Capitolo quinto

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FISCHER, J. L. Lo stato fascista. In: FISCHER, J. L. La crisi della
democrazia, 2. ed. Torino: Giulio Einaudi, 1977. p. 154-162.
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Capitolo quinto
Lo stato fascista
Abbiamo definito l’autoregolamentazione controllata nel senso che i
vincoli regolativi sorgerebbero per controllo sociale ma in un sistema che
conserva la proprietà privata, cioè il pieno potere politico degli strati
capitalistici che determinerebbero il carattere e la portata controllo.
Questa possibilità non è stata finora realizzata in nessun luogo. La
tenta tuttavia il fascismo italiano e in un certo senso anche il riformismo
di Roosevelt negli Stati Uniti. Appunto questa circostanza renderà piú
difficile la nostra analisi, perché saremo costretti a ricercare delle
soluzioni là dove nulla di definito ancora esiste.
Ricordiamo che dopo la guerra i sindacati avevano raggiunto una certa
sicurezza legale e spesso anche costituzionale, ma continuavano a non
essere inseriti nella struttura sociale.
Una eccezione interessante è da questo punto di vista il «Consiglio
economico imperiale» in Germania. Di esso si può brevemente dire che,
come tutte le istituzioni dei parlamenti economici, non ha fatto buona
prova. Se la inefficacia dei parlamenti economici viene imputata alla
circostanza che essi non avevano potere giurisdizionale poiché le loro
decisioni avevano valore soltanto consultivo, si deve obiettare che nulla
cambierebbe se avessero quel potere, perché una regolamentazione
unitaria del problema economico è possibile solo sul terreno politico,
cioè con un programma politico ben definito di cui sia parte anche un
programma economico. È poi escluso che simili parlamenti economici
possano funzionare nell’ambito dell’odierno sistema parlamentare, in
quanto proprio questo sistema ha fatto degenerare l’aspetto politico in
aspetti particolari, incapaci di dar luogo a una volontà politica univoca.
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Sarebbe forse lecito attendersi che funzionino se vi fosse un tale
programma e, con esso, una organizzazione delle funzioni economiche
culminante in tali parlamenti. Eppure una simile organizzazione
economica non coinciderebbe con la rappresentazione degli interessi e
d’altra parte l’organizzazione economica realizzata con la forma della
rappresentazione economica tenderà, in tutte le società che hanno
mantenuto il principio della proprietà privata dei mezzi di guadagno, ad
essere prima di tutto rappresentazione degli interessi particolari.
Anche per quel sistema che il fascismo considera (perfettamente a
torto) come un originale contributo, vale che è stato motivato e
realizzato gradualmente. Mussolini, ex socialista, si è deciso per l’ordine
di produzione capitalistico non tanto per un particolare amore verso il
capitalismo (sebbene non dobbiamo dimenticare che appunto gli strati
capitalistici hanno reso possibile l’avvento del fascismo), quanto
piuttosto perché vedeva nel suo estremo rendimento economico la
garanzia dello sviluppo nazionale.
Comprenderemo meglio ciò se terremo conto che in conto che in
confronto con gli altri paesi capitalistici l’Italia era dopo la guerra
arretrata da un punto di vista capitalistico e industriale.
L’organizzazione corporativa doveva, originariamente regolare i conflitti
tra gli imprenditori e gli operai e equilibrarli sotto il patronato dello
stato. Nel sistema fascista vi è una gerarchia di organizzazioni
«sindacali», dove sia gli imprenditori che gli operai dànno vita a
organizzazioni isolate. Il «sindacato» (il quale ha in comune con
l’analoga formazione del sindacalismo rivoluzionario solo il nome, perché
è una organizzazione non politica) è l’unità organizzativa fondamentale
alla quale si collegano come formazioni superiori la federazione e la
confederazione, unite a un grado piú alto nella corporazione; soltanto
qui la componente imprenditoriale e quella operaia vengono a contatto.
