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LO STAGNO NELLA VASCA
Quando nel 1984 abbiamo eseguito i lavori di preparazione dei terrazzamenti per l’attuale
mirtilleto denominato “Cina”, sono stati ritrovati due lastroni di pietra posti ad angolo retto
fra di loro. Fantasticando di tombe celtiche e antichi luoghi di culto abbiamo
immediatamente interrotto i lavori. Gli scavi sono proseguiti manualmente in modo da non
danneggiare eventuali reperti che giustificassero una segnalazione alla Soprintendenza.
Non avendo trovato nessun tipo di reperto, lo scavo è stato ultimato a mano.
I lastroni sono risultati essere il bordo di una vasca profonda circa 30 cm (il cui uso non è
chiaro). Nel pendio a monte della vasca si notano le tracce di un fosso di alimentazione il cui
fondo e le pareti sono costituiti da lastre di pietra (piode). Ipotizzando una deviazione
parziale del ruscello che scorre sotto la strada che sale da Agrano, appena più a valle del
cancello dell’Alpe Selviana, possiamo immaginare il rifornimento continuo d’acqua per la
vasca attraverso questo circuito. La fattura grezza della
vasca non consentiva una tenuta stagna ed è per questo motivo
che necessitava di un continuo approvvigionamento di acqua.
Diverse possono essere le ipotesi del suo utilizzo:
abbeveratoio per animali al pascolo, vasca per macerazione
della canapa (per questo uso appare però poco profonda),
lavatoio per il bucato primaverile (quando si lavavano le
lenzuola), vasca di trattenimento della parte solida delle
deiezioni animali risultanti dal lavaggio quotidiano di una stalla
(di cui però non c’è più traccia), oppure semplicemente una
vasca multiuso. La vasca è quindi stata ripulita e inserita nel
percorso di visita come testimonianza del passato. Qualche
anno fa ha ripreso a scorrere la fonte di acqua che già in
La vasca piena d’acqua
passato, probabilmente, alimentava la vasca.
La quantità d’acqua della fonte sembra in diretto rapporto alla quantità di acqua che scorre
nel ruscello (quello in prossimità del cancello dell’Alpe Selviana) che funge da deflusso nel
caso in cui il bacino di acqua potabile del Comune di Omegna fosse troppo pieno. Non
sappiamo se il percorso sotterraneo della fonte è naturale (e quindi puramente casuale) o
se si debbano ringraziare gli antichi abitanti del luogo per avere posato dei tubi in modo da
convogliare il flusso dell’acqua, di fatto la vasca da alcuni anni è colma di acqua ed è
alimentata con regolarità. Si è così formato un piccolo mondo che è stato colonizzato da
vari esseri viventi: alcuni che vivono nell’acqua, altri che vivono sull’acqua, altri ancora che
vivono intorno alla vasca. Sono arrivati camminando, strisciando, nuotando, volando e
trasportati da altri esseri vegetali e animali o dal vento. Si è dunque creato un ecosistema
nuovo, lo stagno, formato da esseri viventi microscopici e macroscopici, unicellulari e
vertebrati, prede e predatori.
GUIDA AL SENTIERO DIDATTICO – ALPE SELVIANA
Coop. Agric. “Il Glicine” Via Selviana 42 – 28887 Agrano (VB) Tel: 0323 81287 E-mail: [email protected]
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5b
LO STAGNO
Ad un’osservazione frettolosa e superficiale lo stagno può
sembrare una pozza d’acqua, più o meno ferma, sulla quale vediamo
svolazzare qualche moscerino e in cui, se siamo fortunati, vediamo
saltare una rana.
Certo se ci aspettiamo di vedere un ippopotamo che sbadiglia o un
alligatore che sbrana un’antilope forse abbiamo sbagliato
continente. Se invece siamo disposti a sacrificare un po’ del nostro
prezioso tempo, con il desiderio di lasciarci sorprendere, vale senza
dubbio la pena di inginocchiarsi sul bordo dello stagno e stare a
guardare in silenzio per qualche minuto.
L’ecosistema stagnoincredibile la quantità di esseri viventi che popolano un mondo acquatico
E’ semplicemente
così piccolo. In primavera, aprile – giugno, la popolazione dello stagno arriva al massimo
della sua densità.
