione in altre specie batteriche come lo S. pneumoniae e lo S. gordonii. L’analisi dei transconiuganti ha mostrato che in tutte le specie esaminate l’integrazione nel cromosoma avviene sempre a livello di uno specifico sito. Il Tn1207.3 si inserisce a livello di uno specifico dinucleotide GA all’interno del gene celB coinvolto nel legame/trasporto del DNA durante la trasformazione. In seguito all’inserzione, il Tn1207.3 produce la duplicazione del sito GA, caratteristica comune dei trasposoni coniugativi. Allo scopo di chiarire se la presenza del celB o del suo prodotto fosse essenziale per l’integrazione nel cromosoma durante la coniugazione, sono stati costruiti due mutanti di S. pneumoniae: FP69 presentante un’inserzione che inattiva la trascrizione del celB, ma che lascia intatto il sito di inserzione del Tn1207.3; FP61 presentante la delezione del celB. Usando FP69 e FP61 come riceventi negli esperimenti di coniugazione, è stato trovato che: (i) il trasferimento del Tn1207.3 non era influenzato dalla mancanza del prodotto del gene celB; (ii) la delezione di celB determinava un abbassamento di 10 volte della frequenza di trasferimento del Tn1207.3; (iii) l’assenza del sito di inserzione all’interno di celB determinava l’integrazione del trasposone nel gene spr0957 codificante per una relaxase; (iv) la delezione del gene spr0957 nel ceppo con il celB deleto determinava l’integrazione del Tn1207.3 nel gene spr0725 per una ATP-dependent Clp protease. rispetto alle altre varianti IMP trovate in Italia (IMP-2 e IMP-12). STUDIO DELLE SEQUENZE GENICHE CODIFICANTI I FATTORI DI VIRULENZA NEL CEPPO VACCINALE “CARBOSAP” DI B. ANTHRACIS. La Rosa1 G., M. Muscillo1, M. Sali1, E. De Carolis1, R. Adone1 , F. Ciuchini1 e A. Fasanella2. 1Istituto Superiore di Sanità, Roma. 2Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata, Foggia La massima virulenza del bacillo del carbonchio richiede la presenza sia della capsula (attività antifagocitaria) sia della tossina multifattoriale carbonchiosa formata da tre proteine: fattore edemigeno (EF = edema factor), fattore letale (LF = lethal factor) e antigene protettivo (PA = protective antigen). Il ceppo attenuato “Carbosap” di Bacillus anthracis, utilizzato in Italia nella profilassi contro il carbonchio ematico degli ovini e dei bovini, si differenzia dagli altri vaccini attualmente in commercio poiche’ possiede sia il plasmide pXO1, che codifica i fattori di virulenza, sia il plasmide pXO2, che codifica per la capsula. Per comprendere i meccanismi di attenuazione di tale ceppo e, di conseguenza, i meccanismi che regolano la patogenesi del batterio, sono stati amplificati tramite PCR e sequenziati i geni codificanti per i fattori di virulenza e i loro geni regolatori sia in “Carbosap” che in un ceppo patogeno preso come riferimento (Ferrara). In particolare, sul plasmide pXO1, sono stati studiati i geni che codificano per le proteine della tossina: cya (il fattore edemigeno), lef (il fattore letale) e pagA (l’antigene protettivo), i loro geni regolatori atxA e pagR, e l’operone della germinazione tricistronico gerX (gerXA, gerXB, gerXC). Sul plasmide pXO2 sono stati sequenziati i geni responsabili della sintesi della capsula, (capB, capC e capA e dep) e il loro gene regolatore acpA. Inoltre, sono stati sequenziati fattori di virulenza minori localizzati sul cromosoma, tra cui l’operone sigma b (sb) preposto al controllo di tre geni (sig b, rsbV, rsbW) e coivolto nella resistenza ai fattori di stress, il gene abrB “regolatore di stato trascrizionale”, il fattore trascrizionale Spo0A che ha un ruolo chiave nel processo di sporificazione, il gene plcR, regolatore pleiotropico dei fattori di virulenza extracellulari e il gene gerS, implicato nella germinazione. Complessivamente sono stati amplificati e sequenziati 20 geni per un totale di circa 26000 bp per ceppo, senza riscontrare differenze genetiche. Si puo’ ipotizzare, quindi, che fattori di virulenza ancora sconosciuti o i livelli di espressione dei fattori di virulenza sopracitati siano coinvolti nell’attenuazione del ceppo vaccinale “Carbosap”. 116 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA STUDIO DEI MECCANISMI CHE REGOLANO IL CORRETTO POSIZIONAMENTO DEL SETTO DI DIVISIONE CELLULARE IN STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE. D. Fadda, A. Santona, M.B. Whalen e O. Massidda Dip. Scienze e Tecnologie Biomediche, sez. Microbiologia Medica, Università di Cagliari Durante il processo di divisione cellulare batterica un complesso proteico, composto da almeno nove proteine differenti, denominate Fts, partecipa alla formazione di un setto trasverso, necessario perchè da una cellula madre originino, per scissione binaria, due cellule figlie identiche. Tuttavia una corretta formazione del setto non è un evento sufficiente a garantire una corretta divisione e ulteriori fattori sono necessari perché il setto venga posizionato nel punto giusto (regolazione spaziale) al momento giusto (regolazione temporale), coordinatamente con altri eventi della vita cellulare, come la replicazione del cromosoma e la separazione dei nucleodi. In Escherichia coli il corretto posizionamento del setto viene attuato attraverso l’azione coordinata di tre proteine, denominate MinC, MinD e MinE. In Bacillus subtilis la funzione del MinE, assente in questi batteri, sembra essere sostituita da una nuova proteina denominata DivIVA. Recentemente abbiamo identificato in Streptococcus pneumoniae un gene che codifica l’omologo del gene divIVA del Bacillus subtilis. Mutanti di S. pneumoniae in cui il gene divIVA è stato inattivato (divIVA::cat) mostravano, rispetto al ceppo parentale, un’inibizione della crescita, una morfologia alterata e la presenza di lunghe catene di cellule, spesso prive di nucleoide, con setti centrali, sebbene incompleti. Il fenotipo peculiare osservato nei mutanti divIVA::cat, rispetto a quello osservato in B. subtilis durante la vita vegetativa, suggerisce che la funzione principale del DivIVA in S. pneumoniae sia quella di consentire una corretta segregazione del nucleoide e solo indirettamente la formazione del setto. Il ruolo nella segregazione del nucleoide da noi suggerito per la proteina DivIVA in S. pneumoniae concorda con la funzione, recentemente proposta, per la proteina DivIVA di B. subtilis durante la sporulazione e con l’assenza dei geni min dal genoma di S. pneumoniae e degli altri cocchi Gram-positivi. I risultati ottenuti indicano che, a differenza delle proteine Fts che risultano conservate nella maggior parte dei batteri, sia come sequenza che come funzione, le proteine coinvolte nella regolazione del posizionamento del setto appaiono scarsamemente conservate, suggerendo che i meccanismi alla base di questo processo si siano evoluti differentemente nei diversi batteri. L’individuazione e la caratterizzazione di queste proteine nei cocchi Gram-positivi sono oggetto del nostro studio. VALIDAZIONE DI UN METODO BASATO SUL NUMERO DELLE RIPETIZIONI TANDEM (TRN) PER LA TASSONOMIA MOLECOLARE DI B. ANTHRACIS. Muscillo1 M. , G. La Rosa1, M. Sali1, E. De Carolis1, R. Adone1, F. Ciuchini1, A. Fasanella2. 