Teoricamente, esiste la possibilità di piú sindacati per ogni ramo della
produzione, ma lo stato riconosce sempre un solo sindacato, il quale ha
anche il diritto di rappresentare tutti gli appartenenti a una determinata
categoria e di incassare i contributi, senza riguardo alla loro eventuale
organizzazione. Ciò significa in realtà monopolio dei sindacati
riconosciuti dallo stato,
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cioè fascisti, sui quali lo stato ha un diritto assoluto di intervento e
controllo.
La funzione di questi sindacati si limitava all’inizio a equilibrare i
conflitti tra imprenditori e operai e alla legislazione del lavoro e sociale.
Gradualmente però sono state riconosciute alle corporazioni anche varie
funzioni economiche e questo processo è culminato con la
riorganizzazione del Consiglio nazionale per le corporazioni, formato dai
rappresentanti delle confederazioni imprenditoriali e operaie e del
governo.
Con le sue varie competenze, l’organizzazione corporativa non è piú
una semplice rappresentanza di categoria, e acquista varie funzioni
amministrative, in particolare la regolamentazione delle attività
economiche.
Accanto ad essa esiste la rapresentanza politica, eletta secondo il
sistema della lista unica stabilita dal Gran Consiglio fascista, su proposta
delle singole corporazioni; esiste inoltre il vecchio senato, i cui membri
sono nominati dal Gran Consiglio.
La funzione della camera politica è piú formale che politica. Il potere
politico reale è nelle mani del partito fascista e qui di nuovo nelle mani
del Gran Consiglio, il quale con una legge del 1928 è stato proclamato
organo statale.
Questa identificazione del partito con lo stato determina naturalmente
la soffocazione di qualsiasi libertà politica, accresciuta ancora dalla
strutura autoritaria di tutta la gerarchia fascista.
Il volto del «solidarismo» fascista appare ben chiaro dalla Carta del
Lavoro del 1927. L’imprenditore e l’operaio sono produttori, i quali
compiono ognuno il proprio dovere sociale, ció nazionale. La
stratificazione sociale «di classe» è conservata, ma la spersonalizzazione
dell’operaio deve essere in qualche modo compensata dal fatto che egli
compie il proprio dovere nazionale ed è inserito nella totalità nazionale
come una sua parte «organica» e in questo senso «autonoma». Alcuni
fascisti piú moderati riconoscono che con ciò non è ancora risolta la
«questione sociale», o in termini marxisti che non sono state eliminate
le cause della «lotta di classe» e che è semplicemente stato regolato,
con l’intervento dello stato, il rapporto tra imprenditore e operaio. I
vantaggi di questo stato di cose sono evidentemente maggiori
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per gli imprenditori. Ma è anche necessàrio riconoscere che il fascismo
ha tentato di dar vita a una legislazione a difesa degli operai, fino ad ora
assai arretrata, anche se naturalmente non troviamo qui nulla che
superi i risultati raggiunti negli altri stati europei.
