LA PRIMA EPOPEA COLONIALE ITALIANA (1885-1896) di Daniele Cellamare Iniziata con i grandi viaggi dei secoli XV e XVI, l’espansione coloniale europea raggiunse un eccezionale sviluppo nel corso dell’Ottocento, dove le potenze del vecchio continente utilizzarono la loro superiorità tecnica, scientifica e militare per prendere possesso della quasi totalità del mondo conosciuto. Alla fine del secolo risultavano in mani europee il 90% dell’Africa, il 98% delle Terre Oceaniche (Australia ed isole del Pacifico) ed una gran parte del continente asiatico : in totale i 3/5 delle terre emerse, abitati da più della metà della popolazione extraeuropea del globo terrestre. In Italia, negli ultimi decenni del XIX secolo si verificarono cambiamenti significativi : lo sviluppo industriale (con successi, ma anche con contraddizioni sociali), la diffusione del movimento operaio (nacque il Partito Socialista Italiano) e le forze della Sinistra al potere. Nel 1876, dopo 15 anni di governo dei liberali moderati della Destra storica i poco più dei 400.000 elettori votanti, tutti appartenenti alla classe borghese italiana, portarono al governo la Sinistra storica. Nel 1878 morirono anche due degli ultimi maggiori personaggi dell’Età risorgimentale : Pio IX e Vittorio Emanuele II ed al loro posto Leone XIII ed Umberto I – che regnerà dal 1878 al 1900 – dando a questo periodo della storia d’Italia il nome di “Età Umbertina”. La Sinistra governò ininterrottamente il Paese per quasi tutta l’Età umbertina, con Agostino Depretis dal 1876 al 1887 e con Francesco Crispi dal 1887 al 1896 e l’avvento della Sinistra storica modificò sostanzialmente la politica estera italiana – sia con un radicale mutamento di alleanze rispetto al passato, sia con il primo tentativo di espansione coloniale – ed il periodo che esaminiamo, chiamato appunto la prima Epopea 1 Coloniale, parte dallo sbarco a Massaua nel 1885, sino alla terribile disfatta di Adua nel 1896, che determinò la caduta del governo Crispi. Le premesse storiche, politiche e militari Nel 1881 la Francia occupò la Tunisia – dove esisteva una forte colonia siciliana – generando in questo modo una grave tensione nei rapporti italo-francesi, lì dove esisteva un progetto italiano per imporre il proprio protettorato coloniale proprio in quella zona del Nord Africa, e nel 1882 l’Italia decise di aderire alla “Triplice Alleanza” (il patto militare difensivo che impegnava i contraenti a prestarsi reciprocamente aiuto in caso di aggressione da parte di terzi) con la Germania e con l’Austria, nonostante il fatto che Vienna fosse ancora considerata, così come dai tempi di Cavour, il nostro principale nemico. Lo stesso Depretis ed il Ministro degli Esteri, Mancini, furono contrari a questa alleanza, ma le forti pressioni esercitate da Umberto I, ammiratore di Bismarck e del militarismo prussiano, costrinsero il Governo italiano alla firma del patto, che in ogni caso fece entrare l’Italia, a questo punto a pieno titolo, nel novero delle grandi potenze. Sull’esempio di altre nazioni europee, che stavano attuando una politica di espansione coloniale alla conquista dell’Africa e dell’Asia (l’Inghilterra stava raggiungendo un vero e proprio impero coloniale, così come la Francia ed il Belgio si erano lanciate all’accaparramento di colonie e persino la Germania, nonostante la riluttanza di Bismarck, stava tentando di conquistare territori liberi in Africa) anche l’Italia si avventurò sulla strada del Colonialismo ed esplorazioni e missioni in Africa Orientale vennero effettuate da Guglielmo Massaia, Giuseppe Sapeto, Orazio Antinori e Romolo Gessi. Nel 1882 il Governo italiano (sempre con il Ministero Depretis) acquistò da una Compagnia genovese di navigazione, la “Società Rubattino”, la base marittima di Assab, in Eritrea, (usata dalla Compagnia come scalo carbonifero per le proprie navi) con l’obiettivo di farne la testa di ponte per le future operazioni militari volte alla conquista dell’Abissinia (l’Etiopia di oggi), 2 un paese vastissimo ed impervio, con un ordinamento di tipo feudale su cui governava una figura di “re imperatore” chiamato Negus. Il regime politico della regione si era conservato stabile nei secoli, assumendo appunto un'organizzazione di tipo feudale, con al vertice il Negus (Imperatore) ed i suoi Ras, ovvero l'aristocrazia terriera e militare che governava, godendo di molta libertà di azione, le varie province. Come tutti i regimi feudali, quello del “Leone di Giuda” era caratterizzato da un assai debole potere centrale e da un equilibrio alquanto precario, con continue ribellioni e conflitti tra l'imperatore e la nobiltà, ma in ogni caso capace sempre di rinsaldarsi istantaneamente quando una minaccia esterna faceva prevalere il fortissimo sentimento nazionale che accomunava – per tradizione, religione e cultura – popolo ed aristocrazia terriera. Con il tempo i Ras assunsero una potenza e un'indipendenza sempre più spiccate finché, nel 1851, deposto l'imperatore della dinastia salomonica Giovanni V (detto l'Idiota) lo Stato passò nelle mani di una serie di usurpatori ciascuno dei quali, in ossequio alla tradizione, reclamava la sua lontana discendenza da Menelik I, il fondatore. Alle crisi delle endemiche lotte civili interne, si aggiunsero negli anni Ottanta del secolo i pericoli esterni che insidiavano la stessa indipendenza etiopica: la calata dei dervisci musulmani dal Sudan (quello che oggi potremmo definire un movimento islamico integralista, guidato dal carismatico Mahadi, il “Profeta”) e la penetrazione coloniale italiana dall'Eritrea. A questo punto dobbiamo aggiungere che la dinastia imperiale etiopica affondava le sue radici in un passato talmente remoto da poter essere definito addirittura "biblico". Secondo la tradizione, il suo fondatore, Menelik I, sarebbe addirittura nato dagli amori di Salomone e della regina di Saba, in un periodo che gli storici collocano intorno al 1.000 a.C. (cinque secoli più tardi Erodoto accennò alla presenza di un già solido impero africano in Etiopia, caratterizzato dalla fiera bellicosità dei popoli che lo abitavano). La regione fu evangelizzata nel IV secolo d.C., ma in seguito la Chiesa etiopica seguì l'eresia monofisita di Eutiche, rompendo così i contatti con Roma e Costantinopoli, per darsi 3 una propria gerarchia ecclesiastica che faceva capo ad una sorta di pontefice locale detto Labuma. L'adesione alla religione copta rimase tanto salda e connaturata tra gli etiopi che, pur essendo praticamente circondati da genti di fede musulmana, si è sempre mantenuta intatta. È interessante a questo proposito aggiungere anche che lo stesso nome di Abissinia, con il quale si usò definire il paese, è di origine araba (mentre Etiopia è di derivazione greca), e derivava dalla tribù yemenita degli Habashàt, che fusero la propria stirpe semitica con le popolazioni negroidi originarie. E quindi le Autorità italiane si trovarono ben presto – come vedremo – di fronte a due problemi militari: opporsi ai seguaci del Mahadi a NordOvest e penetrare in direzione dell'Abissinia ad Ovest. Il primo problema sarebbe stato risolto brillantemente nelle quattro successive vittorie di Agordàt (27 giugno 1890), Serobèti (26 giugno 1892), della seconda Agordàt (21 dicembre 1893) e di Cassala (17 luglio 1894), ma l'espansione verso l'entroterra che precedette la campagna contro i Dervisci portò invece allo scontro fra il più giovane regno d'Europa (35 anni) ed il più antico impero d'Africa (2700 anni). Ma prima di addentrarci nelle drammatiche vicende della nostra epopea coloniale, è doveroso aggiungere alcune informazioni sull’esercito che ci inflisse l’umiliante sconfitta di Adua. Secondo la relazione del Capitano Cecchi del 1887, l'Impero etiopico era in grado di mettere in campo circa 145.000 guerrieri (estremamente bellicosi) e la chiamata alle armi avveniva in tutto il paese al suono del “ketit”, che obbligava ogni gruppo familiare a fornire almeno uno dei propri componenti, che veniva ripagato durante la campagna militare con derrate alimentari oltre al pasto giornaliero assicurato - lì dove i combattenti più valorosi potevano anche ricevere donazioni in terre e gradi di maggiore prestigio nella gerarchia militare. Quindi non esisteva un vero e proprio esercito nazionale, ma la risultanza di piccoli eserciti locali governati dai rispettivi Ras, in grado di assumere, all’occorrenza, un’unica e precisa disposizione tattica, secondo una tradizione – forse arretrata, ma sicuramente efficace – rimasta inalterata nei secoli. Infatti, durante le 4 marce di spostamento, sia l’esercito nel suo complesso che i singoli reparti, si muovevano nella stessa formazione che avrebbero successivamente assunto durante la battaglia, con l’evidente vantaggio di avere le truppe sempre già “schierate” (ogni singolo uomo occupava negli spostamenti lo stesso posto a lui destinato nel combattimento) e pronte quindi a sostenere qualunque scontro in qualunque momento. Inoltre, l'organizzazione militare degli abissini non prevedeva né colonne di salmerie né un apparato logistico, ed erano infatti i guerrieri stessi, con i loro muletti, che si occupavano di trasportare tutto ciò che occorreva ed oltre ai bagagli, i viveri e le armi, anche tutto il necessario per la rapida costruzione dell'accampamento imperiale. A tal fine erano divisi in otto categorie di portatori : dai Kodda, adibiti al trasporto degli otri per l'acqua, ai Guebbar, per i forni da campo, le lenticchie e la farina, ai Saten-Ciagn, per il pane già confezionato, sino agli Urari, che marciavano e combattevano tra le prime file, ed era loro affidata la tenda dell'imperatore (Adderach) e quella dell'imperatrice (Elfign). Lo schieramento tipico degli etiopici in battaglia era a croce greca, cioè con i quattro bracci uguali : il braccio che procedeva in testa, o avanguardia, era guidato da un alto Ufficiale chiamato Fitaurari, quello che costituiva l'ala destra era invece comandato dal Cagnazmàcc, quello di sinistra dal Grazmàcc, ed infine quello posteriore, la retroguardia, dal Mobò. Il Degiàcc, (Comandante della Porta) era un grado equivalente al nostro Generale e Ufficiali di grado inferiore erano gli Ieshambél, (Comandanti dei Mille), i Shambél, (Comandanti dei Duecentocinquanta) ed i Balambaràs (Capi dei cavalieri armati di corazza). L'esercito abissino era solito attaccare battaglia all'alba, giudicata l'ora più propizia (e possibilmente nel giorno di Martedì) ed all’inizio del combattimento il centro della croce e la retroguardia rimanevano a protezione dell'Imperatore, dei dignitari e dello”Stato Maggiore”, mentre l'avanguardia si precipitava all'attacco del