1Istituto Superiore di Sanità, Roma. 2Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata, Foggia La classificazione genetica di Bacillus anthracis è importante per una corretta definizione del rischio nel caso di rilevamenti occasionali in campioni ambientali o in sospette contaminazioni di natura dolosa. L’approccio biologico richiede spesso un tempo incompatibile con le esigenze sanitarie e di pubblica sicurezza. L’approccio tradizionalmente usato è l’analisi multilocus delle sequenze ripetute in tandem detta MLVA (multiple-locus variable number tandem repeat analysis). Tale metodica si basa sull’analisi delle grandezze dei prodotti PCR di 6 loci cromosomiali (vrrA, vrrB1, vrrB2, vrrC1, vrrC2, CG3) e due plasmidici (pX01-aat, pX02-at). Questa metodica è molto rapida ma è suscettibile di interpretazioni soggettive in quanto strettamente dipendente dalle caratteristiche strumentali e dal software utilizzato per l’interpolazione dei pesi molecolari. L’esame del numero esatto delle ripetizioni tandem (TRN), dedotte dall’analisi delle sequenze nucleotidiche, può dare risultati più accurati in quanto permette di gestire numeri interi indipendenti dalle caratteristiche strumentali. In questo lavoro sono stati analizzati mediante sequenziatore a capillare ABI310, gli 8 loci di 4 ceppi virulenti, e di due ceppi vaccinali (Carbosap, Pasteur II) di B. anthracis con entrambi i metodi. Ciò ha permesso, per ogni locus esaminato, di mettere a punto una configurazione testuale basata sulla sequenza del repeat, sul numero minimo e massimo di ripetizioni e sulle loro zone fiancheggianti. Ciascuna configurazione è stata utilizzata con il programma FINDPATTERNS, del pacchetto Wisconsin GCG, per la scansione delle sequenze del B. anthracis, dei ceppi KrugerB, WesternNA, Florida ed Ames. Le relazioni filogenetiche sono state effettuate con il metodo UPGMA. Nei campioni analizzati, le grandezze “apparenti” dei frammenti espressi in bp, erano spesso discordanti dalle grandezze “reali” calcolate mediante analisi delle sequenze. Il confronto delle rappresentazioni ad albero dei profili genetici ottenuti o con le grandezze apparenti dei frammenti o con le TRN, davano lo stesso risultato. La caratterizzazione del campione con il primo metodo necessita di campioni di riferimento a genotipo noto. Con il secondo metodo, il profilo genetico dei campioni in esame può essere confrontato con quelli dedotti in silico utilizzando sequenze presenti in banche dati e quindi si presta meglio a studi epidemiologici ed evolutivi. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 117 IDENTIFICAZIONE DI UN GENE COINVOLTO NELL’ADESIVITÀ CELLULARE ENTEROCOCCUS FAECALIS MEDIANTE LA TECNOLOGIA DI IBRIDAZIONE SOTTRATTIVA DI Lucio Romano*, Alessandra Quarta, Maurizio Sanguinetti, Brunella Posteraro, Leonardo Sechi^, Ilaria Dupré^, Stefania Zanetti^, e Giovanni Fadda *Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; ^Dipartimento di Scienze Biomediche, Università degli Studi di Sassari, Sassari Sinora sono stati individuati in Enterococcus faecalis come determinanti di virulenza diversi fattori tra cui la citolisina, la sostanza aggregante, la proteina enterococcica di superficie e la gelatinasi, tuttavia rimane ancora da chiarire il loro preciso ruolo nel processo infettivo. Inoltre, altri potenziali fattori di virulenza come la ialuronidasi, gli acidi lipoteicoici, la proteina legante la fibronectina e i carboidrati di superficie necessitano di essere ulteriormente investigati. Da uno studio precedente volto a determinare la capacità adesiva in vitro di ceppi clinici di enterococchi, sono stati selezionati due ceppi di E. faecalis con diverso grado di adesività nei confronti delle linee cellulari epiteliali renali Vero ed intestinali Caco2, da noi denominati EF2 e EF11. Al fine di correlare la diversità fenotipica con potenziali differenze a livello del genoma, il ceppo altamente adesivo EF2 è stato comparato con quello meno adesivo EF11 mediante la costruzione di una “library” genomica in cui il DNA del ceppo EF2 è stato sottratto con quello del ceppo EF11, utilizzando la tecnologia “Suppression Subtractive Hybridization”. Una volta verificata l’efficienza della sottrazione, la risultante “library” è stata clonata e i cloni di DNA positivi allo screening in “colony” PCR sono stati analizzati mediante “dot blot” ibridazione con sonde costituite dai DNA dei due ceppi. Tra i cloni che hanno ibridato solo con il DNA genomico del ceppo EF2 e che rappresentano quindi le sequenze di DNA specifiche del ceppo più adesivo, è risultato particolarmente interessante il clone EF2A6, che ha mostrato una significativa omologia (dal 47.66 al 53.18%) di sequenza nucleotidica con i geni che codificano per le proteine leganti la fibronectina (Fbp) di Streptococcus pyogenes (Fbp54), S. pneunomiae (FbpA), S. suis (FbpS) e S. gordonii (FbpA). Recenti studi hanno dimostrato che tali proteine sarebbero implicate nell’adesione e nella virulenza batterica. Anche nel nostro caso una simile implicazione potrebbe essere ipotizzata, in quanto la proteina corrispondente al clone genico EF2A6 potrebbe mediare il legame con la fibronectina presente sulla superficie della cellula ospite. Sono in corso studi di distruzione genica per dimostrare l’effettivo coinvolgimento di tale gene nel processo di adesione cellulare. TRASMISSIONE ORIZZONTALE DI UN GENE DI VIRULENZA, ASTA (EAST1), DA ESCHERICHIA COLI A SALMONELLA ENTERICA SEROVAR ABORTUSOVIS. D. Bacciu, D. Chessa, G. Falchi, A. Spazziani, S. Rubino, S. Uzzau; Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari, - 07110 - Sassari. Salmonella enterica serovar Abortusovis è lisogenica per un profago, Gifsy-2AO, la cui presenza contribuisce significativamente alla virulenza batterica. Il sequenziamento del genoma del profago ha permesso di identificare la presenza di IS1414, una sequenza di inserzione precedentemente osservata in numerose varietà di Escherichia coli patogeni. IS1414 codifica per una tossina termo-stabile, EAST1 (astA), strutturalmente simile all’enterotossina ST e ad un gruppo di peptidi termo-stabili umani (es.: guanilina ed uroguanilina) che regolano il trasporto di acqua ed elettroliti nell’intestino attraverso un signalling mediato da cGMP. L’identificazione di IS1414 evidenzia, per la prima volta, un trasferimento intergenerico di geni di virulenza mediati da sequenze di inserzione in Salmonella. IS1414 esiste in numerose copie genomiche in ceppi epidemici di E. coli enterotossici (ETEC). Pertanto abbiamo valutato se, oltre alla copia presente nel profago Gifsy-2AO, l’elemento IS1414 fosse presente in altri siti del genoma di ceppi epidemici di Salmonella ser. Abortusovis. Abbiamo esaminato 27 ceppi isolati in diverse aree geografiche. L’81% dei ceppi è stato trovato positivo per il gene astA (100% tra gli isolati europei). In questi ceppi l’elemento astA/IS1414 è presente in un numero di copie molto alto (superiore a 20) suggerendo che la IS può trasporre attivamente. L’analisi della sequenza dell’inserzione di IS1414 in Gifsy-2AO ha mostrato un’ampia delezione di DNA cromosomale adiacente, probabilmente a causa del meccanismo di trasposizione replicativa dell’elemento IS. Dunque, l’alto numero di inserzioni di IS1414 può essere associato ad un attivo riarrangiamento genico del genoma di Salmonella ser Abortusovis, mediante interruzione, delezione o trasposizione di geni. Ad oggi abbiamo clonato e sequenziato 14 regioni di inserzione di IS1414. Alcune inserzioni sono di particolare interesse perché riguardano loci di patogenicità primari in Salmonella spp., inclusi l’isola di patogenicità SPI1, geni regolatori di operoni di fimbrie (es.: sinR e clpB), e nel plasmide di virulenza. La frequente trasposizione di IS1414, dunque, può favorire l’ottimizzazione dell’adattamento di Salmonella ser. Abortusovis alla sua ristretta nicchia ecologica i) favorendo un alto grado di plasticità genomica, ii) introducendo un nuovo effettore di interazione con l’ospite (EAST1) e iii) modificando l’assetto genico di altri loci di virulenza. 