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by Roberto Romano’
Dos s i e r
N
el nord dello stato di Jalisco e nell’est del Nayarit, in valli difficilmente raggiungibili ed in un territorio che raggiunge i 2700 m di altitudine, vivono qualche
migliaio di persone, scampate alla “civilizzazione” spagnola ed alla globalizzazione contemporanea.
La zona huichol è attraversata
dalla Sierra Madre Occidentale e costituisce una delle più
inaccessibili e impervie regioni del Messico. La sua orografia è accidentata con profondi
burroni (barrancas) e tortuosi cañon, erosi dai fiumi che
scorrono nella regione.
La popolazione huichol, stimata in circa 20.000 persone,
comprende cinque comunità
principali, in un’area di 4.107
Km : Tuxpan de Bolaños (Tutsipa); San Sebastián Teponahuaxtla (Wautia); Santa Catarina Coexcomatitlán (Tuapurie);
San Andrés Cohamiata (Tateikie) e Guadalupe Ocotán (Xatsitsarie).
Vivono di agricoltura (64%), artigianato (15,5%), allevamento (7,6%), lavorano anche
come giornalieri nelle coltivazioni di tabacco, caffè e frutta tropicale, lungo le coste pacifiche del Nayarit.
La popolazione huichol proviene dal nord del Messico, forse cacciatori e raccoglitori. Emigrati verso l’altopiano centrale, si scontrano con l’egemonia dei toltechi che li spinge più
a sud. Appartengono alla famiglia linguistica uto-azteca.
Nel 1531 avvengono i primi incontri di una certa importanza con gli spagnoli, durante la
spedizione di Nuño de Guzmán a Sinaloa che lasciò una scia di distruzione e morte. I paesi
di Colotlán, Mezquitic, Huajimic, Huejuquilla e Tenzompa furono fondati dagli spagnoli per delimitare la zona conquistata da quella inaccessibile e quindi non conquistabile.
Dopo questa invasione il popolo huichol si
rifugia sulle montagne e per due secoli non
se ne sente più parlare.
Nel 1722 alcune missioni dei Gesuiti tentano di installarsi nel territorio huichol, incontrando però una resistenza totale all’evangelizzazione.
Nel 1860 gruppi huichol si uniscono ai
combattenti di Manuel Lozada, il “Tigre de
Álica”, che si battono per la rivendicazione
delle terre comunali indigene.
Durante la Revolución mexicana del 19101917 gruppi di Huicholes combattono con
le forze di Pancho Villa, nell’intento di liberarsi dallo sfruttamento e dall’invasione dei mestizos (meticci).
La guerra dei “Cristeros”, dopo la rivoluzione, portò un altro periodo di violenza nella
regione.
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Sciamani
La trasmissione della conoscenza avviene per via
orale, gli anziani, ma specialmente lo sciamano,
detto marakame, ha un ruolo fondamentale nell’educazione. Nelle celebrazioni rituali, i lunghissimi canti, chiamati huahui, raccontano le imprese
degli antenati, rappresentati dai danzatori adulti
nella notte della festa del peyote (jicuri neirra).
La narrazione sciamanica è ricca di metafore, esoterica, diversa da quella usata nella vita ordinaria.
In particolare vari canti enumerano le mitiche peregrinazioni degli dei, dalla spiaggia del mare ad
ovest, fino alla mitica spiaggia del mondo, sulle
cime di Wirikuta, ad est, meta del pellegrinaggio
rituale dei peyoteros huichol, durante il quale
visitano gli ancestrali luoghi sacri e raccolgono il
sacro cactus nel deserto.
“Senza mangiare e senza dormire e senza cose ma-
teriali e senza sapere dove vanno, poveri e innocenti, però ricchi della loro anima e della loro vita”
(José Benitez Sanchez, riferendosi al pellegrinaggio degli Huicholes a Wirikuta)
Le malattie secondo gli huicholes si dividono in due categorie: quelle originarie della
Sierra, che necessitano della medicina tradizionale degli sciamani, e quelle portate dagli
spagnoli, che si trattano con la medicina scientifica. Le prime possono avere tre cause:
la mancanza di responsabilità verso gli dei, i malefìci, la perdita dell’anima. Nel primo
caso si devono offrire molte offerte agli dei, secondo i dettami del marakame. Nel caso di
maleficio, il marakame esegue una “limpia”, impiegando le piume di uccello del bastone
sciamanico (muvieri) per il gesto simbolico della purificazione, soffia fumo di tabacco
sul corpo dell’infermo e con la bocca pratica suzioni per estrarre l’oggetto estraneo, causa del male. In caso di perdita del kupúri, quella parte di anima che si trova nella parte
superiore della testa, la cui mancanza provoca uno stato molto grave, il marakame ha il
compito di ritrovarla e rimetterla al suo posto, se è necessario deve contenderla al “brujo”
che l’ha rubata, fronteggiandolo in una sfida magica fra bene e male.
