Suez 1956: le premesse storico- diplomatiche della crisi di Paolo Wulzer N ello stesso anno in cui le denunce di Chruščëv al XX congresso e l’avvio del processo di destalinizzazione scossero il mondo sovietico e il comunismo internazionale, la crisi di Suez svelava realtà e mutamenti fondamentali maturati nel primo decennio postbellico, sia su scala regionale che a livello globale. Suez fu, in questo senso, una rivelazione ancora maggiore di quelle contenute nel rapporto segreto1. La crisi annunciò la nascita di un nuovo nazionalismo arabo, figlio della sconfitta del ’49 e ossessionato dall’idea della rivincita, sancì il tramonto definitivo dell’imperialismo britannico e la crisi irreversibile del colonialismo francese, attribuì al Medio Oriente il ruolo di regione cruciale per gli equilibri della guerra fredda, aprì un’altra pagina, difficile e sofferta, di incomprensioni atlantiche. La nazionalizzazione della Compagnia di Suez, la prova di forza di Nasser sul Canale, non furono che l’apertura ufficiale di una crisi i cui contorni politici, economici e diplomatici erano già stati da tempo tracciati. Alla fine degli anni ’40 il volto storico del Medio Oriente, nato alla fine della prima guerra mondiale, risultava ormai stravolto dai primi passi della decolonizzazione, dalle iniziali tensioni della guerra fredda e dalla nascita dello stato di Israele. La Francia, con la difficile indipendenza raggiunta dalla Siria e dal Libano nel 1946, aveva perso ogni controllo diretto nella zona, proprio mentre i fermenti indipendentistici del Maghreb mettevano a rischio la sua presenza mediterranea. L’Inghilterra, grazie ai legami mantenuti con l’Iraq e la Transgiordania, agli accordi petroliferi con l’Iran e al patrocinio concesso alla neonata Lega Araba, aveva invece cercato di impostare su basi nuove la propria influenza nell’area. Ma la situazione ingovernabile del mandato palestinese e le “insofferenze” dell’ exprotettorato egiziano, non più disposto a subire passivamente la tutela britannica celata dietro la formale indipendenza, mettevano a rischio la sua tradizionale egemonia nel mondo arabo. A partire dal 1946-47, il declino inglese in Medio Oriente, unito ai primi venti di guerra fredda nell’area, aveva proiettato gli Stati Uniti al centro della scena mediorientale. Ma la politica americana, ostaggio dei contrasti tra le posizioni di Truman e quelle del Dipartimento di Stato2, aveva però partorito un approccio incerto e confuso, che la nascita di Israele finì per accentuare. La prima guerra arabo-israeliana, con la lampante vittoria di Tel Aviv e l’umiliazione della coalizione araba, aveva dimostrato la drammatica precarietà del nuovo Stato, esposto all’acccerchiamento di paesi ostili; aveva screditato i governi arabi e alimentato la loro sete di rivalsa; aveva aperto la ferita dei profughi palestinesi. Ma, nell’immediato, la situazione sul terreno si era stabilizzata. Le preoccupazioni di Tel Aviv per il consolidamento economico e l’incremento demografico e, in campo arabo, il trauma della sconfitta e l’instabilità politica dei regimi avevano impedito che l’ostilità scivolasse verso un nuovo confronto armato. All’inizio degli anni ‘50, intanto, mentre gli Stati Uniti si dividevano tra il sostegno ad Israele, il “corteggiamento” degli arabi e l’appoggio ai frenetici progetti inglesi di restaurare il proprio primato nell’area (Middle East Command e Dichiarazione Tripartita), l’Unione Sovietica, allentate le relazioni con Israele, cominciava a porre i primi mattoni dei suoi rapporti con il mondo arabo e con il paese che le avrebbe aperto le porte della regione, l’Egitto. Nel luglio del 1952, il crollo delle “tre gambe” su cui si reggeva da tempo, in precario equilibrio, il