ARCHE’: Riflessioni intorno alla locuzione di Anassimandro nelle interpretazioni di Heidegger e Colli. di Giovanni Sessa Indubbiamente, la filosofia del Novecento è stata fortemente caratterizzata, almeno in alcuni suoi ambiti di sviluppo, da una continua ricerca dell’originario, da un’attenzione per il pensiero ellenico e da un serrato tentativo di aprire un colloquio riappropriante con il tema dell’arché, impostato il più delle volte in termini teoretici, ma che ha determinato il coinvolgimento di sensibilità culturali e metodologie disciplinari diverse: dalla storia delle idee alla psicologia archetipale, dalla filosofia politica alla storia delle religioni. Certamente esemplari, da questo specifico punto di vista, in quanto sintesi dei molteplici approcci tentati al tema in questione, ci paiono le esperienze speculative di autori quali Eric Voegelin, Mircea Eliade, e James Hillman.1 Proprio a quest’ultimo riteniamo debba ascriversi il merito di aver chiarito le ragioni reali di questo ennesimo e periodico ritorno alla Grecia che ha caratterizzato la nostra civiltà: “Quando la visione dominante che tiene assieme un periodo della cultura si incrina, la coscienza regredisce in contenitori più antichi, cercando fonti di sopravvivenza che offrono anche fonti di rinascita”.2Ciò è avvenuto nel corso della profondissima crisi intellettuale che si è aperta all’inizio del secolo scorso in Europa. Ma non si è trattato di semplice regressione, di nostalgie teoricamente e politicamente reazionarie, in quanto guardar indietro: “Rende possibile andar avanti…Rinascimento sarebbe una parola priva di significato senza l’implicita dissoluzione, la morte stessa da cui quella rinascita proviene”.3Più in particolare, e ancor più significativamente, Hillman individua nell’arché greca, l’unica reale via ancora aperta per un recupero della nostra tradizione immaginale.4 Al centro della cultura greca, nel suo sfondo mitico policentrico, si staglia la figura di Pan, le cui manifestazioni allontanano il ritorno all’Ellade da possibili derive: quella formalistica, e quella estetico - romantica, e la rendono effettualmente via dell’epistrofé possibile. Ed è a partire da tale conclusione hillmaniana, che muove la nostra esegesi delle letture che Heidegger e Colli hanno sviluppato del detto di Anassimandro, luogo dal quale storicamente si è originato il pensiero filosofico occidentale.5 Allo scopo, da un lato tenteremo di individuare prossimità e differenze interpretative tra i due filosofi su questo tema, dall’altro, sposando la lezione colliana, cercheremo di mostrare il primato del dionisiaco nel pensiero primigenio, grazie al quale è possibile, peraltro, individuare anche la sua profonda connotazione politica.6 Un dionisiaco, quello del filosofo italiano, definito in termini 1 Di Eric Voegelin non possiamo non ricordare, rispetto al tema che qui si tratta, la monumentale Order and History, Baton Rouge, 1957, di cui segnaliamo al lettore il primo volume, tradotto in italiano per la cura di G. F. Lami, Israele e Rivelazione, Aracne, Roma 2004, in particolare la prima parte, relativa alle civiltà cosmologiche. Di Eliade qui interessa, tra le tante opere menzionabili, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizione, Borla, Roma 1968. Infine, di Hillman, riteniamo particolarmente significativo, ai nostri fini, il Saggio su Pan, Adelphi, Milano 1977. 2 J. Hillman, Op. cit., p. 11. 3 Ibidem, p. 11. 4 Su questo aspetto lo psicoterapeuta e filosofo statunitense così si esprime: “Le altre archai…non ci aiutano a ricordare la nostra storia immaginale occidentale, le vere immagini che agiscono nella nostra anima… e frustrando la nostra tradizione immaginale, esse ce ne allontanano ancor di più”. Op. cit., p. 13. Con il che Hillman ci pare chiudere a ogni orientalismo, proprio nello stesso senso in cui lo fece Heidegger, che pur ebbe un intenso e significativo confronto con la filosofia dell’Oriente, nei tragici anni del secondo dopoguerra, quando stava meditando di tradurre il Tao Te Ching. Al riguardo si veda: Carlo Saviani, L’Oriente di Heidegger, Il melangolo, Genova 1998, in particolare pp. 105/118. 5 Ricordiamo che la locuzione di Anassimandro è giunta sino a noi grazie a Simplicio, neoplatonico che scrisse, nel 530 d.c., un commentario alla Fisica di Aristotele, in cui assunse il detto traendolo dai Fusikon doxai di Teofrasto. Da Anassimandro a Simplicio è trascorso un millennio, da Simplicio ai giorni nostri, circa un millennio e mezzo. Si tratta, pertanto, di una locuzione effettivamente attestante il momento aurorale del pensiero occidentale. 6 Il rapporto Colli - Heidegger è stato interpretato dalla critica secondo modalità diverse. G. Penzo ha rilevato che: “Se…non si può dire che Colli sia heideggeriano, rimane il fatto che proprio nella tematizzazione della sapienza greca essenzialmente diversi ed ulteriori rispetto alla descrittiva nietzschiana, un dionisismo della conoscenza, avente quindi caratteri gnosici. Chiariamo, preliminarmente, che i due tentativi di lettura dell’originario, a cui ci riferiamo, sembrano condurre al di là di quell’impossibilità logica di recupero dell’arché, manifestatasi, come compiutamente ha fatto rilevare Massimo Cacciari, già negli esiti dell’analisi della rappresentazione condotta da Kant, per il quale: “Oggetto esterno e autocoscienza formano un’originaria dualità, che proprio in quanto tale esclude ogni metodo dell’Inizio, ogni costruttiva idea di principio o di arché”.7Ancora una volta, quindi, nella polarità dionisiaca sarà possibile rinvenire l’effettiva possibilità del ritorno, alla luce, soprattutto, della prossimità, colta con profondità analitica da Augusto Del Noce, di moderno e di anti moderno: “Il moderno e l’anti moderno sono in una certa guisa veramente gemelli, così che talvolta riesce veramente difficile distinguere la punta estrema della modernità dall’antimoderrno: è