LA PRETESA EDUCATIVA DEL FILOSOFO

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LA “PRETESA” EDUCATIVA DEL FILOSOFO, OGGI
1) Introduzione
Il filosofo, affidandosi alle proprie capacità razionali, ha sovente reputato la propria
visione del mondo come l’unica, la più vera, la più completa, la più fondata, e per tali
motivazioni sentitosi eticamente investito dal possesso della presunta verità ha
creduto insegnare, si è sentito in dovere di proporre un modello di vita, ha avuto
l’ambizione di indicare i nuovi valori dopo aver spesso tacciato di anacronismo gli
schemi esistenziali e valoriali precedenti; ha insomma avuto la “pretesa” di educare:
trarre fuori, condurre dal vecchio al nuovo, lui gran sacerdote della verità, del bene,
del bello.
Non è semplicistico ricordare che tutta la storia della filosofia è costellata dalla
costituzione di scuole (Pitagora, l’Accademia, il Liceo ecc.) che diventano il luogomomento della trasmissione e della eventuale problematizzazione del sapere, della
tematizzazione e dell’approfondimento dialettico della visione del mondo del maestro
in una solidarietà di pensiero, di ideali, anche di costumi e di vita, ma con ambizioni
che spesso travalicano il loro chiuso, elitario ambito aristocratico con conseguenze
politico-religiose ( come per pitagorici) o con prospettive trasversali magari
sovranazionali e cosmopolitiche (sofisti e illuministi) o economico-sociali di lotta di
classe come nel marxismo o scientifico-sociali di rigenerazione della società come
nel positivismo.
Tale valenza pratico-educativa la si recepisce dal significato stesso dell’accezione
theorein che per i Greci, ma anche poi per gran parte della filosofia successiva, non
significava astrarre dalla realtà sensibile e quindi suo rifiuto, ma esaustivamente
fondare, significare e indirizzare l’attività politica, economica e sociale attraverso la
comprensione dialettica della Verità, del Bene, del Trascendente e non come possesso
indistinto ed esclusivo del sapiente, per cui suo dovere etico sarà trasmettere la Verità
contemplata con uno stile di vita coerente alla verità acquisita, anche a rischio di non
essere creduto o di essere dileggiato ed osteggiato (Socrate, Spinosa) da chi è
condizionato dalle catene della sensibilità e dell’insipienza come rappresenta Platone
nel “mito della caverna”.
2 - Il filosofo, però, ha spesso illuso sé e gli altri sottovalutando le proprie capacità
razionali in una commistione di esse con il potere politico-economico o religioso di
turno, riducendo acriticamente l’azione giudicatrice della ragione ad esercizio
strumentale e pragmatico: in una funzione di mezzo per dominare gli altri e la
natura1. La ragione filosofica, in questa riduzione strumentale e utilitaristica, snatura
se stessa perdendo i propri costitutivi connotati di sapere, non solo ma si rende priva
di ogni oggettiva e soggettiva capacità critica, di ricerca del vero e totale Destino
“Avendo rinunciato alla sua autonomia, la ragione è diventata uno strumento…nell’aspetto strumentale sottolineato
dal pragmatismo è messo in rilievo il suopiegarsi a contenuti eteronomi. La ragione è ormai completamente aggiogata al
processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini
e la natura” (M.HORKHEIMER, Eclissi della ragione, tr. it. , Milano 1962, pp. 31-32).
1
1
dell’uomo e si trasforma spesso in docile strumento del sistema che di volta in volta
si presenta sulla scena come possibile vincitore: quante, troppe volte gli intellettuali
sono stati e sono ingenui e servili corifei di un partito, di un’ideologia, di gruppi di
potere bisognosi di rifarsi nuovi maquillages, attraverso le opportunistiche, quasi
catartiche, giustificazioni offerte non sempre ingenuamente dai filosofi! Basti pensare
a certi assolutismi, di destra o di sinistra che siano, e all’uso appunto strumentale del
filosofo e della cultura in genere: non solo sapere è potere sulla natura (Bacone), ma
il controllo del sapere è potere sugli uomini, non a caso, secondo la Arendt,
l’imposizione di una ideologia e l’indottrinamento ideologico, magari proprio
attraverso l’opera di giustificazione del filosofo di turno, rappresentano, assieme al
terrore, gli elementi costitutivi del totalitarismo2.