118 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA TRE DIFFERENTI METODI MOLECOLARI AVANZATI PER LA DIAGNOSI DI LABORATORIO DI MALARIA : 2 ANNI DI ESPERIENZA. Calderaro A., Perandin F. 1, Piccolo G., Zuelli C., Incaprera M., Bommezzadri S., Dell’Anna L., Arcangeletti M.C., Medici M.C., Ricci L. 2, Manca N. 1, Chezzi C., Dettori G. Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Sezione di Microbiologia, Università di Parma, Viale Gramsci 14 43100 Parma; 1Istituto di Microbiologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Brescia; 2Arcispedale di Reggio Emilia La diagnosi di laboratorio di infezione da plasmodi della malaria (Plasmodium falciparum P.f., P. vivax, P.v., P. ovale, P.o., P. malariae, P.m.) si basa sull’indagine microscopica (M.O.), tuttora metodo di riferimento, rapida e poco costosa, ma talvolta poco sensibile ed efficace nel rivelare infezioni miste e/o a bassa parassitemia. A supporto delle indagini dirette tradizionali come la M.O. e al fine di superarne i limiti, si stanno recentemente affiancando saggi biomolecolari, altamente sensibili e specifici. Nel nostro laboratorio sono stati fino ad oggi messi a punto e valutati tre diversi metodi molecolari per la diagnosi rapida di malaria. Una nested-PCR specie-specifica (18S DNA), valutata su 230 campioni, è stata utilizzata a fianco dei metodi tradizionali (M.O. e saggio immunocromatografico (ICT Pf/Pv) su 217 campioni di sangue provenienti da 135 soggetti con sospetta malaria. La nested-PCR si è rivelata più sensibile (0,7 parassiti/ml per P.f., 1,5 per P.v., 0,3 per P.m. e 0,4 per P.o.) e specifica delle indagini tradizionali soprattutto nei casi di bassa parassitemia erroneamente identificati come P.v. alla M.O. e nei casi di infezioni miste identificabili solo come Plasmodium spp. alla M.O. Una real-time PCR (“DNA 18S”) messa a punto e valutata nel nostro laboratorio per P.f., P.v. e P.o. su 122 campioni di soggetti con sospetta malaria, si è rivelata sovrapponibile per sensibilità e specificità alla nested-PCR dimostrandosi rispetto a quest’ultima più rapida, di semplice esecuzione e automatizzata. Infine, una PCR (“DNA 18S”) seguita da rivelazione mediante ibridazione specie-specifica in micropiastra utilizzando 4 sonde nucleotidiche specifiche per i 4 plasmodi di interesse medico, valutata su 98 campioni, si è rivelata sensibile e specifica, ma di esecuzione complessa e indaginosa. D’altra parte quest’ultima metodica ha permesso di rivelare alcuni casi di infezione da P.o., correttamente identificati mediante microscopia, ma non svelati dalla nested e dalla real-time PCR, verosimilmente a causa di mutazioni puntiformi a livello della sequenza bersaglio di queste due metodiche. Sono in corso studi di analisi di sequenza degli amplificati per verificare tale ipotesi. DIAGNOSI MOLECOLARE DELLA INFEZIONE MALARICA MEDIANTE PCR-REVERSE CROSSBLOT HYBRIDIZATION TEST. Masucci L.°, Romano L.°, Plaisant P.°,Calderaro A.*, Dettori G.*, Sanguinetti M.°, Fadda G°. °Istituto di Microbiologia Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma *Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio Sezione di Microbiologia – Università di Parma L’utilizzo delle metodiche molecolari nella rilevazione e nella identificazione del genere Plasmodium nel sangue di pazienti con sospetta infezione malarica, è ben documentato in letteratura e verte essenzialmente sull’impiego di tecniche di PCR (Polymerase Chain Reaction) tra le quali nested e multiplex. In questo studio abbiamo valutato un saggio di PCR-reverse cross-blot hybridization, da noi messo a punto. Abbiamo disegnato, partendo dalle sequenze 18S rDNA delle quattro specie di Plasmodium causa di Malaria, sonde specie-specifiche con cui ibridizzare, su un supporto di membrana di nylon, un amplificato ottenuto da una singola coppia di primers comune alle quattro specie. Lo studio è stato condotto su un totale di 202 campioni di sangue provenienti da pazienti con sospetta infezione Malarica, raccolti presso il Laboratorio di Microbiologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico “A. Gemelli” Roma e presso il Laboratorio di Microbiologia dell’Università di Parma. I campioni sono stati sottoposti all’esame microscopico della goccia spessa e dello striscio di sangue ed ad indagine molecolare mediante PCR-reverse cross-blot hybridization. Su un totale di 202 campioni 118 risultavano negativi alla microscopia, mentre 117 negativi alla PCR-reverse cross-blot hybridization . Alla microscopia 52 risultavano positivi per P. falciparum, 25 per P. vivax, 1 per P. malariae, 3 per P. ovale e 3 Plasmodium spp. Alla PCR-reverse cross-blot hybridization 50 risultavano positivi per P. falciparum, 23 per P. vivax, 1 per P. malariae, 8 per P. ovale, 2 P. falciparum + P. ovale, 1 P. falciparum + P. malariae. La metodica molecolare, da noi applicata, appare di supporto alla microscopia in virtù della sua sensibilità ed appare dirimente nei casi dubbi di identificazione di specie. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 119 STUDI SU NUOVI FARMACI ANTIMALARICI: ANALISI DEL MECCANISMO DI AZIONE DI ARTEMISININA E DERIVATI. Silvia Parapini, Nicoletta Basilico, Monica Mondani, Yolanda Corbett, Diego Monti, Donatella Taramelli. Istituto di Microbiologia e Dipartimento di Chimica Organica e Industriale, CNR-ISTM, Universita’ di Milano. Già nel 340 DC in un libro di medicina cinese è stato riportato l’uso del “qing hao” o Artemisia annua come antipiretico. Soltanto nel 1972 è stato isolato e identificato il principio attivo, il qinghaosu o artemisinina (ARM): si tratta di un sesquiterpene endoperossido, estratto unicamente da A. annua, con potente attività antimalarica e bassa tossicità. Tuttavia, il preciso meccanismo di azione è a tutt’oggi sconosciuto. Il ponte perossidico di ARM è cruciale per l’attività antimalarica e si suppone che venga ridotto dal Fe2+ a dare radicali tossici per il parassita. La fonte più abbondante di Fe2+ in P. falciparum è rappresentata dalla Fe2+protoporfirina IX, liberata dall’emoglobina nel vacuolo digestivo (FV, food vacuole), che viene immediatamente ossidata a Fe3+ protoporfirina IX (ematina) e