Suez 1956: le premesse storico- diplomatiche

annuncio pubblicitario
Suez 1956: le premesse
storico- diplomatiche della crisi
di Paolo Wulzer
N
ello stesso anno in cui le denunce di Chruščëv
al XX congresso e l’avvio del processo di
destalinizzazione scossero il mondo sovietico e il
comunismo internazionale, la crisi di Suez svelava
realtà e mutamenti fondamentali maturati nel primo
decennio postbellico, sia su scala regionale che a
livello globale. Suez fu, in questo senso, una
rivelazione ancora maggiore di quelle contenute nel
rapporto segreto1. La crisi annunciò la nascita di un
nuovo nazionalismo arabo, figlio della sconfitta del
’49 e ossessionato dall’idea della rivincita, sancì il
tramonto definitivo dell’imperialismo britannico e la
crisi irreversibile del colonialismo francese, attribuì
al Medio Oriente il ruolo di regione cruciale per gli
equilibri della guerra fredda, aprì un’altra pagina,
difficile e sofferta, di incomprensioni atlantiche. La
nazionalizzazione della Compagnia di Suez, la prova
di forza di Nasser sul Canale, non furono che
l’apertura ufficiale di una crisi i cui contorni politici,
economici e diplomatici erano già stati da tempo
tracciati.
Alla fine degli anni ’40 il volto storico del Medio
Oriente, nato alla fine della prima guerra mondiale,
risultava ormai stravolto dai primi passi della
decolonizzazione, dalle iniziali tensioni della guerra
fredda e dalla nascita dello stato di Israele. La
Francia, con la difficile indipendenza raggiunta dalla
Siria e dal Libano nel 1946, aveva perso ogni
controllo diretto nella zona, proprio mentre i
fermenti indipendentistici del Maghreb mettevano a
rischio la sua presenza mediterranea. L’Inghilterra,
grazie ai legami mantenuti con l’Iraq e la
Transgiordania, agli accordi petroliferi con l’Iran e al
patrocinio concesso alla neonata Lega Araba, aveva
invece cercato di impostare su basi nuove la propria
influenza nell’area. Ma la situazione ingovernabile
del mandato palestinese e le “insofferenze” dell’ exprotettorato egiziano, non più disposto a subire
passivamente la tutela britannica celata dietro la
formale indipendenza, mettevano a rischio la sua
tradizionale egemonia nel mondo arabo. A partire
dal 1946-47, il declino inglese in Medio Oriente,
unito ai primi venti di guerra fredda nell’area,
aveva proiettato gli Stati Uniti al centro della scena
mediorientale. Ma la politica americana, ostaggio dei
contrasti tra le posizioni di Truman e quelle del
Dipartimento di Stato2, aveva però partorito un
approccio incerto e confuso, che la nascita di Israele
finì per accentuare. La prima guerra arabo-israeliana,
con la lampante vittoria di Tel Aviv e l’umiliazione
della coalizione araba, aveva dimostrato la
drammatica precarietà del nuovo Stato, esposto
all’acccerchiamento di paesi ostili; aveva screditato i
governi arabi e alimentato la loro sete di rivalsa;
aveva aperto la ferita dei profughi palestinesi. Ma,
nell’immediato, la situazione sul terreno si era
stabilizzata. Le preoccupazioni di Tel Aviv per il
consolidamento
economico
e
l’incremento
demografico e, in campo arabo, il trauma della
sconfitta e l’instabilità politica dei regimi avevano
impedito che l’ostilità scivolasse verso un nuovo
confronto armato. All’inizio degli anni ‘50, intanto,
mentre gli Stati Uniti si dividevano tra il sostegno ad
Israele, il “corteggiamento” degli arabi e l’appoggio
ai frenetici progetti inglesi di restaurare il proprio
primato nell’area (Middle East Command e
Dichiarazione Tripartita), l’Unione Sovietica,
allentate le relazioni con Israele, cominciava a porre
i primi mattoni dei suoi rapporti con il mondo arabo
e con il paese che le avrebbe aperto le porte della
regione, l’Egitto.