vecchio stato egiziano, e cioè la corona, la Gran Bretagna e i nazionalisti del Wafd, travolse il regime di re Faruk. Con i nuovi padroni del Cairo, i “Giovani Ufficiali” di Nagib e Nasser, nutriti di forte spirito nazionalistico e di rancore antisraeliano, il quadro mediorientale parve, a sorpresa, stabilizzarsi. Londra guardava alla giunta militare come all’interlocutore ideale per rifondare i propri rapporti con il turbolento, ma indispensabile, alleato regionale, chiave delle proprie posizioni in Medio Oriente. Il forte accento posto, dal nuovo regime, sulla “rigenerazione interna” dell’Egitto, la relativa assenza nella sua propaganda di parole d’ordine antisioniste, tranquillizzavano Israele. Per gli Stati Uniti, questi “new boys” rappresentavano un’occasione per riannodare i fili sciolti della loro politica mediorientale: gli impegni con Israele, il corteggiamento degli arabi, il rapporto con Londra. Per due anni l’Egitto nato dal golpe del ’52 riuscì a camminare sul filo dell’equilibrio tra gli impegni della rivoluzione e le relazioni con l’Occidente. La complicata firma del trattato di evacuazione dal Canale3 con gli inglesi, gli aiuti economici americani accompagnati dai primi piani di integrazione militare, la freddezza dei rapporti con Mosca dipingevano una situazione, non priva di screzi e di tensioni, ma di sostanziale collaborazione con Londra e Washington. Contemporaneamente, gli approcci distensivi tra Nasser e il nuovo premier di Tel Aviv, Moshé Sharett, indicavano una possibile ripresa del dialogo arabo-israeliano. Ma a partire dalla fine del ’54, da quando Nasser risolse a suo favore la lotta di potere all’interno degli Ufficiali Liberi e la natura “rivoluzionaria” del nuovo regime cominciò a profilarsi con chiarezza, il ruolo del Cairo sulla scena internazionale mutò radicalmente. Neutralismo, nazionalismo anticolonialista e panarabismo antisraeliano divennero le parole d’ordine del nuovo Egitto. L’ “amicizia attiva” con gli Stati Uniti svanì di fronte al rifiuto egiziano di completare, sul piano militare, l’allineamento con l’Occidente. Quella scelta, infatti, privava il mosaico mediorientale costruito da Foster Dulles, il segretario di Stato di Eisenhower, del tassello fondamentale. Nel suo dogmatismo bipolare, Dulles, trascurando l’estraneità del mondo arabo dal modello comunista e i ritardi di Mosca nell’area, vedeva la minaccia rossa incombere sul Medio Oriente. Per impedire che l’impronta sovietica marchiasse quell’area e stravolgesse gli equilibri della guerra fredda, occorreva superare le ambiguità e le contraddizioni delle amministrazioni democratiche e puntare con decisione su un rapporto privilegiato con il nazionalismo arabo, su una netta dissociazione dal “colonialismo” europeo, su un riesame delle relazioni con Tel Aviv4. Bisognava “rendere consapevoli i paesi arabi che noi simpatizziamo con le loro legittime aspirazioni e rispettiamo i loro interessi […]; cercare di guidare le spinte rivoluzionarie e nazionalistiche presenti nell’area verso sbocchi non antagonistici rispetto all’Occidente piuttosto che tentare di preservare semplicemente lo status quo”5. Su questa linea, l’intesa tra gli Stati Uniti e le forze arabe appariva, agli occhi di Dulles, lo sbocco naturale. Ma la mancata adesione egiziana al Patto di Baghdad6, il cuore del nuovo corso americano nell’area, e la propaganda che Nasser scatenò contro di esso, simbolo di un rinnovato colonialismo occidentale, compromisero, rivelandone i limiti, il disegno di Dulles. La vera natura della scelta neutralistica del rais, frutto di quel nazionalismo anticolonialista che stava investendo tutto il mondo arabo, sfuggì completamente al segretario di Stato che la considerò invece, nell’ottica