il caso di Heidegger”.8 Ci auguriamo, nell’incipit di questa riflessione sulle due interpretazioni del detto di Anassimandro, che da essa possa emergere un interrogativo centrale, di carattere storico-filosofico, inerente la possibilità di percorrere una terza via di pensiero, altra rispetto alle due individuate da Del Noce: ossia quella che da Nietzsche ha condotto all’ateismo dispiegato e quella, fatta propria dal pensatore piemontese, mirante al recupero della metafisica, a partire da Cartesio. Una via di là da ottimismo e pessimismo, da teismo e ateismo, della riconnessione delle differenze, imposta da un interpretazione “tragica” dell’originario, che ha, come immediata conseguenza, una metessi cosmica. Allo scopo, conviene lasciare ogni indugio e muovere dall’esegesi heideggeriana di Anassimandro. Il detto di Anassimandro in Heidegger: aspetti generali Come è noto, l’analisi del detto di Anassimandro è condotta dal filosofo tedesco in Sentieri interrotti, opera pubblicata, per la prima volta, nel 1950.9In essa viene individuato nel 1903 l’anno mirabile per gli studi del pensiero presocratico: quell’anno videro, infatti, la luce, tanto La filosofia nell’epoca tragica dei Greci di Nietzsche, che in realtà era stata terminata nel 1873, quanto l’edizione critica del Diels. Le due traduzioni del detto anassimandreo che questi lavori presentano, pur essendo di ispirazione concettuale diversa, differiscono appena l’una dall’altra. Entrambe risentono del discrimine interpretativo rappresentato dalle filosofie di Platone e Aristotele. Heidegger rileva che non si tratta, a proposito di Anassimandro, di individuarvi espressioni tipiche della logica arcaica: “…in quanto logica si dà per la prima volta nell’organizzazione scolastica di si ritrova più o meno coscientemente nella lettura di Heidegger. Così pure l’amore per i presocratici e l’amore per Holderlin si ritrovano in Heidegger e Colli”. In Aa.Vv., Giorgio Colli, Angeli, Milano 1983, a cura di S. Barbera e G. Campioni, p. 93. Dello stesso avviso L. Cimmino, Giorgio Colli e la crisi della ragione, in “ Nottola”, III-IV 1983, pp. 63/80. Per una posizione opposta, rispetto al rapporto Heidegger - Colli si confronti L. Anzalone – G. Minichiello, Lo specchio di Dioniso, Ed. Dedalo, Bari 1984. A chi scrive, preme far rilevare che la recente pubblicazione della prima parte della tesi di laurea di Colli, Filosofi sovraumani, Adelphi, Milanio 2009, ha dimostrato che la lettura dei sapienti era, in nuce, già stata elaborata da Colli, fin dal 1939, anno in cui preparò la tesi di laurea che discusse sotto la guida di Gioele Solari. Pertanto, in qualche modo, è da registrarsi una sorta di contemporaneità tra la produzione colliana e quella heideggeriana sul pensiero greco. 7 M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 27. Quest’opera ci pare, nella sua complessa strutturazione, impostata su una parte dialogica e su altre di tipo saggistico - esplicativo, il più rilevante tentativo, compiuto nelle filosofia italiana contemporanea, di avvicinare il tema dell’arché in termini schellinghiani, muovendo, non solo dalla prospettiva logica ma anche da quella ontologica e pratico-politica. Per questo, nel corso della trattazione, a più riprese dovremo confrontarci con le tesi cacciariane. 8 Augusto Del Noce, Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 40/41. Del Noce, che in questo testo si prefiggeva il compito ambizioso di individuare una linea speculativa al di là di modernismo e antimodernismo, così prosegue la sua analisi: “ L’antimoderno presente si ispira a Nietzsche non in quanto teorico del superuomo, ma piuttosto come il disvelatore della volontà di potenza come anima del pensiero occidentale”. Op .cit., p. 41. Un Nietzsche heideggeriano, quindi, quello presentato dal filosofo cattolico. 9 L’edizione cui ci riferiremo in queste pagine è: Martin Heidegger, Sentieri erranti nella selva,Bompiani, Milano 2006, trad. it. di V. Cicero. Platone e Aristotele”.10Nel tradurre l’arcaico bisogna, dunque, nella prospettiva heideggeriana, tener conto della “Cosa” cui il pensiero rinvia: “Pertanto, in un tentativo che cerchi di tradurre la locuzione di questo pensatore primigenio, possono aiutarci solo i pensatori”.11Nietzsche non ha portato a termine questo tentativo: “ L’unico pensatore..che ha fatto propria l’esperienza pensante della storia del pensiero, è Hegel. Proprio sulla locuzione di Anassimandro però Hegel non dice nulla” in quanto legato alla lettura pre-aristotelica dei pensatori dell’origine, esperiti da Teofrasto in poi, come naturalisti.12 Con il che si evince, come anche in questo ambito, Heidegger dia luogo a un confronto serrato con Hegel, vero referente della sua filosofia, con l’intento di superarlo attraverso un recupero del patrimonio più autentico di pensiero della Grecia.13Quanto questo esperimento sia riuscito, è cosa sulla quale bisognerebbe dibattere. Ridurre al naturalismo il pensiero delle origini, per Heidegger significa, comunque, sostenere che la realtà della fysis è distinta dall’ethos e dal logos, e non indica più tutto l’essente. Ciò, oltretutto, ha determinato il pregiudizio riguardante il carattere approssimativo degli enunciati dei primi pensatori. E’ pertanto necessario chiedersi che senso abbia oggi, per noi, il primigenio, che diritti d’appello possa far valere nei nostri confronti. La parola aurorale: “nasconde una vicinanza storico destinale del suo non parlato, del suo inespresso”.14 Ciò prelude al quesito successivo relativo all’Europeità come luogo della storia ventura, secondo un destino principiale: “L’essere dell’essente si raccoglie nell’ultimo commiato del suo co-mandamento destinale. L’essenziare durato finora dell’essere tramonta nella sua ancora velata verità”.15Rispetto alla locuzione, va allora, da un lato, superato l’approccio meramente storiografico, tenendo conto che i problemi interpretativi non sono dati