Nel luglio del 1952, il crollo delle “tre gambe” su
cui si reggeva da tempo, in precario equilibrio, il
vecchio stato egiziano, e cioè la corona, la Gran
Bretagna e i nazionalisti del Wafd, travolse il regime
di re Faruk. Con i nuovi padroni del Cairo, i
“Giovani Ufficiali” di Nagib e Nasser, nutriti di
forte spirito nazionalistico e di rancore antisraeliano,
il quadro mediorientale parve, a sorpresa,
stabilizzarsi. Londra guardava alla giunta militare
come all’interlocutore ideale per rifondare i propri
rapporti con il turbolento, ma indispensabile, alleato
regionale, chiave delle proprie posizioni in Medio
Oriente. Il forte accento posto, dal nuovo regime,
sulla “rigenerazione interna” dell’Egitto, la relativa
assenza nella sua propaganda di parole d’ordine
antisioniste, tranquillizzavano Israele. Per gli Stati
Uniti, questi “new boys” rappresentavano
un’occasione per riannodare i fili sciolti della loro
politica mediorientale: gli impegni con Israele, il
corteggiamento degli arabi, il rapporto con Londra.
Per due anni l’Egitto nato dal golpe del ’52 riuscì a
camminare sul filo dell’equilibrio tra gli impegni
della rivoluzione e le relazioni con l’Occidente. La
complicata firma del trattato di evacuazione dal
Canale3 con gli inglesi, gli aiuti economici americani
accompagnati dai primi piani di integrazione
militare, la freddezza dei rapporti con Mosca
dipingevano una situazione, non priva di screzi e di
tensioni, ma di sostanziale collaborazione con
Londra e Washington. Contemporaneamente, gli
approcci distensivi tra Nasser e il nuovo premier di
Tel Aviv, Moshé Sharett, indicavano una possibile
ripresa del dialogo arabo-israeliano. Ma a partire
dalla fine del ’54, da quando Nasser risolse a suo
favore la lotta di potere all’interno degli Ufficiali
Liberi e la natura “rivoluzionaria” del nuovo regime
cominciò a profilarsi con chiarezza, il ruolo del
Cairo sulla scena internazionale mutò radicalmente.
Neutralismo, nazionalismo anticolonialista e
panarabismo antisraeliano divennero le parole
d’ordine del nuovo Egitto.
L’ “amicizia attiva” con gli Stati Uniti svanì di
fronte al rifiuto egiziano di completare, sul piano
militare, l’allineamento con l’Occidente. Quella
scelta, infatti, privava il mosaico mediorientale
costruito da Foster Dulles, il segretario di Stato di
Eisenhower, del tassello fondamentale. Nel suo
dogmatismo
bipolare,
Dulles,
trascurando
l’estraneità del mondo arabo dal modello comunista
e i ritardi di Mosca nell’area, vedeva la minaccia
rossa incombere sul Medio Oriente. Per impedire
che l’impronta sovietica marchiasse quell’area e
stravolgesse gli equilibri della guerra fredda,
occorreva superare le ambiguità e le contraddizioni
delle amministrazioni democratiche e puntare con
decisione su un rapporto privilegiato con il
nazionalismo arabo, su una netta dissociazione dal
“colonialismo” europeo, su un riesame delle
relazioni con Tel Aviv4. Bisognava “rendere
consapevoli i paesi arabi che noi simpatizziamo con
le loro legittime aspirazioni e rispettiamo i loro
interessi […]; cercare di guidare le spinte
rivoluzionarie e nazionalistiche presenti nell’area
verso sbocchi non antagonistici rispetto
all’Occidente piuttosto che tentare di preservare
semplicemente lo status quo”5. Su questa linea,
l’intesa tra gli Stati Uniti e le forze arabe appariva,
agli occhi di Dulles, lo sbocco naturale. Ma la
mancata adesione egiziana al Patto di Baghdad6, il
cuore del nuovo corso americano nell’area, e la
propaganda che Nasser scatenò contro di esso,
simbolo di un rinnovato colonialismo occidentale,
compromisero, rivelandone i limiti, il disegno di
Dulles. La vera natura della scelta neutralistica del
rais, frutto di quel nazionalismo anticolonialista che
stava investendo tutto il mondo arabo, sfuggì
completamente al segretario di Stato che la
considerò invece, nell’ottica della guerra fredda,
nella sua avversione per i “neutrali”, l’anticamera
dell’abbraccio con Mosca.