della guerra fredda, nella sua avversione per i “neutrali”, l’anticamera dell’abbraccio con Mosca. Il “no” di Nasser all’alleanza regionale, che Londra aveva promosso e sottoscritto per aggiornare, sotto nuove forme, il proprio primato nell’area, incrinarono, irrimediabilmente, anche i rapporti con la Gran Bretagna. Di fronte alle tensioni accese dalla propaganda nasseriana nei regimi haschemiti di Giordania e Iraq, suoi fedeli alleati, e al progressivo qualificarsi dell’Egitto come il polo di attrazione dell’intero arabismo progressista, rinnovatore e anticolonialista, Londra cominciò a maturare l’idea che, con Nasser al Cairo, le proprie residue posizioni in Medio Oriente avrebbero subito un’inevitabile erosione. Anche la Francia, nel frattempo, alle prese con il ripiegamento della propria grandezza coloniale, iniziava ad intravedere la longa manus del rais egiziano dietro le tensioni nazionalistiche in Marocco e Tunisia e, soprattutto, alle spalle della rivolta algerina. Per le due capitali europee il motore unico della deriva antioccidentale del mondo arabo era, indiscutibilmente, Il Cairo. Dall’inizio del ’55, intanto, emarginato Sharett all’interno dell’esecutivo di Tel Aviv, ritornati in auge Ben Gurion e gli “attivisti” del ministero della Difesa, la linea dura riprese a dominare la politica israeliana. Gli orientamenti filoarabi di Washington, l’evacuazione delle truppe britanniche dal Canale e, soprattutto, la nuova veste indossata dall’Egitto sulla scena regionale, portavoce della riscossa araba, imponevano, secondo Ben Gurion, la chiusura della stagione moderata e un ritorno alla “difesa aggressiva”. La nuova strategia israeliana, che ebbe a Gaza7 l’episodio più sanguinoso e più gravido di conseguenze, permise, paradossalmente, a Nasser di completare la sua rivoluzione nell’unico punto lasciato scoperto, quello militare. E consentì all’Unione Sovietica di irrompere, a sorpresa, sulla scena mediorientale. Le richieste egiziane di equilibrare il dispositivo militare israeliano, unica garanzia di stabilità nella regione, non trovarono infatti ascolto nelle capitali occidentali: Londra e Parigi non intendevano armare il loro “problema” mediorientale; Dulles, nonostante le pressioni dell’ambasciatore al Cairo Henry Byroade, legò l’aiuto militare all’adesione al Patto di Bagdad. Ma era un’intransigenza che, con il Nasser del dopoBandung8, forte di una nuova legittimità internazionale e di una presa ormai totale sull’Egitto e sul modo arabo, non poteva pagare e che contribuì a spingerlo tra le braccia di Mosca. Nel luglio del ’55, con la vendita di armi cecoslovacche al Cairo9, l’Unione Sovietica faceva il suo ingresso ufficiale in Medio Oriente. La nuova leadership chrusceviana aveva gradualmente smontato i presupposti staliniani che avevano fino ad allora rallentato l’azione sovietica nella regione: la “centralità” dell’Europa; l’interpretazione ortodossa del nazionalismo anticoloniale, considerato asservito agli interessi imperialistici; la presenza di partiti comunisti di reale spessore come strumento essenziale di penetrazione e influenza; il Medio Oriente “riserva di caccia anglo-americana”. A partire dalla seconda metà del’54, i tentativi americani di creare una “cintura di sicurezza” ai confini meridionali dell’ U.R.S.S. e la scoperta della natura profondamente “antioccidentale” del nazionalismo arabo alimentarono la decisa svolta sovietica10. Con l’accordo ceco-egiziano, Mosca compiva il primo passo di quella politica verso i paesi emergenti tesa non più ad esportare il modello socialista ma a sottrarli all’orbita occidentale soffiando sul fuoco del nazionalismo. Per Nasser, invece, si trattava non già di una scelta ideologica, ma della prima