Derrida e la fenomenologia

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Derrida e la fenomenologia
Un cammino attraverso la ricezione italiana della decostruzione
Intervento di Andrea Potestio
16.02.2011 – gruppo “filosofia in circolo”
PREMESSA: Introduzione generale alla decostruzione
Importanza della decostruzione come metodologia nella lettura dei testi e dei problemi filosofici.
Metodologia che ha come riferimento la fenomenologia di Husserl e l’ermeneutica di Heidegger.
La decostruzione non è “decostruzionismo”. Non si vuole prendere in considerazione la fortuna di
una metodologia in ambiti estranei a quelli filosofici. È importante applicare la riflessione del
filosofo francese ai temi della tradizione filosofica (fenomenologia-ermeneutica)
Temi e spunti di riflessione
Logocentrismo: Derrida va a valorizzare quello che in Husserl è rimasto sullo sfondo, ossia il ruolo
del supporto, del medium considerato dal filosofo tedesco come qualcosa di inerte nel passaggio
della comunicazione.
Il logocentrismo è la tendenza del pensiero e del discorso teorico a rimuovere le sue condizioni
materiali.
La filosofia non ammette (e il filosofo ha rimosso) che il farsi idea della parola è possibile solo
grazie al segno che permette l’iterazione anche in assenza del primo soggetto che ha avuto
un’intuizione o sensazione.
Idealizzazione e iterazione:
Derrida identifica l’idealità con l’iterabilità.
Un’idea è, in linea di principio, qualcosa di indipendente da chi la pensa ed è tale da esistere anche
dopo che quella persona ha smesso di pensarla.
L’idea, per essere tale, deve risultare indefinitivamente iterabile. Questa possibilità originaria è
offerta dal segno scritto, dalla traccia che permane anche in assenza dell’autore.
Testo di riferimento (La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella
fenomenologia di Husserl).
Passaggio all’ontologia del segno:
il segno è ciò che definisce la realtà della nostra esperienza.
Secondo Derrida bisogna decostruire la struttura assiologica (rapporto bene e male) che vi dietro
ogni percezione del segno. Es. Platone: Il farmaco è rimedio e veleno, la cultura successiva sempre
scartare il veleno. Husserl: il segno (che non definisce) si distingue in intenzionale e non
intenzionale. La tradizione scarta quello non intenzionale come cattivo, meno importante.
Il segno ha una matrice che non è riducibile alla coscienza del singolo (permane anche oltre chi lo
produce e riflette una matrice esperienziale).
Idealità-iterazione: mentre l’idea ha una struttura più nobile, l’iterazione è l’elemento realmente
costitutivo. Senza iterazione non vi è idea.
L’iterazione è una traccia, un segno. Non esiste un io che non sia fatto di segni.
Derrida contraddice la posizione husserliana che afferma che nel monologo interiore, nel flusso di
coscienza, l’io non ha bisogno di nessun segno, si coglie senza mediazione.
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La presenza: la vera presenza può essere solo ideale in quanto solo nell’interiorizzazione il dato
presente può essere ripetuto, farsi idea e non essere sottoposto ai mutamenti del tempo e dello
spazio.
Il problema è che proprio l’iterazione, ossia il segno imperfetto rende possibile l’idea.
Le opere di Derrida sulla fenomenologia:
- Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, che è una dissertazione giovanile del 1953-54
- Introduzione a Husserl - L’origine della geometria, scritto nel 1962
- La voce e il fenomeno, 1967
- ‘Genesi e struttura’ e la fenomenologia, in La scrittura e la differenza
- La forma e il voler-dire. Nota sulla fenomenologia del linguaggio, in Margini della filosofia
Critica alla fenomenologia: la fenomenologia è chiamata metafisica della presenza.
L’esigenza della fenomenologia porta al suo stesso fallimento. Non si può tornare alla cosa stessa
che si sottrae continuamente. Il mondo è composto di tracce che rimandano a una scrittura e
un’assenza e non solo di segni che indicano un altro segno presente.
Il fenomeno come totalità di presenza indica un eccesso, una sovrabbondanza che è l’elemento non
dialettizzabile, l’iterazione, il trascendente.
L’epochè husserliana diviene un movimento non solo conoscitivo, ma ontologico.
Ogni soggetto costitutivamente sospende il fluire della realtà nella creazione di un’idea, ossia
nell’iterazione. Ogni sospensione si costituisce nel segno, nella sua tracciabilità. Risultati e
prospettive:
• la scrittura diviene immagine della temporalità
• la presenza è concepita come risultato di operazioni costitutive
• la differenza si configura come archi-struttura
Cercherò di affrontare alcuni temi decisivi della pratica decostruttiva che hanno un forte legame
critico con la fenomenologia, cercando di tenere in conto lo specifico della “ricezione italiana” dei
testi di Derrida (tra questi M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, C. Di Martino, Oltre il
segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, Milano, Franco Angeli, 2001 e S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge
del possibile. Un’introduzione, Milano, Jaca Book, 1987):
Ne emergono alcune tesi:
- Il legame tra la decostruzione e la verità (matrice fenomenologica)
- Derrida viene letto in Italia, almeno negli anni ’70 come interprete originale della fenomenologia
- Unitarietà dell’intera produzione derridiana (non è possibile comprendere le riflessioni etiche di
Derrida senza partire dai suoi primi testi)
- Legame con l’ermeneutica
Ripeterò dunque, lasciando alla frase e
alla forma del verbo tutti i loro poteri
disseminatori: c’è bisogno della verità
(il faut la verité).
J. Derrida, Posizioni
Il pensiero di Derrida sfugge a definizioni dogmatiche e difficilmente può essere inserito in un
ambito disciplinare particolare a causa della sua complessità e del grande numero di testi che
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compongono la sua opera. Gli scritti del filosofo francese si occupano di diversi campi del sapere e
spaziano dalla ricerca filosofica più stretta, alla letteratura, alla poesia, al cinema e alla psicanalisi.
Ma il pensiero di Derrida ha manifestato un interesse sempre vivo per la filosofia intesa come
pratica testuale che, pur non rinunciando a proporre la necessità dell’idea di verità come fine della
sua ricerca, vuole analizzare e problematizzare le condizioni di possibilità della tradizione di
pensiero che l’ha prodotta. La tesi che si cercherà di sostenere è che Derrida sia stato considerato
all’interno del dibattito filosofico italiano, fin dalla pubblicazione delle sue prime opere, come un
interprete originale che, partendo da una lettura particolare della fenomenologia, ha sviluppato un
percorso che si inserisce all’interno dell’ampio panorama ermeneutico contemporaneo.
I testi di Derrida vengono tradotti prestissimo in Italia e giudicati di grande interesse in
ambito accademico. È interessante notare che le prime traduzioni delle sue opere sono state proprio
in italiano: per esempio La voce e il fenomeno, a cura di Gianfranco Dalmasso, è stato pubblicato
nel 1968 dalla Jaca Book, Della Grammatologia è uscito nel 1969 presso la stessa casa editrice ed
Einaudi ha curato l’edizione italiana de La scrittura e la differenza nel 1981. Anche se i testi
principali di Derrida sono conosciuti in ambito italiano nei primi anni settanta, la decostruzione non
riesce a penetrare profondamente nel dibattito filosofico e, viene spesso considerata una disciplina
di confine che propone un metodo di critica letteraria.