Cosmogonia e religione
La memoria collettiva degli Huicholes riferisce di una forte consapevolezza della propria origine e storia. I miti contengono la storia “cosmica” o “verdadera”, sotto forma
delle gesta degli dei e degli antenati, categorie che tendono a sfumare, tanto che i parenti trapassati possono essere deificati, gettando un ponte fra sacro e profano. I miti
sono il modello di tutti i riti e comportamenti sociali, la dimensione sacra del mondo
è considerata di grande potere, il viverci a contatto e manipolarla è compito degli sciamani, attraverso il sogno essi penetrano nel mondo degli dei, stabilendo un contatto fra
il mondo e l’aldilà.
Una delle caratteristiche principali della loro religione consiste nell’associazione di
mais, cervo e peyote, testimoniata dalle tante feste e dai rituali ad essi dedicati. Il mais
ed il cervo rappresentano l’ancestrale sostentamento vitale, mentre il peyote è il mezzo
più importante per trascendere il mondo profano e la manifestazione più ovvia del sacro.
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Gli orgogliosi Huicholes non si sono piegati al “progresso” ed hanno mantenute
intatte le visioni millenarie delle grandi
civiltà solari mesoamericane, dove arte,
sciamanismo e ricerca della visione si fondono, producendo opere di straordinaria
bellezza, ancora poco conosciute in Europa, ma apprezzate da collezionisti e musei americani, quali il Fine Arts Museum
di San Francisco, o mostre quali l’Art of
the Huichol Indians, che ha girato da San
Francisco a Chicago a New York.
Le trame dei tessuti, , le esoteriche nierikas o quadri di filo (yarn paintings), le
composizioni di perline di vetro colorato
(rara concessione agli usi spagnoli e chiamate chakira) e molti altri oggetti di uso
comune, sono riccamente decorati da motivi grafici ancestrali, di gusto finemente
elaborato, tramandati di generazione in
generazione, ma non indenni da una costante evoluzione. Fotografie delle opere
della collezione Lumholz, manufatti huichol della fine dell’800, attualmente mostrate agli huicholes da parte di una ricercatrice, hanno provocato grande interesse.
Gli antichi disegni e stili degli avi, nonni e
bisnonni della comunità, in parte perduti
o trasformati negli anni, vennero come riportati alla luce, con grande piacere degli
interessati.
Nei tempi antichi le opere erano esclusivamente cerimoniali e votive, ora, dopo la
loro scoperta negli anni 60, sono anche
vendute, utilizzate per il sostentamento, evidentemente però niente di più del necessario,
considerando lo stato di perenne precarietà
in cui versano gli huicholes e che li difende
dall’accusa di venialità.
Nelle nierikas, il sole, il cervo, il mais, il fiore-peyote, il serpente, sono ricorrenti, in un gioco compositivo di carattere fortemente sacro-esoterico, è la descrizione visuale del viaggio o
della trance sciamanica, la visione veritiera, lo
specchio magico entro cui ritrovarsi per andare
oltre.
Le tecniche di lavorazione sono arcaiche e necessitano di abilità e pazienza infinite.
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Il peyote
Terzo elemento della triade, riveste un’importanza fondamentale nelle concezioni
religiose huicholes.
Il peyote cresce spontaneo nella valle del
Rio Grande, ai confini tra Usa e Mexico.
Fin dai tempi dell’arrivo dei primi colonizzatori europei il peyote fu perseguitato in
quanto considerato come oggetto “satanico” che non poteva avere alcun posto nel
culto cristiano . Nonostante svariate controversie il suo uso non venne mai abolito
poichè il culto era radicato in secoli di
tradizione.
Si ritiene che il peyote fosse conosciuto ben due millenni prima dell’arrivo degli europei,
all’epoca dei toltechi.
La prima osservazione e trascrizione di un rituale di peyote fu realizzata da un missionario spagnolo, che denominava il peyote “raiz diabolica” e descriveva la cerimonia nella
quale si mangiava il peyote per poter ballare tutta la notte senza avvertire stanchezza.
Il peyote è una pianta ricca di alcaloidi, tra cui la mescalina, che si assume masticandolo così da solo o insieme a qualche liquido, con dosi differenti, opppure ingerito sotto
forma di decotto. Le sostanze contenute nel fungo producono particolari modificazioni
funzionali del cervello, provocando tra l’altro allucinazioni sensoriali e una maggiore
amplificazione della vita interiore, dando luogo a visioni intense e colorate, diverse
da individuo ad individuo. Alcuni effetti
farmacologici dell’assunzione del peyote sono simili a quelli della noradrenalina, come la capacità di avere resistenza
prolungata agli sforzi fisici; diffuse sono
le sensazioni di profonda empatia con il
mondo circostante, in un particolare stato
alterato di coscienza. Si parla di una vera
e propria “religione del peyote” diffusasi tra vari gruppi di indiani d’America ai
tempi dell’invasione straniera, fortemente
associata al loro desiderio di indipendenza.