nemico, con il contemporaneo allargamento delle ali per una manovra di avvolgimento. Il 17 Agosto del 1869, dopo dieci anni di lavori, si inaugurò il Canale di Suez che mise in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso sulle 5 rotte dell' Oriente senza circumnavigare l'Africa. E proprio in quel periodo, il Prof. Giuseppe Sapeto, Padre Lazzarista ed esploratore, comprò la baia di Assab in Dancalia per 6.000 talleri austriaci dai locali capi mussulmani e rientrato in Italia cedette i diritti alla Società di navigazione Rubattino. Per dieci anni il piccolo presidio dell'attracco riuscì a convivere pacificamente con le tribù dell'interno senza eccessivi problemi (eravamo padroni del suolo fisico, ma non del paese politicogeografico) . Da qui partivano le esplorazioni per l'Etiopia e l’Abissinia, terre ancora sconosciute, dei mercanti alla ricerca di nuovi prodotti da scambiare. Ma le carovane che si addentravano in questi territori impervi si scontravano sempre più spesso con bande incontrollate di predoni. Nel 1882, a seguito dell'ennesimo incidente, il Governo Italiano decise di assumere oltre che la proprietà, anche la protezione della baia con l’invio di un plotone di Carabinieri. Ma il 7 Ottobre 1884 i più importanti giornali dell’epoca, “La Tribuna” (trentamila copie, un vero successo editoriale), “La Gazzetta di Torino” ed “Il Fischietto”, riportarono tutti in prima pagina la tragica fine del pioniere esploratore italiano Gustavo Bianchi che, dopo aver attraversato l’Abissinia da Sud a Nord ed aver soggiornato nel Tigrè, venne massacrato dalla tribù degli Aussa sulla via del ritorno (in località Dankali, tra Macallè ed Assab), mentre marciava con la sua colonna a circa 200 chilometri proprio dal porto di Assab, dove era diretto. Tutte le firme più prestigiose inveirono contro l’indifferenza del Governo chiedendo di vendicare subito l’oltraggio alla bandiera italiana, con una esemplare punizione ai “selvaggi”, oltre a sventolare opportunamente anche le argomentazioni politiche adatte a giustificare l’intervento : “Vedendo che tutte le potenze, anche le secondarie, si appropriano di qualche grosso boccone di territorio africano senza render conto a nessuno del loro operato, è ovvio domandare perché la sola Italia se ne stia con le mani in mano”. Il 1° Gennaio del 1885 apparve sul giornale “Il Diritto”, di ispirazione governativa, un articolo dove per la prima volta si riportava in maniera diretta la decisione governativa di intraprendere una precisa politica di espansione 6 coloniale, e fu così che nel mese successivo un esiguo contingente di soldati italiani sbarcò a Massaua, un piccolo porto nel Mar Rosso, dando così inizio alla drammatica avventura coloniale italiana, che durerà oltre mezzo secolo. Contro questa politica espansionistica – sostenuta principalmente dal freddo ed autoritario Umberto I, dai militari e da una piccola parte della opinione pubblica borghese – si levarono molte voci di disapprovazione e di aperta critica. Sella e Minghetti ammonirono il Governo a non gettare il Paese in pericolose avventure di mero prestigio e Garibaldi, dalla sua Caprera, espresse la sua avversione contro le imprese coloniali, dichiarando che “i latifondi e le paludi d’Italia sono i primi ad aver bisogno di una colonizzazione”. Inoltre, vennero anche avanzate numerose riserve sull’impiego di denaro e di mezzi necessari per far fronte alle forti difficoltà dell’impresa, proprio in un periodo in cui l’Italia non era in grado di permettersi simili dispendi di energie, sia esse economiche che sociali, ma la spedizione di Massaua venne in ogni caso approvata con 180 voti a favore e 97 contrari, durante un voto esplicito di fiducia al Governo chiesto dallo stesso Depretis. Tra il 1884 ed il 1885, i rappresentanti delle maggiori potenze si riunirono a Berlino per stabilire le rispettive zone di influenza e le norme da seguire per l’occupazione dell’intero continente africano, stabilendo che quando uno Stato avesse occupato una porzione di costa, era tenuto semplicemente a comunicarlo agli altri, potendo altresì godere del diritto di penetrare nel territorio interno, fin dove i suoi interessi non si fossero scontrati con quelli di altri Stati occupanti, e per questo motivo, e non certo a caso, il Trattato di Berlino venne definito il “Galateo della Rapina” ! “La potenza che d’ora in poi prenderà possesso di un territorio sulle coste del continente africano all’infuori dei suoi possedimenti attuali, o che, non avendone, ancora volesse acquistarne, come pure la potenza che vi assumerà un protettorato, accompagnerà l’atto relativo con una notificazione rivolta alle altre potenze firmatarie del presente atto, onde porle in grado di far valere, se sia il caso, i loro reclami […] le potenze 7 firmatarie dell’atto presente riconoscono l’obbligo di assicurare, nei territori da esse occupati sulle coste del continente africano, l’esistenza di una autorità sufficiente a fare rispettare i diritti acquisiti e, ove ne sia il caso, la libertà di commercio e transito nelle condizioni che fossero stipulate”. (Articoli 34 e 35) Alla fine dell’Ottocento la spartizione dell’Africa era ormai compiuta : l’espansione francese seguì una direttiva orizzontale, da Ovest ad Est (prima il Senegal, poi il Niger, il lago Ciad ed il Madagascar) l’espansione inglese seguì invece una direttiva verticale, da Nord a Sud (Egitto, Rhodesia, Kenia, Uganda, Sudan e Colonia del Capo) la Germania occupò nel 1884 diverse regioni che andarono a formare i due nuclei della cosiddetta Africa Tedesca – una occidentale sull’Oceano Atlantico ed una Orientale sull’Oceano Indiano – i Portoghesi occuparono l’Angola ed il Mozambico e gli Spagnoli la regione occidentale del Sahara. L’Italia occupò prima nel 1885 un territorio sul Mar rosso, poi l’Eritrea, successivamente la Somalia ed infine la Libia nel 1912, con i tragici risvolti che tutti conosciamo. Le contraddizioni dello sbarco a Massaua E fu così che il Colonnello Tancredi Saletta venne raggiunto a Palermo da un telegramma spedito da Roma alle ore 09.45 del giorno 8 Gennaio 1885 con numero di Protocollo 24 : “Con lettera spedita ieri a V.S. questo Ministero ha disposto che il Colonnello Tancredi Saletta si presenti a Roma il 12 corrente essendo destinato al Comando delle truppe da inviarsi ad Assab. Se ne dà intanto avviso telegrafico per norma di detto Ufficiale. Pel Ministro Masselli”. Con questa comunicazione – per certi versi decisamente ambigua – cominciò l’avventura del nostro colonialismo in Africa, accompagnata ad un altro telegramma inviato dopo pochi giorni : “[…] gli saranno somministrati successivamente ordini particolareggiati circa la missione che gli viene affidata […] con l’aggiunta di non portare cavalli al seguito, ma solo un attendente ed il bagaglio, in quella misura che 8 reputerà necessaria per il servizio cui è destinato, che potrà essere di non breve durata”. In effetti al Colonnello Saletta vennero ufficialmente date istruzioni affinché venisse assicurato un esito pacifico delle trattative avviate per la ricerca dei colpevoli dell’eccidio Bianchi – naturalmente con la salvaguardia del prestigio e della forza dell’autorità italiana – ma in realtà gli venne affidata l’organizzazione vera e propria di una Colonia : “Servizio di polizia, un servizio sanitario civile, regolare la questione della moneta, stabilire l’ordinamento giudiziario amministrativo; i regolamenti interni e i poteri reciproci sotto il rapporto politico civile, amministrativo, giudiziario, economico, mantenere una grande larghezza amministrativa e politica ed una rigorosa tutela dell’ordine, della sicurezza, della buona fede nei commerci, stabilire la procedura della giustizia, a seconda delle leggi o musulmane o tradizionali, mantenere il rispetto alle credenze religiose, ai bisogni, ai rapporti di famiglia, alle consuetudini non inconciliabili colla moralità universale e colla piena severa custodia dell’ordine pubblico, definire in maniera legislativa i rapporti tra gli italiani e gli indigeni, e tra gli indigeni stessi”. Assab rappresentava in realtà un caso unico nella storia dell’espansione coloniale europea : si trattava di una sperduta e desolata baia – nel territorio dei feroci Dancali – che non era stata conquistata con le armi, bensì acquistata come abbiamo visto con regolare contratto, probabilmente con l’intenzione di creare una colonia penale, abbastanza ampia, per custodire i numerosi, ed altrettanto feroci, briganti del Sud (il 12 Gennaio del 1884, durante una conferenza del “Circolo Africano” di Napoli, di ispirazione colonialista, si propose di costruire un penitenziario ad Assab, per affidare ai detenuti i lavori del porto commerciale, utile per lo sviluppo delle attività italiane in quella zona). Il testo del contratto, scritto sia in arabo che in italiano, e provvisto di bolli e ceralacca, così recitava : “Gloria a Dio. Nel giorno nove del mese dell’heggi dell’anno 1826 secondo l’era musulmana, undici del mese di marzo 1870 secondo l’era volgare, il sultano Abdallah Sciahim e i 9 sultani Hassam-ben-Ahmad ed Ibrahim-ben-Ahmad da una parte e i signori Giuseppe Sapeto ed Andrea Ruzzolino, capitano del vapore “L’Africa”, dall’altra, radunatisi a bordo del vapore medesimo stipulano il seguente contratto : i suddetti sultani vendono il tratto di paese e di mare racchiuso fra Rasi Lumah e la gola di mare chiamata Alala e il monte Gange senza nessun onere di dipendenza da parte dei compratori, i quali sborsano ai medesimi venditori sopra menzionati il prezzo convenuto in scudi o talleri di Maria Teresa ottomila e cento”. Con la prospettiva di un viaggio di 2.000 chilometri e con una destinazione praticamente ignota, con un Corpo di Spedizione di appena 1.000 soldati (42 Ufficiali e 920 uomini di truppa) e con la prospettiva, solo intuita, di occupare una località che si trovava sotto la sovranità dell’Egitto, il Colonnello Saletta scrisse nel suo diario : “Da Sua Eccellenza il Ministro della Guerra venni a conoscere non essere fuori da ogni probabilità che cammin facendo per Assab la mia missione non avesse a mutare obbiettivo e così per esempio avere per iscopo l’occupazione di Massaua […] ma su questa eventualità non si era in grado ancora di darmi notizie positive”. Saletta, che non possedeva nessuna carta topografica della zona, ma aveva ricevuto la notizia che “risultava che gli egiziani avessero eretto a Massaua dei forti armati di cannoni Krupp [e pertanto] sbarcando colà tenesse le artiglierie pronte e alla mano “ commentò che “ conoscendo io ora soltanto la decisione definitiva presa dal nostro Governo di occupare Massaua, mi importava di avere le mie artiglierie alla mano. Pregai per ciò il comandante Delibero del Gottardo di trar profitto dalla nostra sosta a Suakim per estrarle dalla stiva. Il comandante vi mise la massima buona volontà e fu presto iniziato il lavoro; ma dopo poco tempo egli venne costernato da me per dirmi che facevamo un lavoro inutile, poiché per estrarre le seicento e più tonnellate di carico che pesavano (imbarcate dopo) sulle artiglierie sarebbero occorsi più di dieci giorni coi mezzi che si avevano a disposizione “. 