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Ringrazio la CGIL e la FISAC per l’invito a presentare
il mio volume “La moneta incompiuta”. Il momento è particolarmente delicato; chi ha
assistito ad altre mie relazioni
potrebbe dire che questa frase l’ho detta già in altre occasioni. È vero; il problema è
che da alcuni anni le cose
vanno male e si fa veramente
poco per farle andare meglio.
Siamo oramai nello schema di Freak Antoni per cui toccato il fondo si inizia a scavare e questo non va molto bene.
Gli elementi disgreganti dell’Eurozona: aspetti politici ed economico-finanziari
Comincerò la mia relazione con tre citazioni. Qualche giorno fa Macron, nonostante
nel suo programma elettorale avesse inserito l’esigenza di condividere i rischi
all’interno della nostra area valutaria, ha dichiarato: “I am not in favour of collectivising
debts of the past. It leads to an irresponsible politics”. E poco dopo il suo portavoce ha dichiarato che: “We are not in favour of eurobond”. Qualche tempo prima Juncker aveva
dichiarato: “I condemn the idea of a United Federal Europe”. E ancora qualche tempo prima la Cancelliera Merkel aveva affermato l’esigenza nel prossimo futuro di una “multi-speed Europe”.
Non è detto che queste dichiarazioni siano pietre tombali al risk-sharing – vale a dire
ciò di cui l’Eurozona ha bisogno – ma di sicuro, configurano un campo minato al
percorso verso una nuova e duratura Europa. A mio avviso rappresentano però bene
l’incredibile involuzione della nostra area valutaria. Nell’annus horribilis della crisi, e
cioè il 2011, i paper che circolavano presentavano progettualità come gli eurobond o
simili soluzioni per la condivisione dei rischi; sembrava che la crisi ci avrebbe portato
diritti verso gli Stati Uniti d’Europa, e quindi verso un’Europa risk-shared. Invece non
è andata così: l’Europa ha preso una pericolosa deriva a rischi segregati, cioè dove i
rischi di debiti pubblici e privati vengono nazionalizzati nei vari Stati membri.
Il tema è: a chi serve la nazionalizzazione dei rischi? Credo che serva a chi non ha fiducia nell’euro ed in un’Europa con uno sviluppo armonico e a chi sta investendo
invece in una soluzione egemonica degli equilibri tra i vari Stati membri. Quanto più
i rischi sono nazionalizzati, infatti, tanto minori sono i danni collaterali, per quanto
difficilmente ponderabili, di eventuali soluzioni consensuali di uscita dall’area valutaria unica.
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Detto questo, vediamo quali sono le due grandi patologie della nostra unione monetaria, che (consentitemi di ribadire) non sono previste nei nostri Trattati anzi a ben
vedere sono in qualche maniera osteggiate.
Innanzitutto un’area valutaria non può avere diciannove spread, cioè diciannove costi
del denaro differenti, perché la merce (l’euro) è una sola e uno solo dovrebbe essere
il suo costo. Se i costi sono differenziati si determinano divari di competitività nel sistema produttivo sia per le banche che per le imprese. Questi divari sono tanto maggiori quanto più il sistema è banco-centrico come appunto accade nell’Eurozona.
È poi inammissibile che l’euroburocrazia non sappia distinguere tra “malinvestimenti” e
“buoninvestimenti”; mi riferisco al Fiscal Compact, un accordo intergovernativo che tratta
gli investimenti al pari delle spese improduttive e, quindi, alla fine, rende impossibile
per gli Stati membri procedere a manovre fiscali anticicliche.
Credetemi: queste anomalie non sono scritte nei Trattati e da qui il falso problema di
doverli cambiare per aggiustare le cose; nei Trattati sono infatti presenti i principi
della condivisione dei rischi, dello sviluppo armonico e della convergenza dei cicli
economici. Si tratta pertanto di interpretarli correttamente e, usando un anglicismo,
implementarli per il benessere dell’Europa.
Chiariti questi aspetti, torniamo alle citazioni che vi ho riportato all’inizio della mia
relazione e che purtroppo sono la struttura portante delle anomalie dell’Eurozona.
Queste citazioni non sono peraltro fenomeni isolati ma l’epilogo naturale del documento di un anno e mezzo fa dei cinque presidenti delle principali istituzioni europee. Tale documento presentava ipotesi evolutive dell’architettura dell’Eurozona, e
purtroppo “scansava” – come fossero ostacoli ad un sano sviluppo della nostra area
valutaria – temi quali: la condivisione dei rischi, l’inammissibilità dello spread, gli effetti depressivi dell’austerità e la rilevanza degli investimenti per far ripartire le economie in difficoltà.
