Geofilosofia del Mediterraneo

annuncio pubblicitario
Caterina Resta
Erice, 4 ottobre 2013
Un mare che unisce e divide
1. Un mare circondato da terre
Sembra quasi impossibile dire ancora qualcosa sul Mediterraneo1, un tema sul quale,
soprattutto negli ultimi anni, si sono moltiplicati a dismisura gli interventi, arricchendo la già
ridondante bibliografia. Eppure, a fronte di un’attenzione crescente, che mette in campo
diversi ambiti del sapere, non solo relativi alle scienze umane, le numerose riflessioni sul
Mediterraneo restano, ancora, per molti versi, lettera morta. Proprio nella sua straordinaria e
variegata ricchezza di voci e di approcci, la “questione mediterranea” sembra appassionare
sempre di più gli intellettuali e sempre meno la politica concreta, quella che, soprattutto a
livello europeo, dovrebbe cercare di tradurre il pensiero in azioni efficaci. Nonostante alcune
petizioni di principio, la politica della Comunità europea riflette una collocazione geopolitica
dell’Europa tutta centrata nella Mitteleuropa e appare del tutto dimentica che i suoi confini, a
Sud, si affacciano sul Mediterraneo, forse perché il Mediterraneo è diventato un mare di
problemi che non si vogliono affrontare. Sembra quasi che esso rappresenti per il continente
europeo esclusivamente un problema di sicurezza delle sue frontiere costiere, continuamente
minacciate e “trasgredite” dalle nuove invasioni barbariche, dagli sbarchi frequenti di
migranti, in fuga dalla miseria e dalle violenze di guerre o regimi oppressivi e in cerca di
migliori condizioni di vita, che si tratta solo di respingere al mittente, con la complicità di un
paese come l’Italia che ha perfino “inventato” un nuovo crimine, il reato di immigrazione
clandestina. Come ha giustamente ricordato uno studioso spagnolo del Mediterraneo, Manuel
Vázquez Montalbán: «La rappresentazione immaginaria del barbaro, dello straniero,
dell’estraneo che arriva e distrugge relazioni umane e culturali, ha pesato sulla coscienza degli
uomini e delle donne del Mediterraneo, creando una sensazione di spazio minacciato, senza
che ci si rendesse conto che, sin dalle sue origini, il Mediterraneo era stato luogo di passaggio,
di incontro, di conquista di quelli che convenzionalmente chiamiamo barbari» 2.
Mare prima di crociate e poi di crociere, mare prima di traffici e commercio e poi
soprattutto di viaggi turistici e di piacere, oggi il Mediterraneo è divenuto quel braccio di
mare solcato da precarie imbarcazioni, con il loro carico di disperazione, straripanti di uomini,
donne e bambini, che sfidano il naufragio pur di approdare alla terra promessa. Quel mare, i
cui fondali hanno restituito reperti di inestimabile valore archeologico, oggi si è trasformato in
un “cimitero marino”3 di morti spesso senza neppure un nome.
Tornare a interrogare il Mediterraneo, cercare di scandagliare l’intricata trama di
questioni che si aggrovigliano e si intrecciano in questo nome così carico di stratificazioni
geo-storiche e geo-simboliche, può forse assolvere il compito non solo di mostrarne la

Il presente testo è una versione ridotta e in parte rielaborata del III capitolo del volume di C. Resta,
Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Per una sua migliore fruizione sono state inserite alcune
citazioni e note presenti nella versione originale e omesse nell’intervento orale.
1
«Tutto è stato detto su questo “mare primario” diventato uno stretto di mare, sulla sua unità e sulla sua
divisione, la sua omogeneità e la sua disparità. Da tempo sappiamo che non è né “una realtà a sé stante” e
neppure “una costante”: l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee
unificatrici» (P. Matvejević, Quale Mediterraneo, quale Europa?, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, a
cura di F. Cassano e D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2007, p. 436).
2
M.V. Montalbán, Mediterraneo invertebrato, in M.V. Montalbán e E. González Calleja,
Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo spagnolo, tr. it. di C. Vergari, Mesogea, Messina 2002, p. 22.
3
M. Delle Donne, Un cimitero chiamato Mediterraneo. Per una storia del diritto d’asilo nell’Unione
Europea, Derive Approdi, Roma 2004.