10 Anche se le artiglierie risultarono inutilizzabili, in compenso lo Stato Maggiore, con minuziosa precisione, aveva inviato al Saletta questa determinazione ministeriale: “Si dispone che gli ufficiali abbiano a sbarcare con l’uniforme di marcia: elmo completo, cravatta di tessuto bianco, giubba e pantaloni in tela color bianca, sciabola e sciarpa. È fatta facoltà agli ufficiali di sostituire al cotone la tela o la flanella bianca. La giubba sarà ad un sol petto da abbottonarsi nel mezzo, col colletto diritto, senza mostreggiature e con piccoli taschini sul davanti col bottoncino centrale all’altezza del terzo bottone. In tutte le altre parti la foggia della giubba sarà identica a quella prescritta per le varie armi dell’uniforme di panno conservandone le stellette, i bottoni e i distintivi di grado” Le operazioni di imbarco a Napoli si svolsero comunque con regolarità e un Battaglione di Bersaglieri (800 soldati tratti dal 1°,4°,7° e 8° Reggimento, al comando del Maggiore Emilio Putti) una Compagnia di Artiglieria e un Plotone del Genio presero posto sul vapore “Gottardo”, preso a nolo per l’occasione, che effettuò la traversata molto meglio della corazzata “Principe Amedeo” che aveva il compito di scortarlo. Quando alle 22.30 di Martedì 20 Gennaio 1885 il “Gottardo” avvistò il faro di Damietta, anticamera del Canale di Suez, della nave di scorta si erano perse le tracce : la “Principe Amedeo” si era ingloriosamente incagliata davanti al Canale, a Porto Said, e venne precipitosamente inviata in sostituzione la corazzata “Vespucci”. Ma alla fine, alle 10.00 del mattino del 5 Febbraio 1885, le nostre navi approdarono a Massaua. La città – edificata su un’isola corallina vicino alla costa, e collegata alla terraferma da una lunga diga, appoggiata anch’essa su un’altra isoletta, di nome Taùlud – contava 5.000 abitanti, per la maggior parte commercianti arabi e 150 europei, anche se non tutti in buona salute, ed il numero dei cammelli e degli asini era circa mille volte superiore a quello della popolazione. Massaua era in territorio egiziano e l’Egitto (anche se nominalmente ancora sotto la sovranità dell’impero turco) era anche un protettorato della Corona 11 inglese che a sua volta – considerato il vuoto di potere che si stava creando nel Mar Rosso e preoccupata dalle intenzioni espansionistiche della Francia – accettò di buon grado la presenza di una potenza, considerata “debole” come l’Italia, in un contesto politicamente complesso e per di più aggravato dalla presenza di truppe e soldati irregolari di vari paesi. In ogni caso, nella baia era già alla fonda il vascello inglese “Condor” ed il comandante Denville, sfoggiando un’ottima conoscenza della lingua italiana , rese gli onori di casa al nostro Colonnello Saletta. La prima visita ufficiale venne subito fatta al governatore Izzet Bey e davanti a lui l’Ammiraglio Caimi – il Comandante della corazzata “Vespucci” – lesse il telegramma del Governo italiano, dove gli veniva impartito l’ordine di occupare la città e di alzare la bandiera italiana al fianco di quella egiziana. Caimi chiese anche al governatore se avesse ricevuto istruzioni in tal senso dal suo Governo (?) ma Izzet Bey ammise di non essere a conoscenza di alcun accordo del genere e si dichiarò pronto ad ordinare ai suoi soldati di difendere la città. Il diplomatico comandante inglese Denville, pur di ottenere una soluzione rapida e pacifica, dichiarò che l’Inghilterra, l’Italia, la Turchia e l’Egitto erano in fase di avanzate consultazioni, e pertanto sarebbe stato inopportuno e pericoloso far precipitare la situazione con uno scontro armato. Izzez Bey si ritenne soddisfatto da tali assicurazioni ed acconsentì a condividere con l’Italia la sovranità del territorio. Dopo quattro ore dall’arrivo del “Gottardo” nel porto di Massaua, i nostri Bersaglieri scesero finalmente a terra per occupare con tutta tranquillità i punti chiave della città : il forte di Ras Mudur, per il controllo dei pozzi d’acqua, ed il “Palazzo del Comando”, nel frattempo evacuato dalle poche truppe egiziane presenti. In questo modo l’Italia entrò a far parte del novero delle potenze coloniali ed il Colonnello Saletta non riuscì ad esimersi dal diffondere alla popolazione un solenne proclama : 12 “Il governo italiano, amico dell’Inghilterra, della Turchia e dell’Egitto, non meno che dell’Abissinia, mi ha ordinato di procedere all’occupazione della piazza di Massaua, ciò che avrà effetto oggi. La bandiera d’Italia sventolerà accanto a quella egiziana; i regi marinai della flotta e i soldati dell’esercito sbarcati manterranno la più rigorosa disciplina e pagheranno puntualmente tutti gli acquisti che faranno; i costumi e la religione vostra saranno da essi scrupolosamente rispettati; non intralcerò punto i vostri traffici, anzi cercherò di facilitare i commerci e vi rassicuro circa le benevoli intenzioni del governo italiano. Trattateci da amici, chè tali siamo, e continuate come per il passato ad accudire alle vostre usuali occupazioni e ve ne troverete contenti”. Nel frattempo Roma, affamata però di successi politici e militari, consigliò al Colonnello Saletta di avanzare verso l’interno”per far vedere ai selvaggi la bandiera italiana”. Al di là delle oggettive perplessità del Comandante Saletta, gli Egiziani – sempre più allarmati dalla travolgente offensiva del Mahdi in atto in quei territori – si ritirarono definitivamente dai presidi della colonia e questo ci obbligò in un certo senso ad allargare la nostra attività militare, ovvero ad occupare posizioni distanti alcune decine di chilometri dalla città (i forti di Otumlo e Monkullo, due località nell'entroterra di Massaua sulla strada di Dogali) per difendere le carovane dagli assalti dei predoni, non solo provenienti dal Sudan, ma anche dalla vicina Etiopia (anche se il commercio degli schiavi venne ufficialmente abolito in Europa con il Congresso di Vienna del 1815, continuava ad essere ancora praticato in Africa, specialmente ad opera degli arabi). Ed in breve tempo ci si rese anche conto che il futuro della Colonia si sarebbe giocato con questo vicino ingombrante e pericoloso, l’Abissinia, lo stato più potente e più militarmente organizzato di tutto il continente africano. Uno stato ambizioso ed arrogante, deciso a preservare la sua secolare identità cristiana e rodato dalle interminabili lotte contro i musulmani, che sempre hanno dovuto retrocedere di fronte alle sue 13 immense armate ed alla natura aspra di un territorio capace di “inghiottire” qualunque invasore. Solo l’Inghilterra era riuscita a sconfiggere – ma con un dispendio enorme di uomini, di animali da soma e di risorse economiche per corrompere le tribù alleate – il Negus Teodoro, che preferì il suicidio alla resa. Tutto questo, come vedremo più avanti, ingannerà fatalmente il Governo di Roma. L’Esercito italiano incontra “Le Teste Matte” Alle prese con un contingente limitato, e per lo più frammentato lungo le rotte delle carovane, il comandante Saletta – un soldato sicuramente dotato di notevole “intuito militare” – il 28 Aprile 1885 inviò un telegramma al Ministero della Guerra per indicare brillantemente la soluzione ai problemi militari della spedizione italiana : i 500 BashiBuzuk (la traduzione letterale è “Teste Matte” o “Teste Vuote”) che risultavano ufficialmente disoccupati dopo il ritiro del presidio egiziano, sarebbero potuti diventare – anziché un problema – un valido aiuto per le esigue truppe italiane, gettando così le basi per la creazione del primo esercito indigeno italiano : “E’ gente fornita di scarso coraggio, che facilmente può disgregarsi nell’urto di una battaglia […] ma posseggono talune buone doti delle quali si potrebbe in alcune circostanze trarre vantaggio. E così per l’abitudine che hanno a resistere al clima, a vivere di poco, per la conoscenza che molti di loro possiedono della lingua araba ed anche amarica, per la pratica che essi hanno di queste parti, potrebbero i migliori tornare a noi utili come guide, esploratori e interpreti”. Il basso costo del loro arruolamento – decisamente inferiore a quello delle truppe italiane – l’ottima conoscenza del territorio (le nostre mappe erano approssimative ed incomplete), la possibilità di impiego nei compiti più pesanti e rischiosi e la resistenza alle condizioni climatiche, convinsero Roma ad accettare questa proposta ed un primo 14 nucleo di 100 “Teste Matte” venne subito reclutato, dopo solo tre mesi dallo sbarco italiano sulla costa africana, senza sottovalutare il fatto che, considerando anche il profilo politico dell’operazione, si sarebbe reso necessario tacitare in Italia chi – avversando l’impresa coloniale – avrebbe violentemente protestato in caso di perdita di soldati italiani, prestando invece scarsa attenzione alla sorte riservata a pochi indigeni “mercenari”. Anche per la futura campagna di Etiopia, l’Italia arriverà a disporre di ben 100.000 africani : 60.000 Ascari eritrei, 20.000 Dubat somali e 20.000 Sphais libici. Il “Contratto” con cui vennero arruolati gli indigeni era quasi identico a quello stipulato con il precedente Bey, lì dove l’arruolamento, di natura medioevale, li rendeva immediatamente disponibili ad un passaggio di padrone. Il governo egiziano forniva loro un fucile ed un cammello e l’ingaggio era subordinato a una visita medica ed alla presentazione di un garante, in genere un altro soldato. Il Bey poteva procedere al licenziamento senza alcuna riserva e senza versare alcuna somma come buonuscita. Il Comando italiano procedette al primo arruolamento il 30 Aprile 1885 : concesse l’utilizzo dei vecchi Remington (particolarmente robusti ed adatti per quella regione) li sottopose alla visita di una commissione medica (di manica larga) e ne affidò il comando ad un Sangiak che percepiva uno stipendio di 170 Lire al mese, in cambio della responsabilità di mantenere l’ordine e di garantire il funzionamento di quella nuova e turbolenta truppa (il primo comandante fu lo stesso del Bey egiziano, l’albanese Assan Oga Osman, essendo gli slavi spesso utilizzati dall’impero ottomano per la loro spartana e bellicosa efficienza