Università di Bologna – Dipartimento di Filosofia e comunicazione

Università di Bologna – Dipartimento di Filosofia e comunicazione a.a. 2015/16
Corso del 1° semestre, 2° periodo
Paolo Leonardi Filosofia del linguaggio LM 12 cfu, primo modulo 6 cfu
Il tema del corso: il significato.
Prima di tratteggiare il corso alcune note tecniche sull’esame finale e sul corso,
che quest’anno è diviso in due moduli, il primo fatto da me, il secondo fatto da
Sebastiano Moruzzi. Il titolo del primo modulo è “Il significato”. Il titolo del
secondo modulo è “”.
La prova d’esame. Una tesina scritta rispettando alcune indicazioni che si
trovano qui:
http://web.dfc.unibo.it/paolo.leonardi/es-scritti.html
leggere ad alta voce
Come è strutturato il corso. Per lo più saranno lezioni, ma nelle due ultime
settimane faremo quattro seminari, ciascuno durerà 4 ore, in cui alcuni di voi
faranno delle presentazioni strutturate – dopodomani indicherò quattro temi e
qualche testo e leggerò prima dei seminari gli schemi delle presentazioni,
incontrando poi chi farà le presentazioni prima della presentazione stessa. Chi
farà le presentazioni avrà un voto, e se lo accetta, avrà fatto l’esame.
Lascio la parola a Sebastiano perché illustri il suo modulo.
Perché studiare filosofia? La parola a voi.
I filosofi si occupano di fondamenti e di articolazioni di idee. I più bravi offrono
anche un senso del tutto, un orizzonte. Le caratteristiche del lavoro del filosofo
sono almeno tre: il filosofo lavora senza strumenti propri, se non il linguaggio e
l’argomentazione. Il controllo di una tesi filosofica è fatto da un’argomentazione
alternativa o da una controargomentazione. Quindi, quando avete sviluppato
un’argomentazione per sapere se avete ragione dovete provare a sviluppare una
argomentazione alternativa o una controargomentazione. Questo lo racconterei
così: il filosofo trasforma le proprie soluzioni in un problema.
Nello stesso tempo, il filosofo può servirsi della competenza di chiunque ritenga
potergli essere utile. Questo è il labile confine che c’è fra scienza e filosofia.
La saggezza che i filosofi si sono attribuiti col nome che hanno scelto per la loro
attività è tutta in questi due aspetti: riconoscere le competenze altrui e non andare
2
in ansia perché una soluzione si trasforma in un problema, perché non c’è un
termine alla ricerca.
Alcuni risultati filosofici, che come tutti gli altri si consumano col tempo, sono la
produzione di ragioni, cioè lo sviluppo di argomentazioni che forniscono motivi
per qualcosa. Gli uomini sono animali razionali perché sanno produrre ragioni –
la razionalità non è innata né qualcosa di definito una volta per tutte. Inoltre, il
filosofo indaga alcune idee centrali nella nostra vita, come il bene, il giusto, il
bello.
Perché studiare filosofia del linguaggio?
La parola a voi.
Ricordate tutti la definizione aristotelica che la tradizione tramanda così: l’uomo
è un animale razionale. Ciò cui un filosofo del linguaggio vorrebbe dare un senso
complessivo è a quanto questa definizione tocca.
a.
b.
c.
1
La prima cosa notevole della definizione è classificarci assieme agli animali.
Gli uomini hanno sempre enfatizzato la razionalità, e scherzato sull’animalità.
La definizione invece enfatizza entrambi gli aspetti, e non scherza su nessuno
dei due. Certamente ci sono salti evolutivi, ma ciò che siamo è il frutto di
un’evoluzione interna al mondo animale. Molte delle cose che sappiamo fare
le sanno fare anche gli animali, e ci sono cose che loro sanno fare meglio di
noi. Soprattutto, però, dobbiamo capire come dalle capacità dei primati
superiori si è arrivati alle nostre capacità. I primati superiori hanno molte
abilità in comune con noi e capacità senso-motorie assai vicine alle nostre.
Capire cosa ci differenzia, cos’è la razionalità, mostra questa come
un’evoluzione dal complesso di quelle.