Perché un «solidarismo» cosí inteso abbia un successo reale, dovrebbe
essere accompagnato da una coscienza «corporativa» degli operai nel
senso feudale dela parola, cioè tale che l’operaio trovi nel
proprioinserimento funzionale impersonale il proprio inserimento
autonomo ottimale, il che è impossibile se si tiene conto dello stato
tecnico della produzione capitalistica e della coscienza politica operai
negli stati capitalistici avanzati. Senza un tale ritorno a forme sociali
precapitalistiche, l’efficacia duratura del solidarismo fascista è tanto
impensabile quanto è rimasta fino ad oggi intimamente vuota: gli operai
italiani politicamente coscienti sopportano il fascismo, ma non si
identificano con esso.b
Se le nostre conclusioni dicono che il sistema corporativo fascista
avrebbe speranze di successo solo nel caso che regredisse al sistema
corporativo nel senso neofeudale, sarà anche giusto constatare che
simili intenzioni sono estranee al fascismo italiano. Non soltanto perché
proclama ostentativamente una (dubbia) «uguaglianza di diritti» degli
operai con gli imprenditori, soggiacendo qui alle influenze democratiche
del periodo precedente, ma specialmente perché esso vuole essere un
sistema dinamico, vuole rappresentare un grado superiore e non
inferiore, progressivo e non regressivo dell’evoluzione, e cioè un
superamento positivo del capitalismo. Se si può parlare di tragedia dei
movimenti politici, allora tragedia del fascismo è che vorrebbe
raggiungere il dinamismo evolutivo con mezzi la cui efficacia
presupporrebbe al contrario il regresso a forme statiche, il ritorno a
forme evolutive inferiori. Anche qui i motivi di questa circostanza sono
evidenti: il principio dinamico del fascismo, il suo organicismo fondato
nazionalmente è in principio in sostanza biologico, cioè addirittura
qualitativamente inferiore al dinamismo economico capitalistico.
La giustezza di questa conclusione può essere dimostrata con l’analisi
della politica economica fascista. Se la nostra tesi vale, il fascismo
tenderà necessariamente a forme precaPagina158
pitalistiche di conomia come conseguenza del fatto che vuole vincolare il
dinamismo capitalistico (onticamente superiore) con un dinamismo
«nazionale», in sostanza biologico (onticamente inferiore). Anche questo
è a prima vista in contraddizione con le intenzioni del fascismo, tanto piú
che il fascismo ai suoi inizi ricorreva al dinamismo capitalistico come
garanzia piú efficace di espansione nazionale. Se volessimo parlare in
termini marxisti, diremmo giustamente che questo stato di cose era
pensabile ed è possibile solo finché l’economia italiana non aveva
raggiunto i limiti della saturazione capitalistica, cioè in altre parole finché
poteva essere una economia puramente capitalistica. Potremmo
aggiungere che senza l’attuale profonda crisi economica questo processo
sarebbe durato piú a lungo. Fino ad allora la contraddizione interna ─ se
volete dialettica ─ dei principî fascisti sarebbe restata latente. La crisi
economica l’ha soltanto scoperta prima.
Il fascismo, abbiamo detto intende mantenere l’iniziativa privata e il
suo indispensabile presupposto: la libera disponibilità di mezzi di
guadagno. Poiché è cosciente però della destinazione sociale delle
funzioni economiche, intende regolate tale disponibilità con riguardo al
progresso
«nazionale».
Lo
stato
deve
effettuare
questa
regolamentazione e garantire l’equilibrio generale, difendere gli interessi
generali della nazione. In tal modo, secondo il fascismo, si supera
definitivamente la contraddizione tra capitalismo e collettivismo. In
questa autoregolamentazione controllata dell’economia il fascismo
intende
porre
un
ugual
accento
sia
sul
controlo
sia
sull’autoregolamentazione, e ritiene di risolvere ambedue con la
rappresentazione corporativa.
Il difetto fondamentale di questa costruzione è che vi si trascura
l’elementare regola per cui la libera disponibilità dei mezzi di guadagno
porta sempre alla tendenza verso l’optimum autonomo, cioé dal punto di
vista della società verso l’optimum economico particolare, il quale quindi
sarà sempre in contraddizione coll’optimum sociale. Al massimo si
potrebbe dire della rappresentazione corporativa che essa permette di
difendere i singoli interessi con maggiore potere di controllo e maggiore
generalità che nelle società dove tale difesa è affidata a diverse
corporazioni incomplete e piú o meno arbitrarie. Ma questo «vantaggio»
è in
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realtà solo un male minore, perché in ambedue i casi la difesa degli
interessi economici particolari è a danno della società. Dove poi il
fascismo toccasse con i suoi controlli direttamente la libertà e gli
interessi degli strati capitalistici, troverà una resistenza insormontabile.