militare). Nel suo ultimo telegramma, il Colonnello Saletta pose un interessante interrogativo che Roma preferì però ignorare : “Disprezzo e odio segreto : parimenti sembrano ammirare l’ordine e la disciplina delle truppe italiane, ma v’è taluno invece che afferma che al contrario di quanto all’esterno dimostrano, essi non hanno una grande stima del 15 nostro soldato. Sebbene sia molto difficile scrutare il loro sentimento sincero sulla nostra occupazione di questa terra, pure è credibile che essi abbiano in odio la nostra venuta; poiché essi sono musulmani per la massima parte, sono nemici di chi non professa la religione dell’Islam ed anzi da alcuni ritenuti partigiani del Mahdi”. E questo interrogativo – nonostante le continue e ripetute prove di fedeltà alla nostra Bandiera – accompagnerà mezzo secolo di convivenza tra le nostre truppe e quelle indigene, durante tutta l’avventura coloniale italiana. In un primo tempo ai Bashi-Buzuk vennero affidati compiti di guardia all’ingresso della città e controlli nelle case di tolleranza (per evitare risse tra i soldati italiani) ma presto vennero anche utilizzati per le funzioni di scorta alle carovane, compito ingrato che le nostre truppe regolari non intendevano svolgere : chilometri da percorrere a piedi e sotto il sole del deserto ! Per questo motivo gli arruolamenti degli “irregolari” aumentarono di giorno in giorno e le operazioni militari cominciarono lentamente ad estendersi fuori da Massaua. Fu a questo punto che apparve sulla scena un personaggio che darà filo da torcere alle truppe italiane, il Ras Alula, fiduciario del Negus per la regione dell’Hamasen. Dall’alto di Asmara dominava, come da un nido d’aquila, il bassopiano sottostante e da tempo scrutava, con crescente sospetto, l’agitarsi dei nuovi intrusi europei. Alula era un guerriero dotato di grandi qualità, anche se la memorialistica italiana, ovvero Generali, politici e riviste, rovesciarono su di lui tonnellate di insulti ed il poeta nazional-popolare di Caltanisetta – Lizio Bruno – gli dedicò nel 1887, subito dopo la sconfitta di Dogali, questi versi : “Ulula Alula, come bestia immane / cui gran rabbia le viscere divora : ulula Alula, poi che l’ultim’ora / è sonata per te, fetido cane ! Sozzo demone sotto le spoglie umane / Che in notte muti le più belle aurore Odi : trafitto il petto avrai fuor fuora / E sarai pasto agli avvoltoi dimane” 16 Solo Ferdinando Martini, acuto osservatore della nostra avanzata coloniale, gli dedicò invece un ritratto più problematico, e per certi aspetti profetico : “Questo Alula, un tempo falciatore di fieni, oggi Ras e Turk Bascià, che probabilmente non si curò mai di lasciare traccia di sé nella storia dell’Etiopia, ne lascerà una nella storia d’Italia”. Intanto a Roma – dopo la proclamazione dell’annessione di Massaua al Regno d’Italia, avvenuta ufficialmente il 5 Dicembre 1885 – il nuovo Ministro degli Esteri, Di Robilant, che cominciava a guardare con fastidio le poche e timide iniziative militari italiane sul territorio africano, “liquidò” il Colonnello Saletta trasferendolo senza indugio in India. Al suo posto arrivò il Generale Genè, decorato con le mostrine di tutte le Campagne dell’Unità d’Italia e provvisto di una cultura eccezionale, che assunse il governo civile della Colonia ed avviò la riorganizzazione e la trasformazione delle nostre prime truppe coloniali, ed il censimento degli irregolari da lui ordinato, registrò all’attivo oltre un migliaio di uomini, questo perchè nel frattempo alle “Teste Vuote” si erano aggiunte due nuove etnie, gli Habab e gli Beni Hamer, tribù del bassopiano che, pur essendo mussulmane, odiavano anch’essi gli abissini. Ora che le truppe indigene sotto la bandiera italiana si erano numericamente affermate, nacque il problema di sottoporle o meno al comando di Ufficiali italiani, che ne assicurassero l’inquadramento tattico ed una ferrea disciplina. Ma il Generale Genè guardò sempre con diffidenza queste unità che ritenne inaffidabili e pericolose e quindi ne bocciò l’inquadramento ufficiale proprio in nome delle…buone qualità dei soggetti (!) “che non hanno certo bisogno di Ufficiali italiani per i loro compiti ancora essenzialmente esplorativi”. 17 La prima grande ferita: Dogali Il ministro Di Robilant, puntando sull’appoggio del “vecchio amico” Menelik, fece forti pressioni sul nostro Generale per una più incisiva penetrazione militare in Etiopia, dopo che il Generale Giorgio Pozzolini, inviato dal Governo italiano presso il Negus Giovanni (11 Gennaio 1886) per la “questione Massaua” venne richiamato a fronte dell’ostilità manifestata dal Negus nei confronti del nostro paese, facendo dirottare le attenzioni diplomatiche verso il re dello Scioa, Menelik II. Ma per comprendere meglio la situazione politica che si era venuta a creare in quella dimentica zona dell’Africa, bisogna ricordare che sin dall’inizio il Negus Giovanni IV – il successore di Teodoro II, sconfitto dagli Inglesi a Màgdala nel 1868 – vide con crescente disappunto ed ostilità l’occupazione italiana di Massaua, anche perché l’Italia, pur avendo dato assicurazioni formali al Negus circa la sua volontà di non iniziare una sua espansione in quella zona, di fatto poi aveva proceduto all’occupazione militare dell’avamposto di Saati. Nel suo intento di unificare politicamente e religiosamente lo stato, Giovanni IV vide nel suo maggiore feudatario – il Negus Menelik, che condivideva il titolo regale con l’Imperatore per l’origine salomonide della dinastia locale – il suo principale pericolo, a causa dell’amicizia con il missionario italiano Guglielmo Massaia, tanto da esserne diventato consigliere personale, e di conseguenza con l’intero Governo italiano. Nel 1878 Giovanni IV compì una spedizione punitiva contro Menelik, procedendo anche all’espulsione del missionario Massaia, e legandolo al suo impero con vincoli di stretto vassallaggio. E fu sempre Giovanni IV a chiedere, per mezzo del Ras Alula, governatore della regione dell’Hamasen, confinante con i territori occupati dagli Italiani, lo sgombero di Saati delle truppe italiane, diffidando al tempo stesso Menelik dal fiancheggiare in qualunque modo l’occupazione italiana. E vedendo che gli Italiani, oltre all’occupazione di Saati, perduravano nella loro avanzata, Ras Alula, dopo aver catturato come prigionieri i componenti una missione italiana, inviò un ultimatum alle nostre 18 Autorità, iniziando contemporaneamente una marcia verso Saati alla testa di circa 10.000 uomini. Alula comprese subito che il piccolo presidio italiano a difesa di Saati aveva rifornimenti sufficienti per appena due giorni ed attese che una colonna di soccorso, composta da oltre 500 uomini, si avvicinasse all’avamposto per attaccarla e distruggerla con 7.000 dei suoi uomini presso la località chiamata successivamente Dogali : era il 26 Gennaio del 1887 e morirono circa 500 soldati italiani ed altri 82 rimasero feriti, inoltre, per riscattare i pochi prigionieri fu necessario consegnare in cambio 1000 fucili. Saati venne subito abbandonata la sera stessa. Ma vediamo nel dettaglio come si sono svolti gli avvenimenti di Dogali : gli Italiani, sempre con la scusa di assicurare l’ordine e la tranquillità delle tribù del bassopiano perseguitate dai “banditi”, occuparono Zula e Ua-à e scrissero una lettera al Ras giustificando l’operazione come segno di amicizia verso l’Abissinia, con l’unico scopo di facilitare il commercio delle carovane. Ma Alula, che gestiva proprio il redditizio business del saccheggio in quella zona, decise di rapire i membri di una spedizione italiana che si stava recando dal Negus per portare regali e giustificazioni. Ed in questa occasione scoprì che due componenti della delegazione erano militari, e non scienziati, e questo fu sufficiente per formulare una precisa accusa di spionaggio. Al capo delegazione, trattenuto in catene, affidò la stesura di un messaggio per il Generale Genè : “Tu sei un bell’amico ! Tu porti nel mio paese i soldati per conquistarlo, tu porti le spie per insegnare la strada ! Da due anni gli Italiani non si erano mai mossi, appena entrati voi avete occupato Ua-à. Io ti ho detto di scrivere al Generale Genè perché facesse il piacere di ritirare le truppe da Ua-à e invece è venuto a occupare anche Saati. Prima di mozzarvi il capo voglio ancora farvi una grazia. Scrivi al Generale che se entro tre giorni non si ritira da Saati io taglio la testa a tutti e dopo vado a fare la guerra contro di lui. Se muoio non me ne importa.” Ma il Generale Genè rimase convinto che i 3.000 soldati alle sue dipendenze potessero aver ragione in qualunque momento di un gruppo 19 di predoni e non si preoccupò del pericolo imminente, anche se, a scanso di ogni preoccupazione, chiese al Ministero l’invio di 600 rinforzi “solo nel caso che dovessero dimostrarsi necessari nel futuro”. Intanto, nell’avamposto di Saati il Maggiore Boretti rimaneva assestato con due Compagnie di Fanteria, due cannoni sistemati in piazzole protette e 300 Bushi-Buzuk, e fu quella la prima volta che truppe regolari ed indigene si trovarono fianco a fianco in vista di una battaglia imminente. Vicino al presidio di Saati, a poche ore di marcia, nel forte di Monkullo, erano accampate altre tre Compagnie di Fanteria, alcuni pezzi di artiglieria e due “plotoni” di irregolari pronti ad intervenire. Il 25 Gennaio 1887, Ras Alula decise di iniziare la guerra tra l’Etiopia e l’Italia ed attaccò il presidio di Saati. Il comandante Boretti riuscì a tenere la posizione dopo quattro ore di battaglia (decisivo fu l’ordine di aprire il fuoco a soli 300 metri di distanza dal nemico, che stava attaccando in formazione compatta) sino a che Alula non decise di ritirarsi, anche se solo temporaneamente : tra le perdite italiane, il Tenente Cuomo, due soldati regolari e tre Bashi-Buzuk. Anche se non conosciamo i nomi dei primi irregolari caduti sotto i vessilli italiani – i primi di un elenco lunghissimo – in ogni caso, questi soldati dettero sicuramente una buona prova, resistettero all’urto di truppe numericamente superiori, non sbandarono sotto il fuoco nemico e, cosa ancora più importante, non tradirono la nostra Bandiera. Nel frattempo, il Maggiore Boretti inviò al fortino di Monkullo un’urgente richiesta di viveri e di munizioni, in previsione di un imminente nuovo attacco di Alula. Il Ras infatti, non ancora sconfitto, aleggiava con la sua cavalleria tra le montagne lungo la strada tra Massaua, Monkullo e Saati. Il mattino seguente, il Colonnello De Cristoforis, Comandante del forte, organizzò una carovana di cammelli con i rifornimenti richiesti – e questo comportò in effetti un dispendio di ore