Queste pagine accenneranno brevemente allo stagno come ecosistema e si rimanda a testi
specifici per approfondire l’argomento.
In genere i primi esseri che si notano sono i girini, i piccoli delle rane.
Sembrano dei piccoli pesci scuri con la testa grossa, nuotano con
qualche battito di coda e poi si fermano sul fondo. La rana è un anfibio,
da piccolo vive come un pesce respirando nell’acqua, crescendo si
sviluppano i polmoni.
Ai girini spuntano prima le zampe posteriori. I girini si nutrono delle
I girini
alghe formatesi sulle foglie morte e sulle pietre sommerse, a volte si
cibano anche di piccoli animali morti. Se i girini sono molto affamati possono diventare
cannibali.
Pur essendo l’alimento preferito di tante specie di predatori, i girini non rischiano
l’estinzione perché sono numerosi. Quando osservando i girini si
notano degli esemplari un po’ strani, che possiedono le quattro
zampe e la coda, con branchie evidenti sui lati della testa, ci
troviamo di fronte ai piccoli della salamandra. Quando è adulta va
a vivere nei boschi vicino ai ruscelli, allora la riconosciamo subito
perché è simile ad una lucertola, grassoccia e lucida, si muove
Un gerride cammina sull’acqua
lentamente ed è nera a macchie gialle.
Guardando i girini è quasi impossibile non essere distratti da
alcuni insetti che camminano velocemente a scatti sull’acqua: sono i gerridi.
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Questi insetti camminano sulla pellicola dell’acqua anche grazie ai peli delle zampe che
distribuiscono il peso del corpo su una superficie più ampia (come le nostre racchette da
neve). I gerridi sono predatori e cacciano soprattutto insetti che cadono in acqua. La preda
viene trattenuta con le zampe anteriori e ne viene succhiata l’emolinfa (il sangue degli
insetti).
Può capitare di vedere un insetto che cammina sul fondo, sulle pietre o sulle canne che
ricorda uno scorpione: parliamo della nepa. La nepa ha sviluppato due robuste zampe
anteriori che servono a trattenere la preda, come le tenaglie dello scorpione. Dall’addome
fuoriesce un apparato che assomiglia a un pungiglione, in realtà è una cannuccia utilizzata
per respirare l’aria quando è sott’acqua. La nepa è sprovvista di zampe adatte al nuoto e,
per catturare le prede prepara degli agguati nascondendosi tra i detriti del fondo o tra le
piante acquatiche. E’ consigliabile non prendere in mano la nepa perché potrebbe pungere.
Un altro insetto che possiamo scorgere nell’acqua è la notonetta, ottima nuotatrice perché
ha sviluppato sulle zampe posteriori dei peli che aumentano la superficie di spinta delle
zampe, come un remo. Si muove velocemente sott’acqua a pancia in su, quando c’è il sole
luccica con riflessi argentei. Questo effetto ottico è dovuto al riflesso della luce sulla bolla
d’aria che viene trattenuta dai peli della pancia e che l’insetto porta con sé come scorta di
ossigeno (tipo bombola dei subacquei). Ogni tanto la notonetta torna in superficie per
rinnovare la scorta d’aria. E’ un’ottima volatrice ed un predatore feroce. E’ preferibile non
toccarla perché potrebbe pungere.
Guardando attentamente la melma che si trova sul fondo è possibile notare delle pagliuzze
o dei bastoncini che si muovono. Prendendoli con le mani (non pungono) e tenendoli fermi
per qualche secondo da un estremo della pagliuzza può spuntare una piccola testa nera e
delle piccole zampe che cercano di trascinare la pagliuzza. Questa è infatti il rifugio
(astuccio larvale) costruito dalla larva di un insetto che appartiene all’ordine dei tricotteri.
L’astuccio ha inoltre funzione mimetica e, nel caso di acqua
corrente per esempio nei ruscelli dove viene costruito con
piccole pietre, ha funzione di zavorra in modo da rimanere
ancorato al fondo. I tricotteri sono insetti che allo stadio
larvale vivono nell’acqua da cui traggono l’ossigeno grazie a
branchie tracheali, in età adulta vivono fuori dell’acqua e si
Astucci larvali di tricotteri
nutrono di vegetali.