detossificata come emozoina o pigmento malarico. Tuttavia, l’ipotesi che ARM interagisca con l’ematina contrasta con dati recenti che minimizzano l’accumulo di ARM nel FV. Per indagare il ruolo della Fe2+protoporfirina IX nell’attivazione di ARM, sono stati utilizzati due diversi approcci sperimentali. Nella prima serie di esperimenti, è stata indagata l’attività di derivati di ARM, modificati in C10 con un saggio spettrofotometrico (BHIA, beta-hematin inhibitory activity)1 che valuta la capacità di un prodotto di interferire con l’ematina impedendo la formazione del pigmento malarico in vitro. Né ARM né 10-deossi-dihydroARM, né la dihydroARM che pure hanno un’elevata attività anti plasmodio, inibiscono la formazione di pigmento malarico. Un secondo approccio è stato quello di bloccare la capacità riducente della Fe2+protoporfirina IX nel FV utilizzando carbossi emoglobina e 2% di CO nell’atmosfera di coltura di P.f.2 Inaspettatamente, in queste condizioni, l’attività di ARM e derivati è significativamente aumentata. Questi risultati indicano che il bersaglio d’azione dell’ARM non è la cristallizzazione dell’eme e che non è necessario il Fe2+ emoglobinico per attivare l’endoperossido di ARM. Vanno quindi cercati nuovi bersagli e attivatori della molecola, probabilmente non nel FV del parassita, ma nel citoplasma. Questi risultati verranno utilizzati per l’identificazione e sintesi di nuovi antimalarici. 1Parapini S et al 2000, Exp. Parasitol. 96,249. 2 Monti D et al 2002, FEBS Letters, DIAGNOSI RAPIDA DI AMEBIASI MEDIANTE REAZIONE POLIMERASICA A CATENA Calderaro A., Piccolo G., Incaprera M., Bommezzadri S, Zuelli C., Guégan R., 1Villanacci V., 2Pirali F., 2Viviani G., Arcangeletti M.C., Medici M.C., Dettori G., Chezzi C. Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Sezione di Microbiologia, Università di Parma, Viale Gramsci 14 43100 Parma; 1Secondo Dipartimento di Patologia Chirurgica, Spedali Civili, Università di Brescia, via Spedali Civili 1, 25123 Brescia; 2Ospedale S. Orsola Fatebenefratelli, Brescia. Al fine di superare i limiti dell’indagine microscopica e di ridurre i tempi necessari per una corretta identificazione di E. histolytica, agente eziologico di amebiasi intestinale ed extra-intestinale, e di E. dispar, non patogena, è stato introdotto nel nostro laboratorio un idoneo saggio basato sulla reazione polimerasica a catena (PCR). Campioni di feci e liquido aspirato dall’ ascesso epatico di un paziente con sospetta amebiasi, addome acuto e appendicite complicata di incerta eziologia e campioni di feci e biopsie intestinali ottenuti da un secondo paziente con sospetto morbo di Crohn, sono stati sottoposti all’esame microscopico, colturale, alla ricerca degli antigeni specifici di E. histolytica e E. dispar ed alla PCR. Per la PCR il DNA è stato estratto con il sistema “HPPT” (Roche), sottoposto ad amplificazione di un frammento del gene rRNA (SSU) “multicopy small subunit” mediante l’impiego dei “primers” EHD2/EDh26 (E. histolytica) e dei “primers” EHD2/ED27 (E. dispar). Il prodotto di 135 pb è stato rivelato mediante elettroforesi in gel di agarosio. Anticorpi specifici anti E. histolytica sono stati ricercati in campioni di sangue di entrambi i pazienti. Nel primo paziente con sospetta amebiasi, la PCR ha consentito di confermare la diagnosi sierologica di amebiasi extra-intestinale (titolo 1:1024) rivelando la presenza del DNA di E. histolytica nell’aspirato da ascesso epatico quando i metodi tradizionali (esame microscopico e colturale) hanno dato esito negativo. Nel secondo paziente con sospetto morbo di Crohn, la PCR ha consentito la diagnosi rapida di amebiasi dimostrando il DNA di E. histolytica direttamente nei campioni biologici (feci e biopsie coliche) confermando la diagnosi sierologia (titolo 1:1024) e consentendo di escludere il morbo di Crohn. Inoltre, la PCR ha consentito di identificare rapidamente l’ameba isolata in coltura dai campioni di feci. Infine, nelle biopsie coliche e nelle feci dello stesso paziente con sospetto morbo di Crohn, è stata ritrovata la presenza di Brachyspira pilosicoli e di B. aalborgi (mediante isolamento e RFLP-PCR), dimostrando, per la prima volta in assoluto, una coinfezione da ameba e spirochete intestinali. 120 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA DIAGNOSI PRENATALE DI TOXOPLASMOSI CONGENITA MEDIANTE ANALISI QUANTITATIVA IN REAL-TIME PCR DI LIQUIDI AMNIOTICI Rita Luciana Grillo, Domenico Speziale, Maurizio Sanguinetti, 1Lucia Masini, 2Orazio Ranno, Brunella Posteraro e Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, 1Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia e 2Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma La diagnosi prenatale di toxoplasmosi congenita è attualmente basata sulle indagini ecografiche e sull’amniocentesi. Negli ultimi anni sono state introdotte diverse tecniche di amplificazione genica per la rivelazione del DNA specifico di Toxoplasma gondii nel liquido amniotico, soprattutto nei casi con risultati di test sierologici altamente suggestivi di infezione acuta acquisita durante la gravidanza. In questo studio, è stato sviluppato un nuovo metodo basato sull’analisi quantitativa del gene B1 di T. gondii mediante PCR real-time per la diagnosi prenatale di toxoplasmosi. Prima dell’analisi dei campioni clinici, sono stati effettuati esperimenti per valutare la sensibilità del metodo. Come dimostrato dai risultati di amplificazione di uno standard costituito da diluizioni seriali del DNA di T. gondii, la linearità del saggio è stata raggiunta per almeno 6 logaritmi di concentrazione di DNA. Quando gli stessi campioni sono stati analizzati in quattro saggi indipendenti, il coefficiente di variazione intersaggio è stato di 0.49%. Il limite di rivelazione del metodo è stato calcolato pari a 0.1 copie di gene per reazione. In questo studio, è stata effettuata un’ analisi retrospettiva su 114 liquidi amniotici prelevati da donne in gravidanza con il sospetto sierologico di toxoplasmosi attiva. Il DNA estratto da ciascun campione è stato sottoposto all’analisi in PCR real-time. Quattordici campioni (15.6%) sono risultati positivi al saggio PCR. I dati ottenuti sono stati confrontati con quelli sierologici, ecografici e clinici derivanti dal follow-up dei neonati durante il primo anno di vita. Quattro dei liquidi amniotici con risultato positivo in PCR appartenevano a neonati che hanno sviluppato toxoplasmosi congenita e le cui madri non sono state sottoposte al trattamento terapeutico. Tutti gli altri neonati, compresi i rimanenti 10 con liquido amniotico positivo in PCR sono risultati non infetti ad un anno di età, probabilmente in conseguenza del trattamento terapeutico effettuato sulle madri. Sulla base della nostra esperienza, il saggio di PCR real-time può essere considerato un metodo sensibile per l’accertamento rapido di infezioni fetali causate da T. gondii. APPLICAZIONI DI TECNICHE MOLECOLARI NELLA DIAGNOSI DI CHLAMYDIA TRACHOMATIS AND NEISSERIA GONORRHOEAE. Cartesio Favalli1,2Carla Fontana1,2*, Marco Favaro1,. 