Ciò è avvenuto e può avvenire perché il criterio della presunta criticità si fonda su
una concezione individualistica, particolaristica e utilitaristica dell’uomo e della sua
realtà e non certo unitaria e quindi ragionevole e realistica se elimina dall’uomo tutto
ciò che oggettivamente, ontologicamente ed esistenzialmente lo costituisce in quanto
tale: conoscenza, prospettazione, aspirazione, nostalgia e desiderio di…Altro, della
Verità, della felicità nella sua totalità; così che empirismo e pragmatismo, positivismo
e logicismo, materialismo e nichilismo sono spesso, anche se con diverse modalità,
accentuazioni e fini, espressioni di questa acriticità, di questo riduzionismo,
strumentalismo e trasformismo indecoroso e acritico del filosofo e della ragione.
Infatti una ragione è critica non perché nel particolare sa essere confutatoria o
dimostrativa, neppure per la capacità dimostrativa in se stessa, ma perché sa ricercare
nella realtà, in tutta la realtà, e proporre il tutto, nel frammento il tutto; sa paragonare
prospetticamente il particolare all’intero: decifrare e definire il particolare in quanto
particolare e confutare la pretesa del particolare di assurgere ad intero; e da ultimo sa
dimostrare l’impossibilità e l’illusorietà di cogliere il particolare proprio in quanto
particolare senza il riferimento ontologico all’universale e al tutto. E’ strutturale alla
ragione umana e suo essenziale compito spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, perché
è la domanda di senso totale, che è a sua volta strutturale al nostro io che lo esige e
ciò non è compito di una ragione dimostrativa o scientifica che punta unicamente sui
particolari. Nell’esperienza dell’incontro con la realtà la ragione si svela come
esigenza di significato totale, infatti, per sua natura, tende a stabilire nessi, ma
sostenuta continuamente dalla domanda di un “perché” sempre più esaustivo. Per cui
la ragione non si può accontentare per convenienza o calcolo di risposte parziali se
non snaturando e sottovalutando se stessa, in quanto il senso di una cosa è dato dal
suo rapportarsi con tutti i fattori in gioco. Per questo la ragione è la “coscienza della
realtà secondo tutti i suoi fattori”3. E l’autorevolezza della ragione, d’altra parte, non
è data esclusivamente da ciò che essa è da punto di vista metodologico, per cui più
raffinate sono le metodologie più autorevole e vera è la ragione, ma da ciò che
persegue: se ciò che insegue è autorevole in quanto il Tutto, allora sarà autorevole, e
la sua grandezza e la sua libertà non stanno semplicemente nel poter scegliere, ma nel
saper scegliere puntando al Tutto e rischiare fino in fondo tale opzione, magari fino
2
3
Cfr.: H.ARENDT, Le origini del totalitarismo, tr. it., Milano 1997, pp. 471-535.
L.GIUSSANI, Si può (veramente?) vivere così, Milano 1996, p. 79.
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alla scoperta dell’esaurimento di ogni autorevolezza della scelta, e quindi al suo
sgretolamento.
Solo una ragione demitizzante e esautorante, ma soprattutto auto demitizzante ed
autodesautorante può essere capace di accostarsi con verità alla Verità, con
autorevole umiltà alla Autorevolezza e, infine, con necessaria possibilità alla
possibile Necessità assoluta.
La stessa esigenza storica dell’uomo si riduce sovente ad una ricerca affannosa ed
illusoria delle cause e dei fini ultimi della vita all’interno del mondo storico stesso, in
un determinismo e materialismo storico che pretendono segnare il tramonto della
dimensione metatemporale e metastorica come prospettiva organica, rappresentando
la totale mondanizzazione ed eliminazione di ogni residuo di trascendenza.