solo dalla duplicità linguistica. In fondo, il filosofo ci dice che la traduzione ha un carattere violento, in quanto costretta a registrare: “Il Diktat della verità dell’Essere”.16Il tra-durre diviene l’incontro con la Cosa del pensiero greco. Nel detto in questione si parla, quindi, del nascere e perire delle cose, del loro ritorno all’origine, all’interno di una eco-nomia invariabile della natura. Precetti morali e giuridici si confondono con quello di fysis. Questo concetto presenta il molteplicemente essente nella sua interezza, che comprende, oltre alle cose di natura, gli uomini, le cose umane, le divine e le demoniache.17La riduzione aristotelica dei tà onta ai fysei onta, è del tutto infondata. Comunque sia, i tà onta non possono essere ridotti alla dimensione cosale e non hanno, però, per Heidegger un significato specialisticamente limitato: “ma di ampia portata, ricco e recondente qualcosa di prepensato..quei vocaboli sono appropriati a portare alla loquenza l’Intero molteplice nell’essenza della sua unica Unità”.18L’essere è l’essere dell’essente: con il che ci pare palesarsi, nell’esegesi del tedesco, un richiamo al pensiero che, dopo Anassimandro, diverrà eleatico e che fece dell’Essere, il luogo della medesima condizione di partenza della naturalità degli enti, uomo compreso. Tale tema, nelle sue variazioni storico-destinali e nonostante i suoi mutamenti, è rimasto lo stesso fino a Nietzsche, che lesse nella volontà di potenza l’essere degli enti, in una prospettiva metafisica. Si tratta di verificare se, con essere e essente, sia in generale pensato ancora qualcosa o, 10 M. Heidegger, Op. cit., p. 381. Ibidem, p. 381. 12 Ibidem, p. 381. 13 Dobbiamo a F. Volpi l’originale intuizione che sia stato proprio l’incontro di Hiedegger con la Grecia arcaica ad allontanare il filosofo dal rischio gnostico. Peraltro, all’interno di questo indirizzo di pensiero, Heidegger sarebbe invece rimasto invischiato, stando all’interpretazione voegeliniana, proprio perché è con Hegel, antecedente di Heidegger, che si sarebbe affermata l’immanentizzazione dell’esckaton cristiano, infatti: “Una volta che il divino nous è stato piegato a costruzione umana, Dio è davvero morto”.Al riguardo: Cfr. F. Volpi, Heidegger e l’ascesi del pensiero, in“ Micromega”, n.2, 2000, pp. 235/257, e E. Voegelin, Su Hegel. Uno studio sulla stregoneria, in “Behemoth”, n. 32 e 33, 2002-2003, a cura di F. D’ Alterio. 14 M. Heidegger, Op. cit., p. 384. 15 Ibidem, p. 386. 16 Ibidem, p. 388. 17 La traduzione letterale del frammento che Heidegger presenta è la seguente: “Ma da ciò da cui per le cose è il nascere, nasce anche l’uscire verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti l’un l’altra giustizia e ammenda per l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Op. cit.,p. 388. 18 Ibidem, p. 391. 11 con essi, non si indichino significati oscillanti ed imprecisi. Infatti, per Heidegger, ai vocaboli greci, non conferiamo altro che approssimazione negligente e compiacente, dettata dal fatto che essi non ci parlano più con la loro voce.19 Solo la costante attenzione all’aurorale potrebbe preparare un altro destino dell’Essere, a condizione che il pensiero greco torni a venir interpretato grecamente. Tutto ciò, al fine di portare alla loquenza lo Stesso che concerne destinalmente noi e i greci. Infatti: “Ogni volta che l’Essere si trattiene in sé entro il suo co-mando-destino, si eventua improvvisamente e imprevedibilmente mondo”.20E’ pertanto, in ciò che chiamiamo greco, che giace l’inizio dell’epoché dell’essere: per esperire se, dall’ontologia dell’origine, giunga ancora a noi luce destinale, è necessario, per Heidegger, tra-dursi verso tà ontà, tra-dursi verso la loro presenza nel detto anassimandreo. Allo scopo il filosofo fa propria la lezione filologica di Burnet che, contro Diels, propose l’espulsione dal testo originario del detto, la prima parte (fino a génesis), in quanto contrastante con l’uso ellenico di intrecciare la citazione con il testo. Heidegger precisa, al riguardo, che l’accettazione della lezione di Burnet implica però: “Che il testo precedente non vada semplicemente espunto, ma debba essere tenuto a mente come testimonianza mediata del pensiero di Anassimandro”.21Quindi, il detto di Anassimandro secondo Burnet, sul quale è necessario discutere è: “Secondo la necessità; infatti esse scontano l’un l’altra pena e ammenda per la loro ingiustizia”. Heidegger sostiene, a questo punto, che génesis e ptora vadano pensate sulla base e all’interno della fysis: “come modalità del comparire e sparire all’orizzonte”.22 Quindi, a cosa intendono riferirsi i greci con tà onta? Heidegger: interpretazione della seconda parte del detto di Anassimandro Il filosofo tenta di rispondere richiamandosi ad Omero, in particolare all’episodio dell’Iliade, vv. 68-72, relativo a Calcante, il veggente, e alla peste di Apollo. Qui il poeta nomina tà eontà, l’essente ma, al contempo, il diveniente-essente e il già una volta essente. Il veggente, grazie alla mania, esce: “dal mero afflusso di ciò che è antistante e per lui…ogni presenziante e ogni assenziente sono raccolti in un unico presenziare e in questo sono gewahrt, guardati”.23L’aver veduto tutto ciò è l’essenza del sapere, il veggente è, qui, il custode dell’essere nella sua generalità: ciò lo si deve a Mnemosyne, madre delle Muse.24 Perciò, il tà eonta omerico non può, aristotelicamente, indicare le cose naturali e, al contempo, non è un termine concettuale filosofico, 19 Su questo tema Heidegger così si è espresso: “Proprio perché le epoche posteriori considerano il pensiero dei greci solamente in base ai successivi assunti fondamentali, cioè alla luce del platonismo e dell’aristotelismo, e perché nel far questo interpretano sia Platone che Aristotele in termini o medievali o moderni…o neo-kantiani, che per noi uomini d’oggi un ricordo dell’essenza iniziale dell’apparire nel senso dello schiudersi, insomma un pensiero dell’essenza della fysis, è quasi impossibile”. M. Heidegger, Parmenide, Adelphi, Milano 1999, p. 250. 