preziose – ma come scorta utilizzò tre Compagnie (500 uomini) di reclute giovanissime e totalmente inesperte, arrivate da pochi giorni a Massaua per sostituire le truppe falcidiate dalla dissenteria, dalle febbri 20 malariche e dal tifo. Il Colonnello ignorava anche la geografia del posto e si avventurò sull’unica pista da lui conosciuta, una stretta gola che conduceva dal forte a Saati, decidendo di portare con sé, come artiglieria mobile, due mitragliatrici Gatling, convinto che sarebbero state sufficienti ad arrestare qualunque impeto nemico. Ma le Gatling, mitragliatrici “povere”, viaggiavano ancora sulle ruote (come i cannoni) e raggiungevano al massimo una velocità di tiro di 400 colpi al minuto, ma solo in dipendenza della rapidità con cui l’artigliere era in grado di girare la manovella. Circa 40 Bashi-Buzuk completavano la scorta. La partenza venne decisa all’alba, la pattuglia delle Teste Matte precedeva di un quarto di chilometro il grosso della colonna e le nostre truppe, come da regolamento, sfilavano lungo i fianchi dei cammelli e dei portatori, nelle loro visibilissime divise bianche. Dopo quattro ore di marcia, torme di abissini comparvero all’improvviso sulle creste delle colline ed attaccarono la colonna. Il Tenente Comi, a capo degli Esploratori, ordinò il fuoco per permettere a De Cristoforis di raggiungere un’altura e piazzare le mitragliatrici in posizione strategica. Ma i Bashi-Buzuk esaurirono ben presto le poche munizioni in dotazione e – secondo la ricostruzione della “Commissione di Inchiesta” istituita dal Generale Genè dopo il disastro – alla loro richiesta di ulteriori munizioni un Ufficiale italiano rispose che per loro non ce ne sarebbe state più. In ogni caso, con la copertura del fuoco degli Esploratori, il Capitano Carlo Michelini, responsabile delle Gatling, ed il Colonnello De Cristoforis raggiunsero un poggio per verificare la situazione generale. Intanto gli abissini – dopo aver imparato la lezione di Saati – non attaccarono più in maniera compatta, ma realizzano un accerchiamento sempre più stretto, utilizzando le coperture del terreno e costringendo gli Italiani a cercare rifugio sopra una collina a fianco del torrente Desset : il nome di Dogali verrà “rielaborato” in Italia solo successivamente. Il Colonnello ordinò il fuoco dalla distanza di mille metri con la speranza di lasciare aperta l’unica via di scampo, la ritirata verso il forte Monkullo, ma una delle due mitragliatrici si inceppò e nell’altra fu 21 necessario inserire le cartucce a mano una per volta, sino a che si rese necessario gettarle in un burrone per non lasciarle nelle mani del nemico. I soldati di Alula, oramai padroni della situazione, sferrarono l’attacco finale e la strage venne compiuta : i guerrieri del Ras, circa 100.000 uomini (ne perirono un migliaio) lasciarono in vita soltanto quei soldati che, feriti, furono creduti morti. Il Capitano Michelini, uno dei pochissimi sopravvissuti, benché ferito in modo grave, così riferì alla Commissione di Inchiesta : “Appena occupata la nuova posizione, visto il numero enorme di abissini, circa sette o ottomila, e visto che eravamo circondati da ogni parte, capimmo perfettamente che per noi era finita. Durammo più che potemmo e quando moltissimi di noi furono fuori combattimento, perché morti o feriti, allora Ras Alula battè il tamburo, segnale dell’attacco, e da tutte le parti si precipitarono con grandi grida contro di noi che, sopraffatti dal numero, purtroppo cademmo tutti : 540 di noi ed alcuni Bashi-Buzuk.” La notizia di Dogali produsse un grande sgomento nell’opinione pubblica italiana ridestando e diffondendo in vasti ambienti uno stato d’animo anticolonialista. “Il Corriere della Sera” giudicò una “pazzia” continuare nell’espansione coloniale e presso il “Consolato Operaio” di Milano si costituì un comitato per il ritiro delle truppe dall’Africa e Andrea Costa affermò perentorio che “né un uomo e né un soldo” doveva ancora essere destinato all’Africa. In definitiva però Dogali fu un minuscolo, benché tragico, episodio di guerra coloniale, lì dove Francia ed Inghilterra avevano subito cento sconfitte analoghe, ma avevano pur sempre proseguito nella loro marcia. Ma anche se il Risorgimento fu un’epopea esaltante, fu al tempo stesso privo di importanti successi militari che non fossero dovuti proprio all’appoggio dell’Inghilterra e della Francia, ed il resto dell’Europa non ci aveva certo considerato come una grande potenza. Per questi motivi in Italia la bruciante sconfitta di Dogali (ai caduti venne dedicato a Roma un Obelisco egiziano commemorativo, di eredità romana, nei giardini di Via delle Terme di Diocleziano e sempre a Roma venne intitolata la piazza antistante la Stazione Termini, appunto Piazza dei 22 Cinquecento) venne invece vissuta come uno psicodramma, con la profonda e usuale frattura tra Destra e Sinistra, tra anticolonialisti – rassegnazione e rinuncia ad imprese non congeniali ed inutili – e colonialisti, che nel disastro vedevano una ragione in più per vendicare i martiri e riprendere la missione civilizzatrice nella selvaggia Africa, barbara e crudele. Inoltre il Governo non ebbe neppure l'appoggio degli uomini di cultura: Giosuè Carducci si rifiutò di partecipare ad una commemorazione dei morti di Dogali e di scrivere un componimento lirico sui caduti, e D'Annunzio li definì "i quattrocento bruti morti brutalmente", anche se le solenni messe celebrate nelle Chiese e nelle Basiliche costituirono uno dei primi segnali di apertura della Chiesa verso lo Stato italiano. Ma nonostante le accese polemiche, Depretis chiese ed ottenne dal Parlamento uno stanziamento di 5 milioni di Lire per inviare soccorsi e uomini in Africa – approvato con 75 voti su 75 presenti – ed il 2 Febbraio 1887 un altro contingente di 800 uomini, a bordo dell’”Umberto I” salpò per Massaua, ed un successivo finanziamento di 20 milioni di Lire venne approvato alla Camera il 30 Giugno successivo (dal Senato l’8 Luglio) con 239 voti favorevoli su 277 deputati presenti, per la costituzione di un Corpo speciale di soldati volontari da inviare in Africa…la nostra avventura coloniale continuava. Depretis morì il 29 Luglio del 1887 ed il Re nominò Francesco Crispi, già forte ed autoritario Ministro dell’ Interno, Presidente del Consiglio. Crispi rimase in carica, salvo qualche breve interruzione, sino al 1896. Di carattere duro ed ombroso, fu un ex garibaldino ed un ex repubblicano, ma diventò monarchico dopo l’Unità d’Italia e la storiografia moderna gli ha sempre rimproverato un modo eccessivamente autoritario di governare, spesso con l’accusa di non aver tenuto in giusta considerazione non solo il Parlamento, ma anche la stessa opinione pubblica italiana. Ma dopo la strage di Dogali divenne essenzialmente un tenace sostenitore della politica coloniale, e fece sue le istanze delle due correnti “africaniste” che premevano sul Governo : quella dei “militari” che facevano capo al Generale Baratieri e che erano 23 spinti dal problema di salvaguardare il prestigio italiano in Africa ed in Europa, e quella dei “sociologi” che avevano in Leopoldo Fianchetti la loro guida, spinti dalla preoccupazione per la sovrappopolazione del Mezzogiorno e per l’aumento dell’emigrazione, lì dove le colonie avrebbero potuto rappresentare una speranza di guadagno per molti italiani colpiti dalla miseria. Nel 1887 Crispi inviò in Africa il Generale Alessandro Asinari di San Marzano, con l’incarico di nuovo Comandante delle nostre Forze militari, con sufficienti uomini ed armi – e grazie al programma di raddoppiamento della Flotta italiana, promosso dal Ministro della Marina, Benedetto Brin, anche con cinque nuovi piroscafi – permettendogli di rioccupare le zone perdute di Dogali e di Saati, nonostante le proteste del Negus Giovanni che ne reclamava il possesso in forza di un precedente Trattato stipulato con l’Inghilterra il 3 Giugno 1884. Non accettando quindi la richiesta di riconoscimento del dominio italiano avanzata dal Generale, le trattative vennero bruscamente interrotte. La Colonia Eritrea e la nascita degli Ascari Il successivo comandante del “Corpo Speciale d’Africa”, giunto a bordo del piroscafo “Archimede” (come abbiamo visto già nell'Ottobre del 1887 partirono dall'Italia due grossi contingenti, appunto agli ordini del Generale Di San Marzano, il Corpo Speciale d'Africa ed il Corpo di Rinforzo – 13.000 uomini e 1.300 quadrupedi – ma pochi mesi dopo il San Marzano ritornò in patria con buona parte delle truppe e venne sostituito) fu il Generale Antonio Baldissera, l'unico alto Ufficiale dell'Esercito che da giovane avesse militato nelle file austriache. Convinto sostenitore di una maggiore penetrazione italiana in Etiopia – ristabilì energicamente la situazione militare – entrò subito in contrasto con il Conte Antonelli, inviato contemporaneamente dal Governo in “missione speciale” presso Menelik, per cercare solidi punti di collaborazione politica e militare (Menelik coltivava da anni rapporti di 24 amicizia con le autorità italiane in Eritrea e sembrava il candidato perfetto per i nostri progetti coloniali) ovvero con l’obiettivo finale di creare una vera e propria alleanza contro il Negus Giovanni per la conquista dei territori dell’Etiopia del Nord. E proprio quando l’accordo sembrava raggiunto (con la cessione di armi e denaro) e Crispi era pronto a dare il via libera per l’avanzata verso l’Asmara, giunse la notizia della morte del Negus Giovanni, avvenuta il 10 Marzo 1889 a Matemma, durante una terribile battaglia - ingaggiata contro i Dervisci, - che vide anche tutto il suo esercito sconfitto e disperso. A Giovanni succedette lo stesso Menelik (eletto durante l’assemblea generale dei Ras, che di solito fondava le proprie decisioni sul potere militare e sulla capacità di corruzione dei candidati) ed il 2 Maggio del 1889 il Conte Antonelli, con somma soddisfazione, sottoscrisse con il nuovo Negus il Trattato di Uccialli, firmato a Roma dal Ras Makonnen – cugino di Menelik – e redatto in due lingue, una aramaica e l’altra italiana. Oltre al riconoscimento all’Italia del possesso di Cheren e dell’Asmara, in cambio di un prestito all’Etiopia di 4 milioni di Lire, l’Articolo 17 del Trattato – articolo di grande importanza politica – discordava però su un punto fondamentale : mentre nel testo italiano il Negus affidava esplicitamente all’Italia la rappresentanza del suo Stato all’estero – il che implicava l’esistenza di un vero e proprio protettorato italiano – nel testo in aramaico tale rappresentanza rimaneva puramente facoltativa. In ogni caso, Crispi notificò ai governi stranieri il Trattato, così come se