Progetto legalità

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Liceo Classico “Lagrangia”
Progetto Educazione alla Legalita’ e
al rispetto dei Diritti Umani
II B – 2003/2004
Società e Stato dal Giusnaturalismo a Weber
Il lavoro presentato dalla classe II B (esclusi due alunni impegnati
contemporaneamente nel progetto “Storia – Patria”) e svolto durante
l’anno scolastico 2003/04 costituisce un breve excursus delle principali
dottrine di filosofi che si sono occupati del rapporto Società-Stato,
dell’origine della Società Civile e del problema della sovranità.
Questa ricerca è propedeutica ad un successivo lavoro che l’Istituto
intende portare avanti nell’ ambito del Progetto Educazione alla Legalità
e al rispetto dei Diritti umani.
Il lavoro è così composto:
1. Il modello Giusnaturalistico
2. Il modello “alternativo”
3. Hobbes
4. Locke
5. Differenze tra Hobbes e Locke
6. Rousseau
7. Hegel
8. Marx
9. Le tendenze antistataliste
L’insegnante coordinatrice della ricerca: Luisa Castelli
IL MODELLO GIUSNATURALISTICO
Il pensiero giusnaturalistico è un modello fondato sulla “dicotomia” cioè sulla
contrapposizione tra “stato di natura” e “stato civile”.
Tale filosofia vede in Hobbes il suo capostipite e, seppur con variazioni, in
Hegel l’ultimo esponente.
Il punto di partenza dell’analisi dell’origine e del fondamento della dicotomia è
lo studio dello stato di natura: uno stato non politico, pre-politico e anti-politico.
Gli esponenti di questo pensiero infatti, non si definiscono scrittori politici,
bensì filosofi politici.
Lo stato di natura è in forte antitesi con lo stato politico; i suoi elementi
costitutivi sono principalmente e primariamente gli individui singoli non
associati se pure associabili. E’ da utilizzarsi il termine “principalmente” poichè
in taluni casi, nello stato di natura possono crearsi società naturali come la
famiglia. Gli individui e i gruppi famigliari sono liberi ed uguali gli uni rispetto
gli altri e in essa regnano libertà e uguaglianza.
Non bisogna intendere il passaggio da stato di natura a stato civile come un
procedimento meccanico, bensì ciò avviene mediante ”convenzioni”. Le
convenzioni sono uno o più atti volontari degli individui interessati ad uscire
fuori dallo stato di natura, di conseguenza, lo stato civile, viene concepito come
un “ente artificiale” o “prodotto della cultura”. In questo stato ideale regna il
principio di legittimazione, ovvero il “consenso”.
Si parla di stato ideale e di modello poichè ciò è una pura idea della ragione,
infatti non è mai nata nella realtà, una formazione storico- sociale simile.
GIUSNATURALISMO E SOCIETÀ BORGHESE
La formazione del pensiero giusnaturalistico fondato sulla dicotomia stato
natura e stato civile, accompagna la nascità della società borghese, la quale a
livello teorico, sarebbe il rispecchiamento di questo pensiero. Lo scrittore
Macpherson, infatti, vede già presente nel pensiero di Hobbes la descrizione
della società di mercato. Inoltre al di là di questa interpretazione, è indubbio che
lo stato nato dalla Rivoluzione Francese, diventato nel XIX sec. il prototipo
dello stato borghese, si ispiri al diritto naturale descritto dal modello
giusnaturalista.
Le analogie tra il modello giusnaturalista e il modello borghese possono essere
così riassunte:
 la sfera economica è ben distinta dalla sfera politica, così come quella
privata da quella pubblica; i diversi elementi sono in profonda antitesi.
Questa distinzione riflette la nascita di una società diversa da quella
feudale, caratterizzata dalla confusione tra potere civile e politico, tra
pubblico e privato.
 Tale antitesi rappresenta il momento dell’emancipazione della classe
destinata a diventare economicamente dominante: la classe borghese.
 Il primato economico viene raggiunto grazie ad una società di base prepolitica e anti-politica; questa base su cui si erge la società politica è un
ente artificiale prodotto dalla volontà dei possessori di beni per la
protezione della loro proprietà.
 Nello stato di natura, preesistente allo stato, i soggetti sono individui
singoli astrattamente indipendenti. Questi ultimi sono in conflitto per il
possesso e lo scambio di beni; ciò riflette la visione individualistica della
mentalità borghese.
 Gli ideali di libertà prescrivono un modo di concepire la vita in società
assai diverso da quello tradizionale. Il modello tradizionale è fondato su
un’organizzazione gerarchica stabile; questa, invece, è una concezione
libertaria ed egualitaria che anima ovunque i moti borghesi contro i
vincoli sociali, ideologici, economici e politici che ne avrebbero
ostacolato l’ascesa.
 Il maggiore strumento di dominio di cui un gruppo di uomini può servirsi
per ottenere obbedienza dagli altri riflette l’idea contrattualistica, ovvero
l’idea di uno stato fondato sul consenso degli individui destinati a farne
parte.
 Infine l’idea che il potere è legittimo solo in quanto fondato sul consenso
è propria di una classe che lotta per conquistare un potere che non ha
ancora.
IL MODELLO ALTERNATIVO
Nelle prime pagine sulla politica, Aristotele spiega l’origine dello stato in quanto
polis o città, partendo dalla famiglia e attraverso la formazione intermedia del
villaggio. Secondo Aristotele la famiglia è la comunità che si costituisce per la
vita di tutti i giorni; invece la prima comunità che deriva dall’unione di più
famiglie, è il villaggio. Dall’unione di più villaggi si costituisce a sua volta la
comunità perfetta, ovvero la città dove il livello di autosufficienza rende
possibile la condizione di una buona esistenza. Anche Marsilio da Padova, molti
secoli dopo nel “Defensor pacis”, stabilisce le fasi dell’evoluzione di una
comunità imperfetta ad una perfetta alla maniera di Aristotele: parte dalla
“prima e minima combinazione di esseri umani”, che è quella dell’uomo e della
donna, per passare poi alla prima comunità (il villaggio), e termina con la
comunità perfetta: la città nata dallo sviluppo della ragione e dell’esperienza
umana.
Nel testo intitolato “De la république ” Bodin afferma: “per stato s’intende il
governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto
ciò che esse hanno in comune tra loro” (cap. I).
In altre parole spiega che la famiglia è la vera origine dello stato e ne costituisce
la parte fondamentale.
All’inizio del ‘600, prima della pubblicazione della grande trattazione
hobbesiana dello stato, l’autore della più complessa opera politica del tempo,
Johannes Althusius definiva la civitas una “consociatio publica”, in quanto
distinta dalla diversa “consociatio privata”, come una società di secondo grado,
come una società che nasce dall’aggregarsi di società minori: per primi i nuclei
famigliari. Ciò che è fondamentale per caratterizzare il modello teorizzato da
Althusius è la progressione verso lo stato a partire dalle società, ovvero la
considerazione dello stato come una grande società anziché come la massima
società, composta da società più piccole. “societas humana certis gradibus ac
progressionibus minorum societatum a privatis ad publicas societates pervenit”.
ELEMENTI DEL MODELLO “ALTERNATIVO”
a. Il punto di partenza dell’analisi è la famiglia, ovvero la società naturale
originaria, che è una forma concreta e specifica di società umana.
b. Tra la famiglia e lo stato c’è un rapporto di continuità, di sviluppo, di
progressione: dallo stato di famiglia allo stato civile l’uomo è passato
attraverso fasi intermedie che fanno dello stato l’approdo ultimo delle
società precedenti.
c. Nello stato naturale originario gli individui vivono riuniti in gruppi
organizzati (società famigliari) per cui lo stato può essere raffigurato
come una famiglia in grande.
d. Lo stato pre-politico è uno stato in cui i rapporti fondamentali sono tra
superiore e inferiore, proprio come nella famiglia ci sono rapporti
gerarchici (padre/madre e figli per esempio).
e. Il passaggio dallo stato pre-politico allo stato avviene attraverso l’effetto
di cause naturali (estensione del territorio, aumento della popolazione,
necessità di maggior difese, bisogno di altri mezzi di sussistenza, ecc.),
con la conseguenza che lo stato non è meno naturale della famiglia.
f. Il principio di legittimazione della società politica non è necessariamente
il consenso, ma è lo stato di necessità, o la natura delle cose.