Il “no” di Nasser all’alleanza regionale, che
Londra aveva promosso e sottoscritto per
aggiornare, sotto nuove forme, il proprio primato
nell’area, incrinarono, irrimediabilmente, anche i
rapporti con la Gran Bretagna. Di fronte alle
tensioni accese dalla propaganda nasseriana nei
regimi haschemiti di Giordania e Iraq, suoi fedeli
alleati, e al progressivo qualificarsi dell’Egitto come
il polo di attrazione dell’intero arabismo
progressista, rinnovatore e anticolonialista, Londra
cominciò a maturare l’idea che, con Nasser al Cairo,
le proprie residue posizioni in Medio Oriente
avrebbero subito un’inevitabile erosione. Anche la
Francia, nel frattempo, alle prese con il
ripiegamento della propria grandezza coloniale,
iniziava ad intravedere la longa manus del rais egiziano
dietro le tensioni nazionalistiche in Marocco e
Tunisia e, soprattutto, alle spalle della rivolta
algerina. Per le due capitali europee il motore unico
della deriva antioccidentale del mondo arabo era,
indiscutibilmente, Il Cairo.
Dall’inizio del ’55, intanto, emarginato Sharett
all’interno dell’esecutivo di Tel Aviv, ritornati in auge
Ben Gurion e gli “attivisti” del ministero della
Difesa, la linea dura riprese a dominare la politica
israeliana. Gli orientamenti filoarabi di Washington,
l’evacuazione delle truppe britanniche dal Canale e,
soprattutto, la nuova veste indossata dall’Egitto
sulla scena regionale, portavoce della riscossa araba,
imponevano, secondo Ben Gurion, la chiusura della
stagione moderata e un ritorno alla “difesa
aggressiva”. La nuova strategia israeliana, che ebbe a
Gaza7 l’episodio più sanguinoso e più gravido di
conseguenze, permise, paradossalmente, a Nasser di
completare la sua rivoluzione nell’unico punto
lasciato scoperto, quello militare. E consentì
all’Unione Sovietica di irrompere, a sorpresa, sulla
scena mediorientale. Le richieste egiziane di
equilibrare il dispositivo militare israeliano, unica
garanzia di stabilità nella regione, non trovarono
infatti ascolto nelle capitali occidentali: Londra e
Parigi non intendevano armare il loro “problema”
mediorientale; Dulles, nonostante le pressioni
dell’ambasciatore al Cairo Henry Byroade, legò
l’aiuto militare all’adesione al Patto di Bagdad. Ma
era un’intransigenza che, con il Nasser del dopoBandung8, forte di una nuova legittimità
internazionale e di una presa ormai totale sull’Egitto
e sul modo arabo, non poteva pagare e che
contribuì a spingerlo tra le braccia di Mosca.
Nel luglio del ’55, con la vendita di armi
cecoslovacche al Cairo9, l’Unione Sovietica faceva il
suo ingresso ufficiale in Medio Oriente. La nuova
leadership chrusceviana aveva gradualmente
smontato i presupposti staliniani che avevano fino
ad allora rallentato l’azione sovietica nella regione: la
“centralità” dell’Europa; l’interpretazione ortodossa
del nazionalismo anticoloniale, considerato asservito
agli interessi imperialistici; la presenza di partiti
comunisti di reale spessore come strumento
essenziale di penetrazione e influenza; il Medio
Oriente “riserva di caccia anglo-americana”. A
partire dalla seconda metà del’54, i tentativi
americani di creare una “cintura di sicurezza” ai
confini meridionali dell’ U.R.S.S. e la scoperta della
natura profondamente “antioccidentale” del
nazionalismo arabo alimentarono la decisa svolta
sovietica10. Con l’accordo ceco-egiziano, Mosca
compiva il primo passo di quella politica verso i
paesi emergenti tesa non più ad esportare il modello
socialista ma a sottrarli all’orbita occidentale
soffiando sul fuoco del nazionalismo. Per Nasser,
invece, si trattava non già di una scelta ideologica,
ma della prima mossa del suo gioco sui due tavoli
del confronto tra i blocchi.