ci si trovasse in presenza di un effettivo “Protettorato Italiano”. Il Generale Baldissera occupò comunque Cheren e l’Asmara il 2 Giugno 1889, senza sparare un solo colpo di fucile e nel frattempo i Sultanati Somali di Obbia e di Migiurtini accettarono il “Protettorato Italiano” che venne successivamente esteso anche sulla costa del Benadir. Il successo italiano, politico diplomatico e militare, sembrò quindi pienamente raggiunto ed il 5 Gennaio del 1890 un Regio Decreto attribuì ai possedimenti italiani sul Mar Rosso – un’area vasta circa 110.000 Kmq. e dopo un certo tergiversare del Governo sui vari appellativi possibili, 25 ed in definitiva il Mar Rosso era chiamato anche Mare Eritreo – il nome di “Colonia Eritrea”. Posta sotto l’autorità di un Governatore, affiancato da tre Consiglieri, uno per le finanze, uno per l’agricoltura ed uno per i lavori pubblici, si stabilì per la Colonia un vero e proprio ordinamento civile, con un proprio bilancio, ed alle dipendenze del Ministero degli Esteri con l’esclusione delle competenze previste per i Ministeri della Guerra e della Marina. Il Comandante superiore dell’Esercito di Occupazione assunse la carica di Governatore ed il Presidente del Consiglio dei Ministri – Francesco Crispi – prese personalmente la guida della politica coloniale. Intanto il Generale Baldissera, sicuramente consapevole dell’importanza del nuovo assetto politico nella regione, effettuò riforme fondamentali nell’Esercito Italiano in terra d’Africa. Per prima cosa gli Ufficiali ed i Sottufficiali italiani dovevano essere scelti tra coloro che concepivano la Colonia come un’opportunità di vita e di ascesa professionale, e non più vecchi Ufficiali senza ambizioni, o peggio ancora giovani Ufficiali desiderosi di facile “esotismo” (con il nuovo casco in sughero e la fresca uniforme in tela, erano soliti unirsi con uno pseudo-matrimonio ad una “madama” del posto) se non addirittura “scarti” di Reggimenti operativi in Italia. E dopo la scelta, le selezioni severissime, sia sotto il profilo fisico che culturale, l’obbligo di imparare la lingua araba e la verifica della capacità di adattamento alla diversa mentalità della popolazione. Ferma minima di almeno quattro anni e stipendi più elevati per attirare in Colonia gli elementi migliori. Anche le Teste Matte vennero trasformate, da irregolari a pagamento, in un effettivo corpo coloniale, con uniformi e bandiere, denominati da oggi in poi Ascari. I nuovi arruolati vennero inseriti in Buluk, piccole squadre omogenee, e poi organizzati in Halai (Battaglioni, formati ciascuno da tre Compagnie) con la precisa intenzione di formare, e di controllare, una vera e propria catena di comando. I Sottufficiali italiani diventarono “Istruttori” – e quindi non dovevano rispondere gerarchicamente al Comandante 26 “indigeno” del Battaglione – e vennero anche esentati dal saluto al Superiore, pur svolgendo compiti di comando su unità inferiori. Gli Ascari entrarono ufficialmente a far parte dell’Esercito Italiano con un Regio Decreto dell’11 Dicembre 1892, agli ordini del Colonnello Avogadro di Vigliano. L’organico delle truppe comprendeva quattro Battaglioni di Fanteria che si distinguevano per il colore dei fiocchi della fascia da cui era avvolta una semplice ed elegante uniforme bianca : il Primo Reggimento aveva il colore rosso, il Secondo l’azzurro, il Terzo il cremisi (Maggiore Galliano) ed il Quarto il nero (Maggiore Toselli). Ai quattro Battaglioni di Fanteria si affiancarono due Squadroni di Cavalleria, denominati Asmara e Cheren, e due Batterie da Montagna. La divisa aveva comunque un suo fascino : la “fascia” svolgeva infinite funzioni, teneva ferma l’uniforme, permetteva di infilarci pugnali e pistole, e costituiva una prima garza per le medicazioni delle ferite ed infine una coperta leggera in caso di necessità. Il “tarbusc”, il copricapo a forma troncoconica, era rosso, imponente e decorativo, richiamava il Fez dell’amministrazione egiziana e conferiva prestigio a chi lo indossa, con conseguente gratificazione personale. La divisa stessa risultava semplice ed elegante al tempo stesso nel suo colore bianco (e tale resterà sino all’introduzione della mimetizzazione) composta di materiale indigeno, abbondante e poco costoso, con il vantaggio di poter essere cucito e riparato facilmente dalle donne del campo. La ferma minima era di 1 anno, ma gli Ascari si potevano “raffermare” sino a 30 anni, a 35 i Caporali ed a 45 i Sergenti. A Massaua venne anche istituita una “Scuola Allievi Sottufficiali” dove venivano ammessi ragazzi e giovani tra i 15 ed i 20 anni. L’italiano, naturalmente, era la lingua obbligatoria. La possibilità di avere al seguito la propria famiglia, ottenne il risultato di rafforzare la tendenza all’arruolamento. Le donne provvedevano a tutte le funzioni del campo ed assistevano anche le truppe durante le marce di spostamento, lasciando ai mariti il solo compito di fare la guerra e di portare a casa la paga. Tutto questo favorì ben presto un vero e proprio arruolamento “generazionale”: padri, figli e 27 nipoti si tramandarono il “mestiere” di Ascari, professionisti della guerra legati ad una tradizione di fedeltà e di coraggio. Nacquero dei veri e propri campi-famiglia chiamati Senfer, organizzati e suddivisi in Tukul, un pagliaio largo alla base due metri e mezzo ed alto poco meno di 2 metri. Il campo era pur sempre un insediamento militare e pertanto rigorosamente regolamentato : a carico dell’amministrazione militare italiana c’era la distribuzione del cibo e la cura dell’approvvigionamento dell’acqua. Le visite dei parenti più lontani erano limitate negli orari e nella durata, al fine di evitare la tendenza ad una permanenza stabile di un enorme nucleo familiare. Un soldato semplice guadagnava una 1 Lira e 60 Centesimi al giorno, un Caporale 2 Lire e 70 ed un Sergente arrivava sino a 5 Lire al giorno. Inoltre, ogni soldato riceveva come premio di ingaggio 50 Lire per il corredo, ma per il graduato il premio arriva a 150 Lire perché rimaneva a suo carico la cavalcatura, sia stata essa un cavallo o un muletto. Abbiamo accennato ai due Squadroni di Cavalleria, Asmara e Cheren, ovvero alle “Penne di falco” (il nome deriva dalla vistosa penna di falco che ornava il tarbusc rosso, impreziosito anche da un importante fregio metallico applicato sopra una fascia ornamentale multicolore) che sono rimaste, nella nostra Storia militare, il più famoso Corpo di Cavalleria indigena italiana. Anche se nel 1885 venne inviato a Massaua un plotone del 17° Reggimento di Cavalleria “Caserta” e due anni più tardi vennero costituiti – alle dipendenze del Comando Truppe d’Africa – il 1° Squadrone di Cavalleria ”Africa” ed uno Squadrone di “Cacciatori a Cavallo”, il Comando italiano in Eritrea non ebbe mai a disposizione consistenti truppe montate. Il reparto delle “Penne di falco” venne inizialmente arruolato (Generale Di San Marzano, 1887) con limitati compiti di esplorazione a causa del suo carattere irregolare – una vera e propria “banda a cavallo” – sino a che nell’anno successivo, con la formazione di una truppa indigena al comando di Ufficiali italiani, non assunse la tipica fisionomia delle Unità coloniali dell’epoca, e raggiunse nel 1890 un tale aumento di organici da comportare la divisione in due Squadroni, appunto il Cheren e l’Asmara, anche se quest’ultimo venne 28 sciolto quattro anni più tardi. Anche qui è interessante notare l’equipaggiamento eterogeneo del Cavaliere indigeno : sciabola locale (“guradè”), coltello a lama larga e ricurva (combattimento ravvicinato) e lancia in bambù di tipo egiziano (solo per cerimonie e parate). I primi fucili assegnati furono le carabine Wetterly, successivamente sostituite dal Moschetto 91, con fodero di cuoio e portato sul lato destro della cavalcatura, insieme al revolver italiano d’ordinanza, Modello 1874 con calibro da 10,35 mm. L’uniforme, anch’essa bianca, prevedeva la tradizionale ed ampia fascia da portare in vita (di colore rosso per il Cheren e scozzese per l’Asmara) per accogliere le munizioni in dotazione ed il pugnale. Anche se la bandoliera e le giberne in cuoio erano quelle in dotazione alla Cavalleria italiana, rimanevano elementi fortemente caratterizzanti i gambali di cuoio con abbottonatura laterale – portati senza calzature (!) – ed i gradi molto vistosi cuciti sulle maniche. Durante la battaglia di Agordat (1894) le “Penne di falco” si distinsero nei combattimenti e contribuirono valorosamente alla vittoria italiana contro i Dervisci. Nel successivo scontro di Cassala (in Sudan) lo Squadrone Cheren, al comando del Capitano Carchidio, venne accerchiato da un gruppo di Cavalieri dervisci, di numero decisamente superiore, e la carica effettuata dai nostri indigeni, con la copertura di un plotone smontato, riuscì a mettere in fugo il nemico, ma al costo di 27 perdite, tra cui lo stesso Comandante che – trafitto da undici colpi di lancia – ottenne alla memoria la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Le complesse vicende di Amba Alagi e Macallè Il successore di Baldissera, il Generale Orero, era fermamente deciso ad agguantare un obiettivo di prestigio, e le sue mire si concentrarono su Adua, la capitale del Tigrè. Nonostante le forti perplessità di Crispi (il Ras Alula aleggiava sempre con le sue truppe sull’altopiano) Orero occupò la città – centro di una fitta rete di commerci e forte di una popolazione di oltre 10.000 abitanti – senza incontrare alcuna resistenza. 