20 M. Heidegger, Op. cit., p. 398. 21 Ibidem, p. 403. 22 Ibidem, p. 403. Più in particolare, Heidegger precisa: “La genesi è il venir fuori e il pervenire nell’inascoso, la ftora significa: in quanto pervenuto là, andar via dall’inascoso e trans-ire nell’ascoso”. P. 404. 23 Ibidem, p. 410. 24 Da quanto detto, emerge una evidente prossimità tra questa posizione di Heidegger e quelle sostenute da Colli. Ciò è particolarmente significativo in riferimento al ruolo attribuito da Colli alla mania nell’ambito della nascita della filosofia, e al ruolo attribuito a Mnemosyne, come organo della filosofia della tradizione, in grado di recuperare il contatto con l’arché. In questa prospettiva essa è testimonianza di una possibilità cui ritornare: “Il ricordo avverte che vi fu alcunché di diverso dall’attuale rappresentazione”.Pertanto, scaturigine della memoria è l’immediatezza, conservata in essa senza più coscienza, ma solo come riflesso, lontano rinvio, espressione. Cfr. G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969, p. 138. Inoltre, tà ontà, inteso heideggerianamente, sia come presenziante presente sia come ogni presenziante (passato-futuro), tocca un tema assai significativo della filosofia contemporanea: tema carico di implicazioni pratico-politiche ed individuato esemplarmente da A. Capitini ne “La compresenza dei morti e dei viventi”, Il Saggiatore, Milano 1966 che, non casualmente ci sembra recuperare un tema classico, recentemente ben analizzato da un giovane studioso della Scuola Romana di Filosofia politica, G. Casale, in: “Nostalgia o Tradizione. La comunità dei morti e dei viventi cittadini nel De amicitia di Cicerone”, Letteratura Tradizione, n. 44, 2009. ma una parola del pensiero rammemorante, che si mostra esemplarmente nella locuzione anassimandrea. La presenzialità del presenziante, l’esser-qui delle cose, non è logicamente tematizzata da Anassimandro, perché, a tanto, in Grecia, per Heidegger, non giungerà neppure Aristotele, ma viene nel detto esperita come energeia, che è altro dall’actualitas dell’actus purus della scolastica medievale.25 E’ stata la logica successiva a coprire il significato dell’essere che si celava nelle parole fondamentali del pensiero greco, rendendolo mero valore teoretico, vuoto concetto. Pertanto: “La filosofia nasce dal pensiero entro il pensiero. Ma il pensiero è pensiero dell’essere…la decadenza del pensiero nella scienza e nella fede è il destino funesto dell’essere”.26L’analisi del detto prosegue a partire dalla seconda proposizione che la costituisce. In che modo Anassimandro esperisce il Tutto del presenziante? Come adikia, ingiustizia. Essa sarebbe provocata dall’ostinazione dei presenzianti-presenti a volersi trattenere nella tratta, nel voler persistere nel loro presenziare: “In tal modo si impuntano nella ostinazione della persistenza. Non si volgono più verso gli altri presenzianti”.27L’ybris dei presenzianti si manifesta nella volontà di stabilità, che nega la Dis-giuntura come tratto saliente del presenziare. Per Heidegger non si tratta né di una posizione pessimistica né di una tesi costitutivamente nichilistica. Più semplicemente, di accettazione del reale e del finito in funzione ultranichilistica. Infatti, leggiamo: “L’esperienza dell’essente quale viene qui alla loquenza, non è pessimistica e non è nichilistica, non è neanche ottimistica. Essa resta tragica”.28 A questo punto, diviene essenziale, nell’esegesi heideggeriana, il termine tisis, generalmente tradotto con ammenda, mentre il suo significato originario è: stimare. Alla luce di ciò essa significa “riguardo” e rinvia al tedesco ruch, accuratezza. Stimando una cosa, si ha cura di lasciarla essere come è in se stessa.29 I dimoranti danno giunzione nella tratta, dandosi curanza vicendevole: “l’involgimento che sana la disgiunzione accade propriamente mediante il lasciar pertenere la Curanza”.30La curanza è fondativa di comunità, infatti il carattere politico del pensare greco è colto pienamente da Heidegger.Egli, come è stato notato, fa della polis il luogo dell’essere retto da un avax-basileus, un sovrano capace di condurre l’abitare umano mediante la parola responsabile e l’azione creatrice: essa è lo stagliarsi di quel polemos, di quella sovrana intesa contenziosa, di cui parla Eraclito nel frammento 53 DK.31Per il pensatore nella parola eudaimonia è racchiusa la potenzialità della polis: essa designa quel tratto caratteristico dell’insediamento umano che, quando accade, fa dell’uomo un ente compiuto, congruo con il proprio ergon.32E’, a questo 25 A proposito di Aristotele, Heidegger così si esprime “Non aveva alcun bisogno di interpretare l’upokeimenon, in base al soggetto dell’enunciato”. Op. cit., p. 414. 26 Ibidem, p. 416. 27 Ibidem, p. 419. 28 Ibidem, p. 422. La riproposizione del tragico, che muove da Schopenhauer e Nietzsche, come mostrerà Colli, ha al proprio centro un recupero della polarità divina di Dioniso. Essa è propria di molti autori che hanno posto con forza, come domanda ineludibile della propria filosofia, quella dell’origine. Tra essi dobbiamo sicuramente ricordare A. Emo. In particolare, Cfr. Il dio negativo, Marsilio, Venezia 1989. Per le relazioni Emo - Heiegger si veda: Laura Sanò,Un daimon solitario, La città del sole, Napoli 2001. 29 Ancora una volta, emerge la prossimità alla “interiorizzazione persuasiva” di Capitini, risultato di una paideia coscienziale, in grado di sublimare la dimensione irrazionale e animale dell’uomo. L’atteggiamento che produce in chi se ne faccia latore, è l’ apertura alle cose e alla realtà, essa implica, inoltre, la trasformazione della teologia in teogonia, in atto vitale. Cfr. A. Capitini, Elementi di una esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937. 