Regimi di cambi fissi nell’Europa – esperienza storica e prospettive
Ma veniamo al punto. L’euro, da diversi anni, si comporta come un regime di cambi
fissi; eppure è ancora in piedi e non dà segni di autonomo sgretolamento, come la lezione di Bretton Woods ci insegna.
Per spiegarlo, consentitemi dei parallelismi sui generis, da prendere quindi con beneficio d’inventario, dato che nell’economia finanziaria vale la legge di Markov, cioè le
aspettative sul futuro si formano sulla base dell’informazione presente (quella più aggiornata) e il passato è sostanzialmente irrilevante.
Nel 1972 nasceva in Europa il «Serpente Monetario Europeo»: un primo sistema di
cambi fissi, ancorché con una banda di oscillazione. Si sgretolò in poco più di un anno a seguito delle tensioni valutarie create dalla crisi petrolifera. Nel 1979 fu la volta
del «Sistema Monetario Europeo»; anche questo fece una brutta fine sotto gli attac-
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chi del finanziere George Soros che, prese le misure, prosciugò le riserve valutarie
della Banca d’Italia e della Banca d’Inghilterra. Tutti ricorderanno la difesa strenua
della banda di oscillazione al 2,25% da parte della Banca d’Italia, che portò il nostro
tasso overnight dei giorni precedenti l’uscita a oltre il 40%.
Cosa ci dicono questi esperimenti valutari? Che difendevamo strenuamente qualcosa
che era indifendibile. Consentitemi una metafora: un sistema di cambi fissi per i mercati finanziari è come un piccolo casinò per un ricco investitore. L’unico modo per
evitare che il ricco investitore sbanchi il piccolo casinò, giocando al raddoppio, è non
farlo entrare.
Nel caso del Sistema Monetario Europeo, Soros era nelle condizioni di mandare in
crisi due banche centrali. Chi ideò lo SME ingenuamente sottovalutò l’impatto della
Finanza che alla fine è entrata nel casinò e lo ha sbancato a dispetto delle tradizionali
dinamiche macro-economiche. Metafore a parte, soffermiamoci su come nasce lo
SME per comprenderne le similitudini con l’Eurozona e quali lezioni possiamo eventualmente trarne.
Nel periodo 79-92, riunificazione della Germania a parte, ci fu un fenomeno che mi
piace chiamare: “italianizzazione dei tassi reali di cambio della Germania”; in altri termini,
con lo SME il tasso di cambio reale del marco si svalutò e la Germania ne beneficiò
molto in termini di surplus delle partite correnti.
Per l’Italia i vantaggi non c’erano; l’assenza di una banca centrale comune e di una
valuta comune costringeva, infatti, la banca centrale a tenere alti i tassi di interesse
per sostenere un tasso di cambio irrealisticamente rivalutato: quello della lira contro
il marco. Per un Paese con un grande debito pubblico (com’era già allora il nostro)
questo voleva dire un’elevata spesa per interessi che divorava voracemente il nostro
strutturale surplus primario.
Passando dalla banda larga a quella stretta, in poco più di due anni lo SME diventò
una facile preda per la finanza speculativa; il restringimento della banda rendeva infatti prevedibili le mosse delle banche centrali e assai ridotti i margini di manovra. In
altri termini a ben vedere l’attacco di Soros si limitò a scoprire gli altarini di un equilibrio macro-economico assai precario.
Cosa successe però dopo il 1992? Dopo una sofferenza iniziale, il nostro sistema
produttivo beneficiò del cambio più adeguato alle sue caratteristiche produttive e riprese quota, creando addirittura un nuovo distretto industriale, quello del Nord-Est.
Con la nascita dell’Euro assistiamo a fenomeni che si possono considerare parzialmente diversi ed a noi più favorevoli almeno fino al 2007. C’è sempre l’ “italianizzazione dei tassi di cambio reale della Germania”; i differenziali di inflazione supportano il
surplus delle partite correnti tedesche. L’Italia, però, questa volta ha un grosso vantaggio rispetto all’esperimento dello SME: la “germanizzazione dei tassi di interesse”. Con
l’euro l’Italia scambia una perdita di competitività dal punto di vista dell’industria
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manifatturiera, e più in generale del suo sistema produttivo, con un grande beneficio
di finanza pubblica in termini di costo di servizio del debito.