La situazione si modifica negli anni ottanta e novanta quando si assiste a un continuo
moltiplicarsi di articoli e monografie dedicati alla decostruzione e ai suoi effetti. L’incremento di
pubblicazioni dedicate a Derrida, anche grazie al successo ottenuto negli Stati Uniti, espone però, la
decostruzione a fraintendimenti e incomprensioni perché risulta difficile da codificare e inserire in
categorie già strutturate. La diffidenza e il disinteresse iniziale di vari ambienti accademici è
dovuto, anche, alla mole e alla varietà di argomenti presenti negli scritti di Derrida. Per questo
alcuni filosofi hanno sottovalutato la portata filosofica dell’opera di Derrida considerandola come
un contenitore di intuizioni filosofico-letterarie e di analisi suggestive su opere di altri. Non a caso
alcuni studiosi sostengono che non esiste una filosofia di Derrida e che la sua intenzione è solo
quella di disarticolare, decostruire il logos tradizionale e i sistemi filosofici di altri autori. (tra questi
cito Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986 - Scritti filosofici, vol.2, Roma, Laterza, 1993; J.
Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Bari, Laterza, 1987. Per un’analisi ampia sulla ricezione della
decostruzione nel panorama filosofico americano si veda J. Culler, Sulla decostruzione).
La decostruzione sarebbe, se si seguono queste interpretazioni, un continuo tentativo di
problematizzare e mettere in discussione l’idea di fondamento e avrebbe il merito di essere una
critica costante alle tendenze definitorie del pensiero logocentrico. Se questa tesi ha un proprio
fondamento e una giustificazione nei testi di Derrida, nasconde però il pericolo di generare una
barriera interpretativa che non spinge a cercare un senso all’interno del progetto decostruttivo e
porta a considerarlo come una filosofia dell’assenza assimilabile alle tendenze scettiche e
nichilistiche contemporanee. Derrida diviene, allora, il pensatore della differenza, del testo e
dell’assenza, cioè di un insieme di idee che devono essere opposte all’identità, al libro e alla
presenza che rappresentano ciò che deve essere criticato e negato in quanto prodotto della
metafisica logocentrica. Questa interpretazione, però, ha il limite di non cogliere il carattere positivo
del termine decostruzione - più volte ricordato dallo stesso Derrida - che non si esaurisce nell’opera
di messa in guardia e di distruzione delle illusioni della tradizione.
Se anche in Italia alcuni interpreti hanno considerato la decostruzione nel senso riduttivo
sopra ricordato, è vero anche che diversi studiosi hanno sottolineato il carattere filosofico e positivo
dell’intera produzione derridiana poiché il filosofo francese ha presentato un pensiero in opera che
deve essere interrogato a partire dalle sue eccedenze rispetto al significato dichiarato e alle
intenzioni dello stesso autore. La decostruzione è un pensiero imponente non perché è chiaro,
lineare e con un forte impianto dimostrativo, ma perché è ricco di suggestioni e si pone sui margini
della tradizione e di ciò che può essere detto. In questa direzione si colloca Petrosino che nel testo
Jacques Derrida e la legge del possibile afferma a proposito delle linee guida del proprio scritto:
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esso (il saggio di Petrosino) si fonda su due convinzioni: la prima è che esista una filosofia di Derrida, almeno nel
senso più ampio di questo termine, vale a dire come rinvio ad una visione generale ed argomentata di tutta la
realtà; la seconda convinzione è che tale filosofia non sia affatto riducibile ad una forma di problematicismo e
tantomeno ad una sorta di elogio dell’assenza, del negativo, dell’effimero, ecc., e che quindi essa non possa essere
classificata – come spesso è avvenuto, in genere troppo frettolosamente ed evitando accuratamente di leggere i
testi – come un’espressione del tanto conclamato nichilismo e/o scetticismo contemporanei (Pretosino, J.D. e la
legge del possibile.
La decostruzione, secondo questa interpretazione, non si limita a criticare l’idea di origine e
fondamento della tradizione metafisica, ma propone, attraverso le nozioni di differenza e traccia,
una continua contaminazione tra presenza e assenza che non sono mai pensabili nella loro purezza
assoluta. Petrosino parla di ‘legge del possibile’ per identificare le forme della contaminazione
poiché ‘il reale – che non può mai essere identificato con il mondo, con il luogo in quanto
appartenenza alla mano, ai calcoli della logica d’appropriazione della mano – è sottomesso alla
legge del possibile, ed è per questo ch’esso, in un certo senso, è anche impossibile, cioè eccedente,
irrapresentabile, incalcolabile, abitato dall’evento, ma mai inerme, anzi in continua attività proprio
all’interno del suo sottrarsi ad ogni possibile rappresentazione’.
Petrosino insiste molto sul carattere affermativo della decostruzione che trova la sua
massima espressione nella pratica di scrittura. L’atto della scrittura non è solo esercizio stilistico o
virtuosismo letterario ma si costituisce come relazione tra presente e assente, come coincidenza tra
un segno visibile e il suo fantasma irrimediabilmente perduto. La scrittura rappresenta la
contaminazione del possibile che si mostra, sempre, nella propria eccedenza e nel tentativo di
rapportarsi con l’impossibile:
emerge così non tanto una logica della mancanza, quanto piuttosto un pensiero dell’affermazione che pur
riconoscendo la mancanza, pur sforzandosi costantemente e con rigore di non misconoscere o sublimare mai la
mancanza, purtuttavia non si limita a essa, non indugia su di essa e non può arrestarsi alla semplice perdita:
dunque un pensiero senza dubbio della finitezza, ma […] della finitezza in quanto fecondità o in quanto abitata
dalla fecondità, una fecondità che decostruisce l’esperienza e il concetto stesso di finitezza rilanciandoli verso
una promessa che nessuna coscienza sarebbe in grado di determinare e potrebbe sperare di evitare o dominare.
Pensiero della finitezza in quanto pensiero dell’affermazione della fecondità e della fecondità dell’affermazione
(Petrosino).
La fecondità e la forza della decostruzione è colta nella sua capacità di mantenere insieme le
opposizioni attraverso l’individuazione di coppie concettuali indecidibili, come
possibile/impossibile, presenza/assenza, metodo/non metodo che vengono analizzate e disarticolate
senza mai privilegiare uno dei due termini. Gli indecidibili sono gli snodi più significativi che
Derrida utilizza per studiare la tradizione filosofica e sono prodotto della stessa tradizione che si va
ad analizzare. In questo modo la decostruzione produce aporie che non sono momenti di scacco del
pensiero, ma rappresentano un modo di procedere del pensiero che non vuole escludere o
sintetizzare il negativo.
Derrida introduce il termine ‘aporie’ per sottolineare la fragilità e l’indeterminatezza delle
linee che costituiscono i confini delle forme, dei concetti e del pensiero stesso. Se manca una linea
di distinzione e separazione diviene problematico il passaggio o il superamento poiché anche i
confini della soggettività sono messi in questione. Gli indecidibili sono aporetici perché non si sa
dove andare, non vi è una netta separazione tra i due concetti che li compongono e non si può
decidere in modo dogmatico per uno dei due termini dell’opposizione. L’indecidibile diventa il
luogo dove, secondo Derrida, si può fare esperienza della nostra condizione che manca di confini
sicuri e rassicuranti e iniziare a pensare in modo aporetico. Nell’introduzione ad Aporie, Graziella
Berto sottolinea come le domande sullo sfaldamento dei confini, sulla mancanza di rigore del
pensiero e sull’impossibilità di decidere tra vero e falso, immaginazione e realtà siano sempre
presenti nell’intera produzione derridiana. Pensare all’interno dell’aporia diviene un modo paziente
di sostare ‘in quell’assenza di passaggio che nasce dallo sfilacciarsi dei confini, nell’indistinzione
che questo comporta e che non può essere tolta’ senza, però rinunciare al rapporto con la verità.