Ciò non vuol significare che sia impossibile qualsiasi limitazione della
proprietà privata. Anche prima del fascismo e anche ora negli stati non
fascisti essa è possibile. Ma nessuna limitazione di questo genere
colpisce la forza motrice dell’intero ordine economico odierno: il capitale
finanziario, inafferrabile e in sostanza anonimo. La sua «libertà»
equivale alla «illibertà» della societá, fascista o altra. (E non solo: gli
interventi piú profondi sui potere degli strati economici saranno possibili
solo con una forte pressione politica e sociale e contro la loro volontà,
anche se tali interventi servissero in fin dei conti i loro interessi. Da
questo punto di vista è estremamente significativo il tentativo di
Roosevelt di ravvivare la prosperità economica in America. Nonostante il
suo piano economico serva prima di tutto alla restaurazione del
capitalismo, esso ha incontrato l’opposizione testarda dei circoli
industriali e specialmente finanziari, che vedevano in esso un
inammissibile intervento nella propria libertà economica. Solo con una
vivace pressione dell’opinione pubblica Roosevelt ha potuto superare,
con fortuna alterna e senza una vittoria definitiva, quell’opposizione).
Se volessimo dedurre dalle precedenti analisi delle conclusioni generali,
esse suonerebbero chiare: se l’esercizio delle funzioni economiche nelle
società industriali avanzate è determinato dalla tendenza a un qualsiasi
optimum autonomo (individuale o altrimenti particolare) e non dalla
tendenza all’optimun sociale, una regolamentazione univoca e unitaria
delle attività economiche è irrealizzabile senza danno per la società.
Essa sarebbe parzialmente realizzabile se la pressione sociale strappasse
delle concessioni agli strati capitalistici e produttivi, ma tale soluzione è
solo temporanea, perché verrebbe rinnegata nel momento stesso in cui
si indebolisse la pressione che l’aveva imposta. Teoricamente resta una
terza possibilità, che si ritorni a modi precapitalistici di economia, a uno
stato in cui non si miri al maximum economico ma al minimum
assicurato. E solo in questo caso la rappresentazione corporativa
sarebbe contemporaneamente rapprePagina 160
sentazione e organizzazione economica. Ma questa possibilità ci porta
allo stato corporativo di tipo feudale e non fascista, ci porta cioè alle
stesse conclusioni dell’analisi del solidarismo nazionale fascista. Il
principio dinamico del fascismo appare nuovamente come falsamente
dinamico, minato nel nucleo dal conflitto tra premesse contraddittorie, di
cui una mira all’optimum nazionale, intendendo con esso regolare anche
l’optimum autonomo economico, mentre l’altra ammette tale
regolamentazione solo in un caso che equivale alla riduzione
dell’economia capitalistica a un grado precapitalistico.
Che queste conclusioni non siano una semplice deduzione logica, si può
vedere dalla politica economica del fascismo, che fa ricorso agli stessi
interventi di regolamentazione che avevamo conosciuto analizzando il
profilo economico della reazione dei ceti medi. Anche in Italia le difficoltà
economiche sono curate con mezzi «statici», anche qui si prendono
provvedimenti per fronteggiare l’emigrazione dalle campagne nelle città,
anche qui la fondazione di nuove fabbriche è vincolata da un permesso
governativo, anche qui nascono organizzazioni autodifensive (i consorzi
obbligatori) che a prima vista ricordano l’organizzazione monopolistica
del capitalismo culminante, ma in realtà servono alla regolamentazione
«corporativa» (nel senso feudale) della economia ecc. In altre parole:
anche qui si fa valere l’«autonegazione» del capitalismo e il fascismo
non ha nessun principio o mezzo dinamico per fronteggiarla.
La logica delle nostre conclusioni si fonda quindi sulle cose, è
oggettivamente motivata, non è una semplice costruzione logica.