Le armi cecoslovacche, secondo l’analisi
americana, aprivano un nuovo fronte, inaspettato,
della guerra fredda. Quell’accordo dimostrava che “i
rossi credevano che il Medio Oriente offrisse
un’insolita occasione per penetrare nel mondo
libero…Non potevamo permettere che tale azione
passasse inosservata”11. Di fronte alla sfida di
Chruščëv, capace di trasferire il confronto in teatri
periferici, esterni agli scenari tradizionali bloccati dai
primi accenni di distensione, e ai rischi politicoeconomici di un Medio Oriente schiuso alla
penetrazione sovietica, l’esigenza di recuperare
Nasser divenne, per Washington, prioritaria. Fu lo
stesso Dulles, il cui rigore ideologico aveva spinto
Nasser tra le braccia di Mosca, ad intravedere in un
programma incondizionato di aiuti tecnici ed
economici lo strumento per riavvicinare il rais e ad
individuare nel progetto della diga di Assuan12 la
chiave per riaprire Il Cairo all’influenza occidentale.
Il finanziamento anglo-americano della “piramide
del nuovo Egitto”, secondo Dulles, avrebbe
sganciato il paese dall’orbita sovietica e legato lo
sviluppo dell’economia agli investimenti occidentali.
La scelta, per Londra, non si presentava facile. I
difficili rapporti, politici e personali, del nuovo
premier inglese, Anthony Eden, con il segretario di
Stato americano, la sua radicata diffidenza nei
confronti di Nasser, maturata nel corso dei negoziati
del’54 sul Sudan e sulla base di Suez, la sua
sopravvalutazione del valore del Patto di Bagdad,
non rendevano scontata la partecipazione inglese al
piano di finanziamento. Solo il rispetto della special
relationship e il fallito tentativo di far entrare la
Giordania nell’alleanza regionale, strapparono il
sofferto “si” della Gran Bretagna.
L’altra faccia della rincorsa occidentale a Nasser
non poteva che riguardare Israele: il recupero delle
posizioni in Egitto imponeva un drastico
ridimensionamento dei rapporti con lo Stato
ebraico. Il mancato invio di armi da Washington
dopo l’accordo ceco-egiziano e la proposta di pace
lanciata da Eden alla fine del’5513 delineavano una
situazione di crescente isolamento per Tel Aviv,
proprio mentre le armi di Praga e il sostegno di
Mosca potevano spingere il rais a tentare un colpo
di forza. Nonostante le pressioni per una guerra
preventiva, Ben Gurion, di nuovo alla guida
dell’esecutivo dal dicembre del ’55, riuscì a ristabilire
in fretta la superiorità militare del paese, trovando a
Parigi il nuovo interlocutore privilegiato per Israele.
Con l’allineamento franco-israeliano, sostanziato da
un programma di cooperazione militare, il quadro
mediorientale mutava sensibilmente: la Francia si
ripresentava da protagonista nell’area in cui,
secondo il Quay d’Orsay, stava la chiave del
problema algerino; Israele si sottraeva alle
pericolose oscillazioni della politica anglo-americana
e ristabiliva la sua egemonia militare nella regione.
Ma le speranze che la duplice risposta
occidentale all’intrusione sovietica in Medio
Oriente, la diga di Assuan e il riarmo israeliano,
potessero disinnescare la mina Nasser e le sue
manovre destabilizzatrici, durarono lo spazio di
pochi mesi. Già nel marzo, dopo il brusco congedo
di Glubb Pascià dalla Giordania infiammata dalla
propaganda nasseriana, il contributo inglese alla
costruzione della diga tornava in discussione. Per
Londra, il forzato esilio del generale della Legione
Araba, cardine della presenza inglese nel paese,
portava la firma indiscutibile di Nasser e
rappresentava l’ennesimo colpo sferrato contro gli
interessi britannici in Medio Oriente. Agli occhi di
Eden, come emerge chiaramente dalle sue
memorie14, il rais egiziano si stava ormai
trasformando da problema politico ad ossessione
personale, da leader inaffidabile ed ambizioso, ma
ancora controllabile, a responsabile unico e diretto
di tutte le turbolenze dell’area mediorientale. L’idea
di un Nasser ormai irrecuperabile alle ragioni
dell’Occidente si andava imponendo con decisione
all’interno della diplomazia britannica. Nella
primavera del ’56, intanto, proprio mentre l’impasse
della crisi algerina costringeva il governo francese di
Guy Mollet ad indicare pubblicamente nell’Egitto
l’anima nera della rivolta, anche Israele tornava a
guardare con preoccupazione alle trame del Cairo.