30 M. Heidegger, Op. cit., p. 427. 31 Riteniamo che Heidegger abbia colto pienamente il senso greco dell’esser-uomo, quando in Ein fuhrung in die Metaphysik, nella delucidazione del primo coro dell’Antigone, scrive: “L’uomo è l’ente più spaesante, teso nel suo creare e agire, tra il divenire ypsi-polis, alto e grande nella polis, e il divenire apolis, escluso dalla polis”.Sommersemester 1935, p. 97. Inoltre, sulla scorta di questa intuizione, in una pagina memorabile del suo Parmenide, a proposito della Politeia platonica, scrisse: “In essa il pensatore pensa ciò che la polis è in quanto tale…la politeia di Platone non è affatto un’utopia, ma esattamente il contrario, e cioè il topos, determinato in modo metafisico dello stanziarsi della polis” Op .cit., p.142. 32 Su questi aspetti “politici” di Heidegger rinviamo all’interessante saggio di G. Zaccaria, L’Inizio greco del pensiero, Marinotti editore, Milano 1999, in particolare pp. 79/99. In questo studio si apprezza l’influenza, esercitata sull’autore, de J. Beaufret, discepolo francese di Heidegger. Per il primato della politica nel pensiero greco si veda: G. F. Lami, Socrate Platone Aristotele, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. punto, che l’esegesi heideggeriana entra nel vivo, passando alla delucidazione della seconda proposizione del detto che, sinteticamente, è così interpretata: “Gli eonta, in quanto trattenentesi, sono lasciati andare nella dis-giunzione trascurante, e dice in che modo essi…involgono e sanano la dis-giunzione”.33Il katà to kreon, secondo necessità, pensa la relazione del presenziare al presenziante, dell’Essere all’essente. Il katà indica: dall’alto in basso, rinvia a un’entità dall’alto dalla quale essenzia qualcosa, to kreon: “E’ il nome più antico in cui il pensiero abbia portato alla loquenza l’essere dell’essente”.34E’ l’essere, dunque, a ingiungere giunzione e curanza. Ma quando si nomina il presenziare, esso è già rappresentato come un presenziante, resta abolita la differenza di essere ed ente. Tale oblio appartiene all’Essere stesso: “La storia destinale dell’Essere comincia con l’oblio dell’Essere”.35In questo senso, per il pensatore, noi dobbiamo presumere che la Differenza, sia in qualche modo, ancora significata nella parola primordiale e pertanto: “Se l’impensato dell’oblio dell’essere verrà da noi esperito storicamente come il da-pensare…solo allora la parola primigenia potrà forse alloquiare nel pensiero rimembrante ultimogenito”.36Kreon, per Heidegger, non rinvia semplicemente, alla necessità, ma, più ampiamente, alla “manutenzione del presenziare”.To kreon, der Brauch: gioire di una cosa e quindi usufruirne, e ancora, emancipare una cosa rimettendola alla sua propria essenza. Così: “Il via-via trat-tenuto presenziante, ta eontà, essenzia nel limite”.37La Fruizione, in quanto to kreon, è apeiron, l’illimitato: essa è il raccoglimento, il logos, la moira cui sottostanno uomini e dei. Risulta fondamentale rammemorare la locuzione di Anassimandro per ri-pensare, alla sua luce, il pensato di Eraclito e Parmenide. E ancora, per Heidegger, è solo in questa prospettiva che si può giungere a pensare il presenziare del presenziante come idea e come ex- prodotto, il cui essere è energeia. Tutti i greci nominano lo Stesso, nella cui nascosta ricchezza: “è pensata…l’unità dell’uno unente, l’Ev”.38Ciò è avvenuto in Grecia senza che ancora nell’Ev si palesasse la realtà effettuale, oggettiva e/o addirittura trascendente, che la tradizione metafisica posteriore porterà pienamente alla luce. Tanto più cogente si è fatta, pertanto, la necessità del pensiero rammemorante in un momento in cui: “l’intero dell’essente è l’unico oggetto di un’ unica volontà di conquista. La semplicità dell’essere è sepolta in un unico oblio”.39L’esegesi del detto di Anassimandro, qui presentata, ci pare esemplare per più ragioni. Innanzitutto, questo saggio, in modo denso e significativo, presenta in estrema sintesi, molte delle tematiche della filosofia heideggeriana. Come ha mostrato F. Volpi, qui essa si configura come esercizio rigoroso, come ascesi del pensiero: “nella quale gli estremi della decostruzione disincantata e dell’abbandono alla visione ispirata giungono a toccarsi”.40Ciò ha condotto il tedesco al rifiuto dell’assunzione di ogni positum, del dato teologico stesso, in nome dell’assoluta adesione al domandare filosofico così come, per la prima volta, si è manifestato all’interno dell’aurorale pensiero ellenico. Egli ha avuto un confronto serrato con i problemi del dopo Hegel, anche a proposito di Anassimandro, si è cimentato con il pensiero dialettico dell’assoluto e con la sua pretesa di attingere l’intero, consapevole della sua impraticabilità ma, al contempo, avendo contezza della necessità di doverne mantenere alcune conquiste, e sviluppando, in alternativa a esso, un pensiero dell’essere che ha assunto, come punto di partenza, la finitudine 33 M. Heidegger, Op. cit., p. 427/428. Ibidem, p. 429. Emanuele Severino, in una delle sue opere fondamentali, muove proprio dall’analisi di katà to kreon in Anassimandro.Il filosofo sostiene che, tornare a riflettere su quest’espressione, implica il ricondurre il pensiero occidentale al bivio da cui muovono le due possibilità dell’occidente: l’intentata possibilità destinale, il destino della necessità appunto, e la via che dice l’instabilità dell’essere. In particolare, per quanto direttamente ci riguarda, Severino sostiene che: “Heidegger attribuisce al kreon che sta al bivio, il senso che gli compete prima del bivio”. Cfr. E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 15. Segnaliamo, in quest’opera, relativamente al tema dell’arché, nel cap.. “Il timbro della flessione nelle lingue indoeuropee” il § “La radice fondamentale AR e la sua dominazione progressiva nelle lingue indoeuropee”. pp. 289/299. 35 Ibidem, p. 431. 36 Ibidem, p. 432. 37 Ibidem, p. 435. 38 Ibidem, p. 440. 