Questo scambio, tutto sommato, costituiva un compromesso ragionevole in quanto
l’Italia si presentava al “traguardo” dell’avvio dell’euro con un elevato debito pubblico.
Non a caso gli “euristi senza se e senza ma” menzionano sempre gli anni in cui, grazie
all’euro, abbiamo avuto bassi tassi di interesse e, conseguentemente una contenuta
spesa per interessi stigmatizzando, quindi, la classe dirigente di allora che, nonostante
questi vantaggi, non è riuscita a modernizzare il Paese. Segnalo, per la cronaca, che,
spesso, i più “euristi” di tutti sono pezzi di quella classe dirigente.
Ma torniamo alle dinamiche dell’Eurozona superando questa parte della narrativa
tanto cara all’establishment. Nel 2007-2008 l’arrivo della crisi da oltreoceano aggiunge
un ulteriore fattore di complessità, che rompe il compromesso implicito italotedesco tra finanza pubblica e industria manifatturiera, in quanto la germanizzazione dei
tassi italiani si sgretola e lo spread la fa da padrone.
Con lo spread il nostro debito pubblico e la spesa per interessi entrano in una nuova
era, e quindi la permanenza nell’Eurozona diviene, mutuando un’espressione dalla
medicina, uno stillicidio ematico.
Vi dò una cifra che è impressionante: negli ultimi quattro anni il nostro sistema produttivo ha generato un minore gettito per lo Stato di circa 100 miliardi di euro tra
mancate tasse delle imprese in crisi e Deferred Tax Credits (crediti fiscali differiti) conseguenti alle svalutazioni dei Non-Performing Loansde, cioè i crediti problematici accumulatisi nei bilanci bancari; quest’ultimo fenomeno è tutt’altro che irrilevante dato
che oggi più del 10% del nostro sistema bancario è capitalizzato attraverso questi
crediti d’imposta e rammento che su questa pratica contabile è in corso un’indagine
della Commissione Europea con l’ipotesi di violazione della disciplina degli “aiuti di
Stato”. Se l’indagine dovesse terminare con esito sfavorevole si riaprirebbe (non che
si sia mai chiusa) la stagione degli aumenti di capitale a spese del pubblico risparmio.
Qualcuno potrebbe sostenere che se queste sono le derive della nostra area valutaria
allora perché non uscire come fu per il Serpente Monetario e per il Sistema Monetario Europeo? Il problema è che la metafora del ricco investitore e del piccolo casinò
non opera per l’Eurozona. L’esistenza di una Banca Centrale unica con la capacità
operativa della BCE non dà spazio ad attacchi speculativi con carattere di conclusività; non conviene. È infatti assai più conveniente, creare tensioni sull’area valutaria,
indurre, quindi, interventi straordinari della BCE, che generano prevedibilità per
l’andamento delle principali variabili finanziarie ed effettuare “intermediazioni da
spread”.
Mi spiego meglio: la BCE, con la sua operatività non convenzionale, interferisce con
le normali dinamiche dei mercati finanziari definendo per gli operatori scenari maggiormente prevedibili. Questa maggiore prevedibilità consente a banche, assicurazioni e fondi di effettuare compravendite dei titoli di Stato dei Paesi membri per realizzare dei guadagni privi di rischio, proprio intorno all’andamento degli spread.
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Quest’operatività, l’“intermediazioni da spread”, appartiene alla famiglia degli arbitraggi
e scommette de facto sulla divergenza delle curve dei tassi di interesse dei vari Paesi
membri; si tratta quindi di divergence trades da non confondere con gli speculari convergence trades del triennio 1997-2000 che hanno costruito la curva unica dei tassi di interesse dell’euro.
I divergence trades trovano conferma a partire dal 2011 sui mercati dell’Eurozona in relazione ai vari programmi di prestiti straordinari alle banche (LTRO e TLTRO) e di
acquisto dei titoli di Stato (SMP e QE) nonché in relazione al famoso whatever it takes
del 2012 di Mario Draghi (che rammento non si è mai concretizzato in effettive operazioni sul mercato da parte della BCE) e purtroppo dominano ancora la scena sul
mercato dei Govies.