Oggi la filosofia non è veramente autorevole, se non estemporaneamente, perché si
perde nel particolare, ostinandosi nel giustificare aspetti parziali di ciò che è l’uomo.
Non esiste un fine unitario e sopratemporale, ma solo un fine parcellizzato e
intratemporale, verso il quale l’uomo si dirige con tempi resi sempre più brevi, non
per questo meno illusori, dalla scienza, dall’economia e dalla tecnologia e che si
traduce in una nebulosa tensione verso l’avvenire storico. “Nebulosa tensione” perché
ciò che sempre più si evidenzia è il particolare, il desiderio di soddisfazione dei
particolari, il dominio, la “dittatura dei desideri” in cui si esalta sempre più un
atteggiamento naturalistico, materialistico, istintivo, violento, animalesco.
L’uomo contemporaneo sembra infatti aver chiuso le porte alla speranza e sembra
averle aperte all’ideologia consumistica e non solo materiale ma anche culturale e
paradossalmente spirituale: mese dopo mese assistiamo ad una continua ed esasperata
proposta di pseudo-valori, di fragili modelli, la cui fruizione è più veloce della loro
organica formulazione. E similare alla società del consumo è la civiltà
dell’indifferenza e della confusione che impregna tutta la mentalità e la criticità
razionale dell’uomo contemporaneo ed a cui non è estraneo certo individualismo
libertario e irrazionalismo nichilistico.
La società del consumo prospera proprio quando la nebbia dell’indifferenza offusca
la razionalità umana incapace a ridar consistenza al valore ontologico-esistenziale
dell’essere umano come persona, per cui di fronte alla esautorazione progressiva e
capziosa di ogni gerarchia di valori, per cui “tutto è relativo” e come afferma
Nietzsche “ al di là del bene e del male” , il consumo assurge a valore, diventa
paradossalmente “il” valore: causa e fine dell’esistenza umana: gli strumenti
diventano i fini e fini assoluti. Viviamo nel paradosso di una “barbarie civilizzata”
intesa come “accrescimento insaziabile di strumenti che s’acceca e s’insordisce a
qualsiasi differenza metafisica tra mezzi e fini, alla differenza tra fini essenziali e fini
inessenziali, ossia tra il fine assoluto e fini strumentali, generando strumenti solo per
generare strumenti senza fine”4 E se una ragione unicamente storica e pragmatica
altro non è se non ideologica, cioè semplice giustificazione a priori o invalidazione a
posteriori di interessi particolari di classe o di ceto, questo discorso si presenta più
complesso nei confronti della civiltà dell’indifferenza, in cui è difficile inquadrare e
4
P.P.OTTONELLO, La barbarie civilizzata, Genova 1993, p. 84.
3
immediatamente identificare “il nemico” e quali siano i suoi interessi precipui. Nella
attuale situazione di indifferentismo, di relativismo e di caos non si sa contro chi
combattere, l’avversario sembra quasi scomparire, certamente non è più di natura
politica, ma forse non esiste nemmeno l’esigenza del combattere: perché? per chi?
per che cosa? Anche perché l’eventuale avversario è apparentemente anonimo, si
confonde con la mentalità ovunque diffusa, in cui gli individui sono standardizzati,
semplici numeri nella massa, “L’industria culturale ha perfidamente realizzato
l’uomo come essere generico…Egli stesso, come individuo, è l’assolutamente
sostituibile, il puro nulla”5 . Varrebbe solo la pena ricordare che per la Arendt uno
degli aspetti che ha originato ed ha successivamente favorito il consolidarsi dei
totalitarismi è proprio la riduzione degli uomini a massa indistinta6. Si promette agli
uomini di scaricarli dal peso della loro responsabilità; si suggerisce che la distinzione
morale del bene e del male è una intollerabile restrizione imposta alla libertà da altri
uomini e la cui causa consiste, come afferma Freud, nei tabù ancestrali e di natura
sessuale che hanno perso la loro utilità sociale e conseguentemente si insegna che
ogni travaglio interiore e ogni sacrificio in vista del dominio di sé generano traumi
nevrotici e che è necessario, di conseguenza, dare libero corso (Rousseau) alla
presunta innocenza originaria e alla naturalità delle pulsioni. Sempre più assistiamo
ad una involuzione, non dall’animale all’uomo, ma dall’uomo all’animale, altro che il
mitizzato progresso infinito7. Lo scopo della “dittatura dei desideri” è spingere gli
uomini ad una schiavitù definitiva della ragione, ma lo fa, e ciò rappresenta la più
amara delle ironie, nel nome della libertà!