29 Ma nel frattempo tutto l’Islam era in subbuglio. Il “profeta” Mohamed Ahmed predicava a milioni di fedeli dalla sua isola di Abba, sul Nilo, 240 chilometri a sud di Khartum, spiegando che i popoli del vero Profeta erano stati ridotti in miseria per colpa delle potenze occidentali e del “traditore” Egitto, mussulmano a parole, ma di fatto amico dei Cristiani, i veri nemici di Allah. Anche lui era un Dervish, ovvero un mendicante (la parola persiana indica un ordine religioso, anche se totalmente privo di regole) ed anche lui vestiva una toga bianca, simbolo di povertà, a cui venivano applicate pezze di stoffa colorata, a volte per seguire un ordine simbolico, a volte per semplice vezzo. In ogni caso, il nuovo Mahdi acquistò rapidamente potere e prestigio, nel Sudan e nel resto del mondo islamico. Come se non bastasse, l’equivoco del Trattato di Uccialli non tardò a venire alla ribalta : Menelik, incoronato Imperatore, aveva notificato l’avvenimento ai governi europei senza servirsi della mediazione italiana e dichiarando espressamente di non accettare il protettorato italiano. Inutili risultarono anche le proteste e i tentativi di mediazione di Antonelli : Menelik era realmente intenzionato a ridimensionare i confini dei possedimenti italiani e le trattative vennero bruscamente interrotte con l’invito alla delegazione italiana di lasciare immediatamente il paese. Roma intuì subito le insidie ed i pericoli del nuovo contesto politico (non erano neanche da escludere possibili finanziamenti russi e francesi a Menelik per indebolire la Triplice Alleanza con una sconfitta italiana in Africa) ed il Generale Oreste Baratieri venne nominato nel 1892 Governatore dell’Eritrea, concentrando nelle sue mani – insieme al Maggiore Salsa, suo “onnipotente” Capo di Stato Maggiore – tutto il potere politico e militare. A loro spettò il compito di prepararsi alla grande “partita” da giocare con il Re dei Re, il Negus Menelik, a capo di un esercito immenso e ben motivato, con oltre 100.000 uomini, gran parte dei quali armati con buoni fucili ed artiglieria leggera. Per contro, le forze italiane risultavano decisamente insufficienti : 150 Ufficiali e poco meno di mille soldati nazionali, 35 Ufficiali e meno di settemila Ascari, 1.500 30 uomini delle truppe irregolari, 1.200 muletti e 200 cammelli. Gli altri soldati italiani (2.000 nazionali e 3.000 indigeni) erano impegnati nel presidio del Nord (Cassala e Cheren) per fronteggiare le numerose e pericolose incursioni dei Dervisci. In realtà, l’Eritrea era diventata troppo grande per le nostre forze : da Cassala ad Adua la frontiera correva lungo 600 chilometri di montagne e solo la regione del Tigrè era stimata quattro volte più grande dell’Italia. Come se non bastasse, un telegramma di Crispi (5 Aprile 1895) informò il Generale Baratieri che il Ministro del Tesoro, Sidney Sonnino, aveva rifiutato di affrontare nuove spese militari, in vista delle prossime elezioni politiche del 26 Maggio, limitando il “bilancio” dell’Eritrea agli iniziali 9 milioni di Lire. Il ritorno di Baratieri in Italia – rieletto alla Camera – venne accolto con grandi festeggiamenti il 25 Luglio nel porto di Brindisi e prima del suo rientro in Africa il 26 Settembre, Il Governatore dell’Eritrea riuscì ad ottenere un aumento di 3 milioni di Lire sul bilancio della sua Colonia…ma l’anno 1895 non era ancora concluso. Amba Alagi, 7 Dicembre 1895. Il Maggiore Toselli, comandante del Quarto Ascari – quelli con la fascia nera – era schierato sulla rupe dell’Amba Alagi con 2.300 uomini. Gli erano giunte voci che non lontano dalla sua postazione si stava concentrando il grosso delle truppe abissine e decise di inviare i suoi Ascari per una ricognizione esplorativa. Travestendosi da mendicanti, le nostre forze indigene entrarono in un accampamento di avanguardia e riuscirono ad apprendere che proprio lì era in arrivo l’esercito del Ras Makonnen, con 40.000 uomini, tra i più disciplinati ed efficienti di tutto l’esercito abissino. Toselli decise di iniziare freneticamente le fortificazioni (si trovava a 74 chilometri da Adigrat) per assicurarsi la strada della ritirata, convinto che presto sarebbe arrivato l’ordine di sganciarsi dall’avamposto e di unirsi al grosso delle truppe, accampato appunto ad Adigrat, sotto il comando del Colonnello Arimondi, anche lui convinto sostenitore di un’avanzata 31 militare diretta contro Menelik, ed in ampio e perenne disaccordo con Baratieri. Toselli comprese subito che rimanere fermo con i suoi pochi uomini, mentre i fuochi sempre più numerosi degli accampamenti del nemico brillavano a poco più di mezz’ora di marcia, voleva dire morte sicura. Inviò numerosi messaggi ad Arimondi, l’ultimo dei quali fu un vero e proprio appello disperato : o l’arrivo dei rinforzi subito o l’ordine di ritirare le truppe lungo una retrovia, per il momento ancora libera. Arimondi, benché abbia già ricevuto l’ordine di Barattieri di concentrare le truppe (e quindi anche gli uomini di Toselli) per prepararsi ad una difesa compatta, decise di effettuare un’azione limitata in soccorso di Toselli, con il possibile, e tragico, risultato di disperdere ancora di più le sue forze, già piuttosto esigue. Telegrafando al suo Superiore le sue intenzioni, ricevette un secco rifiuto e l’ordine di trasmettere subito a Toselli la ritirata immediata da Macallè. Ma il Generale non trasmise subito l’ordine a Toselli e attraverso un furioso conversare telegrafico con Barattieri, continuò ad insistere sul suo progetto di un’avanzata generale. Barattieri si lasciò convincere ed alla fine autorizzò l’avanzata solo sino ad una posizione intermedia tra Macallè ed Amba Alagi al solo fine di sostenere la ritirata di Toselli : ma il Generale non seppe che quest’ordine non venne mai impartito ! E fu così che passarono 12 ore, ore importanti che permisero agli Abissini di avvicinarsi e circondare con tutta tranquillità gli Ascari del Maggiore Toselli. Arimondi, pur avendo dichiarato al Governatore di essere pronto a partire all’alba, si mosse in realtà soltanto alle 23.30 (in piena notte) con 3.000 uomini ed una sola sezione di artiglieria : questo ritardo condannerà definitivamente Toselli ed i suoi uomini. Il massacro iniziò alle 6.30 del mattino : il primo assalto venne portato da 12.000 uomini. Toselli, ancora convinto dell’arrivo di Arimondi, inviò tre volte il suo Aiutante di Campo, Capitano Bodrero, a controllare se si fosse vista, almeno in lontananza, la colonna dei soldati italiani. La successiva testimonianza di Bodrero al proposito fu molto chiara : “Toselli si impegnò nel combattimento credendo di essere soccorso. Gli avvisi di retrocedere del Generale Arimondi non pervennero […] dopo 32 le 11.00 il Maggiore dubitò che la colonna potesse arrivare in tempo […] deve essere stata attaccata per via – mi disse”. Dopo oltre sei ore di dura battaglia, la situazione era ormai completamente compromessa e la strage venne perpetrata. Ancora il Capitano Bodrero : “Il nemico si era avvicinato a pochi passi e sparava su di noi senza posa. Il Capitano Angherà, colpito al petto, cadde e più non si rialzò. Poco dopo cadevano Persico e Canovetti. Il fuoco continuava senza respiro. Giungemmo ai piedi del colle sfiniti. Ma Toselli non era ancora vinto. Perdiamo in questo momento - mi diceva - quando un po’ di resistenza potrebbe dar tempo al Generale Arimondi di prendere i nemici alle spalle o al fianco. Tu Bodrero và incontro al Generale e digli di prendere posizione a Bet Mariam. In questo modo potremo salvare un buon numero di soldati. Ormai non ci resta più che diminuire il disastro – “. Un’altra testimonianza, quella di un capo al seguito del Ras Makonnen, ci ha fatto comprendere l’eroismo ed il sacrificio di Toselli : “Trovammo il Maggiore Toselli a poca distanza dallo strettissimo sentiero che conduce nella valle del Togorà; era colpito da una palla che gli aveva trapassato il torace da parte a parte, da una sciabolata alla guancia destra e da un’altra al collo dalla parte sinistra, e nel corpo aveva molte ferite di arma bianca : era già stato denudato e mutilato, ma aveva ancora i guanti alle mani. Il Maggiore, per ordine di Ras Makonnen, fu trasportato sopra una lettiga di frasche nella vicina chiesa di Beil Mariam. E al mattino seguente fu sepolto. Io stesso portai il mio pugno di terra e la mia pietra per colmare la bara e così fecero tutti i Ras sull’esempio di Makonnen”. Il Tenente Pagella, il Tenente Bazzani ed il Capitano Bodrero furono gli unici Ufficiali superstiti, oltre ad un esiguo pugno di Ascari. Intanto la colonna di Arimondi venne effettivamente attaccata dalla Cavalleria del Ras, comandata personalmente da Alula – sempre l’ex signore di Asmara che voleva riprendersi la rivincita per la capitale rubata dagli Italiani. Arimondi, anche se a fatica, riuscì a ripiegare e dopo 4 giorni di marcia decise di assestarsi temporaneamente nel 33 presidio di Macallè. Lasciò come guarnigione tre Compagnie di indigeni al comando del Maggiore Galliano e si ritirò verso Adigrat. Per affrontare la marea dilagante di 30.000 abissini in marcia verso Macallè, ancora eccitati dopo le feste selvagge per la vittoria di Amba Alagi, rimasero soltanto 21 Ufficiali, 170 soldati italiani e circa 1.000 Ascari. Galliano capì subito la situazione e l’annotò sul suo diario : “Sono certo che il Generale Arimondi quando mi ha lasciato qui, oltre che sul soldato, ha contato molto sull’amico, poiché egli sapeva benissimo in quali condizioni mi lasciava, e sapeva anche che io non avrei opposto difficoltà per quanto conoscessi perfettamente tutta la gravità della mia posizione. Era necessario che Macallè arrestasse per qualche tempo l’orda inseguente a costo di sacrificarsi, e ho accettato serenamente l’incarico, fidente nelle mie buone idee di soldato, nella buona stella d’Italia, che continua a rifulgere di splendida luce e nella cooperazione di splendidi Ufficiali che accettarono con entusiasmo il loro destino, e mi fanno orgoglioso di comandarli”. Un’altra Amba Alagi sembrava delinearsi all’orizzonte. Le truppe di Makonnen – che costituivano pur sempre l’avanguardia dell’immenso esercito di Menelik – arrivarono sotto le fortificazioni di Macallè ed il Ras iniziò una serie di trattative con Galliani, che accettò naturalmente di buon grado : scambi di plenipotenziari, invio di proposte e controproposte. In ogni caso, giorni che trascorsero senza combattere, e con la speranza di avere nel frattempo da Adigrat notizie o rinforzi, che però non giunsero mai. Poiché le linee telegrafiche erano state tagliate, Galliano fu costretto ad utilizzare corrieri Ascari per inviare messaggi ad Arimondi, ma Adigrat distava ben 200 chilometri (!) lungo una strada tortuosa e controllata dagli uomini di Makonnen. In realtà il Ras stava solo aspettando l’arrivo del Re dei Re, ed appena la grande tenda rossa del Negus Menelik venne issata, inviò un biglietto a Galliano : “Non sono venuto a fare la guerra ad un piccolo forte come quello che tu comandi; noi siamo in molti e non abbiamo paura dei vostri cannoni. Ricordatevi di Amba Alagi, non spargiamo altro sangue 34 inutilmente; io penserò a farti accompagnare fino a Massaua e a mandare colà i tuoi bagagli.” Galliano, sospinto da sano orgoglio militare e forse ancora illuso sui soccorsi di Arimondi, rispose con fermezza : “Io resto dove sono, se vuoi avere il forte e i bagagli vieni a prenderli che sarai ricevuto a cannonate”. Makonnen reagì iniziando l’assalto con 60.000 uomini, equipaggiati con buoni fucili Remington e con quattro cannoni provvisti di una gittata di oltre 4 chilometri, superiore a quella degli italiani. Il primo assalto venne faticosamente respinto, ma gli Etiopi riuscirono ad avere la meglio sul presidio che difendeva l’unica fonte di approvvigionamento idrico, distante 500 metri fuori