1
complessità, ma anche di prospettare un possibile avvenire ad un mare che, inchiodato al suo
nobile e glorioso passato, corre ormai il rischio, nel migliore dei casi, della musealizzazione a
scopo turistico o della consacrata collocazione nella memoria storica. Ridotto a mero scavo
archeologico, alla ricerca di un passato perduto, spesso confinante con il mito, il Mediterraneo
può soltanto alimentare una, seppur preziosa, ma solo antiquaria, storia della sua
magnificenza perduta. Come ha opportunamente fatto rilevare Matvejević:
«Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace […]. La
“patria dei miti” ha sofferto delle mitologie che essa stessa ha generato e che altri hanno nutrito. Lo spazio ricco
di storia è stato vittima degli storicismi. La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà
stessa si è perpetuata: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto. Qui, come
altrove, un’identità dell’essere, difficile da definire, offusca o respinge un’identità del fare, poco determinata. La
retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che la riflessione stessa rimane prigioniera
degli stereotipi»4.
Anche una certa retorica mediterranea non ha fatto che alimentare stereotipi e luoghi
comuni, dei quali non è facile liberarsi, e che spesso infarciscono, con la loro verbosità, i
discorsi più disparati, alimentano la peggiore demagogia, istigando indifferentemente alla
guerra come alla pace, riaccendendo la fiamma del più esacerbato nazionalismo o
prospettando paradisiache forme di civile convivenza tra i popoli5.
Per tutte queste ragioni sembra più prudente tenersi lontano tanto dalle immagini
idilliache e oleografiche, quanto da quelle tratteggiate a tinte fosche, entrambe riduttive di
quella complessità che caratterizza questo particolare intreccio geo-storico cui diamo il nome
di ‘Mediterraneo’.
Pur nella sua apparente semplicità, ci pare che la definizione di uno studioso dell’altra
sponda del Mediterraneo, Ferhat Horchani colga bene e senza particolare enfasi i caratteri
salienti di questo mare:
«Il Mediterraneo può essere definito con relativa facilità. Si tratta di un mare semi-chiuso sulle cui rive
vivono popoli tanto diversi, ma allo stesso tempo tanto simili. È un mare in mezzo alle terre e dominato da
queste, un mare in cui i popoli per la loro posizione geografica sono condannati a vivere insieme, a incontrare gli
stessi problemi, ad avere gli stessi timori e a provare le stesse speranze» 6.
Mare interno, ovunque circondato da terre, la sua specificità consisterebbe dunque nel
fatto che su di esso si affacciano civiltà e popoli diversi, “costretti” a con-dividere questo
spazio facilmente attraversabile che, al contempo, li unisce, imprimendo loro dei tratti
comuni, e li divide, fino a generare insanabili conflitti. Per questo, come ancora scrive
4
P. Matvejeić, Il Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France, tr. it. di G. Vulpius, Garzanti,
Milano 1998, p. 24.
5
«Il discorso sul Mediterraneo ha sofferto della sua stessa verbosità: il sole e il mare; i profumi e i
colori; i venti e le onde; le spiagge sabbiose e le isole fortunate; […] i porti, le barche e i richiami delle coste
sconosciute, le navigazioni, i naufragi e i racconti che si tramandano sulle une e sugli altri; l’arancio, il mirto e
l’ulivo; le palme, i pini e i cipressi; lo sfarzo e la miseria; la realtà e l’illusione; la vita e il sogno. Di questi
motivi hanno abusato i luoghi comuni della letteratura: descrizioni e ripetizioni di tutti i generi. La retorica
mediterranea è servita alla democrazia e alla demagogia, alla libertà e alla tirannide. […] In ogni periodo, sulle
varie parti della costa c’imbattiamo nelle contraddizioni […]. I libri sacri della pace e dell’amore e le guerre dei
crociati o le Jihad anticristiane. Il messaggio ecumenico e l’ostracismo particolarista. L’universalità e
l’autarchia» (P. Matvejević, P. Matvejević, Mediterraneo. Un nuovo breviario, tr. it. di S. Ferrari, Garzanti,
Milano 1991, p. 21).