La seconda cosa importante e difficile è capire la nostra differenza specifica –
siamo animali razionali. Qui una complicazione che incontreremo diverse
volte è la traduzione. Aristotele scrive zõon lógon èchon. Letteralmente,
animale lógon avente. Un po’ meglio, animale che ha il lógon. Lógos, in greco,
vale molte cose diverse. Eccone alcune: parola, discorso, ragione,
ragionamento, conto, opinione, relazione. Una proposta di traduzione che
rende meglio ciò che Aristotele dice è: animale capace di pensiero discorsivo.
Molto interessante però è che lógos valga anche conto, opinione, perché si
potrebbe aggiungere capace di contare. E grazie a queste due capacità,
capace di formarsi un’opinione.1
Avrete notato che ho detto animale capace di pensiero discorsivo. Cioè, non
ho affatto escluso che ci sia pensiero non discorsivo. Gli animali sono capaci
di pensare. Da molti anni ho dei gatti. I miei gatti sanno fare diverse cose. I
gatti sanno farsi aprire una porta o una finestra – alcuni gatti sanno aprirsi
alcune porte – distinguono ciò che possono mangiare da tutto il resto, sanno
chiederti di prenderli in braccio. Chissà quante altre cose sanno immaginare,
volere, fare. Pensano, insomma, ma non pensano servendosi di una lingua.
Cfr. Lo Piparo 2003.
3
d.
e.
Aristotele, nella Politica, definisce l’uomo come animale politico, zõon
politikón. Questa definizione è diversa dalla prima.
Eppure le due definizioni sono legate. Se ci si chiede qual è la funzione
specifica del linguaggio, nella tradizione si incontra chi gli dà una funzione
legata al pensiero – solo gli esseri capaci di linguaggio sono esseri capaci di
pensare? come abbiamo appena visto, la mia risposta è: no – o se la funzione
del linguaggio sia quella di comunicare. (Chomsky distingue il linguaggio
interno e quello esterno, legandoli rispettivamente a queste due funzioni
classiche del linguaggio. Ora, apoditticamente, il linguaggio serve a entrambe
le cose ed è uno strumento cognitivo importantissimo perché ci consente di
mettere insieme i nostri pensieri. Siamo qui che parliamo di Aristotele,
Aristotele ha tenuto lezioni, perché ha scritto – i suoi scritti sono perduti –
perché abbiamo appunti delle sue lezioni. Possiamo cominciare a discutere
dai suoi risultati, e il nostro pensare può cominciare da lì, non da zero. Se gli
animali riescono a mettere in comune qualche pensiero locale, non possono
sapere cosa hanno pensato i loro antenati.
Mostrare Kanzi.
Studiare filosofia del linguaggio, significa studiare questa differenza,
studiarne tutti gli aspetti come funziona, che effetti ha, ecc.
Ludwig Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche apparse postume nel 1953,
scrive:
Talvolta si dice: gli animali non parlano perché mancano loro le facoltà spirituali.
E questo vuol dire: «non pensano, e pertanto non parlano». Ma appunto: non
parlano. O meglio: non impiegano il linguaggio – se si eccettuano le forme
linguistiche più primitive. Il comandare, l’interrogare, il raccontare, il
chiacchierare, fanno parte della nostra storia naturale come il camminare, il
mangiare, il bere, il giocare. (I, 25)
Fermiamoci a non parlano. Quando sosteniamo che gli animali non pensano,
lo facciamo perché non parlano, perché non hanno quella forma particolare di
pensiero che è il pensiero discorsivo. Se un gatto parlasse, non sapremmo che
dire.
Di passaggio, vorrei aggiungere qualcosa su ciò che segue non parlano.
Aristotele nega che gli animali parlino. I suoni che emettono – per il gatto,
miao se italiano, miew se inglese, ecc – non sono, per lui, espressioni
linguistiche, perché una lingua richiede articolazione. Wittgenstein, invece,
dice che hanno solo forme linguistiche primitive. I gatti hanno toni diversi nei
loro miao. Altre specie hanno richiami diversi e non solo toni diversi per lo
stesso richiamo, cioè non un solo tipo di catena fonica. Gli animali hanno
anche gesti, molti più di un gesto, e potremmo trattare i gesti come una lingua
segnata primitiva (le lingue segnate sono quelle dei sordomuti). Wittgenstein
4
però questa dimensione non la considera, e in ogni modo il farlo renderebbe
solo appena un po’ meno primitiva la lingua degli animali.