Comparando le caratteristiche del modello aristotelico e del modello
giusnaturalista si possono evidenziare alcune dicotomie presenti nella filosofia
politica sino ad Hegel legate all’origine, alla natura, alla struttura, alla
destinazione, alla concezione razionalistica, al fondamento e alla legittimazione
del potere politico che si incarna nello stato.
HOBBES
Thomas Hobbes fu il teorico dell’assolutismo politico, alla cui base c’è una
visione profondamente pessimista dell’uomo.
Hobbes scrisse di politica partendo dal problema principale del suo tempo:
l’unità dello stato minacciata non solo dai contrasti religiosi e dal contrasto dei
due poteri (religioso e politico), ma anche dal dissenso tra Corona e Parlamento.
Il pensiero politico di tutti i tempi è sempre stato infatti dominato da due grandi
antitesi: oppressione-libertà e, per Hobbes, unità contro anarchia.
Il male peggiore è dunque per lui la dissoluzione dell’autorità e perciò il
disordine, la guerra, ma anche l’insicurezza della vita.
Gli uomini sono infatti tutti portati a prevaricare gli uni sugli altri in una “guerra
di tutti contro tutti”,che si verifica là dove vi siano le condizioni dello stato di
natura, specialmente in tre casi:
-nelle società primitive, poichè non vi è ancora la società civile;
-nel caso della guerra civile, che porta all’anarchia;
-nella società internazionale;
Lo stato di natura che egli ipotizza è dunque un’eterna guerra civile, intesa
anche come la precaria quiete assicurata solamente dal timore, ossia da minacce
permanenti di guerra.
Ecco allora che soltanto rinunciando ai loro diritti nei confronti di un sovrano
assoluto, gli uomini possono aspirare alla quiete e alla salvaguardia della loro
vita.
“Il solo modo per dar vita alla costituzione di un potere comune capace di
difendere gli uomini dalle invasioni degli altri popoli e dalle reciproche ingiurie,
ed insomma di garantire la loro sicurezza in modo che, con la propria attività e
con i prodotti della terra, essi possano nutrirsi e vivere comodamente, consiste
nell’investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria forza un uomo o una
assemblea di uomini che sia in grado di ridurre tutte le varie opinioni, per mezzo
della pluralità dei voti, ad una sola volontà; il che è come dire di dare incarico ad
un uomo o ad una assemblea di uomini di rappresentare la persona dei singoli
cittadini e riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso, come l’autore di
qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a rappresentarli, farà o farà in modo
che venga fatta in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, ed
in questo, ridurre le proprie volontà ciascuno alla volontà di lui, ed i loro giudizi
al giudizio di esso. Ciò è più di un consenso o di un accordo; è una concreta
unità di tutti i componenti dello stato in una sola e medesima persona, resa
possibile da un patto di ciascuno con l’altro, come se uno di essi dicesse
all’altro: “ Do autorizzazione e trasferisco il mio diritto di governare me stesso a
questo uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che anche tu ceda il
tuo diritto a lui e nello stesso modo ne autorizzi tutte le azioni”. (da T. Hobbes,
Il Leviatano).
Il terribile mostro biblico Leviatano, dalla forma di serpente, è la metaforica
rappresentazione dello Stato assoluto, costituito da una moltitudine di individui,
mostruosamente riuniti insieme a formare una sola persona. Pubblicato a Londra
nel 1651, il libro nasce in un’epoca di profonda crisi delle istituzioni politiche
inglesi e illustra il pensiero politico del filosofo, che giudica l’assolutismo
l’unica salvezza per gli uomini, lacerati da innumerevoli forze contrastanti.
Non tanto sostenitore degli Stuart, quanto convinto della necessità di liberare
l’uomo dall’anarchia connessa al godimento dei diritti naturali, convinto che
l’unico modo per vivere in pace sia evitare la guerra e che perciò occorra ben
governare (il che significa costituire solide basi allo stato, non pretendendo di
fare nuove leggi, bensì applicando opportunamente quelle preesistenti), Hobbes
teorizza la necessità di un “contratto sociale”, in virtù del quale tutti i diritti
individuali sono trasferiti allo Stato.
Anche la verità religiosa deve avere come unico fondamento le scelte del
sovrano, il cui potere assoluto non discende da un diritto divino, bensì da quel
contratto che ha liberato l’uomo dalla precarietà dello stato di natura,
caratterizzato dall’incontrollata manifestazione degli istinti vitali dei singoli
individui.
Sulla realtà "artificiale" dello stato, nato da un contratto tra gli individui, si
concentra la riflessione di Hobbes. Egli elaborò la sua dottrina politica
ipotizzando un originario "stato di natura" precedente l'istituzione della
comunità politica. In questo stato naturale gli uomini – dotati ciascuno di un
diritto illimitato su tutte le cose – vivono in maniera egoistica e insocievole,
nella condizione di una "guerra di ogni uomo contro ogni altro". La possibilità
della sopravvivenza è a questo punto affidata a un contratto in base al quale gli
individui rinunciano a tutti i loro diritti in favore di un potere assoluto, esercitato
da un unico legislatore o sovrano che incarna l'autorità stessa dello stato e che
decide in maniera interamente libera sulle questioni sia secolari sia religiose.
In ogni caso, se Hobbes teorizzò il potere assoluto del sovrano, egli intese dare a
tale potere un'origine umana e convenzionale, abbandonando la dottrina del
diritto divino del re.
La ragione è la via per uscire dallo stato di natura intesa non come la facoltà di
conoscere l’essenza delle cose ma il ragionamento come calcolo(“Ratiocinatio
est computatio”, De Corpore,I, I), per cui, date certe premesse, si ricavano
necessariamente certe conclusioni. Hobbes sostiene che la retta ragione fa parte
della natura umana, cioè che l’uomo è capace non solo di conoscere”per
causas”, ma anche di agire “per fines”, ossia di seguire regole chiamate regole
prudenziali, cioè della prudenza umana, che gli indicano i mezzi più idonei per
raggiungere il fine desiderato. Per conseguire il fine previsto dalla regola, essa
deve essere osservata da tutti o dalla maggior parte degli individui appartenenti
ad un gruppo, perchè il singolo non è tenuto ad osservare le leggi se non lo
fanno anche gli altri. L’accordo di tutti è un atto di volontà umana, non naturale
ma artificiale: nasce così l’uomo artificiale.
Hobbes ha chiamato queste regole prudenziali “leggi naturali”: esse non sono
leggi intese come il comando di una persona dotata di autorità, ma sono
espressioni della volontà divina (“Non sono leggi ma possono essere chiamate
leggi con tutto rigore, in quanto sono pronunciate da Dio”,De Cive, III,33).
Le regole prudenziali hanno lo scopo di rendere possibile una coesistenza
pacifica, in quanto lo stato di natura, a lungo andare, è intollerabile, perchè non
garantisce all’uomo il conseguimento del” primum bonum”, ossia della vita.
Tutte quante le regole prudenziali sono subordinate ad una prima regola che
Hobbes chiama “fondamentale” e che prescrive la ricerca della pace.
La pace è il modo per conservare la vita, che nello stato di guerra è
costantemente messa in pericolo.E’ la ragione che aiuta l’uomo a raggiungere la
pace.
IL PATTO DI UNIONE
L’unico scopo del patto d’unione è il conseguimento del potere comune, atto a
fondare, non una società civile, ma una società di mutuo soccorso.
Secondo Hobbes la società di mutuo soccorso non è però in grado di assicurare
l’osservanza delle leggi. Per questo, è necessario, un secondo patto: il “Pactum
subiectionis”, grazie al quale tutti obbediranno ad un solo individuo, detentore
del potere comune.