Ogni specie di tricottero costruisce il proprio astuccio larvale con materiali diversi.
Osservando la melma del fondo potreste aver notato dei movimenti sotto la superficie della
stessa. Provando a raccogliere una o più manciate di melma è probabile trovare un grosso
insetto (per noi innocuo) che cerca di scappare infilandosi tra le dita.
Si tratta probabilmente di una neanide di libellula. Si
definisce neanide la forma giovanile di un insetto che
assomiglia all’adulto ma che è privo di ali.
Le neanidi di alcune specie di libellule non sono facilmente
visibili poiché presentano sulla parte superiore del corpo dei
peli ispidi la cui funzione è di trattenere i depositi
Due specie diverse di
dell’acqua. Riescono così a mimetizzarsi perfettamente con il
neanidi di libellula
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fondo in cui vivono. Confondendosi con la melma del fondo dello stagno possono tendere
agguati avvicinandosi alla preda senza essere viste, sono infatti delle predatrici feroci che
si nutrono, oltre che di larve e altri insetti, anche di girini e avannotti (pesciolini appena
nati). Anche la libellula adulta è una predatrice feroce che si nutre soprattutto di zanzare.
Le neanidi di altre specie di libellule cacciano mimetizzandosi tra le piante palustri grazie al
loro colore verde.
Al passaggio della preda queste neanidi spingono con forza l’acqua dal retro, dove sono
situate anche le branchie, vengono quindi spinte in avanti a “reazione”: come un missile. Le
neanidi delle libellule catturano le prede grazie al mento snodato ed allungabile al cui apice
sono situate delle pinze. Lo sviluppo delle neanidi dura da uno a cinque anni mentre la
libellula adulta vive pochi mesi. Quando la neanide è pronta a trasformarsi in libellula, esce
dall’acqua e si attacca ad un sostegno. La libellula adulta fuoriesce dalla schiena della larva
il cui guscio vuoto rimane sul posto.
Durante la primavera dell’anno 2000 abbiamo trovato sul fondo
dello stagno, con nostra grande sorpresa, alcune conchiglie.
Raccogliendo i reperti, da osservare al microscopio con le
scolaresche, pensavamo fossero delle uova di lumaca. Soltanto
osservandole meglio ci siamo resi conto che in realtà erano dei
molluschi bivalvi (nome del genere: Pisidium). Questi molluschi
si cibano di detriti vegetali e vivono anche in ambienti lacustri
alpini dove possono sopravivere in acque coperte dal ghiaccio
per gran parte dell’anno.
Non si spiega la loro presenza all’interno dello stagno visto la
loro incapacità di camminare, saltare o volare, forse sono stati
trasportati da altri animali oppure sono giunti nello stagno con
l’acqua di alimentazione.
Osservando lo stagno
Fino a questo punto abbiamo preso in considerazione soltanto
gli animali più comuni dello stagno, visibili a occhio nudo.
Il mondo in cui viviamo è infinitamente più complesso di quanto i nostri organi di senso
riescano a percepire. Il fatto che esistano oggetti normalmente non percepibili ai nostri
sensi funge da stimolo per l’uomo a cercare soluzioni tecniche per superare queste
barriere.
Una delle porte di accesso verso mondi invisibili è il microscopio. L’Alpe Selviana ne utilizza
uno (gentilmente concesso in comodato dalla Comunità Montana Cusio Mottarone) con una
telecamera collegata ad un monitor che permette la visione collettiva ed effettua un
ingrandimento da 7 a 45 volte (zoom). Ingrandendo così poche volte è sufficiente la luce
che entra nel microscopio per riflesso, questo ci permette di osservare anche oggetti non
trasparenti come pietre e insetti.