39 Ibidem p. 441. 40 F. Volpi, Heidegger e l’ascesi del pensiero, in “Micromega”, n. 2, 2000, p. 236. 34 dell’esistenza nella sua ineliminabile fatticità, ha recuperato, cioè, un’ontologia del tragico, ma nient’affatto pessimistica. Lungo questo percorso si è posto fuori, ad un tempo, dalla mistica e dal rischio gnostico, incontrando, in una prospettiva post-metafisica, il recupero della Sapienza dionisiaca di G. Colli.41 Del resto, Heidegger ha chiarito nel concetto di Geivert, nell’insieme dei quattro, cioè nella coappartenza di Terra e Cielo, dei Mortali e dei Divini, pensato nel tentativo di individuare nuove risorse simboliche, la finalità del proprio percorso speculativo, la cosmizzazione, il cui carattere greco e tradizionale è evidente. Il detto di Anassimandro in Colli La recente pubblicazione di Filosofi sovraumani, prima parte della tesi di laurea di Colli, discussa nel 1939, ci consente di sostenere che l’interesse per il pensiero originario in quest’autore era, almeno in nuce, vivo e ben delineato, nei suoi tratti generali, fin dalle fasi giovanili. In questo studio si sostiene, a proposito della nascita della filosofia, che in Grecia, nel VI secolo, si verificò un incontro epocale: quello tra una visione eminentemente politica della vita e una visione mistica, che produsse il sapere riconnettivo che, proprio allora e non casualmente, assunse il nome di filosofia.42 Colli sottolinea la straordinaria importanza che la politicità ha avuto nella cultura greca, eppure essa non basta: “..nella sua essenza a spiegare il fenomeno spirituale ellenico, e soprattutto non spiega la filosofia”.43Nel sesto secolo un fenomeno nuovo fece irruzione in Grecia, cambiandone la vita spirituale: il dionisismo. Fino ad allora l’uomo aveva guardato il mondo e in esso aveva inserito come parte se stesso, ora si stacca da tutto, si volge alla propria interiorità e vi ritrova il mondo e il divino.44Per Colli, di fronte a questo nuovo evento il senso della vita, eminentemente politico, dei greci, non si smentisce: essi fondano le comunità misteriche nelle quali, però, non si riuscì a sviluppare fino in fondo il senso: “dell’antitesi tra unità e molteplicità, quale troviamo per la prima volta in Anassimandro”, cioè all’inizio del pensiero filosofico.45 Carattere qualificante l’intera filosofia presocratica o preplatonica è, pertanto, quello di superare il pessimismo mistico e di cercare l’arché, il principio del mondo, principio di giustizia-giustezza, in grado di dare la felicità, e superiore a ogni passionalità umana. Per dionisismo Colli intende “ l’impulso a superare tutto ciò che è umano”, dal punto di vista della negazione del pathos individuale. Se ciò è vero, ha certamente ragioni da vendere Enrico Colli, figlio del filosofo, nella prefazione del libro in questione, a sottolineare come l’uso paterno del termine misticismo, riferito ai misteri dionisiaci e soprattutto all’elaborazione filosofica dei contenuti del dionisismo, sia improprio. Infatti qui: “mistico significa soltanto iniziato, colui che è stato introdotto da altri o da se stesso in un’esperienza, in una conoscenza che non è quella quotidiana, non è alla portata di 41 Per le interpretazioni mistiche di Heidegger si veda, tra gli altri: G. Moretto, Sulla traccia del religioso, Guida, Napoli 1987, pp.147/178 e C. Yannaràs, Heidegger e Dionigi Areopagita, Città Nuova, Roma 1995. Per una prospettiva più generale, cfr. M. Vannini, Il volto del dio nascosto, Mondadori, Milano 1999. Per le letture gnostiche del tedesco rinviamo a: H. Jonas, Tra il nulla e l’eternità, Gallio, Ferrara 1992 e a Eric Voegelin, La nuova scienza politica, Borla, Torino 1968. 42 Sull’origine del pensiero greco restano insuperate, dello stesso autore, le pagine de La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1978. Le argomentazione qui presentate furono sviluppate nei tre volumi de La Sapienza greca,Adelphi, Milano 1978, cui di seguito faremo riferimento. Gli aspetti teoretici del recupero del sapere originario furono presentati in Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969. 43 G. Colli, Filosofi sovraumani, p. 25. 44 Questa notazione colliana ricorda il tema della nascita della filosofia in Grecia, così come è presentato in Order and History, da Eric Voegelin. Anche per lo studioso austro-tedesco, la scoperta della psychè, come sensorio della trascendenza, da parte del Socrate Platone Aristotele, avrebbe determinato il salto nell’essere che fece transitare l’umanità dalla fase compatta e cosmologica del proprio percorso civilizzazionale, a quella differenziata. Cfr. Eric Voegelin, La filosofia politica di Platone, Il Mulino, Bologna 1986, a cura di G. Zanetti e E. Voegelin, La filosofia politica di Aristotele, Pellicani, Roma 1999, a cura di G. F. Lami. 45 G. Colli, Op .cit., p. 29. tutti”.46 In questo senso lo stesso Colli fa rilevare che i presocratici non si placarono nel raggiungimento delle loro aspirazioni teoretiche, ma tentarono una realizzazione pratico-politica della loro gnosi. Vollero, cioè, nuovamente espandersi dall’interiorità al mondo in quanto, il reale contenuto del loro sapere, aveva valenza metessica e cosmica: “Il loro impulso politico…si realizza ora nelle dottrine che sono come una legislazione che danno, non solo alla loro città, ma all’universo”.47La polis, sintonizzata sul cosmos, è luogo di trasmissione di questo sapere realizzato e, a un tempo, nel susseguirsi delle generazioni, luogo di verifica, in una dimensione mondana, dei processi di crescita, dei singoli cittadini e del logos comunitario. La sofia greca è quindi, per Colli, manifestazione di una politicità suprema. Ciò, è particolarmente vero per Anassimandro. La sua psyché non era molto diversa da quella dagli uomini che celebravano i misteri, apparentemente non si discostava dal pessimismo religioso orfico e dionisiaco. Ciò che nettamente lo distingueva da essi, era però l’impulso