Il potere politico che nasce dalla somma di due poteri, dominium e imperium,
cioè, supremo potere economico e supremo potere coattivo, è detto
SOVRANITA’.
LA SOVRANITÀ
Il potere sovrano è contrassegnato da tre attributi fondamentali:
Irrevocabilita’
Assolutezza
Indivisibilita’
IRREVOCABILITA’
Secondo il pensiero di Hobbes l’irrevocabilità è dovuta sostanzialmente a due
ragioni:
1. impossibilità di fatto: cioè è impossibile che tutti gli individui siano in
accordo fra loro.
2. impossibilità di diritto, che deriva dall’aver concepito il patto come un
contratto in cui i contraenti assumono un obbligo anche verso un terzo
ASSOLUTEZZA
Sostenendo che il potere del sovrano è assoluto, Hobbes afferma anche che non
vi sono limiti al potere dello stato.
Tutti i suddditi sono obbligati a obbedire al sovrano. Tuttavia i sudditi dello
stato hobbesiano possono disobbedire al sovrano per salvare lo stesso da un
pericolo o per sfuggire a qualunque pericolo di minaccia permanente di morte
che caratterizza lo stato di natura. Questo può avvenire per l’esistenza del diritto
alla vita che è irrinunciabile.
INDIVISIBILITA’ (LO STATO E LA CHIESA)
Un altro problema che si presenta a Hobbes nella definizione dello stato e del
potere è quello che riguarda il ruolo della chiesa, cioè quell’autorità “che regola
la salvezza dell’anima (De Cive,XIII, 5). I punti fermi del ragionamento che
Hobbes ricava dalle Sacre Scritture sono soprattutto due:
1. L’interpretazione antidogmatica del Cristianesimo: è sufficiente credere
che Gesù è il Cristo, figlio di Dio.
2. L’affermazione che il regno di Dio non è di questo mondo e che Cristo
non è venuto tra gli uomini per comandare, ma solo per insegnare e per
predicare
Il potere di decidere sulle cose spirituali spetta esclusivamente allo stato: “Il
definire – egli spiega – quel che sia spirituale e quel che sia temporale è opera
della ragione, e in quanto tale, appartiene al diritto temporale”(De Cive, XVII,
14).
Al sovrano spetta il compito di convocare l’adunanza dei fedeli. Dunque non vi
può essere altra chiesa in uno stato che quella riconosciuta( o imposta ) dallo
stato stesso. Non solo non vi è separazione tra chiesa e stato, ma chiesa e stato
sono la stessa cosa, sono “due nomi diversi”, della stessa cosa, chiamandosi
stato “in quanto consta di cristiani” (De Cive, XVII, 21).
In questo modo la teoria dell’indivisibilità del potere sovrano, fondata sulla
convinzione che il potere sovrano è unico o non è sovrano, sfocia in una totale
risoluzione della chiesa in quanto istituzione nello stato, e nell’affermazione
senza attenuanti della religione come affare dello stato. Quindi dimostrata
l’esistenza di un potere sacerdotale diverso dal potere civile, e riaffermato il
concetto che il potere per essere tale deve essere unico, Hobbes non ha neppure
bisogno di negare la differenza tra la sfera spirituale e la sfera del temporale.
LOCKE
L’opera principale in cui Locke espone il suo pensiero politico è intitolata “Due
trattati sul governo”: due perché la prima parte è diretta a confutare l’opera di R.
Filmer “Patriarcha”, mentre la seconda svolge le idee politiche dell’autore , idee
che, secondo alcuni storici, furono considerate come una giustificazione
postuma della gloriosa e pacifica rivoluzione del 1688. Infatti, uno dei tratti
salienti del secondo trattato è l’affermazione della subordinazione del potere
esecutivo a quello legislativo e la considerazione del potere legislativo come il
potere supremo dello stato. I trattati costituiscono, dunque, il modello più
illustre, più discusso e seguito, dello stato liberale e democratico, l’opera più
compiuta e fortunata del costituzionalismo moderno. Anche l’opera di Locke,
come quella di Hobbes comincia dalla descrizione dello stato di natura.
La nascita dello stato civile coincide con l’istituzione di un’autorità sovraindividuale, a cui appellarsi per risolvere le controversie. Più precisamente nello
stato civile la libertà consiste nell’essere soggetto al potere legislativo fondato
per comune consenso nello stato, e alle leggi emanate da questo potere in
conformità al mandato conferitogli: ove non vi è legge, non vi è libertà, ma
arbitrio ed oppressione. La libertà nello stato trova perciò compimento nelle
leggi positive, ma esiste anche secondo Locke la libertà dello stato che pone,
sulla scorta del principio di conservazione, precisi limiti materiali e formali al
potere civile. La descrizione dello stato di natura e dello stato civile è
incompleta senza l’analisi del diritto di proprietà, per la cui salvaguardia, gli
uomini si uniscono in stati e si assoggettano a un governo.
LA PROPRIETÀ
La funzione dello Stato civile è dunque quella di conservare i diritti naturali e di
creare un giudice imparziale e il diritto di proprietà e’ il diritto naturale,
connaturato all’essere umano e che si perfeziona nello Stato civile,
indipendentemente dalla sua forma. Uno dei fini per cui gli uomini si uniscono,
perciò, è la conservazione della proprietà. Il solo fine del magistrato è quello di
assicurare la pace civile e la proprietà dei suoi sudditi.
Il termine “proprietà” ha a volte un significato ristretto, che designa in primo
luogo quel particolare diritto che consiste nel potere sulle cose, in secondo luogo
a volte ha un significato più largo che sta ad indicare il diritto naturale per
eccellenza, tanto da riassumere in sé tutti gli altri.
La teoria lockiana della proprietà è una confutazione indiretta delle dottrine di
Hobbes e Pufendorf. Hobbes aveva negato che il diritto di proprietà fosse un
diritto naturale, inteso come diritto di godere e di disporre liberamente di una
cosa col consenso di tutti. Per Hobbes la proprietà intesa come diritto contro tutti
nasceva in seguito all’istituzione dello Stato e mediante la sua protezione: la
proprietà era un istituto, non di diritto naturale, ma positivo. Solo la vita era un
diritto naturale. La teoria convenzionalistica di Pufendorf era una soluzione
intermedia. Per dare origine alla proprietà non era necessario lo Stato, ma non
era sufficiente la natura. Il suo fondamento era la volontà; Locke scarta queste
due teorie: occorreva risalire alla natura originaria dell’uomo per dare alla
proprietà individuale un fondamento che la mettesse al riparo dall’ingerenza del
sovrano e degli altri estranei dall’accordo. La dottrina giuridico-tradizionale
offriva due soluzione: l’occupazione (presa di possesso di res nullius con
l’intenzione di farla propria) e la specificazione (trasformazione mediante il
lavoro personale di un oggetto allo scopo di trarne un prodotto diverso). Locke
non accoglie la dottrina dell’occupazione. La situazione originaria dello Stato di
natura era caratterizzata dall’universale estensione della proprietà Il passaggio
ad un regime di proprietà privata avveniva dunque attraverso un processo di
individuazione. Locke sostenne che il fondamento della proprietà individuale
doveva essere cercato nel lavoro, impiegato per impadronirsi di una cosa o per
trasformarla e valorizzarla: è il lavoro che dà valore alla cosa. Locke non ha
voluto fornire una dottrina economica, ma ha posto su nuove fondamenta la
giustificazione della proprietà individuale. Lo sviluppo della proprietà, della
produzione e degli scontri consorzia gli uomini in gruppi stabili, disciplinati al
loro interno da leggi, ma il legame economico non è un sufficiente collante
sociale: con il passaggio alla società civile, l’istituto contrattuale del magistrato
funge a disciplinare i rapporti economici e a dare effettiva protezione alla
proprietà.