A meno di non voler veramente credere a chi sostiene che lo spread si sia strutturalmente ridimensionato grazie alle policies straordinarie della banca centrale. Il fenomeno dello spread è infatti ancora lì; infatti, studiando questa grandezza in termini di tassi di interesse reali (e, quindi, al netto dell’inflazione), si scopre che il 2016 non è stato poi così diverso dal 2011, l’annus horribilis. E d’altronde, perché gli operatori di
mercato dovrebbero cambiare le valutazioni sulla rischiosità di uno Stato membro se
nessuno si occupa di cambiare le regole di funzionamento dell’Eurozona in un’ottica
risk-shared?
Una rinnovata dialettica politica per un nuovo set di interventi straordinari
Con queste condizioni al contorno bisogna identificare cosa fare. La mia opinione è
che serva un drastico cambio di rotta. Nella dialettica politica si dovrebbe iniziare a
bollare come euroscettiche dichiarazioni del tenore di quelle che ho citato all’inizio
della mia relazione. Bisogna poi contrastare, o perlomeno non far passare inosservati, incontri bilaterali come quello dello scorso marzo tra la cancelliera Merkel e il presidente degli Stati Uniti d’America, Trump, nel momento in cui vengono prevaricate
le prerogative degli altri Stati membri.
Una statistica può rendere meglio l’idea. Per l’80% della durata dell’incontro la Merkel ha discusso di politiche economiche dell’Eurozona e non di quelle tedesche: questa è un’evidente prevaricazione!
Le istituzioni europee devono riprendere centralità e non farsi sorpassare a destra.
Va contrastato il principio che “guida” chi ha la capital key più elevata
nell’Eurosistema; perché finora purtroppo è andata così salvo rare eccezioni e non va
bene.
Alla politica non spetta solo un ripristino della dialettica istituzionale ma anche proporre delle soluzioni. Ci sono a mio avviso sette interventi mirati che si potrebbero
porre in essere a trattati invariati, cioè sic stantibus rebus.
Primo, le Outright Monetary Transactions della Banca Centrale Europea, cioè lo “scudo
anti spread”, dovrebbero stabilire nell’Eurozona un obiettivo zero spread a dodici mesi.
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Una dichiarazione del genere porterebbe gli investitori istituzionali a muovere la loro
operatività nel senso dei convergence trades e ad azzerare lo spread nell’Eurozona, eliminando così quel fattore di divario di competitività dei sistemi produttivi che alimenta
squilibri persistenti e crescenti fra i Paesi aderenti.
Non è qualcosa di impossibile; come dicevo prima, è già successo nel triennio 19972000.
Secondo, il Fiscal Compact entro fine anno va ratificato nei trattati europei: l’occasione
dovrebbe essere utilizzata per scomputare gli investimenti dal calcolo della spesa
pubblica superando le quote risibili che oggi ci sono accordate dall’asse BerlinoBruxelles. Se non ci fidiamo della classe dirigente dei singoli Stati membri, si può valutare l’eventuale istituzione di un Comitato Europeo che verifichi i “buoninvestimenti”,
cioè quelli con moltiplicatore maggiore di uno. I “buoninvestimenti” vanno esclusi
dall’algebra del Fiscal Compact. Segnalo, per inciso, che questi calcoli algebrici sono a
mio avviso di dubbia legittimità dato che impostano la politica fiscale secondo una
modalità pro-ciclica e, quindi, in piena contraddizione con i Trattati e con l’articolato
stesso del Fiscal Compact, che invece definisce l’esigenza di politiche economiche anticicliche.
Terzo, il Quantitative Easing non dovrebbe concludersi senza un cambio di rotta verso
il risk-sharing. Questo programma di acquisti di tioli – lo ricordo – è stato strutturato
secondo una architettura a “rischi segretati”. La Banca Centrale Europea presta i soldi alle banche centrali nazionali, affinché queste comprino i titoli di Stato domestici
(cioè ognuna quelli emessi dal proprio Governo). Questa è un’anomalia che non a
caso si riflette sul saldo Target 2: oltre 400 miliardi di euro di debiti dell’Italia verso
l’Eurosistema (formalmente) ossia (sostanzialmente) verso la Germania. In un contesto normale il saldo del sistema di pagamenti interbancari di ciascun Paese dovrebbe
essere prossimo allo zero. I numeri che osserviamo invece testimoniano l’errore architetturale del QE definito così dopo le pressioni tedesche in Consiglio direttivo.
Oggi la domanda è: come concludere il QE? Semplice, riavvicinando il Quantitative
Easing europeo a quello della Federal Reserve americana. I titoli di Stato delle banche
centrali nazionali dovrebbero essere rilevati dalla BCE (non andare sul mercato) e i
relativi prestiti andrebbero estinti.