6
F. Horchani, Tradizione e modernità: le condizioni del dialogo fra le due sponde, tr. it. di K. Poneti, in
AA. VV., Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde, a cura di F. Horchani e D. Zolo, Jouvence, Roma 2005,
p. 159.
2
Horchani, «il Mediterraneo è un luogo unico sul nostro pianeta: culla di civiltà, terra di dèi,
giardino dell’Eden per taluni. In breve, un mare che unisce e divide»7.
2. Un mare di differenze
Se, allora, il Mediterraneo non rimanda ad un’essenza immutabile e difficilmente
riducibile ad una sola cultura, d’altra parte esso non è neppure riconducibile semplicemente
alla frammentarietà di quei popoli che, nel corso dei secoli, si sono avvicendati nel dominio
delle sue sponde. Se è vero che il Mediterraneo sfida ogni esaustiva definizione, è altrettanto
vero che la molteplicità delle differenze che lo compongono non sono pensabili in forma
irrelata, né solo nella loro successione storica. Il Mediterraneo è lo straordinario rapporto tra
queste differenze, l’incontro e lo scontro tra mondi, civiltà, religioni, lingue diverse che in
nessun caso è stato possibile ridurre a Uno e che, tuttavia, nel Mediterraneo hanno trovato le
forme della loro convivenza, dando luogo ad una sedimentazione storica dalla complessa
stratificazione. Forse nessuno meglio di Braudel ha colto il carattere intrinsecamente plurale
di questo spazio unico e singolare:
«Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un
mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare
sul Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in
Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa sprofondare nell’abisso dei secoli, fino
alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. […] Tutto questo perché il Mediterraneo è un
crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma,
vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante»8.
Non una sola civiltà, ma il crogiuolo di culture differenti, il Mediterraneo riflette nella
sua stessa geomorfologia l’intricata co-implicazione degli elementi di cui si compone: «Il
Mediterraneo non è neppure un mare, è, come fu detto, un “complesso di mari”» 9. Ancora
oggi, secondo Braudel, sono soprattutto tre le grandi civiltà che ne compongono l’insieme,
con peculiari stili di vita, di pensiero, di credi religiosi, «tre mostri sempre pronti a mostrare i
denti, tre personaggi dal destino interminabile, presenti da sempre, o almeno da secoli e
secoli»10. Si tratta innanzitutto dell’Occidente europeo, forgiatosi soprattutto a partire
dall’eredità ebraico-cristiana e romana; contro di esso si afferma il mondo arabo-islamico,
fratello nemico e complementare, la cui ostilità e rivalità rivelano anche la natura mimetica di
un rapporto che ha conosciuto momenti di profonda osmosi. Infine vi è il mondo cristianoortodosso, che dalla Grecia si spinge fino alla Russia, la cui faglia attraversa i Balcani,
provocando frequenti terremoti che rendono da sempre instabile quell’area.
È innegabile che la difficile convivenza tra le sue molte anime sia all’origine di quella
diffusa conflittualità che ha da sempre contraddistinto l’area del Mediterraneo. Come ha
opportunamente evidenziato Matvejević, sgomberando il campo da ogni immagine idilliaca:
«Qui popoli e razze per secoli hanno continuato a mescolarsi, fondersi e contrapporsi gli uni
agli altri, come forse in nessun’altra regione di questo pianeta: si esagera evidenziando le loro
convergenze e somiglianze, e trascurando invece i loro antagonismi e le differenze»11. Non
bisogna dunque sottovalutare il carattere conflittuale del Mediterraneo, sulle cui sponde lo
scontro di civiltà ha conosciuto, fin dai tempi più remoti, i suoi albori. Come ha scritto
7
Ibidem.
F. Braudel, Mediterraneo, in F. Braudel et al., Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le
tradizioni, tr. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1992, pp. 7-8.
9
F. Braudel, Prefazione a Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, tr. it. di C. Pischedda,
Einaudi, Torino 1976, I, pp. XXIII-XXIV.
10
F. Braudel, La storia, in F. Braudel et al., Il Mediterraneo, cit., p. 101.
11
P. Matvejević, Mediterraneo. Un nuovo breviario, cit., p. 19.
8
3
Braudel: «Le civiltà sono dunque intrise di guerra e di odio, una immensa zona d’ombra che
le divora quasi per metà. L’odio se lo fabbricano, se ne nutrono, ne vivono. […] Troppo
spesso, infatti, le civiltà non sono altro che incomprensione, disprezzo ed esecrazione degli
altri»12.