LA FORMAZIONE DEL POTERE CIVILE
Al problema del potere civile Locke dedica 8 capitoli sui 13 del “Secondo
Trattato”. Secondo il filosofo inglese il potere civile nasce dal consenso: “poichè
gli uomini sono...tutti per natura liberi, eguali ed indipendenti, niuno può essere
tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il
suo consenso”. L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e
si investe dei vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri
uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità. Questo consenso si
manifesta in un accordo fra tutti i membri della comunità, i quali decidono in
questo modo di uscire dallo stato di natura.. Infatti Locke pone a fondamento del
potere politico il cosiddetto contratto sociale (pactum societatis).
Connesso al tema del consenso vi è la regola della maggioranza ovvero sono
considerate deliberazioni dell’intero corpo politico quelle della maggioranza dei
suoi componenti, questa regola implica che gli individui entrando in una società
politica, abbiano rinunciato alla loro indipendenza naturale. Secondo Locke è
necessario che un corpo si muova nel senso in cui lo porta la forza maggiore.
Egli giustifica la maggioranza con una osservazione di tipo giusnaturalistico, per
cui la regola della maggioranza diventa una regola naturale, valida perchè
corrispondente alla natura delle cose. Questa configurazione dello Stato è quella
che ha dato corpo allo Stato liberale, inteso come stato-custode. Stato limitato
per cui i rapporti fra gli individui e lo Stato si possono sintetizzare con la
formula libertà dallo Stato.
Per caratterizzare la natura nel rapporto giuridico bisogna distinguere i soggetti
e gli oggetti. I soggetti sono coloro che aspirano a comporre il corpo politico, gli
oggetti sono i diritti naturali dei quali Locke fa una rinuncia parziale,
rinunciando solo al diritto di farsi giustizia da sè. Quindi lo Stato lockiano ha
soprattutto il compito di controllare, non di sollecitare le attività. Per Locke il
potere economico deve essere stimolato mentre il potere politico deve essere
frenato, infatti il potere politico è al servizio di quello economico.
Il potere civile deve sottostare a quattro limiti:
1) Il potere civile non può avere più diritti di quelli che gli sono stati
trasmessi (questo evidenzia l’esistenza di diritti naturali inviolabili e
inalienabili)
2) Principio della legalità (il potere supremo deve regolare la condotta dei
cittadini con leggi)
3) Con questo Locke afferma il principio generale che il delegato non può a
sua volta delegare ad altri il suo potere.
4) Libertà economica.
Il problema che sorge adesso è chi stabilisce questi limiti. Essi vengono stabiliti
dopo il pactum societatis: esso ha istituito il corpo sociale e la moltitudo
societatis dispersa degli individui, viventi nello stato di natura, ha dato origine a
un populus. Tali limiti vengono stabiliti con un secondo patto, che viene
stipulato tra il corpo sociale come unità e i futuri governanti, e si chiama pactum
subiectionis. Con questo secondo patto gli uomini associati deferiscono a uno o
a più individui il potere di governo, e stabiliscono le condizioni alle quali il
potere dovrà essere esercitato. Se questa attribuzione avviene senza condizioni si
dà luogo a una sovranità assoluta, se vi sono condizioni invece si dà luogo a una
sovranità limitata. Locke sottolinea che la costituzione della società e del
governo sono due cose diverse e rappresentano due momenti distinti della
formazione dello Stato.
Un altro problema è quello relativo alla storicità del contratto di cui è
sostenitore: infatti si dice che ci sono esempi nella storia noti a tutti, che non
lasciano luogo a dubbi sul fatto che alcuni Stati siano sorti da un accordo iniziale
dei loro membri, come Venezia, Roma, o Sparta.
L’ORGANIZZAZIONE DEL POTERE CIVILE
Per Locke il potere civile si articola in due distinti poteri, il potere legislativo e il
potere esecutivo. Questi poteri e queste funzioni dello stato sono i rimedi alle
insufficienze dello stato di natura. Nello stato di natura l’uomo ha due poteri: il
primo è quello di fare tutto ciò che è permesso dalle leggi naturali, il secondo è
quello di punire i delitti commessi contro la legge. Orbene questi poteri sono
detti derivati, in quanto non possono contenere nulla di più di quello che è
contenuto nei poteri naturali dell’uomo vivente nello stato di natura.
Trattando dei poteri dello stato, quello di fare leggi deriva dalla rinuncia al
primo potere, mentre il potere, sempre dello stato, di punire i riottosi deriva dalla
rinuncia al secondo potere; infatti Locke non contempla il potere giudiziario,
basato sul principio che non esiste giudice imparziale al di fuori di coloro che
fanno le leggi. Dunque il potere giudiziario viene connaturato al legislativo,
definendosi come la discriminazione del giusto e dell’ingiusto, mentre
l’esecutivo si conforma come l’uso della forza al fine dell’osservanza delle
leggi. Locke individua quello federativo come terzo potere, “il potere di guerra e
di pace, di fare leghe, alleanze ed ogni altro negoziato con tutte le persone e le
comunità straniere alla società politica”. Tale potere federativo è un aspetto del
potere esecutivo, al quale è indissolubilmente legato, e si esprime come potere
coattivo dello stato rivolto non più all’interno ma all’esterno. In ogni caso il
potere federativo e quello esecutivo, nonostante siano distinti in sè, sono di fatto
quasi sempre uniti e difficili da separare. Generalmente, comunque, si parla o di
separazione o di concentrazione dei poteri, fermo restando che il potere è
indivisibile e dividerlo significa dissolverlo. Dalla separazione nascono due
possibili diverse soluzioni: la coordinazione dei poteri tra di loro o la
subordinazione dell’uno all’altro. Per Locke ciò che prevale è la subordinazione,
in quanto il potere esecutivo deve essere assoggettato al legislativo che è il
potere supremo (concezione alla base dei moderni stati parlamentari).
Diversamente da Locke è in Montesquieu, l’idea, alla base degli stati
presidenziali, che solo la coordinazione dei poteri garantisca il loro equilibrio e
porti alla libertà dei cittadini.
IL DIRITTO DI RESISTENZA
Il ritorno del potere al popolo apre la crisi del governo. Questa crisi può
manifestarsi in vari modi e , rispetto all’obbligo che ha il cittadino di ubbidire
alle leggi civili (obbligazione politica), causa varie conseguenze. Ad ogni modo
nè stato di natura, nè stato civile sono momenti definitivi della storia umana, in
quanto la storia non conosce momenti definitivi. Da ciò scaturisce che stato di
natura e stato civile sono intimamente intrecciati. Locke indica il ritorno allo
stato di natura come un ritorno alla legge naturale, mentre individua quattro
forme di degenerazione della società civile:
1)la conquista, come forma di dissoluzione della società e non del governo
2)l’usurpazione, come forma di dissoluzione del governo e non della società, in
seguito ad un rivolgimento interno
3)le tirannide, come esercizio del potere oltre il diritto a vantaggio solo del
tiranno
4)la dissoluzione del governo che porta alla separazione dei due poteri
fondamentali, subordinato l’esecutivo al legislativo.
Detto ciò ci si pone il quesito del dovere di obbedienza dei cittadini in seguito ad
una degenerazione della società civile: Locke definisce questa degenerazione
conquista e la smembra in giusta ed ingiusta. In seguito ad una conquista giusta
il popolo, sebbene il potere del conquistatore giusto sia un potere dispotico, è
tenuto ad obbedire; diversamente, esso non avrà più quest’obbligo in caso di
conquista ingiusta.
Locke inoltre esamina dettagliatamente anche la quarta forma di degenerazione
della società civile, la dissoluzione del governo. Essa può avvenire, o per
alterazione del legislativo, ovvero quando il potere esecutivo si sostituisce al
legislativo e ne impedisce il funzionamento, o per infrazione della fiducia, cioè
quando il potere legislativo viola i diritti naturali degli individui. In entrambe le
situazioni comunque, il popolo ha il diritto di riprendere la sua libertà originaria,
in quanto detentore del potere. Dopo di che i cittadini si possono appellare alla
resistenza, quando essa sia giustificata o da un cattivo governo o da una lunga
provocazione; questo diritto alla resistenza si conforma come la difesa
dell’oppresso contro l’oppressore. In definitiva lo stato di Locke anela
all’ordine, ovvero alla garanzia della libertà, e al riconoscimento dell’uomo
come giudice di se stesso.