che lo votava al recupero della politicità: interpretò, così, la realtà metafisica, il contenuto della sua gnosi, da lui conseguita con questo straordinario strumento riconnettivo, quello filosofico, come una sfera superiore di politicità. Ritradusse quel sentimento interno e unitario che lo aveva salvato dal pessimismo mistico, e che rappresentava l’ordine spirituale da lui conseguito, con arché, signoria, predominio politico. In questo senso la diké, diviene espressione di una legge cosmica, quella presagita dal pensiero tragico, che detta il necessario riassorbimento degli enti nell’unità, l’apeiron. Con questa posizione, Egli stabilisce per gli uomini una politica anagogica, alla luce della quale essi non devono accontentarsi di un concetto ristretto, semplicemente giuridico, di giustizia, ma devono guardare: “ad una suprema giustizia per la quale ogni atto dell’uomo non deve compiersi rispetto alla sua sfera limitata e individuale ma con la coscienza e il sentimento di dover agire seguendo una realtà superiore e infinita”, con la coscienza cioè di vivere, socraticamente, al servizio di un dio, in tensione ascetica verso un modello divino di umanità che è destinato a rimanere archetipo, in quanto mai definitivamente conseguibile.48 Anassimandro rappresenta, quindi, per Colli, un nuovo modello di Sapiente, un sapiente che provoca, quasi teatralmente, il proprio tempo e che: “anche coi gesti fa sentire il suo distacco..si presenta in pubblico come uno che vede ciò che nessuno vede”.49Il sapiente, come Calcante nella lettura di Heidegger, sviluppa una gnosi legata all’enigma, la sfida imposta da Apollo agli uomini. Il suo dire non si riferisce alla dimensione meramente naturalistica, in quanto nel detto: “il logos…tenta per la prima volta di inchiodare l’irrapresentabile, la parola tracotante cerca di afferrare ciò che respinge da sé la parola”.50 Ne emerge una visione della realtà apparente come dominata dal tempo orfico, che agisce, come intuito da Schopenhauer, quale principio di individuazione. Anassimandro appare a Colli, ad un tempo, come il profanatore del misterico e il fondatore del filosofico, e per questo in lui convivono apollineo e dionisiaco: “ L’imperio attraverso la parola manifesta Apollo…ma sullo sfondo c’è l’altro dio…mai la nullità della vita individuale – la dottrina di Dioniso – era stata compresa in una forma tanto lieve, e mai più lo sarà”.51 46 Ibidem, p. 14. Al riguardo facciamo nostra la lezione di R. Guénon, il quale, a proposito di mistica e di iniziazione, ha precisato che si tratta: “di due vie non soltanto distinte ma incompatibili” e ancora: “Nel caso dell’iniziazione appartiene all’individuo l’iniziativa di una realizzazione che si perseguirà metodicamente, sotto un controllo rigido e incessante e che dovrà condurre pertanto a superare l’individuo come tale”. R. Guénon, Considerazioni sulla via iniziatica, Basaia, Roma 1982, pp. 30/31. La mistica è via umida, di fede, ha carattere passivo e, in quanto tale ha avuto il proprio luogo d’elezione nei monoteismi, soprattutto in quello cristiano. La via iniziatica è secca, attiva, processuale: si tratta di una vera e propria ascesi attraverso la quale condurre la natura umana a esprimere le qualità più elevate e differenzianti. 47 Ibidem, p. 31. 48 Su questi temi e la loro centralità nel pensiero classico, e non solo, si vedano: G. F. Lami, Tra Utopia e utopismo, Il Cerchio, Rimini 2008, a cura di G. Casale e, dello stesso autore il già citato Socrate Platone Aristotele. In queste opere vengono chiariti i presupposti di fondo e le linee prospettiche che muovono le ricerche della Scuola Romana di Filosofia politica. 49 G. Colli, La Sapienza greca, II, Adelphi, Milano 1978, pp. 27/28. 50 Ibidem, p. 29. 51 Ibidem, p. 33. Conclusioni Ci pare di dover rilevare come, il sapere aurorale greco rinvii, tanto per Heidegger quanto per Colli, a quel sentimento e a quella esperienza della vita, che furono propri di questo popolo, rimandano alla agnizione tragica, centrata sulla polarità divina di Dioniso. Risulta, pertanto, essenziale chiarire senso e significato da attribuirsi a questo modo di esperire la realtà. Per questo dobbiamo essere certamente riconoscenti a Karoly Kerényi, che ha indicato con chiarezza lo sfondo culturale in cui collocare la potestas simbolizzata religiosamente da Dioniso: quella della vita infinita, della fysis eterna e indistruttibile, contrapposta alle forme individuali, al principium individuationis. I greci avevano allo scopo, due diverse parole per indicare queste realtà: con zoé significavano l’infinità della vita, con bios, la determinatezza, la finitezza. Bios è inevitabilmente stretta a thanatos: al contrario, zoé si contrappone a thanatos escludendola, è la non-morte in quanto chronos tou einai, tempo dell’essere.52 Così Kerényi prosegue: “Questo tempo dell’essere è da intendersi come un essere continuo, che viene chiuso nel bios fintanto che questo dura”.53Con il che, siamo posti al centro della tematica del riassorbimento del cosmos anassimandreo che, successivamente, sarà motivo qualificante dell’ontologia eleatica, ontologia della “natura comune”, in cui sono avviluppati gli enti all’inizio del loro percorso vitale. Oggi si sa che il culto dionisiaco è di origine cretese, non orientale, e che nella dialettica di zoè – bios, è possibile leggere la complementarità di Dioniso e Apollo, non la loro opposizione, come avrebbe voluto Nietzsche. Ciò è stato esemplarmente spiegato da Colli il quale, infatti, rigetta la riduzione del dionisiaco alla sfera dell’orgiasmo, quale stato allucinatorio e/o estatico, esemplificato ritmicamente da danze e musiche coribantiche, e rappresentato da un’emotività senza controllo, di tipo passivo e tellurico, ma ne propone una lettura gnosico - ascetica, in quanto, nell’ orgiasmo stesso era presente: “Il subentrare al culmine dell’eccitazione, anzi come risultato