In realtà sembrerebbe che il peyote non
produca gli stessi effetti delle droghe comuni, come l’assuefazione o la tossicità,
e neanche un ottundimento della sensibilità. Vi era comunque un particolare
interesse politico-religioso da parte della
cultura egemonica che tendeva a combattere il peyotismo. La religione del peyote
subì mutamenti dovuti alle trasformazioni politiche, sociali ed economiche che diffusero tra i gruppi indiani una profonda
volontà di rinnovamento sociale, incom-
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patibile con certe precedenti forme di religiosità
tradizionale.
Vi sono due forme particolari di peyotismo: una
più antica, nella quale prevaleva l’individualismo
e la funzione terapeutica del peyote e l’altra moderna, nella quale il mito su cui si basava la religione, tendeva a ricollegarsi all’insegnamento
evangelico, e raccontava che quando tutte le genti
avessero mangiato il peyote, sarebbe stata in tal
modo realizzata la volontà di Dio e ci sarebbe stato
il trionfo del bene.
Il peyote costituiva, secondo tale ottica , un vero e
proprio sentiero di conoscenza spirituale, consistente in precetti, rituali, un vero e proprio modo
di vita che comprendeva elementi distinti da quelli
acquisiti dal cristianesimo. Per tale motivo il peyotismo entrò in contrasto con le autorità cristiane,
assumendo i contorni di una religione profetica.
Il Cristo veniva identificato con il peyote stesso, ed il concetto cristiano di regno dei cieli si fondeva con elementi pagani quali il Sole,
la Luna, il Fuoco. Inoltre si avevano altri elementi come la Croce cristiana, la tomba di
Cristo, in relazione con elementi pagani, e le preghiere stesse rivolte allo Spirito-Peyote
erano in associazione a quelle rivolte al Cristo e ai santi cristiani.
Secondo alcuni vi era un’identità sostanziale tra il Cristianesimo e il culto del peyote, il
quale era equivalente all’ostia e al vino del rito cristiano. Il numero quattro delle virtù
canoniche , inoltre, era da relazionarsi ai quattro elementi e alle quattro direzioni nella
tradizione degli indiani d’America. Gli indiani non avevano bisogno della Bibbia in quanto avevano come tramite il peyote stesso per conquistare la verità religiosa.
Il peyote veniva ritenuto una medicina capace di guarire vari mali tra i quali l’alcolismo,
e questo grazie al contatto col divino, il sovrannaturale e il sacro, determinato tramite il
peyote stesso.
Nelle visioni provocate dall’assunzione di peyote avveniva un miscuglio di elementi cristiani ed elementi pagani. Il peyotismo
acquistò le caratteristiche di una vera e
propria religione rivelazionista, nei confronti della quale la vita ordinaria era vizio
ed errore; la rivelazione aveva contenuti
non soltanto individuali ma culturali e sociali, nell’ottica di una redenzione culturale collettiva
In tale religione si creava in definitiva un
profondo rapporto tra estasi individuale
e rivelazione religiosa nelle sue implicazioni sociali e culturali. Il peyote diventava
così simbolo della vita e della via verso la
beatitudine, e rappresentava una religione
che veniva a sostituiirsi a quella tradizionale precedente e che meglio si armonizzava al
contesto di vita di quei tempi
Al peyote venivano in particoalre attribuite proprietà guaritrici notevoli, secondo il principio che esso andava a guarire i mali dell’anima, ritenuti causa principale dei mali fisici.
Si credeva che i maggiori mali dell’anima fossero originati dal malessere sociale delle
comunità indiane.
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Il rito sacro del peyote
Per l’etnia indigena degli Huicholes quello del peyote (jikkuri, hikuli o kikuri, nella loro
lingua) rappresenta un vero culto religioso ormai da duemila anni. Separati dal resto del
mondo - vivono perlopiù in villaggi isolati e difficilmente raggiungibili -, gli Huicholes (o
Saturite, ‘Fiori di carta’, nel linguaggio degli dèi) sono tra i pochi indios che riuscirono
a sopravvivere a Cortéz, trovando rifugio nei profondi canyon della regione, a tremila
metri di altitudine. Oltre che da questa etnia, però, il cactus “sacro” è venerato anche
da circa 300.000 persone di una cinquantina di altre tribù messicane e statunitensi. Per
tutti questi indios il peyote dà equilibrio, cura le punture di scorpione e del serpente
a sonagli, combatte la fame e l’impotenza - ma, al tempo stesso, affievolisce il desiderio sessuale -, toglie la stanchezza e il freddo, stimola le nascite e combatte le gravidanze
indesiderate.