1 Dip Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche Università Tor Vergata - Via Montepellier 1, 00133 Rome - Italy 2 Microbiologia Clinica, Policlinico Tor Vergata - Viale Oxford 81, 00133 Rome - Italy La Chlamydia trachomatis(CT) e la Neisseriae gonorrhoea(NG)e sono due fra i più frequenti patogeni trasmessi per via sessuale e sono spesso causa di infezioni asintomatiche. La diagnosi tradizionale di laboratorio viene effettuata mediante coltura su cellule in monostrato per la CT e in terreni di coltura specifici per NG. Tuttavia, dato la scarsa sensibilità di tali metodiche si è passati più di recente all’utilizzo di tecniche di amplificazione molecolare. Quest’ultime sono da preferire in virtù della loro maggiore sensibilità, per la rapidità d’esecuzione, ma per contro soffrono di alcuni problemi di specificità. Scopo del presente lavoro è stato quello di valutare l’efficienza di una tecnica che si sta diffondendo nei laboratori di microbiologia ossia “strand displacement amplification assay BDProbeTec-SDA (Becton Dickinson)”. La valutazione è stata condotta su un totale di 1005 campioni clinici nei quali è stata effettuata in contemporanea la ricerca di CT e NG. I campioni clinici utilizzati prevedevano oltre a quelli consigliati e validati dalla BD anche altri campioni, altrettanto frequenti, quali: tamponi vaginali ed oculari e liquido seminale. I risultati di CT/NG-BDProbeTec-SDA sono stati comparati con quelli ottenuti mediante utilizzo di tecniche di riferimento che includevano tecniche di PCR destinate all’amplificazione di porzioni di 16rRNA, alla ricerca del plasmide criptico, alla MOMP per la CT; mentre per la diagnosi di NG si sono usate come riferimento una tecnica di amplificazione e sequenziamento e il metodo colturale tradizionale. I risultati ottenuti a fronte di un’eccellente versatilità del sistema che si è dimostrato facilmente applicabile a qualunque campione biologico, hanno mostrato una scarsa sensibilità dell’SDA (76%) ed una discreta specificità nella diagnosi di CT (spiegabile con la scelta limitante del target di amplificazione ossia il pCT, notoriamente assente in alcune Chlamydie comunque coinvolte in infezioni). Eccellente la performance di SDA nella diagnosi di NG (specificità e sensibilità del 100%). L’analisi mediante sequenziamento dei campioni positivi per CT forniti dal sistema ha, inoltre, denotato la possibilità di falsi positivi (3 su 1005 campioni esaminati). Tuttavia, dato il buon livello di automazione, che supporta il sistema, la sua estrema versatilità riteniamo tale procedura, se migliorata nella diagnosi di CT (modificando la scelta del target da pCT ad amplificazione della MOMP) promettente nelle sue applicazioni nella routine di laboratorio. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 121 LE INFEZIONI ASSOCIATE AI CATETERI VENOSI CENTRALI: ASPETTI DIAGNOSTICO-EPIDEMIOLOGICI E PROSPETTIVE DI PREVENZIONE G. Donelli1, V. Di Carlo1, E. Guaglianone1, I. Francolini2, A. Piozzi2, W. Marconi2, R. Di Rosa3, F. Leone4, P. Mazzella4, A. Rossi4, M. Antonelli5, G. Fadda4, Dipartimento Tecnologie e Salute1, Istituto Superiore di Sanità; Dipartimento di Chimica2 e Dipartimento di Medicina Clinica3, Università “La Sapienza”; Istituto di Microbiologia4 e Istituto di Anestesiologia e Rianimazione5, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma. Obiettivi delle nostre ricerche, iniziate nel 1999 e svoltesi nell’ambito di due successivi progetti finanziati dal Ministero della Sanità, sono stati quelli di: a) effettuare uno studio microbiologico e ultrastrutturale su CVC espiantati da pazienti con segni e sintomi di infezione, ricoverati presso l’Unità di Terapia Intensiva del Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma, al fine di valutare la prevalenza delle specie microbiche coinvolte e la qualità dei cateteri impiantati; b) condurre ricerche sperimentali volte alla messa a punto di cateteri di nuova concezione, refrattari alla colonizzazione microbica. Per quanto riguarda lo studio di cui al primo punto, programmato per un quinquennio al fine di ottenere dati di elevata significatività statistica, sono stati finora presi in considerazione, su un totale di circa 4500 cateteri impiantati, oltre 500 CVC positivi per colonizzazione microbica. In riferimento poi al secondo obiettivo, polimeri a base poliuretanica sono stati opportunamente funzionalizzati con gruppi basici al fine di ottimizzare l’adsorbimento di antibiotici-tipo (amoxicillina, cefamandolo nafato, rifampicina e vancomicina) tramite interazione ionica con i relativi gruppi acidici. Per mimare un catetere in vivo, a contatto con un fluido biologico, dischi polimerici, del diametro di 3cm e con spessore di 150 micron, impregnati con ciascuno antibiotico, erano mantenuti in soluzione salina con agitazione magnetica: l’antibiotico rilasciato veniva monitorato ogni ora nelle prime 6 e successivamente ogni 24 ore. La capacità antibatterica dei dischi impregnati è stata verificata sia mediante microscopia ottica che con il test di Kirby-Bauer, impiegando come riferimento il ceppo ATCC 35984 di Staphylococcus epidermis. Gli esperimenti hanno evidenziato come i poliuretani funzionalizzati riescano ad adsorbire particolarmente bene la rifampicina e a rilasciarla a concentrazioni efficaci per tempi assai lunghi: con il test di Kirby-Bauer è stato possibile osservare aloni di inibizione di 30mm fino a 30 giorni, con una lenta, progressiva diminuzione fino a 10mm di diametro dopo 8 mesi di eluizione.Lo studio ha da un lato evidenziato come sia indispensabile, per i CVC in commercio, raggiungere standard qualitativi superiori agli attuali; e dall’altro, come opportune modificazioni dei polimeri possano consentire la realizzazione di cateteri impregnati con antibiotici in grado di prevenire la colonizzazione microbica, utilizzando ovviamente nuove molecole che non siano già largamente impiegate in campo clinico, come quelle da noi utilizzate come molecole-modello. SPETTRO D’AZIONE UNIVERSALE DI MIMOTOPI KILLER ANTIFUNGINI Magliani W.1, Conti S.1, Cassone A.2, Neri P.3, Polonelli L.1 1Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Università degli Studi di Parma, Parma, 2Dipartimento Malattie Infettive Parassitarie ed Immuno-Mediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma, 3Sezione di Chimica Biologica, Dipartimento di Biologia Molecolare, Università degli Studi di Siena, Siena Un decapeptide (KP), ingegnerizzato dalla sequenza della regione variabile di un anticorpo antiidiotipo ricombinante immagine interna di una tossina killer di lievito (KT) caratterizzata dall’ampio spettro di attività antimicrobica nei confronti di microrganismi patogeni presentanti specifici recettori parietali (KTR) costituiti essenzialmente da ?-1,3 glucani, ha mostrato una potente attività microbicida in vitro (IC50 0,056 ?M) e terapeutica in vivo. L’attività candidacida è risultata neutralizzabile da laminarina (?-1,3 glucano), ma non da pustulano (?