Oggi che al conflitto israeliano-palestinese, la «più dolorosa e pressoché inguaribile
ferita del Mediterraneo»13, si aggiunge anche quello, particolarmente sanguinoso, che
coinvolge il popolo siriano, oggi che le speranze legate alle primavere arabe dei paesi
nordafricani si scontrano con le difficoltà di avviare processi davvero democratici, come
negare che proprio il Mediterraneo non sia la più clamorosa smentita della possibilità di una
convivenza pacifica tra mondi, culture, religioni differenti?
Eppure lo scontro non è l’esito fatale del confronto tra civiltà pur così gelose custodi
della propria individualità. Se volta per volta il Mediterraneo ha conosciuto civiltà dominanti,
nessuna, tuttavia, alla fine, è mai stata capace di cancellare le altre, ma ha dovuto con esse
innestarsi, stratificarsi, lasciando visibile il proprio sedimento non come un corpo estraneo,
ma come una traccia tangibile del proprio passaggio, che è venuta ad incorporarsi, ad
aggiungersi alle altre, arricchendo l’insieme di nuovi elementi. Da costa a costa si sono
moltiplicati gli scambi, il dialogo, i contatti, generando fruttuose contaminazioni, che hanno
dato luogo a una storia comune: «Se alle civiltà delle sue sponde il mare ha dovuto le guerre
che lo hanno sconvolto, è stato loro debitore anche della molteplicità degli scambi (tecniche,
idee e anche credenze), nonché della variopinta eterogeneità di spettacoli che oggi offre ai
nostri occhi. Il Mediterraneo è un mosaico di tutti i colori»14.
Uno e molti, il Mediterraneo è un insieme policromo e polifonico, da sempre
refrattario ad ogni reductio ad unum. Come ha giustamente sottolineato Predrag Matvejević,
un suo profondo conoscitore:
«Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Sono
caratterizzate da tratti per certi versi simili e per altri differenti, raramente uniti e mai identici. Le somiglianze
sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e forme di espressione
vicine. Le differenze sono segnate da origini e storia, credenze e costumi, talvolta inconciliabili. Né le
somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le ultime» 15.
Per questo le differenze, pur vistose, e le numerose divisioni non sono ancora riuscite a
spezzare quei sotterranei legami che continuano a tenere insieme i popoli mediterranei,
persino al di là del loro evidente contrapporsi. Quando non assume la forma di un conflitto
insanabile, il confronto con l’alterità, l’incontro così ravvicinato con l’altro, è infatti la linfa
vitale di cui ogni cultura ha bisogno di nutrirsi per non morire di asfissia, chiudendosi in se
stessa nella paranoica difesa ad oltranza della “purezza” incontaminata della propria identità 16.
Solo ad uno sguardo d’insieme, capace di cogliere in questo mare di differenze le
tessere di un mosaico il cui disegno complessivo diviene finalmente visibile, è dato
comprendere quella che Braudel ha chiamato «l’essenza profonda del Mediterraneo», la sua
«unità originale»17. Un’unità in se stessa molteplice, plurale, ma non per questo meno
singolare, in cui le diverse identità possono convivere solo se ciascuna non tenta di
prevaricare sull’altra, solo se ciascuna si pone in ascolto dell’altra. Perché questo possa
12
F. Braudel, La storia, cit., pp. 111-112.
P. Matvejević, Quale Mediterraneo, quale Europa?, cit., p. 443.
14
F. Braudel, La storia, cit., p. 112.
15
P. Matvejević, Il Mediterraneo e l’Europa, cit., p. 31.
16
Come ha ribadito Derrida: «il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa» (J. Derrida,
Oggi l’Europa, tr. it. di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991, p. 14). Per l’approfondimento di questo tema, mi
permetto di rinviare a C. Resta, Un’esposizione vulnerabile, “Φάσις. Eurpean Journal of Philosophy”:
Ex-position, 0, 2012.