Al fine di incuriosire alunni e insegnanti e per stimolare un approfondimento in classe,
illustriamo alcune delle cose osservate:
Smuovendo il fondo dello stagno abbiamo prelevato un campione di acqua torbida
utilizzando una scatoletta trasparente. Attraverso le pareti trasparenti è infatti possibile
vedere le fasi di sedimentazione del materiale sospeso nell’acqua. E’ interessante osservare
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come si siano ripresentate le stesse condizioni dello stagno. Nel laboratorio abbiamo poi
prelevato dei campioni di acqua in superficie (apparentemente pulita), e dal fondo. Per fare
il prelievo si può utilizzare la cannuccia di una penna Bic provvedendo a chiudere il buco
laterale. Tappando con un dito un’estremità della cannuccia si immerge l’altra estremità
nell’acqua fino alla profondità da cui si vuole prelevare il campione. Togliendo il dito l’acqua
entra nella cannuccia, si richiude con il dito e si posiziona la cannuccia sul contenitore nel
quale si vuole depositare il prelievo. Se si dispone di un microscopio che funziona per
trasparenza (i più comuni), il contenitore deve essere trasparente, se invece il microscopio
riceve luce riflessa è consigliabile cercare un contenitore bianco (ad esempio il coperchio di
una conserva).
Inizialmente osserviamo l’insieme a pochi ingrandimenti (x 10-15): già si nota la grande
varietà di depositi formati da detriti vegetali in decomposizione, pietruzze (nel caso di
prelievo di acqua dal fondo), sterco di animali microscopici vari e resti di insetti (elitre,
zampe ecc.).
Proseguendo l’osservazione si percepiscono alcuni movimenti che, incuriosendoci, ci
stimolano ad effettuare un ulteriore ingrandimento (x 25-30). Riusciamo così a vedere i
piccoli organismi difficilmente visibili a occhio nudo.
Di seguito riportiamo gli elementi osservati nel nostro laboratorio di microscopia, durante
le visite scolastiche effettuate nel corso dell’anno 2000.
Alghe: abbiamo osservato vari tipi di alghe verdi; una di forma ovale molto allungata e
l’altra circolare di colore verde brillante, con un buco al centro. Un altro campione di alghe
è stato prelevato dal gambo di una pianta acquatica. Tale campione è risultato essere
composto da due tipi di alghe che convivevano. In ognuna delle due specie le cellule si
collegano fra loro formando una “catena flessibile”.
Il colore verde intenso delle alghe suggerisce che anche queste piccole piante effettuano il
processo della fotosintesi clorofilliana.
Anellidi: vermi d’acqua dolce parenti dei lombrichi. Sono suddivisi in tanti segmenti ognuno
dei quali ripete la suddivisione del corpo. I vermi sono ermafroditi, cioè hanno sia gli organi
sessuali maschili che quelli femminili. I vermi acquatici si nutrono dei detriti organici che
trovano nel fango ingerendolo, sono molto utili perché aiutano la decomposizione della
massa organica e la sua trasformazione in humus. I vermi sono l’alimento di moltissimi
animali acquatici.
Molluschi: abbiamo già parlato dei bivalvi (lamellibranchi) che
abbiamo trovato nello stagno.
Al microscopio si può osservare come si aprono le due valve ed il
piede che fuoriesce cercando un appiglio; nello stagno queste
conchiglie vivono immerse nel fondo dove si nutrono di particelle
organiche.
Crostacei: i crostacei sono animali il cui corpo è protetto da un
guscio rigido che deve essere cambiato durante la crescita, in
base alla specie presentano forme diverse e zampe, antenne e occhi composti disposti
in modo vario e con forme varie.
I crostacei sono un anello importante della catena alimentare.
Mollusco del genere Pisidium
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Durante le nostre osservazioni abbiamo notato tre tipi di crostacei :
Fillopodi, Copepodi e Ostracodi
Fillopode microscopio x 45
Fillopodi: al microscopio si presentano tondeggianti, piatti, occhi
molto evidenti, con una specie di rostro che lo fa assomigliare
vagamente alla testa di un elefante. Passa il suo tempo a
rovistare fra i detriti del fondo, dove cerca particelle organiche
animali o vegetali e alghe, movendosi a scatti continui. Se lo si
isola dal contesto del fondo con un ago resta immobile per
qualche secondo, passata la paura cerca subito di tornare nei suoi
detriti dove si mimetizza perfettamente.