La ripresa delle incursioni di fedayn dalla striscia di
Gaza, i successi della propaganda nasseriana, il
fallimento della missione Anderson, inviato
personale di Eisenhower nella regione, il ruolo
incerto e squilibrato, secondo Tel Aviv, dell’ONU
di Dag Hammarskjold, avevano riabilitato, nella
dirigenza israeliana, l’idea di una guerra preventiva
contro lo scomodo vicino. La salda amicizia con la
Francia sul piano esterno, e, su quello interno, le
dimissioni di Sharett, sostituito agli Esteri da Golda
Meir, lavoravano per quella soluzione15.
Con il ritorno della tensione tra Egitto ed Israele
la diga di Assuan perdeva il suo primo mattone, cioè
il sostegno degli ambienti filoebraici del Congresso
americano. Quando Nasser, nel maggio del ’56,
annunciò il riconoscimento ufficiale del regime di
Pechino, quel progetto di intervento economico in
Egitto crollò del tutto. La mossa di Nasser nasceva
da ragioni di equilibrio militare in Medio Oriente16 e
testimoniava l’estrema spregiudicatezza con cui il
leader egiziano calcava le scene internazionali. Per
Dulles, invece, il riconoscimento della Cina
comunista rappresentava una scelta di campo netta
ed inequivocabile e privava il piano di
finanziamento della diga di quella radice politicodiplomatica che lo aveva tenuto in vita di fronte agli
attacchi della lobby ebraica, ai pesanti dubbi del
segretario al Tesoro Humprey e all’imminente
scadenza elettorale. Il 19 luglio Foster Dulles
comunicava all’ambasciatore Hussein il ritiro
dell’offerta americana. Né la sorprendente docilità
egiziana di fronte alle nuove condizioni poste per il
prestito americano17, né le perplessità alleate per le
possibili reazioni di Nasser (“anche sul Canale”, lo
aveva ammonito l’ambasciatore francese Couve de
Mourville), erano riuscite a smussare l’irrigidimento
di Dulles. Per gli Stati Uniti era tempo, secondo il
segretario di Stato, di sottrarsi al “doppio gioco” del
leader egiziano.
Con la nazionalizzazione della Compagnia
Marittima Universale del Canale di Suez, annunciata
da Nasser il 26 luglio 1956 in risposta al mancato
finanziamento occidentale, si apriva una crisi
internazionale maturata sulla scena mediorientale
ma destinata a varcare, per impatto e conseguenze, il
contesto regionale. Il ruolo che vi avrebbero giocato
le singole potenze era in parte già scritto. Per la
Francia e la Gran Bretagna la “vergogna” del Canale
egiziano rappresentava l’occasione ideale per
liberarsi di Nasser. Ancorati ad una visione datata
del Medio Oriente e del Maghreb, Eden e Mollet
ritenevano che una “lezione” inflitta al rais avrebbe
ridato fiato ai settori più conservatori del mondo
Cfr. M.Flores, 1956, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 9.
2 Truman era un paladino della causa ebraica, fortemente contrario
alle scelte mediorientali di Londra perché legate a vecchi modelli
colonialistici. Il Dipartimento di Stato, con Henderson e Kennan in
testa, propugnava invece un’alleanza a tutto campo con il mondo
arabo e una stretta intesa con la Gran Bretagna. Su questo
problema vedi A. Donno, Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (19381
arabo e riconsegnato quelle regioni all’indiscussa
egemonia europea. Dal Canale passavano il ritorno
della Giordania sotto la tutela britannica, la
soluzione della crisi algerina e, soprattutto, la fine
del ripiegamento imperiale delle due potenze.