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Cosa ne è, quindi, della verità? Proprio sulla linea, rimanendo all’interno dell’aporia in un luogo che
ci impedisce un superamento, vi è la possibilità che accada qualcosa, che si imponga a noi come
evento imprevedibile e inatteso qualcosa del quale nessuna definizione può impadronirsi. La verità
è così l’evento che accade dove i confini si sfaldano e le identità sono insicure. La verità è
l’arrivante (arriver), ciò che fa accadere un evento prima ancora che ci siano delimitazioni e
confini. Derrida spiega in Aporie:
parlo dell’‘arrivante’ assoluto, che non è nemmeno un ospite (guest). Esso sorprende l’ospite che non è ancora un
ospite (host) o una potenza da cui proviene l’invito, al punto da rimettere in questione, fino ad annullarli o a
renderli indeterminati, tutti i segni distintivi di un’identità prestabilita, a cominciare dal confine stesso che
delimitava un presso-di-sé legittimo e assicurava le filiazioni, i noni e la lingua, le nazioni, le famiglie e le
genealogie. L’‘arrivante’ assoluto non ha ancora né nome né identità (Derrida – Aporie).
La mancanza di confini certi e di identità sicure non significa la negazione totale di ogni forma di
identità e verità in una confusione senza fine. Al contrario, dato che un confine non si può tracciare
in modo definitivo, la singola identità tracciata rimane inappropriabile, segreta e vincolante. Siamo
così legati alla finitezza di quel singolare che non possiamo oltrepassare, ma che costituisce l’unico
punto di partenza verso l’idea di verità che nessun metodo o progetto possono raggiungere. A
conferma dell’attenzione di Derrida per il tema della verità, così si esprime in Posizioni:
è chiaro che non si tratta affatto di tenere un discorso contro la verità o contro la scienza (cosa impossibile e
assurda – come lo è ogni accusa buttata là in proposito). Se si analizza sistematicamente il valore di verità come
homoiosis o adeguatio, come certezza del cogito (Decartes, Husserl) o come certezza opposta alla verità
nell’orizzonte del sapere assoluto (Fenomenologia dello spirito) o infine come aletheia, svelamento o presenza
(ripetizione heideggeriana), non è già per tornare ingenuamente a un empirismo relativista o scettico. Ripeterò
dunque, lasciando alla frase e alla forma del verbo tutti i loro poteri disseminatori: c’è bisogno della verità (il faut
la verité). E ciò vale per quelli che (si) mistificano avendola sempre il bocca o all’occhiello. È la legge.
Parafrasando Freud, che lo dice a proposito del pene presente/assente (ma è la stessa cosa), bisogna riconoscere
nella verità ‘il prototipo normale del feticcio’. Come farne a meno? (Derrida - Posizioni)
La decostruzione non si pone come pratica che rinuncia alla verità e alla filosofia, ma come un
tentativo di rapportarsi all’evento della verità senza dimenticare il carattere impossibile di questa
esperienza. Il rapporto con la verità rimane necessario anche se questa verità non può essere detta e
dimostrata con il rigore della logica. Il rapporto con la verità rimane il compito di chi si occupa di
filosofia, un compito etico che si pone in ascolto e in attesa di ciò che è a-venire, dell’arrivante
assoluto.
L’idea di verità come evento, come possibilità a venire e, quindi, il carattere positivo e
filosofico della decostruzione è evidente fin dai primi testi di Derrida sulla fenomenologia che
costituiscono il punto di partenza della sua ricerca filosofica e rimangono un punto di riferimento
per comprendere il progetto decostruttivo. Infatti, proprio a partire dal metodo husserliano e dalla
sua idea di fenomeno e di logos come presenze su cui attivare la ricerca filosofica, Derrida propone
il progetto grammatologico e il tema della scrittura che concepisce il logos come una necessaria
contaminazione che avviene attraverso le tracce che rendono possibile, nella continua iterazione, il
logos stesso.
1. Fenomenologia e decostruzione
Derrida si forma come pensatore proprio sui testi di Husserl, stimolato dall’atmosfera francese di
quegli anni in cui l’opera del filosofo tedesco costituisce un grande polo di attrazione verso il quale
si indirizzano molti giovani studiosi. Husserl viene studiato insieme ai testi di Heidegger, un altro
punto di riferimento costante per la produzione derridiana, anche se l’interesse di Derrida è, in
questi anni, volto non tanto verso la fusione tra fenomenologia e esistenzialismo, bensì verso la
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teoria della conoscenza della fenomenologia e la genesi delle scienze oggettive. (Ferraris nella
Introduzione a Derrida, a proposito degli studi del filosofo francese sulla fenomenologia afferma che ‘lo Husserl dei
francesi è una miscela di fenomenologia ed esistenzialismo, con qualche apertura nei confronti della psicologia; una
mistura ben rappresentata dal titolo di tre opere influentissime, L’essere e il nulla (1943) di Sartre, Fenomenologia della
percezione (1945) di Merleau-Ponty e Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger (1949) di Levinas’).
Il testo in cui emerge in modo chiaro l’interpretazione originale di Derrida su Husserl è la La
voce e il fenomeno.. Infatti la fenomenologia viene analizzata per cogliere e smascherare gli aspetti
che la accomunano alla tradizione metafisica occidentale, come sottolinea Sini nell’Introduzione al
testo:
ma il libro è anzitutto ben altro. Esso presenta lo smascheramento radicale dell’intera strategia metafisica da
Platone a Husserl di cui pone a nudo le radici. L’edificio della ratio, con suo millenario dominio, viene
scandagliato nelle sue reali fondamenta e nei suoi silenziosi sotterranei. Si tratta di un’operazione di tale audacia e
acume che la cultura contemporanea è ben lungi dall’averla assimilata e compresa, anche se più segni manifestano
l’estendersi attuale della sua influenza (negli ultimi anni, per esempio negli Stati Uniti) e anche se è facile
avanzare la profezia che tale operazione non potrà non acquistare in futuro tutto il peso che le compete.
L’aspetto che interessa, da subito, gli studiosi italiani non è una particolare interpretazione della
fenomenologia, ma la capacità delle analisi derridiane, sulla scorta delle letture di Heidegger, di
analizzare gli aspetti che mettono in relazione Husserl con la tradizione metafisica per cogliere le
strutture di dominio del logos che appartengono alle radici del pensiero filosofico e che si trovano
costantemente in atto nella produzione teoretica. Questo compito è svolto attraverso un lavoro di
contaminazione tra la struttura trascendentale e l’empiricità che Sini commenta così: ‘la mossa
felice di Derrida è stata proprio quella di porre alla fenomenologia husserliana, alla sua coscienza
trascendentale e intenzionale, cioè al luogo ‘puro’ di ogni sapere, la questione ‘impura’ del segno’.
Derrida interroga le istanze fenomenologiche attraverso la questione del segno e mostra che
ogni presenza a sé, in qualunque modo venga intesa la presenza, è sempre un rimando ad altro. In
questo modo egli evidenzia il carattere illusorio dell’idea di origine piena e presenza pura che,
invece, sono da sempre contaminate da una traccia iterabile che differisce costantemente proprio per
il suo carattere iterabile e segnico. L’operazione di Derrida non è priva di conseguenze; infatti,
ridurre l’idea di origine pura a segno iscrivibile e iterabile significa mettere in discussione ogni
punto di riferimento stabile e ogni forma di sapere assoluto.