Ma poi il fascismo risolve il problema economico tanto poco quanto
quello sociale, e conseguentemente non risolve neanche il problema
amministrativo: all’organizzazione corporativa fascista si possono
applicare tutte le obiezioni che abbiamo portato contro costruzioni
teoriche analoghe nate ben prima del fascismo, il che ci permette di
rifiutare la sua pretesa originalità. Ciò che ha creato il fascismo con la
sua organizzazione corporativa è una semplice rappresentazione degli
interessi, non una rappresentazione e organizzazione dell’economia e
neanche una rappresentazione professionale.
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L’impossibilità del ritorno a forme precapitalistiche dell’economia è
chiara già dalla sproporzione, dal conflitto dialettico tra le «forze di
produzione» capitalistiche e i «rapporti di produzione» dei ceti medi.
A questa sproporzione si aggiunge una ugual sproporzione tra la
coscienza politica soprattutto degli strati operai nelle società
democratiche e il sistema di disuguaglianze sociali al quale approda
l’organizzazione economica corporativa, che costituisce la conclusione
politica della reazione dei ceti medi. In altre parole non si puó abolire il
grado di «democratizzazione» raggiunto dalla società moderna
abbassandolo a un livello predemocratico, rispettivamente ciò non è
possibile a lungo termine. Lo prova il fatto che il fascismo ha potuto farsi
valere finora solo in società che non hanno una tradizione democratica
profonda, e specialmente poi il fatto che anche in queste società non ha
potuto e non può rinunciare a una rappresentazione politica almeno
formale, anche se ha limitato al massimo la sua libera manifestazione.
A questa sproporzione economica e politica si aggiunge come ultima e
in senso fondamentale quella tra lo stato culturale delle società
moderne, dovuto in primo luogo all’autonomia e all’indipendenza della
creazione culturale, e i vincoli anticulturali imposti con la forza,
mediante i quali la reazione dei ceti medi intende bloccare la vita
culturale, spesso con l’efficace aiuto dei circoli ecclesiastici. Il senso
dell’attività
culturale
è
un
progresso
totalmente
dinamico,
qualitativamente fondato e graduato, che non sopporta di essere
costretto agli orizzonti limitati di qualsiasi frazione politica che abbia
usurpato il monopolio del potere.
A tale proposito dobbiamo nuovamente sottolineare che una causa
ugualmente fondamentale delle sproporzioni citate sta nella
manchevolezza della cultura nei momenti piú fatali. Descriveremmo
questa problematica come sproporzione tra la «tecnica» economica e
quella sociale. A tale sproporzione si è giunti perehé al dominio teorico
della realtà «materiale» non ha fatto riscontro un dominio teorico
ugualmente avanzato della realtà sociale. La fonte dei successi nella
prima sfera e degli insuccessi nella seconda sfera è la stessa:
l’intenzione «materiale» moderna che ha determinato il carattere dello
studio ogettivo della realtà cosí come il carattere della prassi sociale. Ma
questa intenzione «materiaPagina 162
le» per noi era solo un’altra espressione per ll «prototipo culturale»
moderno, la cui formulazione era compito prima di tutto dei
rappresentanti della cultura. Di qui non solo la conclusione stereotipa
che anch’essi sono colpevoli per l’odierna catastrofe, ma anche il
fondamentale riconoscimento che la via di uscita dall’odierna miseria
passa prima di tutto per la formulazione di un nuovo prototipo culturale,
di una nuova sintesi di pensiero. Se abbiamo potuto dire che la reazione
dei ceti medi «vendica» sulla democrazia e sul socialismo perché hanno
trascurato di assolvere per tempo ai propri doveri: la prima di portare
ordine nelle proprie libertà, il secondo nella anarchia economica,
possiamo dire con ugual diritto che essa si vendica anche sulla cultura,
perché non ha fondato per tempo un nuovo e generale quadro di tutti i
valori culturali.
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