mossa del suo gioco sui due tavoli del confronto tra i blocchi. Le armi cecoslovacche, secondo l’analisi americana, aprivano un nuovo fronte, inaspettato, della guerra fredda. Quell’accordo dimostrava che “i rossi credevano che il Medio Oriente offrisse un’insolita occasione per penetrare nel mondo libero…Non potevamo permettere che tale azione passasse inosservata”11. Di fronte alla sfida di Chruščëv, capace di trasferire il confronto in teatri periferici, esterni agli scenari tradizionali bloccati dai primi accenni di distensione, e ai rischi politicoeconomici di un Medio Oriente schiuso alla penetrazione sovietica, l’esigenza di recuperare Nasser divenne, per Washington, prioritaria. Fu lo stesso Dulles, il cui rigore ideologico aveva spinto Nasser tra le braccia di Mosca, ad intravedere in un programma incondizionato di aiuti tecnici ed economici lo strumento per riavvicinare il rais e ad individuare nel progetto della diga di Assuan12 la chiave per riaprire Il Cairo all’influenza occidentale. Il finanziamento anglo-americano della “piramide del nuovo Egitto”, secondo Dulles, avrebbe sganciato il paese dall’orbita sovietica e legato lo sviluppo dell’economia agli investimenti occidentali. La scelta, per Londra, non si presentava facile. I difficili rapporti, politici e personali, del nuovo premier inglese, Anthony Eden, con il segretario di Stato americano, la sua radicata diffidenza nei confronti di Nasser, maturata nel corso dei negoziati del’54 sul Sudan e sulla base di Suez, la sua sopravvalutazione del valore del Patto di Bagdad, non rendevano scontata la partecipazione inglese al piano di finanziamento. Solo il rispetto della special relationship e il fallito tentativo di far entrare la Giordania nell’alleanza regionale, strapparono il sofferto “si” della Gran Bretagna. L’altra faccia della rincorsa occidentale a Nasser non poteva che riguardare Israele: il recupero delle posizioni in Egitto imponeva un drastico ridimensionamento dei rapporti con lo Stato ebraico. Il mancato invio di armi da Washington dopo l’accordo ceco-egiziano e la proposta di pace lanciata da Eden alla fine del’5513 delineavano una situazione di crescente isolamento per Tel Aviv, proprio mentre le armi di Praga e il sostegno di Mosca potevano spingere il rais a tentare un colpo di forza. Nonostante le pressioni per una guerra preventiva, Ben Gurion, di nuovo alla guida dell’esecutivo dal dicembre del ’55, riuscì a ristabilire in fretta la superiorità militare del paese, trovando a Parigi il nuovo interlocutore privilegiato per Israele. Con l’allineamento franco-israeliano, sostanziato da un programma di cooperazione militare, il quadro mediorientale mutava sensibilmente: la Francia si ripresentava da protagonista nell’area in cui, secondo il Quay d’Orsay, stava la chiave del problema algerino; Israele si sottraeva alle pericolose oscillazioni della politica anglo-americana e ristabiliva la sua egemonia militare nella regione. Ma le speranze che la duplice risposta occidentale all’intrusione sovietica in Medio Oriente, la diga di Assuan e il riarmo israeliano, potessero disinnescare la mina Nasser e le sue manovre destabilizzatrici, durarono lo spazio di pochi mesi. Già nel marzo, dopo il brusco congedo di Glubb Pascià dalla Giordania infiammata dalla propaganda nasseriana, il contributo inglese alla costruzione della diga tornava in discussione. Per Londra, il forzato esilio del generale della Legione Araba, cardine della presenza inglese nel paese, portava la firma indiscutibile di Nasser e rappresentava l’ennesimo colpo sferrato contro gli interessi britannici in Medio Oriente. Agli occhi di Eden, come emerge chiaramente dalle sue memorie14, il rais egiziano si stava ormai trasformando