Copepodi. Più complicati dei Fillopodi, hanno il corpo suddiviso in 3
parti: cefalotorace, torace ed addome. Sul cefalotorace portano
due grosse antenne, nuotano velocemente 6grazie a 5 paia di
zampe. Al microscopio si fa fatica ad inseguirli perché guizzano
velocemente sotto l’obiettivo fino a sbattere contro la pellicola
dell’acqua che delimita la goccia; può fare comodo produrre una
goccia più piccola che intrappoli la nostra preda durante
l’osservazione. A volte si vedono le femmine con le 2 ovoteche
Copepode microscopio x 45
(sacche con uova) attaccate lateralmente all’addome. I copepodi
sono predatori feroci; uno è stato da noi osservato mentre mangiava via un pezzo di
anellide vivo, altri mentre attaccavano un bivalve ogni volta che questo metteva il piede
fuori dal guscio, possono però nutrirsi anche di animali morti, batteri ed alghe. Anche
questi crostacei sono un alimento importante per girini, avannotti ed altri piccoli abitanti
dello stagno.
Ostracodi. Questi sono crostacei molto simili a piccole conchiglie, il loro guscio ha la
stessa forma di un bivalve. Come nei bivalvi le due metà del guscio si possono chiudere ed
aprire; il guscio racchiude tutto il corpo fino al punto da permettere all’animale di
sopravvivere per parecchio tempo perfino sul fondo degli stagni in secca o congelati. In
base alla specie gli Ostracodi camminano sul fondo dello stagno, scavano o si arrampicano
sulle piante; si nutrono, sempre in base alla specie, di animali morti, di foglie, di alghe, di
detriti vegetali o di batteri.
Gli Ostracodi sono presenti come fossili nei sedimenti di epoche remote; già allora, come
adesso, erano importanti nella catena alimentare.
Abbiamo affrontato in questa sede soprattutto alcuni essere viventi che vivono nell’acqua,
ce ne sono tantissimi che vivono intorno allo stagno e che quindi in qualche modo ne fanno
parte.
Ci riferiamo ad esempio ai ragni, che con la loro tela catturano gli insetti che volano intenti
a depositare le loro uova nell’acqua o che vanno allo stagno per abbeverarsi (es. api). Alle
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rane ed alle lucertole che si nutrono di insetti di passaggio, agli uccelli che cacciano insetti
e lombrichi ed alle bisce che cacciano girini, rane, insetti ed uccelli.
Terminiamo qui la parte descrittiva dello stagno e delle forme di vita presenti in esso,
anche se gli elementi da osservare potrebbero essere infinitamente più numerosi.
Per maggiori approfondimenti rimandiamo quindi a testi specifici.
Ci sembra utile sottolineare che lo stagno è un ecosistema facile da identificare in quanto
l’elemento acqua che lo compone si distingue facilmente dall’elemento aria in cui siamo
“immersi” noi.
Lo stesso principio di studio può essere riferito ad altri ecosistemi, ad esempio quello
dell’albero, del prato, del parco, del bosco, del mare, e addirittura di un intero pianeta.
All’Alpe Selviana cerchiamo di favorire la formazione di un ecosistema che duri nel tempo
seguendo i principi dell’agricoltura biologica.
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IRRIGAZIONE A GOCCIA E RETE
ANTIGRANDINE
Irrigazione a goccia
Per piante perenni e per filari in genere il sistema più adatto per irrigare è quello a goccia.
Esistono varie tecniche per ridurre la pressione dell’acqua che esce dal tubo fino alla
goccia; noi nel mirtilleto abbiamo eseguito un impianto formato da tubi di polietilene (PE),
sospesi a circa 40 cm da terra, in cui sono innestati dei gocciolatori che, con la pressione di
riferimento di 1 atmosfera (che corrisponde ad una colonna d’acqua alta 10 m), lasciano
gocciolare 4.5 litri/ora.
I gocciolatori adottati funzionano per attrito: l’acqua, che esce
dal tubo grazie ad un foro calibrato, schizza con tutta la forza
dentro ad una camera vuota del gocciolatore, per uscire
all’esterno deve percorrere un passaggio stretto e lungo.
Durante tale tragitto l’attrito che si crea tra le pareti e l’acqua
fa sì che questa venga frenata ed esca goccia a goccia. Dato
che il terreno si comporta come una spugna possiamo
identificare la quantità di terreno irrigato da ogni gocciolatore,
come una superficie di 50 cm di diametro. Abbiamo ritenuto
sufficiente posizionare infatti un gocciolatore su ogni lato della
pianta, a circa 50 cm dal fusto, per irrigare la maggior parte
della zona occupata dalle radici.