L’aspetto più originale e interessante della lettura derridiana di Husserl, per molti interpreti
italiani, si colloca nell’aver colto che la costituzione stessa della storia della metafisica e dell’idea di
essere come presenza piena che attraversa il pensiero occidentale è un effetto del linguaggio e
dell’idea di segno che la stessa tradizione ha prodotto. Derrida, quindi, va a sviluppare alcune
intuizioni heideggeriane sul linguaggio attraverso le quali interroga i testi husserliani sul tema del
presente e della parola. La grande illusione della metafisica, e anche della fenomenologia, consiste
nel pensare la voce come pura presenza che è in grado di comprendersi completamente in modo
intuitivo e che produce l’idea di identità e autocoscienza:
il necessario privilegio della phonè, che è implicato da tutta la storia della metafisica, Husserl lo radicalizzerà,
sfruttandone tutte le risorse con la più grande raffinatezza critica. Poiché non è alla sostanza sonora o alla voce
fisica, al corpo della voce nel mondo che egli riconosce un’affinità d’origine con il logos in generale, ma alla voce
fenomenologica, alla voce nella sua carne trascendentale, al soffio, all’animazione intenzionale che trasforma il
corpo della parola in carne, che fa del Körper un Leib, una geistige Leiblichkeit. La voce fenomenologica sarebbe
questa carne spirituale che continua a parlare e ad essere presente a sé – ad intendersi – nell’assenza del mondo.
Ben inteso, ciò che viene accordato alla voce è accordato al linguaggio di parole, ad un linguaggio costituito di
unità che hanno potuto essere credute irriducibili, indecomponibili – saldando il concetto significato al
‘complesso fonico’ significante. Malgrado la vigilanza della descrizione, un trattamento forse ingenuo del
concetto ‘parola’ ha senza dubbio lasciata irrisolta nella fenomenologia la tensione dei suoi due motivi maggiori:
la purezza del formalismo e la radicalità dell’intuizionismo (Derrida – La voce e il fenomeno).
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Derrida sottolinea che questa concezione della voce nasconde un residuo metafisico che agisce sui
presupposti stessi della fenomenologia, ossia sulla sua concezione di presente vivente, di vita e
soffio vitale come fine e origine del pensiero e della soggettività. A questa visione, egli contrappone
il problema del segno inteso come ciò che è iscrivibile, reiterabile e scritto. Il segno scritto è traccia
contaminata sempre dal materiale empirico e si costituisce come un rimando infinito a ciò che è
altro, assente e non coglibile completamente. Questo aspetto innovativo della lettura derridiana
viene messo in evidenza da molti interpreti come Sini, Costa e Dalmasso in quanto avvicina il
pensiero di Derrida a posizione ermeneutiche.
L’interpretazione derridiana della fenomenologia non si mantiene all’interno del contesto
fenomenologico, ma mostra una valenza originale e innovatrice che la collocano al centro del
dibattito filosofico contemporaneo. I temi in questione non coinvolgono solo Husserl, ma anche
l’intera struttura di pensiero della tradizione filosofica che vuole essere denunciata come illusoria e
ingannevole. La voce e il fenomeno e gli altri scritti su Husserl costituiscono, da un lato,
un’introduzione alla produzione matura del filosofo francese 1 in cui alcuni temi futuri della
decostruzione sono già presenti, dall’altro un punto di riferimento, ormai classico, per comprendere
il dibattito e il contesto filosofico degli anni sessanta e settanta.
La posizione di Derrida sulla fenomenologia è complessa e necessita di una nuova lettura
che si astenga da semplificazioni che contrappongono Derrida e Husserl prendendo le parti di uno
dei due pensatori (Habermas). La decostruzione non può essere letta come una critica definitiva alla
fenomenologia che le toglie ogni pretesa scientifica e nemmeno una interpretazione ricca di
fraintendimenti e incomprensioni. Lo stesso Derrida afferma nella Grammatologia che ‘un pensiero
della traccia non può rompere con la fenomenologia trascendentale più di quanto non possa
ridurvisi’. La decostruzione non si contrappone alla fenomenologia e non vuole rinunciare al rigore
filosofico, ma continua a esprimersi attraverso la filosofia senza avere alcuna intenzione di ridurre
la logica alla retorica.
Emerge, quindi, già dal confronto con Husserl, come il compito della decostruzione non è
quello di ridurre la filosofia a una genere letterario bensì
di mostrare che una lingua puramente logica non sarebbe reperibile nemmeno se si sospendesse l’aspetto
comunicativo del linguaggio, ed è proprio per questo che, se va rifiutata l’idea di un linguaggio ideale puramente
espressivo, lo stesso occorre fare rispetto all’idea di un linguaggio meramente metaforico. Per Derrida non si
tratta di sostituire il privilegio che il discorso logico si è tradizionalmente visto riconoscere con il privilegio del
discorso retorico, ma di mostrare l’intreccio che vi è tra i due, o meglio ancora: di cogliere il movimento
originario che genera la differenza tra logica e retorica .(Costa, Postfazione).
Nei testi su Husserl è già presente una ‘sorta di legge’ che guida e determina l’opera intera di
Derrida. Questa legge che si impone come necessità al filosofo è una contaminazione originaria
dell’origine, della presenza che nessuna analisi può ridurre a semplice fenomeno istantaneo o a
lingua pura. La differenza che contamina l’origine permette l’iterazione, ossia il movimento
generativo della differenza attraverso i segni. Questa legge è il filo rosso con il quale Derrida
interroga la fenomenologia senza volersi contrapporre a essa o esaurirne la forza.
Derrida, quindi, pur sottolineando che la fenomenologia trascendentale di Husserl si
presenta come il massimo compimento del progetto metafisico in quanto decreta il trionfo della
ragione, della presenza e della voce, afferma anche la necessità dell’operazione fenomenologica
come ciò che permette di dissotterrare le radici occultate della metafisica sollevando alcune
interrogazioni fondamentali sulle origini del pensiero. La fenomenologia radicalizza il progetto
metafisico portandolo a compimento attraverso la consacrazione dell’idea teleologica di presenza
1
È noto il commento dello stesso Derrida su La voce e il fenomeno che egli considera uno dei suoi saggi più
significativi: ‘è forse il saggio a cui tengo di più. Certo avrei potuto collegarlo come una lunga nota, a una delle due
altre opere. De la grammatologie vi fa infatti spesso riferimento e ne utilizza lo sviluppo. In un’architettura filosofica
classica, però, La voix verrebbe prima’. (Cfr. J. Derrida, Posizioni, cit., p. 44).
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piena, però, nello stesso tempo, propone un’interrogazione radicale sui segni che costituiscono
senso e valore nella produzione di significato. Per questa ragione Derrida insiste sul ruolo del segno
nella produzione del significato, un ruolo che apre la via al problema della traccia e della scrittura.
La fenomenologia, nella lettura derridiana, non viene pensata solamente come filosofia della
presenza e per questo rifiutata o criticata, ma diviene un punto centrale nello sviluppo del pensiero
che permette il costituirsi della domanda sul segno, apre al problema della scrittura e, di
conseguenza, al progetto grammatologico. Costa rifiuta l’idea di una netta contrapposizione tra
fenomenologia e decostruzione - come, invece, avviene in ambito anglosassone - e sottolinea come
il filosofo francese voglia mettere in discussione l’idea che la fenomenologia abbia come unico
esito un sapere trasparente e controllabile da un soggetto che è sempre padrone del proprio discorso.