-1,6 glucano). In un modello di candidosi vaginale in ratte la somministrazione locale di KP è risultata estremamente efficace, comparativamente ad un decapeptide scramble (SP) caratterizzato dagli stessi aminoacidi disposti in sequenza alterata utilizzato come controllo, nel trattamento di infezioni causate da ceppi di Candida albicans sensibili e resistenti al fluconazolo. In un modello di infezione sistemica in topi Balb/c e SCID inoculati per via endovenosa con una carica letale (2?107) di C. albicans, KP, somministrato per via intraperitoneale, ha determinato un prolungamento nel tempo di sopravvivenza estremamente significativo (>80% degli animali sopravvissuti a >60 giorni mentre >90% degli animali di controllo morivano in 2-3 giorni). Coerentemente con l’ampio spettro d’azione antimicrobica manifestato da KT, KP ha mostrato una potente attività in vitro e/o in vivo nei confronti di Cryptococcus neoformans, Paracoccidioides brasiliensis, Streptococcus pneumoniae, Acanthamoeba castellanii e, sorprendentemente, di HIV-1 e virus Influenza A. L’attività antifungina, antibatterica, antiprotozoaria e antivirale di KP, significativamente, è risultata neutralizzata da laminarina ma non da pustulano. KP si pone come prototipo di un mimotopo ingegnerizzato caratterizzato da uno spettro d’azione universale e potenziale attività terapeutica probabilmente riferibile ad interazione con componenti glucidici di microrganismi e virus patogeni. 122 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA EVOLUZIONE DELLA POPOLAZIONE BATTERICA RESPONSABILE DI MENINGITI IN ITALIA Paola Mastrantonio Dipartimento di Malattie Infettive,Parassitarie ed Immunomediate Istituto Superiore di Sanità,Roma. La sorveglianza nazionale delle meningiti batteriche permette di quantificare il contributo relativo dei principali agenti batterici nell’eziologia di questa patologia; definire in modo più puntuale le caratteristiche epidemiologiche; raccogliere presso l’Istituto Superiore di Sanità i ceppi di Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae e Streptococcus pneumoniae per definirne i sierogruppi e sierotipi ed analizzarne la suscettibilità agli antimicrobici; eseguire saggi di tipizzazione molecolare quali Multi Locus Sequence Typing e Pulsed Field Gel Electrophoresis per monitorare la presenza e l’evoluzione negli anni di specifici cloni. Una sintesi dei dati raccolti dal 2000 a giugno 2003 permette di definire un’incidenza media di meningiti da N.meningitidis di 0.35-0.43; da S.pneumoniae di 0.41-0.43; da H.influenzae di 0.07-0.1/100.000 abitanti. Tra i ceppi di S.pneumoniae isolati da liquor sono stati identificati 19 sierogruppi polisaccaridici, tra i quali i più frequenti sono i sierogruppi 14,23,6,4,3,e,9. Il 96% dei ceppi risulta appartenere ad un sierogruppo incluso nell’attuale vaccino polisaccaridico 23-valente. Nei bambini al di sotto dei 5 anni di età i sierogruppi pìù frequenti sono risultati il 14,il 6B ed il 23F. Nei pazienti con più di 60 anni invece i sierogruppi più frequenti erano 3, 8,23,4 e 19. Circa l’80% dei gruppi isolati da bambini è compreso nell’attuale vaccino 7-valente coniugato. L’incidenza di malattia invasiva da H.influenzae è stata di 0.09 e 0.07/100.000 rispettivamente nel 2000 e nel 2001 per H.influenzae tipo b, e di 0.02 e 0.01/100.000 per altri tipi capsulari. Interessante la comparsa di ceppi di H.influenzae di tipo capsulare “e” responsabili di malattia invasiva mai isolati in precedenza nel nostro paese. Per la meningite meningococcica persiste una situazione di bassa endemia con una incidenza che oscilla tra 0,3 e 0,4 casi per 100.000 abitanti. Il sierogruppo B è risultato predominante (64,4%) ma nel 2002 e nei primi mesi del 2003 si è registrato un forte incremento nella proporzione dei sierogruppi C: 43% rispetto ad una media del 23% nel decennio precedente. Tale aumento sembra attribuibile alla circolazione del fenotipo C:2b:P1.5 che si è rivelato anche responsabile del rapido aumento del numero di ceppi con diminuita sensibilità alla penicillina: 28,5 % tra il 2002 e 2003 rispetto al 2,6% nel biennio precedente. Inoltre è stato possibile identificare mediante tecniche molecolari uno switch capsulare da C a B in alcuni ceppi appartenenti a ET 37complex, al quale appartengono ceppi ipervirulenti. LO STUDIO DEI CORRELATI DI PROTEZIONE NELLA VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA DEI VACCINI ANTI MENINGITE. Roberto Nisini. Istituto Superiore di Sanità. Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate. Roma. e.mail: [email protected]. Le meningiti batteriche sono ancora un problema sanitario importante sia nei paesi in via di sviluppo che nei paesi a stile di vita occidentale. Annualmente sono segnalati anche in Italia un numero consistente di meningiti batteriche a varia eziologia. La ricerca scientifica e lo sforzo produttivo dell’industria stanno rendendo disponibili per l’uso clinico nuovi vaccini per la prevenzione di malattie batteriche basati sull’uso di nuovi antigeni o polisaccaridi specifici di vari microrganismi. Per superare la scarsa immunogenicità dei polisaccaridi e al fine di indurre un a risposta protettiva, viene spesso utilizzata la coniugazione dei polisaccaridi con proteine carrier. Sono già in commercio, e sottoposti a controllo di stato, vaccini glicoconiugati anti Haemophilus influenzae tipo b coniugato con CRM197, un mutante non tossico della tossina difterica e con tossoide tetanico (TT). Sono inoltre disponibili vaccini polisaccaridici contro le infezioni da Streptococcus pneumoniae e da Meningococcus meningitidis di gruppo C coniugati con TT e/o CRM197, mentre sono in fase di sperimentazione vaccini che utilizzano altre proteine carrier e vaccini che utilizzano proteine batteriche come antigeni immunizzanti. La disponibilità di nuovi prodotti vaccinali deve comunque affrontare il problema della sicurezza e dell’efficacia prima della sperimentazione su larga scala. Un vaccino efficace, infatti, non deve semplicemente indurre una risposta immunitaria seppur specifica, ma deve conferire immunità, più o meno duratura contro una malattia infettiva. L’efficacia di una vaccinazione non può essere basata solo sull’osservazione di una risposta immunitaria specifica nell’animale da esperimento, ma deve essere valutata con accuratezza in base ai meccanismi immunopatogenetici della malattia che il vaccino intende prevenire. Se in alcuni casi l’analisi dell’attività battericida dei sieri immuni può essere considerata un utile correlato di protezione ai fini della valutazione dell’efficacia, in altri casi, potrebbero essere presi in considerazione altri strumenti, come la risposta cellula mediata o la secrezione di citochine in vitro o in vivo. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 123 GENI DI VIRULENZA DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS Rindi, L., C. Garzelli Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa, I-56127 Pisa La tubercolosi rappresenta la principale causa di morte nel mondo dovuta ad un singolo agente patogeno. Nonostante la sua importanza, i meccanismi patogenetici di Mycobacterium tuberculosis non sono stati ancora completamente definiti. I recenti progressi nel campo della genetica micobatterica hanno consentito di intraprendere lo studio della patogenicità di M. tuberculosis a livello genetico. In particolare, la sequenza nucleotidica completa del genoma ha permeso di decifrare la funzione del 40% dei circa 4000 geni di M. tuberculosis e sono state sviluppate efficienti strategie molecolari, tra cui saggi di complementazione genica, metodiche per lo studio dell’espressione genica e sistemi di mutagenesi, per lo studio dei geni implicati nella virulenza di M. tuberculosis. Tali tecnologie hanno permesso di analizzare l’espressione ed il ruolo di geni micobatterici in vivo e hanno portato alla identificazione di una serie di geni coinvolti nella virulenza di M. tuberculosis. Numerosi di questi geni sono implicati nella sintesi di componenti della parete cellulare e nel metabolismo lipidico; di particolare interesse sono i geni coinvolti nella sintesi e nel trasporto del ftiocerolo dimicocerosato, un lipide presente unicamente nei micobatteri patogeni, necessario per la crescita di M. tuberculosis nel polmone. E’ stato inoltre dimostrato che geni micobatterici che regolano numerosi processi fisologici, quali la biosintesi di purine, che presumibilmente sono assenti nell’ambiente intracellulare, e la risposta allo stress ambientale, svolgono un ruolo significativo per la sopravvivenza di M. tuberculosis nell’ospite. Anche i geni responsabili della regolazione della trascrizione genica, tra cui i geni che codificano per fattori sigma e il repressore ferro-dipendente, contribuiscono alla virulenza di M. tuberculosis. In futuro, alcuni di questi geni e le proteine da essi codificate, insieme ad eventuali nuovi fattori, potranno fornire nuovi bersagli per l’allestimento di nuovi farmaci e vaccini efficaci. RUOLO DELLE PROTEINE PE_PGRS NELLA BIOLOGIA DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS Giovanni Delogu e Stefania Zanetti Dipartimento di Scienze Biomediche (Sez. di Microbiologia Sperimentale e Clinica), Università di Sassari. Viale San Pietro 43/b, 07100 Sassari Il completamento della sequenza del genoma di Mycobacterium tuberculosis ha portato all’identificazione di una nuova famiglia di proteine denominata PE. Le proteine PE, e quelle appartenenti alla sottofamiglia PE_PGRS, sono presenti in copie multiple nel genoma, sono altamente conservate e sono state individuate solo in micobatteri patogeni. Attualmente il ruolo delle proteine PE e PE_PGRS nella biologia di M. tuberculosis è sconosciuto e i pochi dati sperimentali disponibili impediscono di dare a tali proteine una funzione ed una localizzazione. Nella nostra ricerca la tecnica del gene reporter system è stata utilizzata per studiare l’espressione di alcuni geni della famiglia PE_PGRS. I risultati ottenuti hanno dimostrato che i geni selezionati sono espressi da M. tuberculosis in modo costitutivo e non risultano over-espressi a livello intracellulare. Inoltre, i livelli di espressione risultano molto più bassi rispetto ad altri geni noti di M. tuberculosis. Un gene rappresentativo della famiglia PE_PGRS (Rv1818c) è stato selezionato come prototipo. Studi di frazionamento cellulare e l’analisi in fluorescenza dei ceppi ricombinanti di Mycobacterium smegmatis e M. tuberculosis che esprimono la proteina PE_PGRS legata alla green fluorescent protein (GFP), hanno dimostrato che il prodotto genico del gene Rv1818c localizza a livello della parete cellulare di M. tuberculosis, prevalentemente ai poli della cellula batterica, dove è esposto all’ambiente extracellulare. L’analisi strutturale e funzionale della proteina in studio ha permesso di dimostrare che il dominio PE è responsabile della localizzazione cellulare. Nel complesso i nostri risultati indicano che le proteine PE e PE_PGRS possono essere associate con la parete cellulare dei micobatteri ed influenzano la struttura cellulare e l’organizzazione delle colonie. L’espressione delle proteine PE_PGRS potrebbe avere pertanto importanti implicazioni per la sopravvivenza e la patogenesi dei micobatteri nell’ospite umano. 124 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA ISOLAMENTO ED IDENTIFICAZIONE DI MYCOBACTERIUM AVIUM SUBSPECIES PARATUBERCULOSIS IN BIOPSIE PROVENIENTI DA PAZIENTI CON IL MORBO DI CROHN Sechi L. A., Scanu A.M.°, Campus F., Molicotti P., , Dettori G.°, Fadda G*., Zanetti S. Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari °Clinica chirurgica e terapia chirurgica, Università di Sassari *Istiututo di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma. Mycobacterium avium complex è costituito da un gruppo di micobatteri strettamente correlati che possono essere ulteriormente divisi in Mycobacterium avium subspecies avium, Mycobacterium avium subspecies silvaticum, e Mycobacterium avium subspecies paratuberculosis. Mycobacterium avium subsp. paratuberculosis è la causa della malattia di Johne, una infezione cronica del tratto intestinale di bovini e ruminanti in genere. Mycobacterium paratuberculosis ha un tempo di duplicazione estremamente lento, per osservare lo sviluppo di una colonia su terreno solido (come Herrold egg yolk o Lowensten Jensen) sono necessari oltre 2 mesi. Negli ultimi anni, M. paratuberculosis è stato associato sempre con più evidenza al morbo di Crohn (CD) nell’uomo sebbene non siano state ancora riportate prove definitive. Questi micobatteri invadono i macrofagi presenti nei tessuti linfoidi ileali, all’interno dei quali inibiscono la maturazione dei fagosomi e inducono il reclutamento di cellule infiammatorie causando una enterite granulomatosa. Questi granulomi causano l’appiattimento e la distorsione dei villi diminuendo di conseguenza l’area di assorbimento con conseguente perdita di peso, diarrea e occlusioni intestinali. Si ipotizza che il micobatterio soppravviva in una forma “cell wall deficient” all’interno dei macrofagi. Infatti queste forme sono state isolate da tessuti di pazienti affetti dal morbo di Crohn in diversi laboratori compreso il nostro, aggiungendo al liquido di coltura mycobactina J. In questo studio sono state analizzate diverse biopsie da pazienti con il morbo di Crohn ed è stato possibile rivelare la presenza di M. paratuberculosis con tecniche molecolari ed isolare il bacillo in coltura liquida utilizzando il sistema non radiometrico MGIT (Becton Dickinson). L’alta percentuale di positività riscontrata è di supporto all’associazione di questo batterio enteropatogeno con il morbo di Crohn INFEZIONI DA MYCOBACTERIUM AVIUM SUBSPECIES PARATUBERCULOSIS Leonardo A Sechi Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari Mycobacterium avium subspecies paratuberculosis (M. paratuberculosis) appartiene al Mycobacterium avium complex che comprende tre specie patogene per gli animali e per l’uomo. M. paratuberculosis causa enteriti croniche conosciute come paratubercolosi o malattia di Johne in diverse specie animali. Questa patologia fu descritta per la prima volta da Johne e Frothingam nel 1894. M. paratuberculosis è un microrganismo a crescita estremamente lenta (sino a diversi mesi di incubazione in terreni addizionati di micobattina). M. paratuberculosis ha un’ampio spettro d’ospite, infetta primariamente i ruminanti (sia di piccola che di grande taglia) può infettare inoltre