Ma se diventa ardua inquadrare l’avversario e quindi la causa (il potere consumista,
infatti è trasversale in quanto sovranazionale, inter-ideologico, inter-etico e
trasformistico), tuttavia un barlume di luce dovrebbe provenire dalla magica
considerazione dell’effetto: i sempre più frequenti suicidi e non solo fisici nella
società del benessere, perché la vita si gioca nel rapporto con il Destino-verità; e ciò
potrebbe rappresentare un motivo per mettere a nudo le radici: al fondo della
funzione ideologica e strumentale della ragione o della morte stessa della ragione
idealista, si possono intravvedere le radici affondanti in una concezione parziale e
riduttiva dell’uomo nel suo essere e nella sua esistenza storica o come naturalità o
come materialità o magari solo spiritualità.
Si è perso il senso, e quindi la ricerca dell’intero, dell’interezza dell’uomo e della
totalità della realtà, unico fine della ricerca filosofica. E come di volta in volta uno di
questi aspetti è stato assolutizzato fino a determinare il presunto senso unitario ed
M. HORKHEIMER-T.ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, tr. it., Torino 1976, p. 48.
Cfr.: H.ARENDT, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 423-471.
7
“L’orientamento naturalista contemporaneo – asseriva già nel 1977 il Pozzo – ha quali supreme direttive etiche il
godimento dell’attimo, la ricchezza economica perseguibile nella misura più ampia, nel modo più rapido e con il
minimo dispendio di energie, il conformismo e l’acquiescenza verso atteggiamenti di moda, il raggiungimento della
notorietà e della popolarità a qualunque costo, ricorrendo a qualsiasi mezzo, nessuno scuso e senza alcun rispetto o
pudore di sé, degli altri e delle idee professate. Rinuncia, sacrificio, sofferenza, rischio sono termini oggi ufficialmente
inconsueti e desueti, la cui semplice evocazione suscita malcelato, o addirittura dischiarato, senso di fastidio e di
intolleranza, anche se troppa gente, di fatto, rimane esposta ad essi e alla gravità delle loro conseguenze individuali e
collettive, nonostante dilaghino ovunque le più sfacciate logorree demagogiche” (G.M.POZZO, Riflessioni critiche sul
nostro tempo, Padova 1977, p. 50).
5
6
4
esaustivo della storia umana (ma oggi, più che mai, si assiste ad un profondo e indi
scindibile intrecciarsi dei tre aspetti, perché certo spiritualismo quando pretende
evocare, sentire o antropomorfizzare Dio non è molto lontano dal naturalismo, e, allo
stesso modo, quando riduce l’annuncio cristiano a struttura, organizzazione, valore
etico e spazio sociale, non è molto distante dal materialismo), cosi la filosofia,
fondandosi su tali presupposti e inebriando,sottovalutandola la sua peculiare criticità
e ricerca dell’intero, s’è resa strumento di assolutizzazioni ideologiche e quindi di
asservimento acritico alla mentalità o all’andazzo dominante, giustificando tutto: il
filosofo è uno dei tanti “tuttologi” che imperversano nei media, e parlano di tutto,
sentenziando su tutto, tuttavia non sanno cogliere il Tutto.