da problema politico ad ossessione personale, da leader inaffidabile ed ambizioso, ma ancora controllabile, a responsabile unico e diretto di tutte le turbolenze dell’area mediorientale. L’idea di un Nasser ormai irrecuperabile alle ragioni dell’Occidente si andava imponendo con decisione all’interno della diplomazia britannica. Nella primavera del ’56, intanto, proprio mentre l’impasse della crisi algerina costringeva il governo francese di Guy Mollet ad indicare pubblicamente nell’Egitto l’anima nera della rivolta, anche Israele tornava a guardare con preoccupazione alle trame del Cairo. La ripresa delle incursioni di fedayn dalla striscia di Gaza, i successi della propaganda nasseriana, il fallimento della missione Anderson, inviato personale di Eisenhower nella regione, il ruolo incerto e squilibrato, secondo Tel Aviv, dell’ONU di Dag Hammarskjold, avevano riabilitato, nella dirigenza israeliana, l’idea di una guerra preventiva contro lo scomodo vicino. La salda amicizia con la Francia sul piano esterno, e, su quello interno, le dimissioni di Sharett, sostituito agli Esteri da Golda Meir, lavoravano per quella soluzione15. Con il ritorno della tensione tra Egitto ed Israele la diga di Assuan perdeva il suo primo mattone, cioè il sostegno degli ambienti filoebraici del Congresso americano. Quando Nasser, nel maggio del ’56, annunciò il riconoscimento ufficiale del regime di Pechino, quel progetto di intervento economico in Egitto crollò del tutto. La mossa di Nasser nasceva da ragioni di equilibrio militare in Medio Oriente16 e testimoniava l’estrema spregiudicatezza con cui il leader egiziano calcava le scene internazionali. Per Dulles, invece, il riconoscimento della Cina comunista rappresentava una scelta di campo netta ed inequivocabile e privava il piano di finanziamento della diga di quella radice politicodiplomatica che lo aveva tenuto in vita di fronte agli attacchi della lobby ebraica, ai pesanti dubbi del segretario al Tesoro Humprey e all’imminente scadenza elettorale. Il 19 luglio Foster Dulles comunicava all’ambasciatore Hussein il ritiro dell’offerta americana. Né la sorprendente docilità egiziana di fronte alle nuove condizioni poste per il prestito americano17, né le perplessità alleate per le possibili reazioni di Nasser (“anche sul Canale”, lo aveva ammonito l’ambasciatore francese Couve de Mourville), erano riuscite a smussare l’irrigidimento di Dulles. Per gli Stati Uniti era tempo, secondo il segretario di Stato, di sottrarsi al “doppio gioco” del leader egiziano. Con la nazionalizzazione della Compagnia Marittima Universale del Canale di Suez, annunciata da Nasser il 26 luglio 1956 in risposta al mancato finanziamento occidentale, si apriva una crisi internazionale maturata sulla scena mediorientale ma destinata a varcare, per impatto e conseguenze, il contesto regionale. Il ruolo che vi avrebbero giocato le singole potenze era in parte già scritto. Per la Francia e la Gran Bretagna la “vergogna” del Canale egiziano rappresentava l’occasione ideale per liberarsi di Nasser. Ancorati ad una visione datata del Medio Oriente e del Maghreb, Eden e Mollet ritenevano che una “lezione” inflitta al rais avrebbe ridato fiato ai settori più conservatori del mondo Cfr. M.Flores, 1956, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 9. 