E’ importante conoscere la quantità di acqua che esce dai gocciolatori per poter gestire
l’impianto. Essendo nota l’esigenza d’acqua dei mirtilli, che in estate si aggira intorno ai 15
litri a pianta ogni due giorni, possiamo calcolare la quantità d’acqua necessaria per
l’irrigazione, il tempo d’apertura del rubinetto centrale ed eventualmente la porzione di
piantagione che, in caso di scarsità d’acqua, si è in grado di irrigare procedendo per turni.
Un gocciolatore
I vantaggi dell’irrigazione a goccia, rispetto a quella per scorrimento od a spruzzo, sono
molteplici:
- irrigando vicino alla pianta, e non nel corridoio, si ottiene un notevole risparmio di
acqua;
- si evita lo choc termico dovuto allo sbalzo di temperatura tra la pianta e l’acqua
fredda;
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non si bagna la chioma della pianta, il microclima caldo ed umido che si potrebbe
formare all’interno della chioma potrebbe favorire il proliferare di muffe;
- non si bagnano i frutti che raccolti asciutti, si conservano meglio.
I tubi e i gocciolatori sono di colore nero per evitare il passaggio della luce che in caso
contrario, grazie al microclima caldo e luminoso nel tubo pieno di acqua, favorirebbe il
proliferare di alghe ostruendo il tubo in breve tempo. Contemporaneamente il colore nero
dei tubi favorisce il riscaldamento dell’acqua evitando lo choc termico.
-
Rete antigrandine
La rete sospesa sopra le piante di mirtilli serve
come protezione da eventuali danni provocati dalla
grandine che, oltre a spaccare rami, foglie e frutti
può causare danni a prima vista non valutabili ma
che si evidenziano con la maturazione dei frutti.
Infatti la semplice ammaccatura può essere
considerata un danno poiché nel punto ammaccato il
frutto cicatrizza formando una crosticina
antiestetica e fastidiosa al palato.
La rete antigrandine in situazione invernale
Per evitare che il peso della grandine accumulata
possa danneggiare la rete o strappare i cavi sono previste delle interruzioni della copertura
al fine di permettere lo scarico della grandine.
In autunno, quando non c’è più il rischio di grandine, la rete viene raccolta e legata.
Se così non fosse si riempirebbe di foglie ed eventuali nevicate potrebbero appesantire la
rete e strapparla.
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7
LA VEGETAZIONE SPONTANEA
E L’INTERVENTO DELL’UOMO
La vegetazione spontanea e duratura dei nostri terreni fertili è costituita da bosco e
sottobosco fino a circa 2000 m sul livello del mare, al di sopra di questa quota troviamo
invece sterpaglie e cespugli sempre più bassi fino a sfumare in muschi e licheni.
La stessa Pianura Padana fino ai tempi degli antichi romani era coperta da una enorme
foresta millenaria.
Il prato non esiste spontaneamente in natura ma è sempre il risultato di fatiche dell’uomo:
il prato è quindi una coltivazione. Quando si abbandona un terreno coltivato, a prato o ad
altro, la natura tende a riconquistare il suo stato naturale di
bosco attraverso una dura lotta fra i vegetali. Dopo
l’abbandono di un terreno da parte dell’uomo si scatena una
gara di colonizzazione fra le piante spontanee della zona: in
queste zone le prime piante che crescono sono la felce aquilina,
i rovi e le ginestre. Contemporaneamente i semi di betulla e di
pioppo, che sono piccoli e leggeri, vengono portati lontano dalla
pianta madre grazie al vento, e si infilano nella vegetazione e
tra i sassi fino ad arrivare al terreno, dove possono
germogliare. La betulla è anche molto resistente al freddo.
Questi alberi, sbucando dalla selva di felci e di rovi,
Il bosco di betulle con la felce aquilina
raggiungono la luce, acquistano vigore e, nel giro di pochi anni,
formano un bosco luminoso che lascia filtrare parzialmente la
Betulle e felci aquiline
luce attraverso le foglie piccole e tremule. La penombra dà
inizio ad una selezione fra i vegetali sottostanti. La felce aquilina, in modo particolare,
necessitando di molta luce comincia a regredire crescendo più bassa e rada lasciando
maggior spazio ad altre erbe e rovi.