3 - Ma il filosofo ha spesso illuso sé e gli altri anche sopravvalutando la propria
capacità razionale (magari facendosi interprete di Dio, dello Stato) costruendo utopie
politiche, sociali, economiche e religiose ( da Platone a Tommaso Moro e
Campanella e, per certi versi, a Marx) che magari hanno avuto uno stimolo critico
positivo come tensione ideale etico-religiosa, ma con il rischio per esempio di astrarre
su Dio (“ il dio dei filosofi”) e di scambiare l’adorazione di Dio con l’adorazione
idolatria della propria ragione come afferma acutamente Rosmini: “ …coloro che
confusero Dio col divino formarono di necessità un sistema di razionalismo,
prendendo per Dio il lume della propria ragione naturale; quelli che all’incontro
confusero il divino con Dio caddero nelle superstizioni, adorando la ragione umana, o
l’uomo, siccome un Dio”8. Nell’ambito religioso la scelta del filosofo non deve
essere esclusivamente di fronte ad un’ide, una dottrina, un’organizzazione, una
chiesa, ma di fronte ad un fatto (Kierkegaard), non ad un Dio-Idea (Hegel), Natura (
Spinoza), Geometra (neo-platonismo), un Dio-morto, astratto, agnosticamente
insignificante, ma ad un Dio-evento, un Dio-vivo; non ad un Dio-valore etico: la
religione naturale dei valori comuni ( deismo illuministico), ma ad un Dio che si è
reso Valore, sperimentabile, vivibile, incontrabile e di certo anche razionalmente di
una razionalità essenziale alla stessa fede tuttavia non fine a se stessa, assurta a valore
assoluto (Maritain). D’altra parte una religione inculturizzata dalla eventuale pretesa
onnicomprensiva della filosofia non avrebbe motivo d’essere di fronte alla filosofia
stessa ( Sinistra hegeliana e positivismo sociale di Comte).
L’altro rischio delle costruzioni utopistiche consiste nel comprimere la società civile
attraverso la formulazione di uno Stato ideologicamente perfetto, ma proprio per
questo sovente autoritario perché la sua autorevolezza non viene riconosciuta
attraverso la necessità di una possibilità di scelta, bensì la necessità di un idealistico
(Platone, Hegel) o di un naturale materialistico bene comune (Hobbes); non
attraverso la necessità di un bene in primo luogo interiore, ontologico, unitario, e di
un uomo unico ed irripetibile, ma in nome di una convivenza civile efficiente e
tecnocraticamente organizzata per un bene generico e relativistico (Comte). Per
motivi di questo tipo la conseguenza di tali strutture schematiche, universalistiche e
onnicomprensive è spesso la spersonalizzazione dell’individuo che lascia sempre più
spazio d’azione alla cultura dell’indifferenza e, allora, in crisi d’identità ci si affida
8
A.ROSMINI, Del divino nella natura, Roma 1991, p. 29.
5
per la formulazione e la gestione del bene comune ai tecnocrati, gli intellettuali, agli
economisti, o al filosofo-re che, come afferma Popper9, poiché pretendono conoscere
le leggi della storia e quindi anticipare in misura significativa il futuro, possono anzi
devono riformare la storia e la società in modo radicale e totale.
A questo punto si propone con urgenza il problema dell’educazione, del ruolo che,
oggi, possono avere i filosofi di fronte ad una situazione contemporanea cosi
complessa e, per certi versi, cosi confusa. Si è sempre educato partendo dalla
concettualizzazione di un tipo di uomo; ebbene se la filosofia ha come domanda
fondamentale e fondante quella sull’intero dell’essere, allora a livello antropologico
non potrà non formulare una domanda totale sull’essere in quanto uomo, che avrà
come conseguenza la prospettiva realistico-razionale di un’immagine totale,
integrale dell’essere umano e della sua esistenza.