L’apprensione per le sorti dell’economia europea, la
denuncia del diritto internazionale violato, i richiami
alla lezione di Monaco e ai rischi di un nuovo
appeasement, coprivano l’estremo tentativo delle due
vecchie regine del colonialismo europeo di rialzare
la testa. Gli Stati Uniti, però, non avevano alcuna
intenzione di aiutarle nel loro sforzo. Un intervento
occidentale per riaprire il Canale, con la
partecipazione o anche solo con la benedizione
americana, avrebbe infatti infiammato il
nazionalismo arabo, compromesso definitivamente
il disegno di un’alleanza mediorientale in funzione
antisovietica e regalato a Mosca un enorme
vantaggio propagandistico. La nuova fase del
confronto bipolare, con lo spostamento dei punti di
frizione in aree periferiche, imponeva a Washington
di dissociarsi da un’impresa dal sapore neocoloniale,
anche a costo di incrinare la solidarietà atlantica.
Secondo Dulles, Suez rappresentava l’ultimo respiro
del colonialismo europeo, che andava aiutato a
morire senza provocare scossoni nelle alleanze e
impedendo ai sovietici di guadagnarci troppo.
L’opposizione americana alla guerra mancò, però,
totalmente di chiarezza e decisione. Timorosi di una
rottura plateale con gli alleati europei, concentrati
sulle imminenti elezioni, Eisenhower e il suo
segretario di Stato speravano che un negoziato
interminabile fiaccasse la determinazione di Londra
e Parigi e contemporaneamente consentisse loro di
scovare una via d’uscita onorevole. Ma il tortuoso
percorso diplomatico costruito in tre mesi di
incontri e trattative, dalla Conferenza di Londra alla
missione Menzies al Cairo, dall’Associazione degli
Utenti ai “Sei Principi” approvati alle Nazioni Unite,
nascondeva una strategia più dilatoria che di
mediazione, che finì per irritare i due alleati europei
e lo privò di ogni alternativa all’intervento militare
in Egitto. Un’operazione che le contrastanti
esigenze delle due potenze, quelle inglesi di
rincorrere l’appoggio di Washington e il consenso
degli alleati arabi, quelle francesi di regolare
rapidamente i conti con Nasser e di coinvolgere
Israele, trasformarono però in un completo
fallimento,
militare
e
politico.
1956), Roma, Bonacci, 1992, pp. 140-162; Id. (a cura di), Gli Stati
Uniti e il Medio Oriente, Manduria, Lacaita Editore, pp. 9-52; M. J.
Cohen, Truman and Israel, Berkeley, University of California
Press,1990, pp.223-281; B.R. Kuniholn, U.S. Policy in the Near East:
The Triumphs and Tribulations of the Truman Administration, in M.J.
Lacey (ed.), The Truman Presidency, Cambridge, Cambridge University
Press,1991, pp. 299-317.
Con l’accordo, firmato il 19 ottobre 1954, Londra accettava di
ritirare le proprie truppe dal Canale di Suez, la cui presenza era
regolata dal trattato del 1936; l’Egitto si impegnava a garantire la
libertà di navigazione nel Canale e a consentire una riattivazione
della base militare britannica in caso di attacco armato “da parte di
una potenza straniera alla zona del Medio Oriente” contro i paesi
della Lega Araba o la Turchia. L’intesa, quindi, tramite Ankara,
legava indirettamente l’Egitto alla NATO.
4 Sulla svolta americana in Medio Oriente si vedano i saggi di A.
Donno, Le relazioni tra Stati Uniti e Israele dal 1953 alla crisi di Suez e
di P.L.Hahn, Gli Stati Uniti e l’Egitto (1953-1961), in A. Donno (a
cura di), Ombre di guerra fredda. Gli Stati Uniti nel Medio Oriente durante
gli anni di Eisenhower (1953-1961), Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1998, pp. 243-284 e 307-346. Vedi inoltre: Id. (a cura di)
Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele, cit., pp. 163-185; Id. (a cura di), Gli
Stati Uniti e il Medio Oriente, cit., pp. 53-96; I. Alteras, Eisenhower and
Israel: U.S.-Israeli relations, 1953-1960, Gainsville, University Press of
Florida, 1993, pp.23-156; S.Z. Freiberger, Dawn over Suez: the Rise of
the American Power in the Middle East, 1953-1957, Chicago, Dee, 1992,
pp. 35-54.