Cerchiamo, ora, di cogliere le domande fondamentali che Derrida pone alla fenomenologia a
partire dalla questione dell’intenzionalità, centrale in Husserl, che, secondo il filosofo francese non
deve essere abbandonata ma ripensata a partire dalla struttura che egli colloca alla base di ogni
fenomeno e ogni idea: l’iterabilità. Senza dubbio in Husserl il discorso e il pensiero esistono nel
momento in cui vi è un significato univoco, chiaro ed evidente alla coscienza di chi parla e di colui
a cui è rivolto. Il linguaggio come espressione deve essere chiaro ed evidente nell’interiorità di colui
che lo produce. Nella coscienza esiste, quindi, un’origine intenzionale presente senza mediazione
alla quale si può tornare per evitare equivoci. Proprio su questo punto vi è la differenza più marcata
con Derrida che nega l’esistenza di un’origine pura in quanto essa si presenta come ciò che è
sempre contaminata.
Il fraintendimento e l’errore, secondo la posizione fenomenologica, insorge nella
comunicazione, dove il discorso, l’espressione pura diventa segno e può generare fraintendimenti.
Nella comunicazione il messaggio può generare errori perchè può arrivare a destinatari imprevisti e
può circolare in modo incontrollabile 2. La circolazione dei segni impedisce il controllo da parte di
chi li usa che non riesce più a dominare completamente il loro significato. È la struttura di rinvio,
l’empiricità della lingua a minacciare l’intenzione significante, la sua presenza pura perché una
lingua opera come una struttura di iterazione. Il compito dell’indagine fenomenologica è ritornare
alla purezza del fenomeno della coscienza, dove il significato è immediatamente presente senza
mediazioni e contaminazioni.
Il luogo dove non può avvenire nessun fraintendimento è il monologo interiore, la situazione
dove la coscienza ha un rapporto diretto con se stessa senza mediazioni e rimandi empirici che
possono contaminarla. Il monologo, quindi, è pura espressione in cui è presente un significato senza
comunicazione. Derrida, riflettendo su questo aspetto dell’indagine husserliana, sostiene sia
l’evidenza degli aspetti metafisici della fenomenologia che partono dalla certezza di un’esistenza
interiore che può essere esteriorizzata, sia il fatto che nell’idea di segno husserliana vi sia già il
superamento della tradizione in quanto proprio il monologo interiore mostra il carattere ripetitivo
del linguaggio, evidente anche senza percezione sensibile. Costa così si esprime su questo
argomento:
da un lato, infatti, non vi è dubbio che il progetto fenomenologico sia un progetto metafisico, che intenda fondare
una certa idea di sapere e chiarire che cosa significhi ‘sapere’. Vi è sapere solo se vi è esteriorizzazione di
qualcosa che sta innanzitutto in un dentro, se questa avviene volontariamente, e se avviene in una situazione,
quella del discorso orale, in cui la comprensione reciproca tra soggetti è possibile. Proprio per questo il concetto
di intenzionalità resterebbe nell’ambito di una metafisica volontaristica […]. D’altra parte, bisogna però notare
che Husserl, proprio nella misura in cui tenta di esibire la possibilità di un monologo interiore in cui la
comunicazione sarebbe sospesa, finisce per mostrare in primo luogo il carattere essenzialmente ripetitivo del
linguaggio, l’iterabilità della marca linguistica, ed in secondo luogo che la parola resta tale anche in mancanza di
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Husserl distingue nel segno due aspetti: l’indice e l’espressione. L’indice rappresenta la comunicazione che può
generare fraintendimenti e allontanare dalla purezza intenzionale dell’espressione. Il compito della fenomenologia è di
cogliere le essenze dei fenomeni, per ciò dissociare l’indice, la parte segnica empirica e temporale dall’espressione pura
della coscienza. Cfr. E. Husserl, Formale und transcendentale Logik, Halle, 1929; tr. it. di G.D. Neri, Logica formale e
trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, Bari, Laterza, 1966.
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un’intuizione riempiente, che la sua capacità di significare non viene meno con il venire meno della percezione
(Costa, Postfazione).
Derrida insiste, proprio partendo dalle analisi husserliane, sul fatto che il segno non è mai un
avvenimento unico, insostituibile e irreversibile, ma è sempre inserito e reso possibile dagli atti di
ripetizione. Il monologo interiore rappresenta un significato che continua a mantenere il proprio
valore indipendentemente dai significanti attraverso cui si comunica. Esso si costituisce come
un’idealità che per essere tale ha bisogno della riproduzione perché soltanto attraverso la forma
della riproduzione si concretizza nel mondo reale. In questo modo, sostiene Derrida, non è più
possibile distinguere tra un linguaggio originario e uno derivato perché entrambi sono possibili in
quanto viene messa in atto una struttura di ripetizione. Il segno non può essere inteso come qualcosa
che deriva da una struttura originaria interna alla coscienza perché anche nella vita solitaria
dell’anima è in atto un continuo rinvio che in quanto ripetizione altera e modifica ogni pretesa di
presenza a sé stabile.
La riflessione derridiana sulla fenomenologia sottolinea l’elemento di alterità e di differenza
che costituisce l’idea di vissuto e ogni rimando segnico. Il ‘ritornare alle cose stesse’, a un vissuto
originario viene interpretato come un tentativo di riattivare l’intenzione originaria del significato
senza dimenticare che la pura espressività e la comunicazione hanno una genesi comune nella
struttura di rimando che costituisce il segno. L’analisi di questa idea di segno diventa il compito
della decostruzione.
Il problema del segno si lega con la questione teleologica e diventa la chiave che apre a tutte
le questioni di carattere etico e politico sulla tradizione e sul destino della razionalità occidentale
che caratterizzeranno l’opera matura di Derrida. In Husserl l’espressione ha un carattere teleologico
in quanto mira al riempimento, a cogliere l’intenzione originaria e piena del parlante anche se
questo riempimento è differito all’infinito a causa dei fraintendimenti linguistici. La tensione verso
la piena comprensione rende possibile e necessaria una verità completamente presente che diviene
l’obiettivo, il fine del linguaggio. Derrida, sottolineando l’iterabilità linguistica, l’impossibilità di
avere un fuori dal linguaggio e un’origine che lo garantisca, rifiuta la nozione teleologica
husserliana e l’idea di un sapere assoluto e certo a cui tendere. Il segno derridiano rende impossibile
la presenza, ma allo stesso tempo non può fare a meno del rapporto con la nozione di verità perché è
lo stesso segno a produrre e funzionare grazie alla logica del proprio ripetersi differenziandosi che
lo consegna a un rapporto aperto con la sua alterità sempre impossibile, ma carica di senso.
2. Il problema del segno e l’ermeneutica
Negli anni ottanta e novanta la circolazione dei testi di Derrida diventa rilevante in Europa e,
soprattutto, negli Stati Uniti. Molti scritti di questi anni sono segnati da aperture sempre più evidenti
a tematiche etiche, politiche e argomenti di critica letteraria pur mantenendo una continuità con i
problemi dei primi anni. Il successo della decostruzione negli Stati Uniti produce effetti sulle
interpretazioni di alcuni studiosi italiani che utilizzano le indagini decostruttive anche in ambiti non
strettamente filosofici (si vedano i lavori di Cambi e Mariani). Per quanto riguarda i temi più filosofici
Derrida continua a essere studiato in ambito ermeneutico per l’attenzione al problema del
linguaggio e del segno.