Quarto, per i crediti deteriorati serve una bad bank europea. È vero quelli delle banche italiane ammontano a oltre trecento miliardi di euro, ma è altrettanto vero che il
dato complessivo dell’Eurozona è anch’esso notevole: oltre mille miliardi. Peraltro, i
nostri trecento, quasi per metà sono interessi larga parte dei quali anatocistici; infatti,
come ricorderete, la sentenza che rende l’anatocismo illegale è del 2014; lo segnalo in
quanto da questo punto di vista la situazione nell’Eurozona è eterogenea. A parte
queste differenze – su cui prima o poi l’armonizzazione europea dovrebbe intervenire (come lo ha fatto per esempio sulla tempistica di svalutazione fiscale degli NPL
portandola da 18 anni ad 1, cosa che non è ci abbia proprio agevolato) – torniamo
alla bad bank europea. Si tratta di ipotizzare un veicolo che vada ad assorbire questi
crediti deteriorati – così da levare il tappo a questo lavandino dove ristagna la liquidi6
tà della BCE – e ripristinare così la capacità delle banche dell’Eurozona di sostenere
il tessuto industriale e produttivo.
Quinto, il “Salva imprese”; sui crediti deteriorati serve una sincronizzazione della contabilità delle banche con quella delle imprese. Se un credito di cento euro nominali è
iscritto nel bilancio della banca, in quanto svalutato, a trenta euro, andrebbe contabilizzato a trenta euro anche nel bilancio dell’impresa. Questo disincentiverebbe, tra
l’altro, i fondi-avvoltoio dal comprare i crediti deteriorati delle nostre banche. Oltre
alla sincronizzazione della partita doppia, servirebbe una garanzia dello Stato su questi crediti, da pagare a prezzo di mercato per superare le limitazioni europee sugli aiuti di Stato. La garanzia trasformerebbe il credito in un BTP sintetico, risolverebbe i
problemi di assorbimento di capitale che i crediti deteriorati determinano per le banche e cancellerebbe l’indicazione di cattivo pagatore nella “Centrale dei Rischi”, consentendo all’impresa di riaccedere al credito. Con un po’ di liquidità le imprese potrebbero riuscire a lasciarsi la crisi alle spalle e evitare di finire nella lista nera delle
aziende fallite che oggi conta già 45.000 unità; sempre che sia tra gli obiettivi
dell’Eurozona riavviare il nostro sistema produttivo ed una sana relazione tra banca
ed impresa.
Sesto, il Fondo Europeo di Tutela dei Depositi; se non ricordo male l’Unione Bancaria aveva tre pilastri. I due che ci facevano male sono stati realizzati cioè il bail-in e la
vigilanza unica europea. E il terzo – cioè il fondo di tutela dei depositi – a che punto
è? Eppure è un pezzo di un accordo in essere. La domanda è evidentemente retorica.
Sappiamo tutti che è bloccato dal veto tedesco; veto che è veramente inammissibile.
Settimo, prestiti agevolati e targeted della BCE (T-LTRO) per combattere i differenziali di inflazione all’interno dell’Eurozona, ovvero che vadano alle imprese e alle
famiglie dei Paesi dove l’inflazione è più bassa. L’Eurozona non può consentirsi il rischio che l’obiettivo di inflazione al 2% della BCE possa essere interpretato come
dato medio degli Stati membri, magari pure ponderato in base al peso degli stessi. Si
potrebbe, infatti, arrivare a contraddizioni per cui con una Germania al 3% si potrebbero trascurare scenari deflattivi in altri Stati membri. Escluderei, tra l’altro, che i
Padri fondatori dell’Eurozona immaginassero simili scenari. I T-LTRO qualificano
un importante intervento di convergenza architetturale per la nostra area valutaria in
quanto – una volta portato a casa l’obiettivo di azzerare lo spread – non possiamo
dimenticare che anche il differenziale di inflazione, attraverso la metrica del tasso di
cambio reale, altera la competitività dei sistemi produttivi.
Queste proposte sono veramente quelle che, dato che siamo in questa sede, a me
piacerebbe chiamare il “minimo sindacale” per tenere in piedi la nostra architettura valutaria. Altrimenti, e a me spiace dirlo perché sono un convinto assertore degli Stati
Uniti d’Europa, il rischio è che ci dobbiamo preparare rapidamente ad un piano B.
Grazie.
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