2 Truman era un paladino della causa ebraica, fortemente contrario alle scelte mediorientali di Londra perché legate a vecchi modelli colonialistici. Il Dipartimento di Stato, con Henderson e Kennan in testa, propugnava invece un’alleanza a tutto campo con il mondo arabo e una stretta intesa con la Gran Bretagna. Su questo problema vedi A. Donno, Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (19381 arabo e riconsegnato quelle regioni all’indiscussa egemonia europea. Dal Canale passavano il ritorno della Giordania sotto la tutela britannica, la soluzione della crisi algerina e, soprattutto, la fine del ripiegamento imperiale delle due potenze. L’apprensione per le sorti dell’economia europea, la denuncia del diritto internazionale violato, i richiami alla lezione di Monaco e ai rischi di un nuovo appeasement, coprivano l’estremo tentativo delle due vecchie regine del colonialismo europeo di rialzare la testa. Gli Stati Uniti, però, non avevano alcuna intenzione di aiutarle nel loro sforzo. Un intervento occidentale per riaprire il Canale, con la partecipazione o anche solo con la benedizione americana, avrebbe infatti infiammato il nazionalismo arabo, compromesso definitivamente il disegno di un’alleanza mediorientale in funzione antisovietica e regalato a Mosca un enorme vantaggio propagandistico. La nuova fase del confronto bipolare, con lo spostamento dei punti di frizione in aree periferiche, imponeva a Washington di dissociarsi da un’impresa dal sapore neocoloniale, anche a costo di incrinare la solidarietà atlantica. Secondo Dulles, Suez rappresentava l’ultimo respiro del colonialismo europeo, che andava aiutato a morire senza provocare scossoni nelle alleanze e impedendo ai sovietici di guadagnarci troppo. L’opposizione americana alla guerra mancò, però, totalmente di chiarezza e decisione. Timorosi di una rottura plateale con gli alleati europei, concentrati sulle imminenti elezioni, Eisenhower e il suo segretario di Stato speravano che un negoziato interminabile fiaccasse la determinazione di Londra e Parigi e contemporaneamente consentisse loro di scovare una via d’uscita onorevole. Ma il tortuoso percorso diplomatico costruito in tre mesi di incontri e trattative, dalla Conferenza di Londra alla missione Menzies al Cairo, dall’Associazione degli Utenti ai “Sei Principi” approvati alle Nazioni Unite, nascondeva una strategia più dilatoria che di mediazione, che finì per irritare i due alleati europei e lo privò di ogni alternativa all’intervento militare in Egitto. Un’operazione che le contrastanti esigenze delle due potenze, quelle inglesi di rincorrere l’appoggio di Washington e il consenso degli alleati arabi, quelle francesi di regolare rapidamente i conti con Nasser e di coinvolgere Israele, trasformarono però in un completo fallimento, militare e politico. 1956), Roma, Bonacci, 1992, pp. 140-162; Id. (a cura di), Gli Stati Uniti e il Medio Oriente, Manduria, Lacaita Editore, pp. 9-52; M. J. Cohen, Truman and Israel, Berkeley, University of California Press,1990, pp.223-281; B.R. Kuniholn, U.S. Policy in the Near East: The Triumphs and Tribulations of the Truman Administration, in M.J. Lacey (ed.), The Truman Presidency, Cambridge, Cambridge University Press,1991, pp. 299-317. Con l’accordo, firmato il 19 ottobre 1954, Londra accettava di ritirare le proprie truppe dal Canale di Suez, la cui presenza era regolata dal trattato del 1936; l’Egitto si impegnava a garantire la libertà di navigazione nel Canale e a consentire una riattivazione della base militare britannica in caso di attacco armato “da parte di una potenza straniera alla zona del Medio Oriente” contro i paesi della Lega Araba o la Turchia. L’intesa, quindi, tramite Ankara, legava indirettamente l’Egitto alla NATO. 4 Sulla svolta americana in Medio Oriente si vedano i saggi di A. Donno, Le relazioni tra Stati Uniti e Israele dal 1953 alla crisi di Suez e di P.L.Hahn, Gli Stati Uniti e l’Egitto (1953-1961), in A. Donno (a cura di), Ombre di guerra fredda. Gli Stati Uniti nel Medio Oriente durante gli anni di Eisenhower (1953-1961), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998, pp. 243-284 e 307-346. Vedi inoltre: Id. (a cura di) Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele, cit., pp. 163-185; Id. (a cura di), Gli Stati Uniti e il Medio Oriente, cit., pp. 53-96; I. Alteras, Eisenhower and Israel: U.S.