Il rapporto di Derrida con l’ermeneutica è complesso e parte dalla sua prima formazione
come studente di filosofia presso l’Ecole Normale Supérieure dove nell’immediato dopoguerra si
assiste al recupero della filosofia heideggeriana (Derrida, Ousia e grammè e Dello spirito) dopo la
compromissione con il nazismo grazie agli studi di Jean Beaufret. L’Ecole è una scuola con un forte
interesse nei confronti della storia della filosofia, però, è caratterizzata anche da una profonda
attenzione verso l’esegesi dei testi attraverso un’analisi rigorosa dei classici con lo scopo di
evidenziare snodi concettuali e problemi che non necessariamente sono presenti nelle intenzioni
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dell’autore. L’attenzione al testo, alle sue dinamiche interne che risultano indipendenti dalle istanze
esterne dello scritto, costituisce un argomento centrale della decostruzione e un punto di contatto
con la tradizione ermeneutica.
Derrida, infatti, scrive di essere stato molto influenzato dal metodo proposto da Martial
Gueroult, storico della filosofia e suo maestro all’Ecole, che afferma che i problemi della filosofia
devono essere analizzati proprio a partire dal funzionamento formale degli scritti:
era un modello per tutti noi, credo, in quel momento. Bisognava leggere, pensavamo, come leggeva Gueroult. In
quel modello, c’è insieme il rispetto per il funzionamento del testo, per la logica dei filosofemi senza tenere conto
dell’autore; era […] una attenzione al funzionamento formale; non era questione di sottoscrivere o meno la tesi,
né di filosofare per filosofare, ma di vedere come funziona; una specie di tecnologia filosofica.
Contemporaneamente, bisognava prestare attenzione alla lettera, alla letteralità: non al soffio che spira attraverso
il testo, a quello che vuol dire, ma al suo funzionamento letterale (Derrida, Il gusto del segreto).
La decostruzione propone un’ermeneutica del testo in cui gli snodi teoretici e la struttura dello
scritto costituiscono l’obiettivo dell’indagine filosofica senza però arrivare a produrre un metodo o
un modello che possano essere applicati in modo universale indipendentemente dal testo particolare
sul quale si sta operando. Infatti le contraddizioni, le note e le pause del testo divengono i punti
centrali dell’analisi derridiana per esplicitare il non-detto che appare più importante del detto, di ciò
che è chiaro e manifesto. In questo modo inizia il lavoro interminabile della decostruzione sui
margini della tradizione attraverso una paziente operazione di lettura e scrittura che deve sempre
considerare il ‘qui e ora’ del testo e le condizioni storiche e materiali di questa pratica interpretativa.
Ferraris afferma che Derrida ha inserito la dialettica nell’ermeneutica del testo e che la
decostruzione sottoliena il ruolo del negativo, di ciò che è stato escluso e rimosso all’interno della
struttura che compone ogni testo:
per mettere in movimento questo sistema di testi, la dialettica, che valorizza il ruolo del negativo o di ciò che
freudianamente si può chiamare ‘rimosso’, risulta lo strumento più appropriato. Si tratta di sottolineare, in
perfetto stile dialettico ma con un intento psicanalitico, che ciò che i filosofi non dicono ed escludono dal loro
percorso teorico o dalla forma compiuta del sistema è in realtà un ingrediente altrettanto importante che quanto
dicono apertamente (Ferraris, Introduzione).
L’idea di dialettica che Ferraris attribuisce a Derrida non ha un valore di indagine razionale, ma è
pensata come una pratica che vuole indagare ciò che non è esplicitato, rimane ai margini dei testi
della tradizione e costituisce la condizione di possibilità dell’iterazione interpretativa della stessa
tradizione. L’attenzione nei confronti di ciò che psicoanaliticamente possiamo chiamare ‘rimosso’
spinge Derrida a interrogare, inizialmente, la fenomenologia husserliana proprio sul rapporto tra
genesi materiale e struttura ideale. L’individuale e il concreto non possono essere pensati come
elementi privativi dell’idea, ma al contrario, attraverso il movimento di iterazione, essi permettono
la genesi della struttura ideale. L’empirico, ciò che viene normalmente rimosso dalla tradizione,
diviene il punto di partenza della decostruzione soprattutto nelle sue determinazioni storiche e
comunicative. Infatti, le domande poste ai testi husserliani portano Derrida a interrogarsi sul
rapporto tra oggetti ideali e trasmissione storica, ossia a chiedersi come le modalità di
comunicazione, linguaggio e scrittura, vanno a interferire con la struttura ideale e la formazione
della teoria.
La decostruzione afferma che i mezzi di trasmissione non sono mai esterni rispetto alla
formulazione dell’idea ma ne costituiscono un elemento significativo che non può essere escluso
dalla pura teoresi. In particolare la scrittura, attraverso il contenuto segnico, diventa il luogo ideale
per dimostrare come non possa esistere un contenuto puramente astratto e un’idealità pura a cui
ricondurre teleologicamente la ricerca scientifica. La struttura universale è sempre in rapporto con
quella individuale ed empirica che si mostra nel divenire storico. La decostruzione sottolinea il
ruolo del lettore che diviene l’interpretante del testo e, quindi, colui che deve smuovere le strutture
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rigide che possono essere riconosciute nello scritto per comprenderne, attraverso la sua pratica
ermeneutica, i silenzi, le censure involontarie, le note marginali e ciò che non risulta evidente.
Il segno scritto, come iterazione testuale concreta ed empirica, è ciò che può essere
interpretato perché, in quanto traccia, può essere ripetuto attraverso infiniti atti di lettura che non
necessitano della presenza dell’autore e della sua volontà. Attraverso la riflessione sulla scrittura la
decostruzione si allontana dalla fenomenologia, dalla sua pretesa di giungere alle cose stesse e
dall’ideale del monologo interiore come luogo dove si realizza un dialogo perfetto e sempre
presente della coscienza con se stessa e si avvicina alle riflessioni dell’ermeneutica contemporanea.
Se il monologo interiore non può rappresentare una perfezione da raggiungere priva di ogni
mediazione linguistica, significa che la mediazione del segno scritto e iterabile è da sempre la
condizione di possibilità di ogni idea. L’obiettivo della decostruzione diviene quello di mostrare il
ruolo della mediazione, della contaminazione del segno attraverso un’analisi interminabile e interna
ai testi della tradizione:
così decostruire questa tradizione (il riferimento sono le analisi di Saussure sul segno e la scrittura) non consisterà
nel rovesciarla, nel dichiarare innocente la scrittura. Ma piuttosto nel dimostrare perché la violenza della scrittura
non sopravviene ad un linguaggio innocente. C’è una violenza originaria della scrittura perché il linguaggio è
anzittutto, in un senso che si svelerà man mano, scrittura. L’‘usurpazione’ è cominciata già da sempre. Il senso del
buon diritto appare in un mitologico effetto di ritorno (Derrida, Della Grammatologia).
Derrida, quindi, rifiuta il concetto di una soggettività interiore pura che possa essere considerata il
punto di arrivo e il fondamento del sapere scientifico. La coscienza, la voce e l’espressione sono
forme già contaminate dalla ripetizione che le rende possibili e dal supporto materiale attraverso le
quali si iterano. La stessa soggettività si costituisce come insieme di segni che compongono le
forme, già da sempre mediate, attraverso le quali si mostra la realtà.