L’esperienza filosofica riguarda infatti si la totalità ontologica dell’essere nella sua
unità e molteplicità, poliedricità e integralità, ma proprio se si vuole aspirare a
tematizzare la totalità non si può sottacere l’esperienza dell’uomo come desiderio
di…di felicità, di giustizia, di amore, di verità. Un’immagine integrale, allora,
fondata sostanzialmente sul concetto si uomo come persona, sintesi unitaria e
indissolubile di valori naturali e soprannaturali, materiali e spirituali, mondani e
religiosi, all’interno di una finalità etica e metastorica che rappresenta il riferimento
unitario e continuo della dignità metafisica e del valore delle sue capacità praticooperative.
Quando le premesse di una concezione dell’essere umano si fondano si di una
interpretazione parziale della sua consistenza ontologica (solo come materialità o
naturalità) e della sua dimensione esistenziale (assolutizzazione del problema
dell’utilità e pragmaticità dell’esistenza), le conseguenze non potranno no rischiare
di spostare il fondamentale problema di ciò che è l’uomo a ciò che l’uomo ha o
riesce ad avere, dal riconoscimento oggettivo de propri limiti ontologici ed
esistenziali al riconoscimento di una potenzialità indefinita illimitata e assoluta, dal
desiderio del Trascendente al desiderio idolatrico di sé, dalla speranza infinita in
Dio alla speranza fatalistica ed illusoria nell’immanentismo storicistico.
4 – Considerazioni finali. All’interno di tale visione dell’uomo si propone
inderogabilmente, al filosofo oggi, un’opera di educazione, ma allo stupore, alla
meraviglia, al bello, non in primo luogo ad un progetto, ad un sistema, ad un modo di
essere, bensì per essere se stessi, essere persona: riandare alle domande fondamentali
del nostro cuore suggerite-provocate dai “segni” che la realtà esprime, certo
nell’apertura umile ed obiettiva a tutta la realtà. La meraviglia e lo stupore sono,
immediatamente, reazioni sensitive causate dall’impatto emozionale con una
situazione, un’immagine, un sentimento apparentemente al di là della norma; ma
tutto ciò è inerente, la possibilità di percepire la straordinarietà, la singolarità e la
stravaganza di un fatto rispetto, appunto, alla “normalità” e non alla tecnica stessa
della reazione percettiva.
9
Cfr.: K.POPPER, Miseria dello storicismo, tr.it., Milano 2002.
6
La condizione di normalità, quindi, non significa assenza, tabula rasa e neppure
neutralità, bensì presenza e attenzione come conoscenza radicale di tutto ciò che si è
o non si è, di ciò che ci costituisce o di cui abbibisognamo ontologicamente ed
esistenzialmente, se si è percepito o riconosciuto nella normalità del nostro cuore un
barlume di desiderio e di verità e di bellezza, solo allora, di fronte alla realtà, ci si può
meravigliare della presenza della Verità, avvertendo il vibrare armonico di tutto il
nostro essere, ma ciò può avvenire solo se ci si immette in una ragionevole e
realistica condizione di ascolto e di riconoscimento . Da questo punto di vista il
filosofo deve educare non tanto alla tecnica del sapersi meravigliare, quanto alle sue
condizioni genetiche, paradossalmente, alla “condizione della normalità”: da un lato a
riconoscere in fondo al nostro cuore la domanda del bello, del bene, del vero;
dall’altro ai limiti e alle possibilità ontologico-esistenziali dell’uomo nella fondazione
del bello e del bene e del vero e quindi a provar stupore ontologico e meraviglia
esistenziale di fronte alla realtà quando in essa si presenta, magari in una situazione
pessimisticamente drammatica, una inusitata sovrabbondanza del Bene, del Bello, del
Vero. Esiste, bisognerebbe essere onesti con noi stessi, un desiderio di pienezza e di
verità che solo la Bellezza soddisfa, una bellezza che è evidente, le cui tracce sono
presenti nella realtà, quella realtà che bisogna guardare per quello che è e che si
inpone, anche quindi la bellezza del corpo è una traccia, come la bellezza
dell’universo, la bellezza dell’opera d’arte, la bellezza della natura, la bellezza
dell’amore, la bellezza della matematica: “Che questi rapporti interni mostrino, in
tutta la loro astrazione matematica, un grado incredibile di semplicità, è un dono che
noi possiamo solo accettare con umiltà…Questi rapporti, infatti, non possono essere
inventati, essi esistono dalla creazione del mondo” (W.Heisenberg).