-Israeli relations, 1953-1960, Gainsville, University Press of Florida, 1993, pp.23-156; S.Z. Freiberger, Dawn over Suez: the Rise of the American Power in the Middle East, 1953-1957, Chicago, Dee, 1992, pp. 35-54. 5 Statement of Policy by the National Security Council (“U.S. Objectives and Policies with Respect to the Near East”), NSC 5428, July 23, 1954, in Foreign Relations of the United States, 1952-1954, vol. IX, The Near and Middle East, Washington, United States Government Printing Office, 1986, part I, p.529. 6 Siglato il 24 febbraio 1955 tra l’Iraq e la Turchia, con la successiva adesione della Gran Bretagna (30 marzo), del Pakistan (23 settembre) e dell’Iran (3 novembre). 7 Il 28 febbraio del 1955, una ritorsione israeliana nella striscia di Gaza, in risposta ad una serie di infiltrazioni sponsorizzate dal Cairo, provocò più di quaranta morti tra gli egiziani. L’esercito egiziano non subiva un colpo simile dalla guerra del 1948. 8 Il primo vertice dei non allineati (Bandung, 18-24 aprile 1955), aveva visto Nasser assumere un ruolo di primo piano. 9 L’accordo, concluso in luglio, annunciato il 27 settembre, prevedeva lo scambio tra cotone egiziano e armi pesanti cecolovacche. 10 Per la penetrazione sovietica nella regione mediorientale vedi gli ottimi, anche se ormai datati: W. Z. Laquer, The Soviet Union and the Middle East, New York, Praeger, 1964, pp. 189-246; D.J. Dallin, Soviet Foreign Policy after Stalin, Philadelphia, Lippiricot, 1961, pp.386412; I. Spector, The Soviet Union and the Muslim World, Seattle, University of Washington Press, 1959, pp. 206-297. Cfr. inoltre K. Dawisha, Soviet Foreign Policy toward Egypt, New York, St. Martin Press, 1979 e G. Golan, Soviet Policies in the Middle East. From world war II to Gorbacev, Cambridge, Cambridge University Press, 1990. 3 D. D. Eisenhower, La pace incerta: gli anni della Casa Bianca:19561961, Milano, Mondadori, 1969, p.38. (Tit. orig.: Waging Peace: 19561961, Garden City, Doubleday and C., 1965). 12 Al progetto della costruzione di una diga sull’Alto Nilo, nei pressi di Assuan, Nasser aveva legato non solo lo sviluppo dell’agricoltura egiziana, ma anche la sua personale fortuna politica. 13 La proposta di Eden per la prima volta metteva in discussione lo status quo territoriale proponendo come base di discussione il piano di spartizione varato dall’ONU nel 1947. 14 A. Eden, Le Memorie di Sir Anthony Eden, Milano, Garzanti, 1960, vol.3 “1945-1957”, pp. 517 e sgg. (Tit. orig.: The Memoirs of Sir Anthony Eden: full circle, London, Cassel, 1960). 15 Per il processo decisionale che portò Israele alla guerra contro l’Egitto, vedi M. Braecher, Decisions in Israel’s Foreign Policy, London, Oxford University Press, 1974, pp. 225-277. Vedi anche A. BenZvi, A decade of Transition: Eisenhower, Kennedy and the Origins of the American-Israeli Alliance, New York, Columbia University Press, 1998, per le relazioni di Tel Aviv con gli Stati Uniti (pp. 19-57), con la Francia (pp. 55-74) e con l’Inghilterra (pp. 35-54) nel periodo 1953-1956. 16 La disponibilità sovietica per un embargo militare in Medio Oriente, annunciata durante il viaggio di Chruščëv e Bulganin a Londra nell’aprile del ’56, aveva imposto a Nasser di trovarsi un nuovo fornitore. 17 Dovuta alla mancata offerta sovietica, data per scontata da Nasser, di subentrare al prestito occidentale. Le nuove condizioni riguardavano la sospensione dell’accordo di fornitura militare con Praga e l’avvio di negoziati di pace con Israele. 11