La decostruzione, mettendo in discussione l’idea di una soggettività pura che, in qualche
modo, è il fine o l’origine della ricerca scientifica e rendendo problematica l’esistenza di un sapere
puro che non sia influenzato dalle modalità con cui viene comunicato, non vuole, però, proporre un
totale ribaltamento delle categorie tradizionali del pensiero filosofico per sviluppare un pensiero che
abbandona la filosofia a favore di un linguaggio simbolico o poetico come sembra affermare
Heidegger nei suoi ultimi testi. La realtà è pensata da Derrida come un insieme di segni e il nostro
rapporto con essa è sempre interpretativo. Il reale costituisce il limite che rende impossibile un
rapporto interiore e senza mediazioni del soggetto con se stesso perché rimane l’unico contesto
dentro al quale è possibile pensare e produrre filosofia. La relazione con il testo, che rende
impossibile teorizzare un’alterità assoluta, è la grande eredità che Derrida riprende dalla tradizione
ermeneutica.
Ferraris, che si occupa in modo approfondito dei rapporti tra decostruzione ed ermeneutica,
osserva che sono entrambe forme di testualismo che escludono ogni metodo radicalmente fondato e
qualsiasi verità assoluta che sia completamente trasparente a se stessa e costituisca l’obiettivo della
ricerca:
il mondo si presenta pienamente come libro, come testo che ha significato solo per l’intenzione del nostro
pensiero; ma, al tempo stesso, il pensiero non è in grado di compiere la poderosa circumnavigazione
enciclopedica del libro del mondo, della totalità dei libri e delle istituzioni dello spirito oggettivo che lo
compongono, non è in grado quindi di porsi rispetto al testo in condizione di esteriorità; così che il soggetto del
sapere di trova parlato e inscritto nel libro del mondo ben più di quanto non parli e non scriva su di esso; è
impossibile scrivere sopra dei testi, in senso proprio e vero, giacché si scrive sempre e anzitutto dentro a essi
(Ferraris, Postille).
La decostruzione, come forma di testualismo, si trova in una situazione limite perché
epistemologicamente non è in grado di pensare in modo completo la natura ontologica del proprio
oggetto. Essa non può separare la conoscenza della realtà come insieme di segni da colui che attua
quella conoscenza e che si trova coinvolto e coimplicato nell’azione conoscitiva. Questa situazione
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limite che appartiene sia all’ermeneutica che alla decostruzione non è né un punto di arrivo né uno
scacco per il pensiero con esiti nichilistici, bensì un punto di partenza per mettere in crisi l’idea di
una verità assoluta e pensare la verità come una pratica non dogmatica, sempre aperta e flessibile in
relazione alle condizioni materiali da cui è prodotta.
Il soggetto è parte del testo che costituisce la realtà e, per questo, esso, in quanto parte
dell’oggetto che sta indagando, non può decidere preventivamente sulle condizioni di verità di
questo testo. Per il soggetto non vi è nulla al di fuori del testo perché non è possibile uscire dalla
posizione interna alla realtà nella quale si è inseriti. Ciò comporta una negazione totale dell’alterità
assoluta che non può essere colta nella sua interezza e non può diventare un punto di osservazione
privilegiato della realtà. Quindi Derrida nega l’idea di oltrepassamento radicale della tradizione e
dei limiti storico-epocali nei quali si è inseriti e afferma che per poter impostare un rapporto con
l’alterità radicale, con l’impossibile è necessario rimanere all’interno della tradizione ed essere
consapevoli della struttura nella quale si è inseriti. Come sostiene Heidegger ogni Überwindung,
superamento e slancio oltre la tradizione non può avvenire senza una Verwindung, ossia uno stare
nella tradizione che generi dall’interno uno spostamento, una torsione non ingenua delle regole
della realtà che ci costituisce.
L’ermeneutica e la decostruzione hanno in comune, come inevitabile conseguenza del rifiuto
di un sapere assoluto che guida la ricerca e permette un distacco dalla realtà, l’idea che la verità
abbia un carattere pragmatico e politico, infatti ogni analisi testuale produce effetti nel testo che
compone la realtà. Questi effetti generano slittamenti, aperture a nuovi problemi che vengono
accettati e diventano fecondi o vengono rifiutati e diventano sterili. L’assiologia etico-politica che
determinata la fecondità di un’interpretazione è costituita dal contesto storico determinato nel quale
siamo inseriti e da cui non possiamo sfuggire. Però ogni interpretazione porta con sé uno
slittamento, un’eccedenza di significato che produce effetti continui, sia che siano fecondi o meno,
e che pone il rapporto con l’altro come l’evento costitutivo dell’idea di verità che si mostra nel suo
differenziarsi pratico. La verità deve essere prodotta, diviene un’operazione, un compito etico come
sottolinea Di Martino in Oltre il segno:
tutti i contenuti, i significati, i concetti che frequentiamo si mostrano allora nella loro dipendenza da un evento di
senso che continuamente li deistituisce, perciò nella loro relatività alle operazioni, alle scritture, alle pratiche in
cui si trovano messi in opera. Essi non si rivelano estranei alla verità, ma figure delle verità come evento, la cui
eccedenza si disegna sull’orlo del loro non-funzionamento. L’eccedenza dell’altro, dell’evento, della verità come
evento, della giustizia, viene, nella pratica decostruttiva, affermata come tale, lasciata essere, ospitata. Questo la
decostruzione fa, intende fare, è praticare l’impossibile, l’altro, l’evento. In ciò si misura il carattere etico, più e
prim’ancora che teoretico, dell’esercizio decostruttivo. Non si tratta, cioè, di formulare una teoria dell’evento, di
informare sull’evento e sulla verità nell’ordine della ragione cognitiva, ma di fare la verità, ossia di praticarla, di
renderle testimonianza: nel gesto stesso della decostruzione, nell’esercizio stesso della propria scrittura,
decostruendo e decostruendosi, accettando quindi il proprio essere in stato di decostruzione (Di Martino, Oltre il
segno).
La lunga citazione che ho riportato mette bene in evidenza come il dibattito italiano sulla
decostruzione abbia sottolineato la dimensione ermeneutica dell’opera di Derrida che, partendo
dall’analisi dei testi, rifiuta l’idea di un sapere assoluto e teleologico e problematizza la natura di
colui che interpreta e di ciò che è interpretato. La decostruzione diviene, quindi, una costante
interpretazione della realtà che avvolge anche l’interpretante senza proporre un metodo conoscitivo
ed epistemologico universale, ma realizzando una operazione etica e politica sulla realtà.
Se l’aspetto etico-politico e il riconoscimento della centralità della dimensione storica
determinata da cui si origina ogni interpretazione sono gli aspetti comuni più significativi tra
ermeneutica e decostruzione, alcuni interpreti, come Ferraris, hanno sottolineato anche le differenze
che rendono la filosofia di Derrida una pratica originale nell’orizzonte ermeneutico contemporaneo.
La distanza più significativa tra Derrida e gran parte dell’ermeneutica del Novecento riguarda il
tema del vitalismo e l’idea che i testi scritti possano essere letti con lo scopo di attualizzarli, di
renderli vivi nel presente.