animali non ruminanti come conigli, cani, maiali, cavalli e almeno quattro specie di primati non umani. Sebbene la paratubercolosi abbia un enorme impatto economico in tutto il mondo (solo in Antartide non sono mai stati riportati casi di malattia di Johne) e la sempre più evidente associazione con il morbo di Crohn nell’uomo, rimangono ancora molti aspetti non chiari sulla biologia di M. paratuberculosis e sulla patogenesi della malattia. Il M. paratuberculosis è un batterio intracellulare ed ha un considerevole tropismo verso il tessuto intestinale e, negli animali, causa una infiammazione cronica dell’intestino anche se inoculato per via sottocutanea o intravenosa. La malattia nelle diverse specie animali evidenzia un’ampia gamma di manifestazioni istopatologiche, dalla forma pluribacillare, con milioni di batteri Ziehl Neelsen-positivi visibili all’interno dei macrofagi, alla forma paucibacillare senza evidenti batteri con infiammazione di tipo granulomatoso. La via di trasmissione del batterio è prevalentemente orofecale Una volta all’interno dell’intestino dell’ospite, il batterio è catturato dalle cellule M delle placche di Peyer e successivamente fagocitato dalle cellule dendritiche e dai macrofagi dove persiste e si moltiplica. La cosa più interessante è che dal momento dell’infezione (usualmente prima dei sei mesi) al momento della malattia (generalmente dopo i due anni) la risposta immune dell’ospite è in qualche modo paradossale. Una forte risposta cellulo-mediata caratterizza i primi stadi dell’infezione ed è seguita da una forte risposta umorale nelle fasi intermedie e finali della malattia. La protezione è data essenzialmente dall’immunità cellulo-mediata controllata dai linfociti Th1 CD4+. L’effetto protettivo è da attribuire alla produzione di interferon g che ha un ruolo importante nell’attivazione dei macrofagi, La progressione della malattia è collegata allo shift della risposta immunitaria dal tipo Th1 al tipo Th2 con la predominanza della risposta umorale. M. paratuberculosis soppravvive molto bene nell’ambiente esterno (sino ad un anno) ed è resistente alle alte temperature e alla pasteurizzazione standard del latte (20 sec a 72°C). Il recente sequenziamento completo del genoma di M. paratuberculosis (Mb), che risultato di 0.2, 0,3 Mb più grande di quello di M. avium può far luce può far luce sulla virulenza di questo batterio. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 125 EFFICACIA DI FOSFOMICINA-TROMETAMOLO IN MONO-SOMMINISTRAZIONE NELLA RISOLUZIONE CLINICA DI UTI NON COMPLICATE DELLA DONNA FERTILE*** S. Roveta*, E.A. Debbia*, G.C. Schito*, F. Gorlero** *Sezione di Microbiologia, DISCAT, **Dipartimento di Ginecologia, Università degli Studi di Genova, Largo R. Benzi 10, 16132 Genova ***Hanno collaborato allo studio: Gruppo di Lavoro Ginecologi della Liguria (20) Gruppo di Lavoro Ginecologi di Bergamo (8) A. Lauri, A. Aldrigo, L. Moiana, Ginecologi USL Piacenza – Servizio Salute Donna Le infezioni urinarie non complicate (UTI) rappresentano una patologia comunitaria frequente nella donna in età fertle. La terapia è quasi sempre empirica in quanto il tipo dei patogeni coinvolti è ristretto e la situazione della loro antibiotico resistenza è nota ai clinici grazie a numerosi studi di natura epidemiologica. La fosfomicina-trometamolo (FT), molecola con potente attività battericida nei confronti dei principali uropatogeni, continua a essere caratterizzata da bassi livelli di antibiotico-resistenza nonostante l’ampio utilizzo in Italia e in altri Paesi del mondo.Al fine di verificare pertanto se la mono-somministrazione di FT sia in grado non solo di produrre guarigione clinica, ma anche di eradicare i germi causa di infezione è stato condotto, a partire dal marzo 2003, uno studio tuttora in corso cui hanno aderito 32 ginecologi operanti sul territorio Ligure (20), Lombardo (10) ed Emiliano (3). Come obiettivo secondario è stata studiata la prevalenza e l’ antibiotico-resistenza di tutti gli uropatogeni isolati dalle 253 pazienti ambulatoriali (età compresa tra i 18 e i 65 anni) con diagnosi clinica di infezione urinaria non complicata confermata dall’esame microbiologico. Dei 253 soggetti positivi, 175 (69.2%) erano affetti da cistite acuta al primo episodio e 78 (30.8%) da episodi acuti di cistite ricorrente. La sensibilità in vitro a fosfomicina (FT), norfloxacina (NOR), ciprofloxacina (CIP), cotrimossazolo (SXT), amoxicillina-acido clavulanico (AMC) e nitrofurantoina (NTF) è stata valutata utilizzando tecniche quantitative suggerite da NCCLS. Il germe più frequentemente isolato è stato E. coli (73.1%) seguito da K. pneumoniae e P. mirabilis (7.9% e 7.1% rispettivamente). Altri gram-negativi (P. aeruginosa, E. cloacae, C. freundii) costituivano il 4%, mentre tra i gram-positivi E .faecalis rappresentava il 4.7% e Staphylococcus spp. il 3.2%. La sensibilità in vitro dei 185 ceppi di E. coli a FT è risultata del 98.9%. La guarigione clinica, valutata al follow-up, è stata ottenuta nel 100% dei casi e il trattamento con FT è stato ben tollerato. L’eradicazione microbiologica è stata evidenziata nel 93% dei casi, percentuale che si approssimava al 97% quando l’infezione era sostenuta da E. coli. I risultati ottenuti confermano che FT, per le sue favorevoli caratteristiche di potenza antibatterica, farmacocinetica, comodità di somministrazione, efficacia clinica, e tollerabilità è particolarmente indicata nel trattamento empirico di breve durata delle UTI non complicate sia in pazienti con primo episodio sia con quadri di cistiti recidivanti (peraltro rivelatesi di notevole incidenza in questo studio). SISTEMI TRADIZIONALI ED AUTOMATIZZATI NELLA DIAGNOSTICA DEI MICOBATTERI Stefania Zanetti Dipartimento di Scienze Biomediche, sezione di Microbiologia sperimentale e clinica, Università di Sassari La tubercolosi a distanza di secoli , rimane una delle principali cause di morte nel mondo dovute ad un singolo agente infettivo. L’effetto devastante della tubercolosi si ha soprattutto nei Paesi in via di sviluppo , presso i quali si verificano il 95% dei casi; in queste regioni la tubercolosi è responsabile del 25% delle morti evitabili. Le precarie condizioni igienico socio-economiche, l’immigrazione non controllata, la presenza nel territorio dei senza tetto ed un inopportuno e preoccupante rilassamento nelle misure di prevenzione, sono stati tutti fattori predisponenti l’infezione tubercolare anche nei Paesi sviluppati.. Inoltre, ad aggravare la situazione ha contribuito l’insorgere della farmaco resistenza nei micobatteri, cioè la comparsa di ceppi resistenti ad uno o più farmaci. Pertanto di fronte all’attuale problema di tale patologia diventa sempre più pressante la necessità di metodiche di isolamento e di identificazione che consentono una precoce applicazione delle idonee misure di controllo ed un precoce inizio di terapia diffusamente applicabili. È proprio in questo contesto che verranno presentati oltre ai sistemi tradizionali, anche sistemi che hanno determinato una svolta importante nella diagnosi dei micobatteri tubercolari e non. 126 30° CONGRESSO NAZIONALE DELLA