5 Statement of Policy by the National Security Council (“U.S. Objectives
and Policies with Respect to the Near East”), NSC 5428, July 23,
1954, in Foreign Relations of the United States, 1952-1954, vol. IX,
The Near and Middle East, Washington, United States Government
Printing Office, 1986, part I, p.529.
6 Siglato il 24 febbraio 1955 tra l’Iraq e la Turchia, con la successiva
adesione della Gran Bretagna (30 marzo), del Pakistan (23
settembre) e dell’Iran (3 novembre).
7 Il 28 febbraio del 1955, una ritorsione israeliana nella striscia di
Gaza, in risposta ad una serie di infiltrazioni sponsorizzate dal
Cairo, provocò più di quaranta morti tra gli egiziani. L’esercito
egiziano non subiva un colpo simile dalla guerra del 1948.
8 Il primo vertice dei non allineati (Bandung, 18-24 aprile 1955),
aveva visto Nasser assumere un ruolo di primo piano.
9 L’accordo, concluso in luglio, annunciato il 27 settembre,
prevedeva lo scambio tra cotone egiziano e armi pesanti
cecolovacche.
10 Per la penetrazione sovietica nella regione mediorientale vedi gli
ottimi, anche se ormai datati: W. Z. Laquer, The Soviet Union and the
Middle East, New York, Praeger, 1964, pp. 189-246; D.J. Dallin,
Soviet Foreign Policy after Stalin, Philadelphia, Lippiricot, 1961, pp.386412; I. Spector, The Soviet Union and the Muslim World, Seattle,
University of Washington Press, 1959, pp. 206-297. Cfr. inoltre K.
Dawisha, Soviet Foreign Policy toward Egypt, New York, St. Martin
Press, 1979 e G. Golan, Soviet Policies in the Middle East. From world
war II to Gorbacev, Cambridge, Cambridge University Press, 1990.
3
D. D. Eisenhower, La pace incerta: gli anni della Casa Bianca:19561961, Milano, Mondadori, 1969, p.38. (Tit. orig.: Waging Peace: 19561961, Garden City, Doubleday and C., 1965).
12 Al progetto della costruzione di una diga sull’Alto Nilo, nei pressi
di Assuan, Nasser aveva legato non solo lo sviluppo dell’agricoltura
egiziana, ma anche la sua personale fortuna politica.
13 La proposta di Eden per la prima volta metteva in discussione lo
status quo territoriale proponendo come base di discussione il piano
di spartizione varato dall’ONU nel 1947.
14 A. Eden, Le Memorie di Sir Anthony Eden, Milano, Garzanti, 1960,
vol.3 “1945-1957”, pp. 517 e sgg. (Tit. orig.: The Memoirs of Sir
Anthony Eden: full circle, London, Cassel, 1960).
15 Per il processo decisionale che portò Israele alla guerra contro
l’Egitto, vedi M. Braecher, Decisions in Israel’s Foreign Policy, London,
Oxford University Press, 1974, pp. 225-277. Vedi anche A. BenZvi, A decade of Transition: Eisenhower, Kennedy and the Origins of the
American-Israeli Alliance, New York, Columbia University Press,
1998, per le relazioni di Tel Aviv con gli Stati Uniti (pp. 19-57), con
la Francia (pp. 55-74) e con l’Inghilterra (pp. 35-54) nel periodo
1953-1956.
16 La disponibilità sovietica per un embargo militare in Medio
Oriente, annunciata durante il viaggio di Chruščëv e Bulganin a
Londra nell’aprile del ’56, aveva imposto a Nasser di trovarsi un
nuovo fornitore.
17 Dovuta alla mancata offerta sovietica, data per scontata da
Nasser, di subentrare al prestito occidentale. Le nuove condizioni
riguardavano la sospensione dell’accordo di fornitura militare con
Praga e l’avvio di negoziati di pace con Israele.
11
Scarica