ultimo, trasfigurato, del suo più intenso scatenarsi, di una rottura contemplativa, di un distacco conoscitivo..l’estasi non è il fine dell’orgiasmo dionisiaco, ma soltanto lo strumento di una liberazione conoscitiva”.54E’ questa liberazione dai vincoli dell’individuo empirico che, attraverso la gnosi a essa connessa, proiettata sul piano cittadinocosmico, è in grado di aprire, per chi si ponga lungo il suo percorso, un processo di crescita, attraverso l’adesione all’archetipo. Questo carattere, per così dire, ascetico e uranico del dio è testimoniato nell’iconografia: il fallo è certamente simbolo che accompagna Dioniso ma, al momento, mancano del tutto rappresentazioni itifalliche di questa divinità e ciò chiarisce il distacco, che essa simbolizza, dall’eros tellurico e riproduttivo: “Quindi non solo Dioniso non può considerarsi dio della fertilità, contrariamente a quanto pensava Nietzsche, ma addirittura il dio non vuole che il desiderio dei suoi invasati giunga a compimento”.55Il pensiero rammemorante che si è confrontato con il detto anassimandreo ha incontrato in Dioniso l’arché. Riteniamo sia necessario porsi, di nuovo, all’ascolto della sua voce lungo la stessa direttrice per recuperare, 52 Per questi aspetti si veda K. Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 2007. L’opera rappresenta una delle monografie più esaustive sul dio, almeno da un punto di vista storico – religioso. E’ fondata sull’esegesi di numerose e varie documentazioni archeologiche, nonché sulla comparazione delle fonti documentali. 53 K. Kerényi, Op. cit., p. 20. 54 G. Colli, La Sapienza greca, I, Adelphi, Milano 2005, p. 19. E’ significativo che alle stesse conclusioni sia, in un suo saggio, giunto anche J. Evola che si fece latore di una filosofia della tradizione, il quale scrisse che la via dionisiaca: “comporta il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui Apollo nasconde la realtà originaria, di trascendere la forma per mettersi in contatto con l’elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale non hanno più alcun senso”. Cfr. J. Evola, Ricognizioni, Ed. Mediterranee, Roma 1985, p. 83. 55 G. Colli, Ibidem, p. 21.Dall’originario distacco erotico si produsse, negli sviluppi del dionisismo storico, in particolare nell’orfismo, un atteggiamento pessimistico, di sconforto nei confronti delle possibilità proprie del vivente. Ma per la verità, studi recenti, hanno mostrato come la visione mistico – pessimistica, fosse retaggio esclusivo dell’orfismo “popolare”. Cfr. Le lamine d’oro orfiche, Adelphi, Milano 2001, a cura di G. Pugliesi Carratelli. Questo studioso, nell’erudito commento alle lamine, fa rilevare come possano considerarsi espressioni di un orfismo iniziatico, solo quelle che evocano in Mnemosyne, Memoria madre delle Muse, la gnosi come unica guida in grado di sottrarre l’iniziato all’oblio connesso al ciclo di nascite e morti e di fargli, così, conseguire la natura uranica attraverso la cosmizzazione della psychè individuale. preliminarmente la polarità archetipica a livello psichico, in ciò seguendo la lezione hillmaniana, centrata sull’unità Puer – Senex. Laddove, nel puer aeternus si deve individuare la visione della nostra natura prima, la nostra Ombra d’oro, il senso del nostro destino proiettato nell’ascesa al cielo e della nostra vita come tentativo di : “portare ristoro al fondo archetipico dell’universo”,56 ovvero la vocazione delle cose a raggiungere la loro perfezione; nel Senex deve, al contrario, leggersi la possibilità di ordine e di significato, nonchè di realizzazione teleologica e, per questo, tale simbolo indica, con altrettanto realismo, anche la possibilità sempre legata e conseguente rispetto a quelle precedentemente elencate, quella della stasi, della fine, della morte. Il Puer – Senex è stato significato nella tradizione ellenica da Aion, il semper adveniens: “Che non procede che non discorre (e perciò infans), che non invecchia e che quindi, i lacci dei nomi non possono catturare”.57 Per questo, nel mondo tradizionale, la rappresentazione dell’archetipo, analogicamente compiuta, è quella espressa dal linguaggio musicale: il suono originario. Apeiron perfettamente illimitato, dunque, l’Aion.58Nel suo abbraccio si susseguono ciclicamente nascita e distruzione dei mondi, esso è l’Aperto e lascia apparire i molti kosmoi. E’ l’Inizio e, pertanto, è pais coincidente con il proprio gioco e con le pedine stesse del gioco: “L’Aion – pais stesso in quanto gioca, non il mondo gioco di Dioniso, ma Dioniso che gioca”.59 Il gioco è un Fare che, oggi, nel mondo della dissomiglianza, è semplicemente parodiato dalla tecnica, il cui ordine apparente sembra l’unica armonia possibile della nostra età, ma essa è anche imitazione dell’Ordnung e, in quanto tale, lo rammenta e, forse, ne partecipa: “La sua esistenza è la fine di quella Pace, ma insieme quella stessa Pace può ora rappresentarsi in questa téchne”.60 Insomma per Fare, è necessario imitare l’ordine assente, esemplificato dall’arché, dal precedente autorevole, incarnato nel passato mitico e in quello storico dei diversi consessi civilizzazionali, da individualità di eccellenza. Sta a noi, nel nostro rapporto con il mondo e i nostri simili, verificare e manifestare la transitabilità, la possibilità dell’utopia dell’arché e della filosofia della tradizione quale via a essa propedeutica e altra rispetto alla prospettiva metafisica e a quella atea, riconducendo a Unità Apollo e Dioniso, Puer e Senex, conoscenza e azione. 56 J. Hillman, Puer Aeternus, Adelphi, Milano 1999, p. 102. M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990. p. 283. 58 Per la valenza simbolico - riconnettiva e cosmica della musica nel mondo tradizionale, rinviamo alle ormai classiche opere di M. Schneider, La musica primitiva, Adelphi, Milano 1992 e Il significato della musica, Rusconi, Milano 1991 59 M. Cacciari, Op. cit., p. 287. 60 Ibidem, pp. 381/382. 57