DIFFERENZE TRA LOCKE E HOBBES
Entrambi i filosofi esordiscono nelle rispettive opere con una descrizione dello
stato di natura.
La concezione lockiana di quest’ultimo è piuttosto ambigua, infatti il filosofo
vuole contrapporsi ad Hobbes sostenendo che lo stato di natura non ha niente a
che vedere con quello di guerra. Hobbes sosteneva l’uguaglianza tra stato di
natura e stato di guerra. Locke invece ci dice che lo stato di natura è realmente
esistito e il suo unico inconveniente è la mancanza di un giudice imparziale.
Hobbes sostiene, ancora, la natura anarchica e completamente differente dello
stato naturale rispetto a quello civile. Inoltre lo stato di natura per Locke è uno
stato di guerra “in fieri”, perché non lo è di fatto, ma potenzialmente.
A proposito degli inconvenienti riguardanti lo stato di natura, entrambi i
pensatori, partono dal presupposto della libertà e dell’ uguaglianza alla base di
questo stato. Essi, però, hanno una concezione differente di libertà: Hobbes la
vede come il diritto di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e
delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti delle leggi di natura,
cioè un concetto di libertà negativa, priva di obblighi. Analogamente Locke ci
parla di uguaglianza giuridica, cioè quello stato in cui non esiste subordinazione
o soggezione giurisdizionale di un individuo ad un altro.
La mancanza di subordinazione però, implica che un individuo colpito da
violazione altrui debba farsi giustizia da sé in quanto è assente un giudice
imparziale che possa impedire l’istinto dell’uomo a vendicarsi. Hobbes vede,
invece, l’unico inconveniente dello stato di natura nell’ inesistenza di una legge.
Infatti, non esistono delle leggi che regolano lo stato, per cui lo stato di natura è
stato di anarchia “ab inizio”, cioè per essenza. Nello stato di natura di Locke è
costante il rischio di incorrere nell’ anarchia. Attenzione però alla risoluzione!
Nello stato civile Hobbes esordisce con una teoria di stato assoluto(legibus
solutus). Mentre Locke con una teoria di stato limitato. Hobbes cancella con una
“restauratio ab imis fundamentis” ogni traccia di stato di natura e, alla legge di
natura, sostituisce la legge positiva. Lo stato di Locke rende possibile, invece, la
naturale convivenza solo attraverso l’ istituzione di un apparato esecutivo.
La questione della storicità fu introdotta da Pufendorf con la distinzione tra stato
di natura puro e stato di natura limitato. Lo stato di natura puro non è mai
esistito, in questo senso il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes è solo un’
ipotesi. Lo stato di natura è esistito, invece, in determinate circostanze: in primis
gli uomini vivono allo stato civile entro i loro gruppi sociali, in secundis vivono
allo stato naturale nei rapporti tra questi gruppi e nelle circostanze in cui un
gruppo si dissolve(guerra civile).
Locke si occupa del problema nel Secondo Trattato dicendo che gli uomini che
vivevano allo stato di natura erano i sovrani di governi indipendenti. In questo
senso ci dice che “il mondo non sarà mai privo di uomini allo stato di
natura”.Inoltre un governo civile si può fondare solo sul consenso, perciò il
governo dispotico è da lui considerato solo uno stato peggiore di quello di
natura. Nell’antitesi stato di natura- stato civile vi è un’anticipazione della
concezione dialettica della storia, che sarà poi ripresa da Hegel. Per Hobbes non
esiste altra condizione possibile per l’uomo che o lo stato di natura o lo stato
civile: “aut aut”(o la guerra o la pace). Tutta la storia umana è un alternarsi di
sfrenatezza e di obbedienza, di licenza e di autorità: Beemoth contro Leviathan.
ROUSSEAU
Il pensiero filosofico di Rousseau nasce con i problemi socio-economici che
investirono la Francia dell’ Ancien Regime, nel diciottesimo secolo. Al contrario
dei philosophes, Rousseau concepì la riforma della società come una
rivoluzione: infatti qualsiasi riforma non può condurre alla felicità o al bene
perchè la società presente è male e deve essere giudicata. Quindi, il modello di
associazione e convivenza politica, che trova espressione nel Contratto Sociale,
viene delineato in contrapposizione a quella forma di Stato rappresentativo, che
in Inghilterra andava rivelando la propria natura di istituzione funzionale agli
interessi della borghesia. Perciò, si tratterebbe di fare “un uomo nuovo”, e una
società nuova, nella quale l’umanità si emancipa dalla natura.
Egli fu il solo tra i grandi philosophes che non si limitò ad attaccare l’Ancien
Regime, ma coinvolse nella sua critica anche la società e lo stato borghese.
L’UOMO DI NATURA E L’UOMO CIVILE
L’uomo di natura non è un essere debole, ma è forte e sano ,in perfetto stato di
equilibrio, ha la facoltà di interagire con l’ ambiente in modo soddisfacente, ha
in se stesso tutte le possibilità per soddisfare i suoi bisogni,che non vanno al di
là della propria riproduzione. L’uomo di natura non incontra difficoltà
nell’appagare le proprie modeste esigenze. L’uomo non ha una vita di
programma. Egli non possiede forti passioni, perchè un sentimento così intenso
coinciderebbe “col desiderio verso un oggetto che non è a portata di mano”.
Diversamente l’uomo civile conduce un’esistenza tormentata preso nel vortice
di innumerevoli passioni, lanciato in una corsa verso il porsi all’attenzione degli
altri: secondo Rousseau vive sempre al di fuori di sè. L’uomo civile tende a
mostrarsi diverso da quello che è (essere e apparire divennero due cose del tutto
diverse), è spinto da un egoismo che lo porta a simulare e inseguire bisogni
fittizi, a inseguire: onore senza virtù, ragione senza saggezza, piacere senza
felicità. Per capire le ragioni di questo mutamento radicale occorre analizzare il
processo di civilizzazione.
Il passaggio è avvenuto per un concorso fortuito di circostanze: innanzitutto
l’istituzione della proprietà privata, raffigurata come un atto di volontà e un
sopruso da parte di un individuo isolato. In secondo luogo si trova la divisione
del lavoro, fonte di ogni disuguaglianza. Così la proprietà privata e la divisione
dei ruoli hanno portato alla nascita delle prime regole: in tale modo si compie il
passaggio all’ordine civile e gli uomini, trasformata la loro natura, diventano
pronti a nuocersi l’un l’altro pur di acquistare di più, approfondendo le
disuguaglianze, frutto e radice di ogni male. L’individualismo è il risultato della
civilizzazione ed è ciò che ha portato alla nascita di “una quantità di pessime
cose rispetto ad un piccolo numero di buone”. Il primo risultato della
civilizzazione è la lotta per la supremazia, un rapporto di forza che si cristallizza
nella dominazione politica dei proprietari sui non-proprietari. Mentre Locke e
Hobbes vedevano in questa situazione dei problemi umani, tale situazione
rappresenta per Rousseau il culmine del processo storico di decadenza e la
fondazione dello Stato sull’inganno. Per intendere correttamente il senso di
modello di Stato “ideale” bisogna aver chiaro l’interpretazione rousseauviana
delle origini di Stato, descritto come un progetto del “ricco”, di colui che nella
lotta ha ottenuto di più. Il più ricco “concepì infine il progetto più meditato che
lo spirito umano abbia mai formulato: utilizzare a suo vantaggio le forze di
quelli che lo attaccavano, fare dei suoi avversari, ispirar loro altri principi e dar
loro altre istituzioni… A questo scopo – scrive Rousseau – inventò delle ragioni
speciose per guadagnarli alla sua causa”. Il “discorso” del ricco consiste nella
proprietà di un vero e proprio patto sociale che somiglia non poco a quello di
Hobbes e Locke.