17
F. Braudel, Mediterraneo, in F. Braudel et al., Il Mediterraneo, cit., p. 9.
13
4
accadere – come in alcuni felici momenti della storia del Mediterraneo è accaduto 18 – è certo
necessario ripensare il concetto stesso di confine e di frontiera19: non linea di demarcazione
invalicabile tra il proprio e l’estraneo, che definisce uno spazio identitario chiuso ed
escludente, proprio per questo sempre sul punto di trasformare il confronto in uno scontro e la
frontiera in un fronte di guerra, il confine non solo separa, ma anche mette in rapporto, è
sempre una soglia di transiti possibili, di possibili traversate. Il Mediterraneo è stato – e
dunque potrebbe essere ancora – l’esperienza di questa con-divisione, di questa relazione tra
differenti. Come in più occasioni ha insistito Franco Cassano: «Il Mediterraneo che emerge
non è un’identità monolitica, ma un multiverso che allena la mente alla complessità del
mondo, agli ibridi, agli incroci, alle identità che non amano la purezza e la pulizia, ma
conoscono da tempo la mescolanza»20
3. Il pluriverso mediterraneo
Il Mediterraneo è un mare ricco di coste e di rive, di penisole e isole, un mare che
separa e divide, ma che anche unisce, che incessantemente collega e mette in rapporto da
sponda a sponda. Occorre evitare che il Mediterraneo si riduca ad un mare dal glorioso
passato: esso potrebbe ancora avere un avvenire. Certo, perché questo accada, la prima
condizione è quella di un radicale ripensamento del processo di unificazione europea, volto
alla rivendicazione delle sue radici mediterranee. Solo un’Europa capace di riconoscere nel
Mediterraneo la propria culla e di tornare a rivolgersi a quelle sponde da troppo tempo
relegate a sua dimenticata periferia, potrebbe davvero ritrovare il suo ‘naturale’ (dal punto di
vista geostorico) baricentro, quel mare in cui specchiarsi non solo con nostalgico rimpianto
per la perduta centralità nella storia del mondo, quando era l’umbilucus mundi, ma con
l’orgogliosa consapevolezza di costituire un “grande spazio” capace di esercitare il proprio
ruolo di neutralizzazione dei conflitti, scongiurando il pericolo di uno scontro di civiltà.
L’irriducibile pluralità del Mediterraneo potrebbe rappresentare infatti un paradigma non solo
per l’Europa, ma anche per un mondo globalizzato proprio perché testimonia come unità e
differenze, pluralismo e universalismo, lungi dal contrapporsi e da spingere in direzioni
opposte, possono dar luogo a feconde forme di convivenza. Davvero il Mediterraneo può
costituire un’alternativa21 al disegno neo-imperiale di un nuovo ordine mondiale, da
qualunque parte esso provenga, affermando contro ogni universalismo astratto, ideologico e
omologante, l’esigenza di un pluriverso del quale persino l’Islam, il Nemico assoluto, e il
mondo arabo dovrebbero essere parte integrante 22.
18
Basti pensare al regno normanno di Ruggero II d’Altavilla o alla corte di Federico II di Svevia, a
Palermo, aperti alle quattro culture: greca, latina, ebrea e musulmana.
19
Cfr. M. Cacciari, Nomi di luogo: confine, “aut aut”, 299-300, 2000 e F. Cassano, «Pensare la
frontiera», in Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 53-66.
20
F. Cassano, Contro tutti i fondamentalismi: il nuovo Mediterraneo, in V. Consolo e F. Cassano,
Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo italiano, Mesogea, Messina 2000, p. 61).
21
È in questa prospettiva che si collocano soprattutto gli interventi di F. Cassano e D. Zolo, contenuti in
AA. VV., L’alternativa mediterranea, cit., di cui sono anche i curatori.
22
«“Unità” non significa uniformità culturale o monoteismo. Significa, al contrario, l’inclusione a pieno
titolo, entro il “pluriverso” culturale mediterraneo, della civiltà arabo-islamica del Maghreb e del Mashreq, dal
Marocco all’Egitto, alla Siria. […] Il Mediterraneo è sempre stato un “pluriverso” irriducibile di popoli, di
lingue, di espressioni artistiche e di religioni che nessun impero, neppure quello romano, è riuscito a soggiogare
e controllare stabilmente» (D. Zolo, La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, cit., p.