Le foglie delle betulle e dei pioppi sono piccole e tenere, quindi in autunno, quando cadono,
formano uno strato di foglie che si decompone in fretta senza disturbare troppo la
vegetazione sottostante. Lo strato di foglie e di felci secche che si forma in autunno offre
rifugio dal gelo e dal sole a semi più esigenti quali castagne e ghiande. Se questi semi
cadono su un prato difficilmente germogliano poiché possono seccare al sole o gelare in
inverno, oppure essere mangiati da qualche erbivoro. Cadendo invece tra le foglie rimangono
protette dalle condizioni atmosferiche sfavorevoli ed è più probabile che germoglino.
Lentamente si formerà un bosco misto con prevalenza di castagni e querce. Le foglie dei
castagni e delle querce essendo grosse, spesse e coriacee, formano in autunno uno strato di
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strame che resiste durante tutto il periodo invernale. Il sottobosco è in questo caso
estremamente scarso per mancanza di luce e la nuova vegetazione viene soffocata dalle
foglie che cadono in autunno.
Nelle nostre zone il bosco definito “stabile” è costituito prevalentemente da castagni e
querce.
Da alcuni decenni sta conquistando terreno la Robinia. E’ una pianta importata dall’America,
coltivata all’inizio per motivi ornamentali è poi sfuggita al controllo. Attualmente è in
competizione con specie arboree spontanee su cui, in caso di disboscamento o di abbandono
di coltivazioni, ha spesso il sopravvento formando fitte boscaglie spinose. Anche la Robinia
è infatti una pianta pioniera che colonizza terreni in disuso, fa invece fatica ad entrare nei
boschi di castagni e querce perché, come i rovi, le ginestre, la felce aquilina , la betulla ed i
pioppo, ha bisogno di molta luce (piante eliofile).
La Robinia è un’ottima nettarifera che permette la produzione di un miele monoflora.
Il legno della Robinia viene considerato “legna forte”, ottimo da ardere si presta anche per
travature e palagioni… peccato che ci siano le spine.
Le radici delle robinie formano una rete sotterranea fittissima e robusta, motivo per cui
questo albero si può utilizzare per la stabilizzazione dei terreni franosi.
All’Alpe Selviana abbiamo notato l’avanzare di un'altra specie non indigena: la Paulonia.
Questo albero è stato importato dalla Cina verso il 1830 per uso ornamentale, attualmente
si nota il suo avanzamento nelle piantagioni e in boschi luminosi. Anche la Paulonia è
un’ottima nettarifera, con il grande vantaggio di avere una fioritura primaverile precoce. Il
legno della Paulonia si sta rivelando molto interessante come legno da opera. Abbiamo in
passato casualmente costruito le sponde di un carro per il trasporto del letame con legno di
Paulonia: pur restando esposto ai quattro venti e nonostante il contatto frequente con il
letame le sponde sono durate più di un decennio.
Si può osservare un bell’esemplare di Paulonia davanti alla stalla dell’Alpe Selviana.
Su un catalogo di vendita per corrispondenza abbiamo visto pubblicizzare la Paulonia come
pianta per tenere lontano le mosche. Chissà se è stata piantata davanti alla stalla per
questo motivo?
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LE FELCI
Pensando alle felci il pensiero corre spontaneamente ad ambienti umidi ed ombreggiati, ai
boschi con i funghi a ruscelli accarezzati dal muschio; questo, in effetti, è l’ambiente
preferito dalla maggior parte delle felci.
All’Alpe Selviana abbiamo mantenuto una valletta ad ambiente umido in modo da poterne
osservare alcune cresciute spontaneamente.
Felce femmina (Asplenium filix-foemina Bernh.)
Diffusa ovunque è facile rinvenirla lungo i corsi d’acqua sia in
zone soleggiate che nei boschi. Cresce a ciuffi di foglie lunghe
oltre un metro con contorno lanceolato, il picciolo è sempre
più corto della lamina fogliare. I segmenti delle foglie sono
divisi in lobi dentati e anche in lobetti. Nella parte inferiore
delle foglie da metà giugnio in avanti si possono notare i sori
(strutture che producono e contengono le spore) reniformi,
disposti in due serie presso la nervatura centrale.
Felce femmina
Felce florida (Osmunda regalis L.)