IL CONTRATTO SOCIALE
Il Contratto Sociale rappresenta la svolta positiva del pensiero del filosofo
francese. Il problema del contratto è quello di indicare un modello di Stato con
fondamento legittimo. La forma di contratto valido, proposta da Rousseau, pone
quindi una radicale novità rispetto al tradizionale contratto giusnaturalista. Per
esempio, in Hobbes, il contratto è di alienazione totale (tutti i diritti, tranne
quello della vita), in favore dei terzi, ed è rinuncia alla libertà. In Locke,
l’alienazione è parziale, non dei diritti, ma di uno solo (quello di autotutela ). In
Rousseau, invece, il contratto è di alienazione totale; ma non è un contratto in
favore di terzi, perchè ciascun singolo dà se stesso alla totalità dei contraenti
della quale egli stesso fa parte; prende vita in tal modo il corpo politico, o
“repubblica”. E’ questo il passaggio da individuo borghese a cittadino che non
può avere interessi personali in contrasto con gli altri, perchè vi è un corpo solo
e non può avere che una sola volontà ed è la Volontà Generale, che persegue
l’interesse comune. Ciascun singolo è tenuto all’obbedienza. Ma non è
obbedienza ad un altro; è obbedienza alla totalità di cui ciascuno fa parte.
Questo è il tipo ideale di democrazia diretta. Vale a dire che il dominio,
l’autorità vengono esercitati dal popolo intero riunito in un corpo solo. Gli
individui, pur rinunciando alla propria libertà originaria, continuano nello Stato
civile ad essere liberi. Quindi, si istituisce un’associazione mediante la quale
ciascuno, unendosi a tutti, obbedisce solo a se stesso. Questo è il modo per
trasformare positivamente la natura umana. Colui che vuole fondare una nazione
deve essere in grado di cambiare la natura umana. Continuare ad essere liberi
significa avere la stessa qualifica di libertà, ma essere diversi come soggetti.
L’attributo “libero”rimane uguale, ma il soggetto è diverso da quello della
natura. Nello Stato di natura, infatti, l’uomo era un “animale intelligente” e un
soggetto morale. Il Contratto sociale è un ritorno alla condizione di natura, ma
non è un ritorno all’ uomo di natura: è l’istituzione di un uomo nuovo. Il
modello di Rousseau si desume, secondo alcuni autori, da quello
giusnaturalistico e presenta somiglianze con le filosofie politiche di Hobbes e
Locke. Si ritrovano infatti, i concetti di Stato di natura e Stato politico, società
civile e contratto sociale, presi però con un significato nuovo.
Rousseau identifica tre momenti nella storia umana: lo Stato di Natura (la
condizione pre –sociale del buon selvaggio); la società civile (all’ interno della
quale si trovano conflitti, disuguaglianze e sopraffazioni) e lo Stato democratico
(o Repubblica): una forma di governo ideale che contiene in sè i principi cui gli
uomini dovrebbero ispirarsi per raggiungere una valida convivenza.
Un altro aspetto importante presente nella dottrina politica di Rousseau è il
problema della sovranità. La volontà generale è una prerogativa del popolo, in
quanto esso solo detiene la sovranità. Secondo Rousseau il governo non è un
potere, ma un’ emanazione del potere detenuta dal popolo sovrano. Il sovrano
non può essere così debole da non avere autorità sui singoli sudditi, ma non deve
nemmeno essere così potente da intervenire sul lavoro dei cittadini riuniti. Il
sovrano deve anche riunire nella persona del magistrato tre volontà: quella
“propria”, che mira al vantaggio privato, quella “di corpo”, e quella “generale”,
sempre tesa al bene comune. In un regime correttamente funzionante, sia la
prima che la seconda dovrebbero essere subordinate alla terza. Segue che il
governo più forte è quello monarchico, quello più debole è quello democratico.
Il governo ideale dovrà perciò essere il più esteso possibile, per evitare conflitti
tra la volontà di corpo e quella generale, ma anche il più possibile concentrato,
in modo che le volontà individuali non costringano il governo a un gran
dispendio di energie. Rousseau tuttavia non si dichiara apertamente a favore di
una determinata forma di governo, in quanto ognuna è la migliore se applicata
nel contesto sociale più adatto.
HEGEL
IL PENSIERO POLITICO DI HEGEL
Per Hegel: “Lo stato non è un’unione che venga stretta dall’arbitrio dei singoli”,
bensì è dovuto all’incarnazione di uno spirito superiore ed autonomo rispetto
alle individualità. Lo stato, perciò, non è derivazione del singolo, bensì è il
singolo stesso che è l’espressione finita della vera realtà che è lo stato. In termini
filosofici l’individuo non esiste in quanto tale, ma come ideale astratto di un
tutto.
In questa visione del mondo il libero arbitrio dell’ uomo risulta limitato in
quanto l’uomo è parte di un tutto. Pertanto il singolo non può essere preso in
considerazione separatamente dal tutto, visto che l’individuo da solo è un puro
nulla, una vuota astrazione, che può solo avere valore nella comunità.
L’uomo componente di questo grande sistema non è privo di libertà; anzi le
possiede in virtù della sua partecipazione al tutto.
Lo stato non è l’imitazione ma la via attraverso la quale si concretizza la libertà
del singolo che altrimenti non si potrebbe realizzare. I costumi del popolo,
quindi, sono nella loro “vivente molteplicità” l’essere dell’eticità. Con la
nozione di “eticità” Hegel indica quel complesso stabile di norme che vanno a
formare l’animo di ogni individuo. Tali norme, in quanto derivate dallo spirito
incarnatosi nello stato, hanno un’autorità ed una potenza assoluta sui singoli e
sono regole necessarie; esse sono derivate dal procedere razionale di tale spirito
universale e di conseguenza dello stato. Le norme non rappresentano
un’oppressione nei confronti degli individui perché entrambi sono inquadrati nel
grande complesso stato.
LA SOCIETÀ CIVILE
Per Hegel, però, il punto di partenza del problema politico non è costituito
dall’individuo, ma da entità più vaste, “ totalità organiche”, che trascendono
l’individuo stesso ed hanno un’autonomia propria. Come punto di partenza non
ci sarà più l’individuo ma una totalità etica “immediata” ossia la famiglia, come
prima forma di società concreta. In secondo luogo si trova la disgregazione
dell’unità nel particolare, che consiste nella “società civile” o “borghese”; infine
c’è il superamento che è la conclusione di tutto il processo dialettico dell’eticità
e dello Spirito Oggettivo, nello stato.
L’espressione “società civile” in Hegel significa società dei cittadini, o meglio
dei borghesi. Dunque la società civile è la società dei privati, opposta allo stato
che è la società pubblica. La società civile nasce dalla disgregazione dell’unità
originaria delle famiglie in una molteplicità di enti che si comportano come
individui autonomi, e danno luogo al sistema di relazioni tipico della società
borghese: relazioni di interesse privato che possono generare anche contrasti tra
gli uomini. La società civile sembra coincidere con l’oggetto proprio
dell’economia politica.Come “società dei privati” essa si presenta, in questo suo
primo aspetto, come insieme di relazioni in cui ciascuno svolge la sua funzione
che è complementare con quella degli altri, e ciascuno concorre alla
soddisfazione dei bisogni propri e altrui. Il primo dei suoi momenti è detto
“sistema dei bisogni”, ma non è l’unico oggetto della società civile. Infatti un
puro e semplice mondo di relazioni etiche di mercato non avrebbe una sua
configurazione autonoma. Il particolarismo dei privati, in un mondo di pura
concorrenza economica genera dei conflitti di interesse e delle divergenze che
occorre dirimere per non far cadere la società in uno stato di anarchia, e, quindi,
è necessaria la formazione di istituti per l’amministrazione della giustizia
(secondo momento); allo stesso tempo si generano anche delle disuguaglianze
letali per l’esistenza della società civile stessa, perciò c’è bisogno di garanzia e
provvidenze che vanno al di là della semplice tutela giuridica e che sono
compito della “pubblica amministrazione” (terzo momento).