18.) Sulla necessità di un dialogo con il mondo arabo-islamico si veda in particolare AA. VV., Mediterraneo. Un
dialogo fra le due sponde, cit.
5
L’universalismo pluralistico23 del Mediterraneo, dovuto al continuo rapporto pacifico
o conflittuale tra lingue, costumi, abitudini, tradizioni diverse, costituisce dunque, a differenza
dell’universalismo monistico atlantico anglo-americano o a quello del fondamentalismo
islamico, una sfida per ripensare l’intero assetto globale. Se, da un lato, il “pensiero unico”
atlantico è allergico ad ogni differenza culturale e religiosa e utilizza pretestuosamente
l’universalismo dei diritti umani come un’arma per ingaggiare le sue guerre umanitarie; se
dall’altro lato, il fondamentalismo islamico fomenta il risentimento anti-occidentale,
coltivando il sogno delirante dell’islamizzazione del mondo, attraverso guerre fratricide e atti
di terrorismo internazionale, l’universo plurale del Mediterraneo mostra come, nella sua
storia, non si siano cancellate le differenze di cui si compone, sapendo spesso coniugare unità
e molteplicità. Come ha affermato ancora Cassano:
«quel nome, medi-terraneo, parla di un mare che separa e unisce, che sta tra le terre senza appartenere
in esclusiva a nessuna di esse, che resiste a ogni desiderio di annessione, un mare che si rifiuta di rinchiudere la
propria inquietudine nella fissità di una Scrittura, nella sacralità assoluta e definitiva di un testo. In questo suo
essere di tutti e di nessuno, il Mediterraneo è quindi allergico a tutti i fondamentalismi» 24.
Mare nostrum, mare comune, di cui, però, nessuno ha mai potuto appropriarsi, di cui
nessuno ha mai potuto vantare il monopolio. Proprio per questo esso potrebbe scoprire la sua
connaturata vocazione d’essere spazio di inclusione e non di esclusione, di integrazione e non
di integralismo. Se il fondamentalismo è, in ultima istanza, rifiuto dell’alterità dell’altro,
volontà prepotente di imporre il dominio dell’Uno e dello Stesso sulla realtà dei molti e dei
differenti, allora il Mediterraneo è il luogo per eccellenza dove questa tracotanza mostra tutta
la sua violenta insensatezza. Qui il mare urta costantemente con la terra che lo tiene a freno e
gli dà misura, mentre la terra non può illudersi di dettare la sua legge assoluta, il suo
immobilismo, ma deve scendere a patti con la mobilità del mare, che lungo le coste
incessantemente la inquieta, ne incrina la stabilità, ne erode e sfrangia il profilo e la costringe
al movimento. Perciò l’isola25, questa terra che sembra galleggiare sul pelo dell’acqua, è
l’emblema più calzante della compenetrazione tra la terra e il mare, così come l’arcipelago la
cifra geofilosofica del Mediterraneo.
Mare tra terre, il Mediterraneo è dunque il luogo per eccellenza della relazione, del
rapporto, dell’incessante interrogare, del continuo incontrarsi del “proprio” e dell’“estraneo”.
Più che dal dialogo, l’“accordo” mediterraneo può scaturire solo dal conflitto delle
interpretazioni e dal paziente lavoro di traduzione26 di una lingua nell’altra. La traduzione,
infatti, è l’esperienza non solo della possibilità dell’incontro e dello scambio tra il proprio e
l’estraneo, ma anche della irriducibilità, in ultima istanza, di una differenza e di una distanza
che non possono essere mai del tutto cancellate. Non si dà, infatti, traduzione senza un resto
di intraducibilità, senza che la prova dell’estraneo sia mai compiutamente risolta e dissolta
nel proprio e in un’appropriazione totalmente compiute. A differenza del dialogo, la
traduzione pone l’accento sulla irriducibile estraneità e sulla differenza che permane al cuore
di ogni possibile intesa. Di più, denuncia l’origine babelica delle lingue e la tracotanza che
vorrebbe ridurle a una, mostra non solo come inappropriabile la lingua dell’altro, ma anche
23
Come ha opportunamente fatto rilevare Cassano, il Mediterraneo ci invita a pensare un altro
universalismo, al di là di ogni astrattezza, spesso irriguardosa nei confronti delle differenze: «Né una verità
universale definita dai più forti, né una chiusura relativistica delle culture su se stesse, ma la costruzione
complessa di un universale a più voci» (F. Cassano, Necessità del Mediterraneo, in AA. VV., L’alternativa
mediterranea, cit., p. 99). Questo particolare tipo di «universalismo non è dogmatico e a priori, ma sincretico e a
posteriori, un universalismo sempre imperfetto, senza primi della classe, che vive di traduzioni» (ivi, p. 103).