Ora, il punto cruciale del sintagma aggettivale capace di pensiero discorsivo è
nel capire che capacità cognitive richiede e produce l’avere una lingua. Che
differenza fa al pensare? Riflettere su ciò richiede di capire come funziona la
lingua – e su questo molto ci possono dire linguistica e psicologia. Ci sono
però aspetti generalissimi – il senso del tutto nell’avere una lingua – che
linguistica e psicologia non affrontano, e cercheremo di farlo molto
limitatamente qui.
Cos’è il significato? Un tema filosofico antico. Segnare. Tre modi, almeno, di
guardare il segnare: immaginatevi la ripresa cinematografica di un persona che fa
dei segni, una ripresa che inquadri solo la persona che fa dei segni. Oppure la
ripresa di una persona che fa dei segni che mostri anche ciò che questa segna,
persone e cose. Infine, la ripresa dei soli segni e delle cose segnate. Per
semplificare le cose, immaginate che i segni siano scritte. Chi di voi ha fatto
linguistica ed è stato introdotto alla grammatica generativa di Noam Chomsky
avrà visto qualcosa di simile al primo filmato. Ai filosofi interessano soprattutto
gli altri due. Cosa farò io sarà qualcosa di leggermente diverso.
Vorrei ricordarvi qui i quattro temi per quattro seminari che vi ho proposto di
peparare in gruppi al massimo di tre persone, seminari che se ben fatti
sostituiscono l’esame.
I quattro temi sono:
1.
2.
3.
4.
Il predicato di esistenza
Linguaggio e attenzione
Linguaggio e percezione
Verità.
I seminari si terranno nella settimana del 30 novembre, due, e nella settimana
del 7 dicembre gli altri due.
Inoltre, prima di andare avanti, vorrei tornare su due o tre punti di ieri.
Quello che ho sostenuto è che il predicato di esistenza non è vuoto: ci sono
cose di cui parliamo che non esistono, come Amleto, Renzo e Lucia, Sherlock
Holmes. E che il predicato di esistenza si applica a particolari e non a predicati,
che non è cioè un predicato di second’ordine.
Con i nomi, ho affermato senza produrre alcun argomento, individuiamo
particolari, che con i predicati caratterizziamo. Se una cosa ha una proprietà è
perché esiste, e il fatto che cogliamo una cosa attraverso le sue proprietà non
deve confonderci e farci pensare che esiste perché ha quelle proprietà.
La posizione di Quine, che ho illustrata, è quella che ho criticata. Ho poi
discusso una cosa che non ha a che fare con l’esistenza, non immediatamente
5
certo, ma tocca l’interpretazione dei predicati cioè il nostro modo di
caratterizzare ciò che c’è, i predicati che sono, per Quine gli argomenti propri del
predicato di esistenza, che è appunto un predicato di predicati. La tesi di Quine
dell’indeterminatezza della traduzione è una delle tesi più famose del secondo
’900. La tesi è estrema, come dicevo, ma ha buone radici in due aspetti: lingue
diverse possono esprimere la stessa idea con un lessema o con un giro di frase
(ricordate gli esempi della neve e della pasta – quest’ultimo è di Eva Picardi); un
oggetto può essere descritto in un numero indefinito di modi diversi. L’aula B,
può essere descritta come un’aula di via Zamboni 34, a Bologna, ma anche come
l’aula in un’area precisa che può essere descritta indicando la latitudine e la
longitudine dei suoi lati, come l’aula che si affaccia su..., l’aula computer, ecc.
Il mio punto lo possiamo ridescrivere così: per qualunque cosa abbiamo bisogno
di cose. Per scrivere un racconto ci servono parole, e strumenti per scriverle. Per
sapere cos’è il rosso, ci servono campioni di rosso. Se abbiamo i campioni di
alcuni colori, e costruiamo una teoria che li distingua per lunghezza d’onda,
possiamo ipotizzare altri colori con lunghezze d’onda diverse. Possiamo
chiederci che colore vede chi vede gli infrarossi. Ma non sviluppiamo nessuna
teoria dei colori senza alcun colore. La caratterizzazione parte dal riconoscere
alcune cose esistenti, che sono quelle che caratterizziamo e quelle con cui
caratterizziamo.