Il secondo momento della società civile è l’amministrazione della giustizia
intesa come risoluzione delle questioni che sorgono dalla lotta economica; è
un’istituzione dell’imperfetta società dei privati.
Il terzo momento è, invece, definito da Hegel come “polizia”, cioè pubblica
amministrazione: quindi la società civile richiede, oltre alla correzione delle
divergenze sulle questioni di proprietà, anche la correzione delle “sfasature
sociali”, frutto inevitabile delle accidentalità della vita economica del sistema
dei bisogni. Si delineano così, per la prima volta, le linee generali dello “Stato
Assistenziale” che ha il compito di conseguire il benessere (privato) di ciascuno.
Tutto questo, però, non riguarda l’eticità nella sua verità che è tale solo nello
stato, in quanto lo stato, per Hegel, non si risolve nella cura degli interressi
privati e dei fini delle volontà particolari: lo stato è qualcosa di superiore e di
diverso.
La società civile è, filosoficamente parlando, eticità estraniata: concretezza e
universalità sono separati ed hanno bisogno di una più alta organizzazione nello
stato. E’ il così detto stato esterno dove i cittadini sono “persone” private che
hanno per proprio fine il loro particolare interesse: sono dunque i “Borghesi”, e
la società civile hegeliana si rivela come una rappresentazione delle strutture
economico-politiche della vita borghese.
Hegel, già in queste pagine, ci mostra come l’individuo si configuri come
“anello di una catena” trovandosi entro cerchi che lo trascendono. Tali cerchi
sono, nella società civile, le classi e le corporazioni. Hegel deduce quindi la
struttura di classe della società civile dal concetto di uomo come soggetto
bisognoso.
Hegel dice che non si può capire che cosa contraddistingue la società umana se
non si pensa al modo di appagamento dei bisogni che consiste nel lavoro, e in
particolare, alla configurazione che esso assume con lo svilupparsi dei rapporti
sociali, come lavoro “distribuito” o “diviso. Sulla base dei diversi compiti
affidati a ciascuno, la società risulta divisa in ordini o classi. Hegel distingue tre
classi nella società civile:
1-la prima, detta classe sostanziale, è formata da coloro che sono legati al lavoro
della terra;
2-la seconda, detta classe formale, è formata da coloro che trasformano o
elaborano i prodotti della terra;
3-la terza detta classe generale, è formata da coloro che hanno “per proprio
compito gli i interessi generali dello stato generale”.
Le classi dispongono di uomini secondo il rapporto che hanno con i mezzi di
produzione. La suddivisione in ordini comporta l’armonia sociale, in quanto
ciascun ordine avrà bisogno di tutti gli altri: la vita sociale non si regge su una
categoria sola ma risulta dalla relazione e dalla dipendenza reciproca di tutti i
gruppi.
E’ strettamente correlato al concetto di classe il concetto di corporazione. Le
corporazioni sono associazioni nate per la difesa dei singoli gruppi di interesse;
essa si comporta verso i propri componenti come “una seconda famiglia” in
quanto è suo compito averne cura. Ciò che costituisce la caratteristica comune
della corporazione e della classe, e’ il fatto che in essa si configura già
l’universalità come superamento delle determinazioni individuali. La vera e
propria conciliazione di particolare e universale, come si è detto, potrà avvenire
soltanto nell’organismo dello stato: ma essa è preparata e resa possibile, nella
società civile, dalle classi e dalle corporazioni. La corporazione, quindi,
permette il passaggio allo stato.
L’ETICITÀ NELLA SUA VERITÀ: LO STATO
Per Hegel, lo stato (inteso come eticità nella sua verità) è opposto alla società
civile intesa come eticità nella sua negatività, come “Stato esterno” nel quale
l’amministrazione della giustizia e la pubblica amministrazione sono visti come
tentativi esterni di correzione dei rapporti particolari tra gli individui (individuo
che non è né il punto di partenza né quello di arrivo per lo Stato). Queste
istituzioni non interpretano la volontà collettiva ma regolano solamente alcuni
aspetti della vita privata. Lo stato, però, visto in questo modo presenta le
caratteristiche tipiche dell’associazione e questa definizione non basta per
Hegel. Lo stato non è neppure l’organizzazione politica degli individui come tali
bensì quella di un popolo. Popolo che è l’unico elemento di sviluppo all’interno
dello stato, poiché, porta avanti il progetto dello Spirito attraverso la
costituzione politica: lo stato, infatti, non è tale se non viene considerato
nell’universalità degli individui che lo compongono .
Il grande sistema stato, non elimina tutte le differenze presenti nella società
civile, ma le riproduce come articolazioni di un grande organismo.
Nell’esercizio del potere lo stato hegeliano prevede la divisione dei poteri.
Tali poteri, tuttavia, non sono né autonomi né stabiliti dai singoli individui, ma
hanno le loro fondamenta nel concetto universale di stato.
Lo stato si compone di due momenti fondamentali:
1- momento decisionale: tale momento evidenzia l’unicità dello stato che
trova l’espressione più completa nella figura del monarca (“momento
assolutamente decisivo della totalità”);
2- momento esecutivo: in tale momento avviene il proseguimento e la buona
conservazione delle cose già decise, delle disposizioni, degli ordinamenti
esistenti, per fini comuni.
Tali poteri dipendono da quello governativo (nel quale sono compresi il potere
giudiziario e quello di polizia).
La correlazione tra società civile e stato si distingue maggiormente nel potere
legislativo. La discussione e le decisioni sugli affari spettano ad un’assemblea
composta da due camere : la prima è formata dai proprietari fondiari, mentre la
seconda dai deputati delle corporazioni. Dunque le classi sociali assumono un
determinante rilievo politico: l’ultimo e più vero significato delle classi risiede
nella loro complessa funzione politica all’interno della totalità etica.
“Lo stato concreto è la totalità organizzata nelle sue cerchie particolari; il
componente dello stato è un componente di una siffatta classe, soltanto in questa
sua determinazione oggettiva, esso può venire in considerazione allo stato .”
MARX
Il punto di partenza della dottrina di Carlo Marx è il suo concetto di Stato e del
rapporto fra Stato e Società,da cui discende l’intera teoria della società marxista;
analizzando questo concetto se ne può comprendere dunque il suo apporto alla
storia della politica.
Per capirlo occorre partire dalle altre interpretazioni di tale concetto.
Nei precedenti filosofi politici,e specialmente in Hegel,l’idea di Stato appariva
come qualcosa di astratto,per il pensare comune,come qualcosa di creato dal
nulla.Non stava nulla di sbagliato nei princípî che regolavano lo Stato in Locke
o nei pensatori illuministi.Anzi si tratta di regole ancor oggi incontrovertibili.Il
problema del loro pensiero era il voler far poggiare uno Stato su questi valori
attraverso le leggi,cioè attraverso un meccanismo dello Stato stesso.
Proporre questi temi significa astrarre la politica dal suo significato.Significa
rendere,sostanzialmente,la politica cosa astratta: ’importanza dello Stato e della
politica è ovviamente invece connessa con la sua concretezza. La politica è la
regolamentazione della vita di tutti i giorni. Perciò è chiaro che il motore dello
stato e della politica è per l’appunto la vita quotidiana,e sono precisamente quei
meccanismi che regolano la società in cui viviamo e la nostra maniera di
vivere,anzi di sopravvivere.
L’intuizione fondamentale di Marx è aver colto,nel rapporto fra Stato e
società,l’influenza esclusiva della seconda. I cambiamenti decisivi avvengono in
basso, nella società, è su quel terreno che si gioca la partita decisiva. E i
cambiamenti dall’alto,i cambiamenti giuridici,le direttive di governo possono
essere al massimo meccanismi funzionali ai cambiamenti sociali.Non l’inverso.