24
Ivi, pp. 79-80.
25
Il termine greco nesos (isola), deriva dal verbo necho, nuotare, galleggiare sull’acqua, navigare.
26
Sulla traduzione ha insistito in particolare F. Cassano, Il pensiero meridiano, cit., pp. 64-66.
6
che la lingua stessa che parliamo, la nostra lingua, a sua volta, non è appropriata o
appropriabile, non può mai essere fino in fondo ‘propria’. Si parla sempre nella lingua
dell’altro, sempre in traduzione, anche quando si pensa di parlare nella propria lingua. Non vi
è altro che traduzione all’origine della lingua, di ogni lingua, nel suo rapporto con se stessa e
con le altre, poiché esse vivono e si alimentano del loro scarto, di quella estraneità che ne
costituisce il cuore segreto e inviolabile. Il Mediterraneo è sempre stato il mare delle
traduzioni, a partire dal prodigioso lavoro dei Settanta, che tradussero la Bibbia ebraica nella
lingua greca del cristianesimo nascente, il quale, poi, avrebbe assunto il latino della Vulgata
di San Gerolamo come propria lingua universale. Ma è anche stato il luogo in cui la lingua e
la cultura araba si incontrarono e si tradussero sulle molte altre rive di questo mare, lasciando
tracce indelebili, anche nella toponomastica e in molti dialetti.
Ma tradurre non significa solo instaurare un dialogo che rispetti l’irriducibilità delle
differenze tra le lingue, fuori e dentro di esse; significa anche ospitare la lingua dell’altro,
accoglierla proprio in quanto estranea. Nei porti del Mediterraneo non solo le navi hanno
trovato rifugio, ma le lingue sono approdate, hanno contaminato le coste, si sono insediate
sulle rive, hanno insidiato ogni possibile appropriazione e reso vano ogni tentativo di
chiusura. Nella prova di ospitalità senza riserve, nell’accoglienza che rispetta come sacro
l’ospite, lo straniero che arriva, il Mediterraneo ha riconosciuto, da sponda a sponda, dal
mondo greco a quello latino e in tutte e tre le religioni del Libro, il suo più tenace orizzonte
culturale27, oggi così vergognosamente dimenticato.
Anche se gli scenari che abbiamo sotto gli occhi per molti versi sembrano
scoraggianti, tuttavia anch’io mi associo a quanti ritengono che «un altro Mediterraneo è
possibile»28 e che anzi esso «può essere presentato come una possibile “alternativa”»29.
Ciò a patto che sappia pensarsi come un “universo plurale”, che non nega le
differenze, centro propulsore di un nuovo nόmos della terra che sappia esso stesso costituirsi
come pluriverso nel segno non dell’ostilità e dello scontro di civiltà, ma dell’ospitalità e della
traduzione.
A patto, naturalmente – e questo, non lo nascondo, è certamente lo scoglio più difficile
da superare – che la politica nazionale e quella europea siano in grado di imprimere una
radicale inversione di rotta, che tuttavia sarà resa possibile solo se ciascuno di noi saprà
guardare a questo mare, a questo straordinario mare di differenze con altri occhi.
Forse proprio qui, da Erice, che dalla sua posizione elevata offre una spettacolare vista
sul Mediterraneo, potremmo cominciare ad allargare i nostri orizzonti.
27
Cfr. F. Gioia, Pellegrini e forestieri nel mondo antico, Mondadori, Milano 1998.
Horchani - Zolo, Premessa, cit., p. 9.
29
D. Zolo, La questione mediterranea, cit., p. 18.
28
7
Scarica