E’ una felce rara. Cerca terreni bagnati, paludosi e rive di
ruscelli con acqua non inquinata chimicamente. L’Osmunda può
superare il 1.5 metro di altezza e cresce a ciuffi di foglie
annuali che si sviluppano da un rizoma perenne. Sulla sommità
delle fronde si formano le spore, quando sono mature i segmenti
fertili che le sorreggono assomigliano ad un infiorescenza (le
felci non fanno fiori). Fino a qualche anno fa si raccoglieva il
rizoma da cui si otteneva un terriccio adatto alla coltivazione
delle orchidee. Dopo avere rischiato l’estinzione l’Osmunda
regalis è ora una specie protetta.
Attenzione: è una pianta a protezione assoluta, è vietato
asportarne anche solo delle parti. (L.R. n° 32 del 2 Nov 1982)
Osmunda regalis
GUIDA AL SENTIERO DIDATTICO – ALPE SELVIANA
Coop. Agric. “Il Glicine” Via Selviana 42 – 28887 Agrano (VB) Tel: 0323 81287 E-mail: [email protected]
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Blechnum spicant L.
E’ una felce di piccole dimensioni, foglie lunghe al
massimo 50 cm, che per crescere cerca terreni poveri,
a ph acido e molto ombreggiati.
E’ una delle poche felci in cui è ben distinta la parte
fertile da quella sterile.
La parte fertile è formata da foglie che si dipartono
dal centro del cespo con segmenti distanziati come i
denti di un pettine. Hanno portamento eretto per tutta
la stagione vegetativa e seccano in autunno. Le spore si
formano nei due sori che si trovano nella parte
inferiore dei lobi delle foglie erette.
La parte sterile è costituita da foglie esterne al cespo,
con portamento quasi parallelo al terreno, i segmenti
sono ravvicinati.
In genere questa parte è verde tutto l’anno.
Blechnum spicant
Felce aquilina (Pteridium aquilinum L.)
Questo tipo di felce è molto diffusa nella
nostra zona ed è la più fastidiosa ed
invadente. In un terreno abbandonato è una
delle prime piante a crescere. Se altre piante
non riescono a sovrastarla prima che essa
superi i due metri di altezza, copre e soffoca
ogni altro tipo di vegetazione formando una
“foresta” quasi impenetrabile.
E’ una delle poche felci che si adatta ad ogni
tipo di terreno anche se preferisce terreni
silicei. Sopporta anche lunghi periodi di siccità
Apice di felce aquilina durante la crescita
e, potendo, sceglie posizioni ben illuminate
(infatti più i boschi sono fitti e più la Felce aquilina è rada). E’ una pianta con rizoma
strisciante che scorre a 10-15 cm sotto la superficie del terreno. Ogni anno sviluppa una
fronda con gambo lungo su cui sono distribuite, distanziate fra loro, varie coppie di pinne
suddivise in segmenti. L’utilità della felce aquilina consiste nel fatto che i rizomi,
intrecciati fra di loro, formano una rete sotterranea che contribuisce a difendere il
terreno dall’erosione. La pianta è leggermente velenosa per gli animali da pascolo, la
brucano solo se giovane e in mancanza d’altro. Viene invece gradita mescolata al fieno
(quindi dopo aver subito la fermentazione che trasforma l’erba secca in fieno). Quando la si
usa come lettiera invernale spesso viene mangiata sia dai bovini che dagli ovini.
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CURIOSITA’
Più volte alunni cinesi, durante le visite scolastiche in primavera, hanno raccolto mazzi interi di
Felce Aquilina ad uso alimentare. I gambi erano alti 40-50 cm e le fronde ancora arrotolate o
leggermente aperte le prime due pinne, il fusto poteva essere spezzato facilmente con due dita,
come un asparago.
Pare che in Cina queste felci siano utilizzate come alimento: si usa farle bollire per poi consumarle
fritte.
Siamo interessati a reperire ulteriori notizie in proposito.
Perché si chiama “aquilina”? Osservate con un po’ di fantasia l’apice della pianta nella fase
della crescita.
Attenzione: non attaccatevi alla Felce Aquilina, se sottoposto a pressione il gambo si
sfibra in tante lamette silicee taglienti e quindi, tirando, è facile ferirsi alle mani.
Esempio di ex pascolo colonizzato dalla felce aquilina
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