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La filosofia ermeneutica ha criticato lo studio della tradizione in sé come oggetto di analisi
determinato e trasparente in quanto lo studio del passato non porta a un sapere certo e non è
finalizzato a se stesso, ma è una continua interpretazione nel tentativo di attualizzare la tradizione
nella dimensione presente. La riflessione nietzscheana sulla storia nella Seconda Inattuale è
significativa per evidenziare come l’eccesso di storicismo allontana dalla vita e dalla forza del
presente. Il passato può essere accettato solo quando viene messo al servizio del presente e della
forza vitale senza vincoli e dogmatismo.
La posizione nietzscheana viene accolta e sviluppata nel Novecento dalla riflessione di
Gadamer che condanna lo storicismo come un atteggiamento dannoso nei confronti del presente. È
necessario liberarsi dal passato come oggetto di sapere che diviene ideologia e perde il proprio
valore nei confronti dell’attualità. Gadamer e anche Ricoeur sottolineano che proprio la scrittura
può essere utile per liberarsi dalla trasmissione dogmatica del passato perché il testo scritto può
essere letto in assenza del proprio autore, lontano da ogni contesto originario e da lettori a cui lo
scritto non era destinato. Il testo scritto lascia ampie libertà interpretative, può diventare un ottimo
veicolo di trasmissione non dogmatica del passato e, quindi, l’interpretante assume il ruolo di
rivitalizzare il passato e la tradizione, ossia di rendere le lettere morte di un testo utili e feconde per
il presente e per la vita. I testi ‘hanno la loro esistenza non nel conservarsi come lettere morte, bensì
nell’applicazione e appropriazione sempre nuova 3’ che permette un dialogo vivente, partecipato e
privo di ogni irrigidimento metafisico e dogmatico.
La decostruzione, invece, si distanzia dal paradigma vitalistico in quanto sostiene che la
scrittura non ha il compito di rivitalizzare il passato. Derrida radicalizza l’argomentazione di
Heidegger sulla tradizione metafisica intesa come oblio del problema dell’essere e afferma che la
scrittura come operazione è costituita da un insieme di tracce che sono sempre contaminate dal
negativo e non possono essere ricondotte a una presenza piena. Infatti in La scrittura e la differenza
scrive che ‘la traccia è la cancellazione di sé, della propria presenza, è costituita dalla minaccia o
dall’angoscia della propria scomparsa irrimediabile, della scomparsa della propria scomparsa’.
Ferraris, infatti, sottolinea che questa concezione della scrittura come costante rapporto con il
negativo porta inevitabilmente a negare la sua funzione di attualizzazione del passato:
che la scrittura sia un trascendentale, che sia cioè la condizione ideale della tradizione che orienta la nostra
comprensione, non significa per ciò stesso che la tradizione possa venire riportata in vita. […] Il passato è allora
anzitutto lettera morta. Questa ipotesi non pensa più la tradizione sotto il modello della vita e della
rivitalizzazione che Nietzsche presentava nella Seconda Inattuale. […] È la mortalità della tradizione, molto più
che la sua vitalità, a orientare il decostruzionismo di Derrida (Ferraris, Postille).
L’elemento negativo, la differenza e la minaccia della sparizione sono costitutivi della
scrittura e del suo rapporto con il passato. Il passato rimane tale e si mostra nei testi come lettera
morta che non può essere riutilizzata nel presente e a cui può non essere data una seconda vita
perché il distacco temporale è ineliminabile. Il compito della decostruzione è quello di conservare e
analizzare il passato senza dimenticare che la tradizione si mostra sempre come un insieme di tracce
che non possono giungere mai alla pienezza trasparente di un senso definito.
L’importanza dell’elemento negativo, l’impossibilità di sintetizzarlo nel presente e, di
conseguenza, la negazione del vitalismo rappresentano i punti di massima distanza della
decostruzione da molte correnti ermeneutiche del Novecento, come quelle di Gadamer e Ricouer,
che, anche se con modalità differenti, pensano la scrittura come un ponte tra tradizione e attualità.
La concezione di scrittura e l’idea di vitalismo dell’ermeneutica, secondo Derrida,
rimangono legati a una concezione logocentrica perché il fine è quello di giungere a cogliere
l’essenza della realtà che si manifesta nel presente assoluto inteso sia come fondamento ontologico
(Heidegger) sia come volontà di potenza (Nietzsche). Il vitalismo dell’ermeneutica, da Nietzsche a
3
H.G. Gadamer, In cammino verso la scrittura?, in ‘Il Mulino’, 4, Bologna, edizioni Il Mulino, luglio-agosto 1985, p.
573.
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Heidegger fino a Gadamer, non sarebbe altro che una riproposizione mascherata dell’esistenza di
un’origine e di un fondamento ontologico sempre presente che ha lo scopo di garantire l’intero
processo veritativo.
La decostruzione radicalizza l’idea di verità come interpretazione e sostiene la dissoluzione
della garanzia ontologica di ogni interpretazione conoscitiva perché l’essere non è fondamento ma
différance, ossia continua rimando, gioco distanziante che non può essere ricondotto a una sintesi né
mostrato attraverso il linguaggio. La différance non può essere garanzia della verità, ma è la
condizione di possibilità del linguaggio che genera senso e verità attraverso il proprio gioco di
iterazioni e differenze. La verità diviene un evento pratico e irrinunciabile in quanto caratterizza il
movimento di apertura aporetica verso l’alterità che appartiene al prodursi nel pensiero attraverso
l’iterazione linguistica.
L’indagine filosofica decostruttiva ha come obiettivo una idea di verità che si manifesta
come evento aporetico, che non può giungere a una sintesi tra la propria affermazione e il negativo
che la costituisce. Ne deriva il carattere pratico e fattivo della verità che si mostra proprio nel
riconoscimento dei limiti e del contesto spazio temporale che la costituiscono e nell’interminabile e
necessario percorso di lettura e scrittura che rende possibile l’iterazione differenziale di ciò che
chiamiamo tradizione o memoria.
L’idea di verità, come evento pragmatico, acquisisce, quindi, un ruolo decisivo e centrale nel
modo in cui è stata interpretata la decostruzione nel panorama filosofico italiano perché costituisce
un elemento di unitarietà che collega i primi testi di Derrida sulla fenomenologia fino alle sue
ultime riflessioni sui valori etici e perché rappresenta l’esigenza propriamente filosofica della
decostruzione che la rende una pratica attuale e feconda.
Una pratica appunto che si misura in un’azione di lettura e scrittura sui testi. Un’azione che abita il
luogo della formazione e delle figure dell’etica classica:
chi imparerebbe? Da chi? Insegnare a vivere, ma a chi? Si saprà mai? Si saprà mai vivere, e anzitutto cosa vuol dire
‘apprendre a vivre? […] Locuzione magistrale, comunque – o appunto per questo. Perché sulla bocca di un maestro
questo frammento di parola d’ordine direbbe sempre qualcosa della violenza. Esso vibra come una freccia nel corso di
un’adresse irreversibile e disimmetrica, quello che per lo più va dal padre al figlio, dal maestro al discepolo o dal
signore al servo: ti sto insegnando a vivere io. […] Ma imparare a vivere, impararlo da sé, soli, insegnarsi a vivere da sé
non è, per un vivente, l’impossibile? Non lo vieta la logica stessa? Vivere, per definizione, non lo si impara né lo si
insegna. Non da sé, dalla vita attraverso la vita. Solamente dall’altro e attraverso la morte. In ogni caso dall’altro sul
bordo della vita. Sul bordo interno o sul bordo esterno, si tratta di una eterodidattica tra vita e morte. Eppure niente è più
necessario di questa saggezza. È l’etica stessa. (Derrida, Spettri di Marx)
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