Soltanto allora avrà senso stupirsi, anche perché non si tratterà di una percezione
momentanea e fugace che tutto lascia in quanto non ha scorto e misurato il significato
ontologico-esistenziale di quella sensazione, ma di un primo gradino verso un sempre
più approfondito riconoscimento della verità che lo costituisce. Il filosofo, però, ha il
dovere di mostrare il bene, di far gustare la vita, se lui ha gusto, perché se vive come
gli altri uomini, avendo perso il gusto di vivere ( e ciò è possibile e frequente perché
il filosofo non è estraneo all’uomo) che cosa può proporre se non una più accentuata
e tragica condizione del nulla?(Sartre).
Certo che il filosofo non può sostituirsi alla domanda che ciascuno deve porsi, ma
aiutarlo a riconoscere la domanda: il desiderio più profondo e totale del cuore
dell’uomo. Solo in tali termini ha pienamente senso il socratico “conosci te stesso”:
conosciti come sei fatto: desiderio di incessante di Verità
Ecco che il socratico «conosci te stesso» si configura come compito razionale e reale
del filosofo nella misura in cui apre maieuticamente lo sguardo verso il
riconoscimento dei limiti ontologici ed esistenziali dell’essere in una prospettiva
trascendente della finezza umana, ma sempre nella valorizzazione delle capacità
naturali e razionali dell’essere umano nell’avvicinarsi e nello scoprire con
gradualità e senza arresto la Verità che lo costituisce. E in modo simile si tratta di
rendere sempre maggior conoscenza all’uomo dell’incapacità strutturale a
finalizzare esaustivamente il cammino storico, bensì anche delle possibilità proprie
7
dell’uomo a valorizzare tutto se stesso: ragione, spirito, sentimento e materia, in una
agostiniana peregrinatio che tutto lo comprenda perché tutto lo coglie nella
consapevolezza dei suoi limiti naturali e, proprio per questo, nella chiarezza delle
sue più profonde aspirazioni soprannaturali in un rapporto dinamico di tensione
veritativa nei confronti della Verità incontrata.
È una possibilità razionale ed esistenziale che rappresenta per l’uomo già il
«centuplo quaggiù» in quanto significato esaustivo della sua esistenza naturale e dei
suoi desideri soprannaturali, scaturiti dall’atteggiamento filosofico di continua
domanda di verità ultima e totale intorno all’essere in quanto tale e in quanto
esistente ed esistente-uomo. E solo in tali termini la filosofia non incorre nel rischio
di diventare cosmesi del sapere, anche perché «il filosofo non può — sottolinea
Maritain — specialmente ai nostri tempi, chiudersi in una torre d’avorio; non può non
preoccuparsi delle questioni umane, in nome della filosofia stessa e in ragione dei
valori che la filosofia deve difendere e conservare. Egli deve rendere testimonianza a
questi valori ogni qualvolta questi vengano attaccati».10 Per cui se il più terribile dei
mali è la perdita del gusto del vivere e del senso della Totalità, la filosofia non è
neutra, non può non parlare, mostrare, indicare, spiegare, educare, se non rischiando
di smarrirsi e di misconoscere la sua stessa identità come incessante, inesauribile e
totale domandare,vedere, aspirare, contemplare la Verità nella sua totalità e di ridursi
invece a metodologia, ad eristica, a mere reinterpretazioni storiografiche, a pletorica
sussunzione intellettiva di qualsiasi aspetto della vita quotidiana. Tutti parlano di
filosofia nei più svariati campi della quotidianità, ma l’inflazione del termine è segno
della pardita di valore; infatti raggiunge una tale semplificazione, e per altrio versi
generalizzazione, che rasenta la banalizzazione. .