Questa intuizione determina una novità nel metodo politico da seguire nella
creazione di una società vincente. L’umanità che sta alla base dei cambiamenti
giuridici, infatti, ha un indubbio valore. Non è però sufficiente ancorché
necessaria. Necessario è avere la testa, la ragione, l’intelligenza per affrontare
scientificamente i fenomeni sociali e organizzarli nella maniera più giusta.
Sarà a questo punto più facile intuire quale può essere la teoria dello Stato in
Marx.
Se in tutti i filosofi precedenti l’attenzione è posta sulle caratteristiche che deve
assumere lo Stato,in contrapposizione con i meccanismi della società,in Marx la
teoria dello Stato è strettamente connessa con la sua teoria della società che
parte dall’analisi scientifica, nonché dalla critica,dei suoi meccanismi
economici.In tutti gli altri filosofi lo Stato è la sintesi, il punto d’arrivo. Più
precisamente, Hobbes vedeva lo Stato come garante della giustizia sociale.
Locke, come arbitro imparziale per evitare la degenerazione della società
naturale. Rousseau, come l’espressione della volontà generale imprescindibile
dalla rinuncia alla libertà personale assoluta e il conseguente acquisto della
libertà civile. Kant, come il compimento di un obbligo morale. Hegel, infine,
come il dovere supremo di ogni singolo individuo,sintetizzando il concetto,
perciò, per cui lo Stato è il punto d’arrivo della vita sociale e di conseguenza
della società.
In Marx, invece, lo Stato c’è già,ed è l’espressione della società e dei suoi
processi. Dunque: se in tutti gli altri filosofi il nodo della ricerca politica stava
nel passaggio dalla società naturale,disordinata e dominata dagli eccessi e dalle
ingiustizie, ad uno Stato che possa “aggiustare”le sorti della società naturale
trasformata in società civile, in Marx il processo è invertito. Lo Stato, infatti,non
solo – come già s’è detto – c’è già, ma è la totale espressione della stessa società
naturale, ed essendo la società naturale dominata dagli eccessi e dalle
ingiustizie, lo Stato è necessariamente un’entità negativa, violenta e
particolaristica.Violenta perché non può fare a meno della forza per sostenersi.
Particolaristica perché è messa a disposizione delle classi dominanti della
società e non della collettività. E allora lo Stato non è più frutto di un supremo
dovere come in Hegel, ma la perpetuazione del diritto del più forte.Tutto ciò
portò Marx a sostenere che l’umanità,per affrancarsi,non avrebbe dovuto cercare
la creazione dello Stato,ma al contrario la sua soppressione.
A conclusione si deve aggiungere che Marx considera lo Stato,inteso come
l’insieme delle istituzioni politiche, in cui si concentra la massima forza
imponibile e disponibile in una determinata società,puramente e semplicemente
come una sovrasstruttura rispetto alla società prestatuale, che è il luogo dove si
formano e si svolgono i rapporti materiali di esistenza, e in quanto sovrastruttura
destinato a scomparire a sua volta nella futura società senza classi.Ed ancora più
chiaramente nel testo intitolato “Ideologia tedesca” (1845-46) Marx scrive: “La
vita materiale degli individui,che non dipende affatto dalla loro pura “volontà”,il
loro modo di produzione e la forma di relazioni che si condizionano a vicenda,
sono la base reale dello Stato e continuano ad esserlo in tutti gli stadi nei quali
sono ancora necessarie la divisione del lavoro,del tutto indipendente dalla
volontà degli individui”.Rapporti reali creati non dal potere dello Stato; essi
sono piuttosto il potere che quello.
Il lavoro fin qui presentato è dunque partito dalla
dicotomia Stato di natura-società civile,con l’esaltazione
hobbesiana del grande Leviatano da una parte e lo
Stato
costituzionale
concezione
di
di
Locke,per
Rousseau
di
uno
giungere
stato
alla
primitivo
dell’umanità felice caduta in uno Stato di conflitto.Da qui
poi la visione hegeliana dello Stato come Dio in terra e
la teoria marxiana della fine dello Stato.Se dai
giusnaturalisti ad Hegel si può tracciare una ideale linea
evolutiva che vede l’umanità progredire dalla società
senza Stato allo Stato, Marx ed Engels interpretano il
cammino
dell’umanità
in
modo
diametralmente
opposto:il progresso sarebbe consistito nel passaggio
dallo Stato alla società senza Stato: non più la
sublimazione dello Stato ma la sua soppressione.
Per questo a conclusione del lavoro s’è pensato di
aggiungere una breve parte dedicata alle tendenze
antistatalistiche tipiche dell’ ‘800.
LE TENDENZE ANTISTATALISTICHE
DELL’ 800: TECNOCRAZIA, UTOPISMO
SOCIALE, ANARCHISMO.
Nella prima metà dell’800 la tendenza verso la svalutazione dello stato non è
comune soltanto a liberismo e marxismo, ma si ritrova in tutte le teorie sociali
discusse dopo la Rivoluzione Francese.
Per quanto riguarda la tecnocrazia, importante è il pensiero di Saint-Simon,
sceondo il quale ad una società dominata da metafisici e “legisti”, come è stata
quella che ha dominato sino alla Rivoluzione Francese, è destino che succeda
una società dominata da scienziati e da produttori e caratterizzata dal fenomeno
della “depoliticizzazione”.
Per l’utopismo sociale si pensi invece a Fourier; la sua polemica è diretta contro
il sistema economico fondato sulla libera concorrenza che genera il lusso di
pochi e il pauperismo di molti. Egli elogia la spontaneità, rivendica la
liberazione degli istinti, secondo un anti-autoritarismo del tutto radicale. Nel
sistema societario di Fourier, l’uomo deve liberarsi della schiavitù in cui è stato
finora tenuto.
Quanto all’anarchismo, la negazione dello stato è il punto fondamentale della
sua dottrina. E’ quindi evidente l’importanza che esso ha nelle correnti
antistatalistiche dell’800; anzi, si deve dire che un elemento di “anarchismo”
proprio nel senso di critica radicale dello stato c’è in tutte le correnti politiche
che per la prima volta mettono in discussione la necessità e la bontà del potere
politico nell’età della restaurazione.
PASSAGGIO A MAX WEBER
Nella realtà le cose sono andate diversamente.
Il secolo che secondo le previsioni degli scrittori liberali e di quelli socialisti e
anarchici avrebbe dovuto assistere ad un graduale depererimento dello stato, ha
assistito invece al suo accrescimento in intensità ed estensione.
Max Weber, meglio di ogni altro, ha visto, con lucidità e freddo distacco tipico
dello scienziato, quello che stava accadendo.
La sua opera è sotto certi aspetti un monumento (inteso come monito) eretto alla
potenza smisurata dello stato moderno. Egli capì che la società capitalistica
aveva creato, e stava sempre più creando un apparato organizzativo di funzioni
indispensabili al sistema stesso che avrebbe sempre più minacciato la libertà. Il
cammino della società capitalistica verso il grande Stato burocratico, infatti, è
sotto i suoi occhi e Weber è consapevole che lo stesso destino potrebbe toccare
anche al nascente stato socialista che non potrà vedere, morendo nel 1920.
Le società umane vanno verso la formazione dei grandi apparati dove
l’individuo è destinato a diventare sempre più un ingranaggio di una macchina
di cui non conosce nè la struttura nè lo scopo.
Nel 1917 Weber scrisse che lo sviluppo e gli avvenimenti degli ultimi decenni
avevano potentemente accresciuto il prestigio dello stato: allo stato veniva
attribuita una forza legittima sulla vita, la morte e la libertà, e i suoi organi ne
avrebbero fatto uso sia in pace sia in guerra. “Esso è in pace il maggior
imprenditore economico e il più potente esattore dei tributi; in guerra dispone
illimitatamente di tutti i beni economici che gli siano accessibili. La sua
moderna forma razionale di organizzazione ha reso possibile, in numerosi
settori, compiti che nessun altro di altra specie avrebbe potuto eseguire, neppure
in modo approssimato”. Con l’opera di Weber comincia una nuova storia: nasce
la scienza politica contemporanea.
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