Tutti questi magici poteri attribuiti al
cactus sono confermati in occasione degli
annuali pellegrinaggi (solitamente alla
fine di settembre, ma anche in febbraio e
marzo) verso il Wirikuta, la terra degli
antenati, dislocata appunto nella zona
di Catorce, circa 400 km a nord est della
Sierra Huichola: qui, secondo la leggenda,
nacque per la prima volta il sole e oggi vivono gli dèi. Sempre in questo luogo nacquero le dee dell’Acqua e Turikita, la dea
dei bambini, così come la luna, le stelle, il
mais, le erbe medicinali e tutti gli animali
sacri (il cervo, il gufo, il tacchino, l’aquila e il coniglio).
Il rito, che nella pratica corrisponde a grandi raduni negli stati del Chihuahua e di San
Luís Potosí (ma con gente che viene anche dal Jalisco, dallo Zacatecas e dal Durango), è
necessario - secondo i Maraacame, gli sciamani - per mettersi sulle tracce e cacciare il
cervo sacro (Tatei Jikkuri, il Cerbiatto del Sole), corrispondente al peyote stesso. Nessun
indio, simbolicamente armato di arco e frecce piumate, caccia per davvero un cervo (peraltro sempre più rari), ma insegue simbolicamente le orme che l’animale mitologico ha
lasciato sul terreno: il kikuri (sia il cactus sia il cervo sono indicati con lo stesso termine),
cresciuto nello stesso luogo in cui il cervo ha calpestato il terreno.
Nello stato di San Luís Potosí, in particolare, in quell’occasione si radunano gli huicholes
dello stato di Nayarit, e questa è una delle poche circostanze in cui questa regione vede
l’afflusso dei rari turisti, qui per assistere ai riti degli indios.
Gli huicholes sono preparati al pellegrinaggio (Jikkuritame) fin da piccoli, grazie ai
racconti degli sciamani; solo da adulti, però, potranno inoltrarsi nel territorio di caccia
del Wirikuta. Questo, solitamente, si trova a centinaia di chilometri dai villaggi stessi,
e alcuni impiegano più di venti giorni di
cammino (altri usano i mezzi pubblici) per
raggiungerlo. Prima del pellegrinaggio,
però, i cacciatori devono seguire un rituale indispensabile: dopo aver confessato pubblicamente i propri rapporti sessuali, lo sciamano annoda una corda tante
volte quante sono i rapporti che il cacciatore ha avuto. La corda, quindi, viene data
alle fiamme, purificando così il cacciatore
di ogni peccato - analogie al cattolicesimo
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- e preparandolo a percorrere il cammino sacro.
Così purificati, i cacciatori iniziano il pellegrinaggio, dopo essere ritornati a uno stato di ‘innocenza’ prenatale. Arrivati sul luogo cercano e ‘uccidono’ il cervo - in pratica
estraggono i cactus dal terreno -, attraverso una pista segnata dai Kakayaris, gli dèi trasformatisi in piante, rocce, corsi d’acqua e montagne. All’imbrunire, quindi, si riuniscono
in circolo: lì pregano, piangono (poiché sentono la presenza degli dèi), fanno offerte al
Wirikuta (tabacco, ghirlande di fiori, monete, acqua e mais) e, infine, consumano la “carne” del cervo.
Dopo breve, gli effetti allucinogeni cominciano a farsi sentire, e ogni huichol intraprende
il proprio cammino rituale nel deserto, da solo ma in comunicazione con gli dèi: Tatehuari (o Tatewari, Grande Maestro), il fuoco, padre di tutti i padri e patrono degli sciamani;
Jaicu, il mare, nostra madre; Thauviecame, il sole, nostro padre.
Sempre a difesa del proprio territorio e del proprio diritto di esistere, ancora subiscono
minacce dal mondo che li circonda.
Ormai il loro isolamento è finito, aerei solcano la sierra huichol, internet è il mezzo con
cui alcuni di loro stanno spezzando il muro di riservatezza che li ha contraddistinti nei
secoli.
L’identità culturale degli Huicholes ed il loro patrimonio è quindi in pericolo. Oltre che
per la fine dell’isolamento, anche per la perdita della trasmissione orale tradizionale, per
l’adozione di usi e abiti estranei ed anche per la presenza di gruppi religiosi che scoraggiano le cerimonie tradizionali. E poi l’uso non quotidiano della lingua madre, la scuola, il
progresso... per tutto questo, ed in special modo anche per il fenomeno dell’inurbamento
in squallide periferie, anticamere di sradicamento ed alcolismo, si teme fortemente per
la sorte di questo schivo ma orgoglioso popolo di artisti, gli ultimi eredi del culto solare
amerindio. 
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