Certo non può pretendere offrire la Causa assoluta del gusto di vivere, però può
realisticamente riconoscere e razionalmente dimostrare che il «gusto di vivere» e il
senso della totalità non possono essere dati in modo assoluto dall’uomo e forse può
dimostrare che il male dell’uomo è proprio la perdita del gusto di vivere che pure è
realisticamente presente nell’uomo, perché l’uomo, non avendo incontrato o,
piuttosto, non volendo incontrare il meglio, ossia la verità assoluta, sovente non
s’accorge o non vuol accorgersi, come sottolinea Pascal, che la propria esistenza, in
sé stessa e per se stessa, non dà gusto, è senza sapore: «L’unico bene degli uomini
sta, dunque, nell’essere distolti dal pensare alla loro condizione o da un’occupazione
o da qualche passione piacevole e nuova che li assorba, o dal giuoco, dalla caccia, da
qualche spettacolo attraente: insomma, da quel che si chiama divertissement»11. Ma
in tale modo di vivere, con una ragione acrtitica ed asservita: «Noi corriamo
spensierati verso il precipizio, dopo esserci messi davanti agli occhi qualcosa che ci
impedisca di vederlo»12, perché non si propone una risposta esaustiva alla domanda
radicale sul senso ultimo dell’esistenza, per cui : “Noi non viviamo – come diceva
Seneca – ma attendiamo di vivere e mentre si attende di vivere, la vita passa”13 E,
10
Maritain, Il filosofo nella società, tr. it. Brescia 1976, p.11.
B. Pascal, Pensieri, tr. it. Torino 1982, pens. 354.
12
Op. cit., pens. 367.
13
L.A. SENECA, De brevitate vitae, tr. it., Milano 1979,p.24.
11
8
come sottolinea Pascal: “Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e,
preparandosi sempre ad essere felici è inevitabile che non lo siamo mai”14. Educare
alla ragione, quindi, ma non solo alla razionalità che risolve i problemi di scienza o di
logica, ma alla capacità di riconoscere una questione, una domanda, prima ancora di
risolverla, sempre che la filosofia possa farlo. La riproposizione incessante di tale
domanda e l’impegno a togliere l’impedimento nello scoprire la verità che è in noi
attraverso il paragone-incontro con la realtà presa in tutti i suoi fattori costituisce,
oggi, la pretesa educativa del filosofo verso di sé e verso una società confusa, caotica,
indifferente, e verso una cultura parcellizzata e frammentata come l’attuale. Certo
non ergendosi a verità, ma sforzandosi di mostrare la Verità, mostrando le tracce del
farsi reale della Verità. E ciò rende veramente, perché interamente ed attualmente
libero l’uomo: la sua libertà non è dalla Verità, ma per la verità che lo costituisce e lo
definisce incessantemente in quanto tale. Ci interroghiamo giustamente su quale
mondo lasceremo ai nostri figli, sarebbe ora di chiedersi, come si sente sempre più
ugente da più parti, quali figli lasceremo a questo mondo.
Il senso dell’Assoluto, della Verità e della Bellezza condotto al di sopra di tutto,
vissuto anche nell’esperienza dell’ascolto, costituisce per lo studioso il clima
spirituale normale del pensiero e del lavoro scientifico, per cui bisogna tentare
continuamente di offrire a sé e agli altri uomini, anche con opportuni strumenti
conoscitivi, il significato del Tutto, di prospettare il vero nesso che lega una cosa
all’altra e tutte le cose tra loro, e di essere sempre con una domanda incessante di
maggiore adeguazione nella strada comuine che muove verso il Tutto.
Ebbene,dimostrare razionalemente e mosrtrare storicamente la possibilità di tutto
questo, crediamo sia un compito essenziale, arduo ma affascinante nella vita del
filosofo per finalizzare la sua esistenza, orientare la sua attività teoretica in una
dimensione unitaria e non univoca di tutto ciò che lo costituisce come persona, per
educarsi e, quindi solo allora, pretendere di educare.
Maurizio Sfriso
14
B.PASCAL, Pensieri, cit., pens. 172.
9
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