dalla cintura fortificata di Macallè. Galliano non aveva uomini sufficienti per tentare una riconquista disperata dell’acqua e la situazione precipitò drammaticamente : le razioni furono ridotte ad un litro ogni sette soldati e per risparmiare ogni goccia si praticò un foro nel turacciolo della borraccia, da dove attingere con molta parsimonia. Intanto gli Abissini si limitarono a pochi attacchi, in genere notturni, forse con lo scopo di fiaccare ulteriormente il morale degli uomini, mentre Galliano continuava ad inviare messaggi disperati con richieste di aiuto : ma né Baratieri, che nel frattempo aveva sgomberato frettolosamente Adua, e né Arimondi risposero ad una sola di queste richieste di soccorso. A questo punto entrò in scena – in un contesto politico rimasto ancora oggi non chiarito – un personaggio ambiguo, Pietro Felter, un trafficante amico del Ras Makonnen e del Negus Menelik. Dopo un mese di assedio e di sofferenze dovute alle sete, alle ferite di arma da fuoco e dalle malattie, Galliano ricevette un parlamentare italiano che gli recapitò una lettera a firma del Governatore Baratieri : “D’ordine di Sua Maestà il Re d’Italia, vostra signoria cederà il forte di Macallè al Negus di Abissinia. Il cavaliere Pietro Felter è incaricato di trattare con il Negus le modalità dell’evacuazione. Il presidio uscirà con gli onori militari, con armi e bagaglio e con quell’altro che la signoria vostra crederà di trasportare”. Sembra che Galliano mormorasse “Povera Italia” e gli altri Ufficiali tra le lacrime non riuscirono a comprendere il 35 motivo di quella umiliazione, ovvero di quella inspiegabile motivazione : il capitolo finale avrebbe dovuto essere o l’apoteosi della liberazione o la celebrazione del sacrificio collettivo, ma non una umiliante resa, per altro anche “ordinata”. Non esistono documenti ufficiali, ma sembra che la libertà del presidio sia stata comprata a suon di milioni di Lire da Felter, su ordine del Re Umberto che non intendeva più tollerare ulteriori umiliazioni all’Esercito Italiano. In ogni caso, la bandiera italiana venne ammainata ed al suo posto sventolò la bandiera di Makonnen : gialla, azzurra e rossa. Era il 20 Gennaio del 1896 e mancano solo quaranta giorni ad Adua ! L’errore fatale: la battaglia di Adua Il 28 febbraio 1896 giunse al Governatore Baratieri un telegramma di Crispi : “Codesta è una tisi militare, non una guerra; piccole scaramucce nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare, perché non sono sul posto, ma constato che la campagna è condotta senza alcun piano prestabilito, e io vorrei che ve ne fosse uno. Siamo pronti ad ogni sacrificio per salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della monarchia”. Quindi la posta in gioco era importante: l’Esercito e la Monarchia! E Crispi, senza indugiare alla diplomazia, aveva ordinato una vittoria da conseguire a tutti i costi. La decisone da prendere era effettivamente difficile : dare in ogni caso una risposta “esauriente”. A questo punto è doveroso aggiungere che non è stato mai chiarito se Baratieri fosse al corrente della sua sostituzione, avvenuta quattro giorni prima, con il nuovo Governatore Baldissera, che già si era imbarcato sotto falso nome su un piroscafo inglese in partenza da Brindisi. In ogni caso, Baratieri era in quel periodo un uomo molto malato : aveva febbri continue e non riusciva a mangiare, e molto spesso era costretto a cedere il Comando 36 per giorni interi. Su di lui gravava comunque la responsabilità di 20.000 uomini, Italiani ed Ascari, accampati sui colli di Sauria, ed inoltre una serie di “pubblici” rimproveri : la fine di Toselli, il rischio corso con Galliano e la paura di affrontare Menelik (per questi motivi venne effettivamente vietato negli accampamenti la diffusione dei giornali, perché pieni di articoli incendiari contro il Baratieri ed il Governo che lo appoggiava). In questo stato di prostrazione, Baratieri decise di adottare una procedura militare senza precedenti, e forse anche al di fuori del Regolamento, chiese consiglio ai suoi Generali : il Governatore di Eritrea, Tenente Generale Oreste Baratieri, il Capo di Stato Maggiore, Tenente Colonnello Gioacchino Valenzano, il Sottocapo di Stato Maggiore, Maggiore Tommaso Salsa, il Generale Giuseppe Arimondi (1° Brigata Fanteria), il Generale Vittorio Dabormida (2° Brigata Fanteria), il Generale Giuseppe Ellena (3° Brigata Fanteria) ed il Generale Matteo Francesco Albertone (Brigata Indigeni). Ma lo Stato Maggiore di Baratieri era composto da Ufficiali giunti da poco in Colonia e sicuramente privi di quell’esperienza necessaria per muoversi in una situazione così difficile e delicata, ed inoltre i veleni, anche all’interno del gruppo, non mancano di certo. Il Generale Arimondi – tenacemente convinto della necessità di attaccare sempre ed a qualunque costo – riuscì ad entusiasmare, con un discorso appassionato, gli altri Ufficiali sulla necessità dell’intervento diretto, sopravvalutando le nostre capacità e sottovalutando quelle del nemico. Baratieri decise quindi per una “ricognizione offensiva” (!), una sorta di compromesso tra un atteggiamento offensivo ed uno difensivo. Alla fine, Baratieri decise di effettuare un limitato balzo in avanti, una dimostrazione di forza che implicasse il minor rischio possibile. Il Corpo d'Operazione avrebbe occupato la linea delle alture dominanti la conca di Adua, dove si sapeva accampato l'esercito del Negus, per provocarlo a battaglia. Se il nemico avesse “abboccato all’amo”, il suo attacco era destinato a fallire contro il fuoco concentrato dei nostri cannoni e dei nostri fucili. Se invece non si fosse mosso, era sempre possibile ripiegare sulle posizioni di partenza. E’ doveroso però 37 aggiungere che presumibilmente lo stesso Menelik, dopo Amba Alagi e Macallè, preferì non saggiare la capacità di resistenza italiana e scelse di marciare verso Adua. Questa manovra, erroneamente interpretata come un segno di debolezza, accompagnata dalle notizie che l'esercito imperiale era in difficoltà di approvvigionamenti generò purtroppo un facile ottimismo nel Comando italiano: così, mentre gli abissini ci stimavano giustamente dei forti avversari ed applicavano la classica tattica dilazionatoria di attirarci in profondità nei loro territori per allontanarci dai rifornimenti e dalla posizioni fortificate, governo e militari credettero invece che fosse giunto il momento di far conoscere al Negus la superiorità delle armi e dei soldati italiani. Nel Gennaio 1896 Baratieri, nonostante la lamentata scarsità di truppe a sua disposizione, cominciò dunque ad avanzare con un Corpo d'Operazione alla ricerca del Negus e dei suoi "camisun", come erano definiti dai nostri soldati i guerrieri abissini per via dei bianchi mantelli che indossavano. A fine Febbraio, dopo una marcia di 450 chilometri da Massaua, gli italiani si accamparono nella conca di Enticciò, a 30 chilometri da quella di Adua, dove stazionava l'esercito di Menelik. Alle 5 del pomeriggio del 29 Febbraio venne emanato da Baratieri l'Ordine n. 87, che prevedeva per le ore 21,00 la partenza verso Adua avendo come "primo obiettivo" i colli di Chidane Meret e Rebbi Arienni. Il Corpo d'Operazione venne diviso in tre colonne che dovevano marciare separatamente lungo tre diverse strade per ricongiungersi alla fine del percorso : Colonna di destra: 2ª Brigata Dabormida, Colonna di centro: 1ª Brigata Arimondi, seguita, ad un'ora di marcia, dalla 3ª Brigata Ellena di Riserva, Colonna di sinistra : Brigata indigena Albertone. Il Corpo italiano era infatti composto da 4 Brigate, Brigata Indigeni (Gen. Albertone ) 4.076 uomini e 14 cannoni ; 1ª Brigata Fanteria (Gen. Arimondi) 2.493 uomini e 12 cannoni ; 2ª Brigata Fanteria (Gen. Dabormida) 3.800 e 18 cannoni ; 3ª Brigata Fanteria (Gen. Ellena) 4.150 uomini e 12 cannoni, per un totale di 14.527 uomini e 56 cannoni. L'esercito imperiale vero e proprio contava fra i 34.000 e i 38.000 guerrieri e le forze che i vari Ras avevano portato con sé ad Adua 38 facevano salire la cifra degli Abissini a 110.000-123.000 combattenti. Le batterie furono divise tra le varie Colonne, ma per scarsità di animali da soma vennero assegnati soltanto 90 colpi a pezzo in luogo dei 130 previsti, limitando in questo modo l'efficienza dell'unica arma in grado di contrapporsi all'enorme superiorità numerica del nemico ; inoltre uno spostamento notturno – che separava le già scarse forze e procedeva per vie sconosciute, senza l’ausilio di carte militari, ma soltanto di carte topografiche appena abbozzate – espose presumibilmente l’impresa a gravi rischi, senza contare che per il collegamento notturno si dovevano necessariamente usare le staffette (per il giorno erano previsti degli eliografi, in realtà semplici specchi solari). L'arrivo del Corpo d'Operazione italiano avrebbe dovuto quindi costituire una sorpresa per l'esercito abissino, ed invece si risolse in una sorpresa per le nostre truppe (quello che oggi potremmo definire un servizio di “intelligence”, sicuramente più efficiente da parte etiopica, al di là della presunta leggerezza delle Autorità italiane nell’utilizzo di guide e spie locali) e la battaglia che si svolse in quella terribile giornata del 1° marzo 1896 – secondo la ricostruzione di molti storici – era praticamente già perduta in partenza: il Corpo d'Operazione era già atteso, e per giunta affluiva sul terreno dello scontro in disordine, alla spicciolata e lungo itinerari che seguivano valli e sentieri separati da alture; da qui la grave difficoltà a comunicare tra le colonne, la mancanza da parte del Comando centrale di una visione chiara degli avvenimenti, e la pratica impossibilità di far pervenire tempestivamente gli ordini necessari (il teatro della battaglia aveva una profondità di 28 km e una larghezza di 14) senza l’ausilio della nostra Cavalleria. Le tre Brigate dei Generali Albertone, Dabormida e Arimondi si mossero quindi alle 20.00 in direzione di Adua, con l’ordine di marciare su strade parallele – sia per rimanere in contatto, e sia per non rompere la compattezza dello schieramento. Ma a Baratieri arrivò quasi subito un biglietto di Arimondi che lo informava di aver dovuto fermare l’avanzata perché le sue truppe avevano cozzato contro le truppe indigene di Albertone, ed era quindi costretto a farsi da parte per lasciar 39 avanzare gli Ascari. Ma nessun segnale di allarme scattò in Baratieri : come mai due Brigate che devono marciare parallele finiscono sulla stessa strada ? Ma soprattutto, questo voleva dire che le Brigate non erano più compatte e che Alberatone si stava pericolosamente sbilanciando in avanti senza copertura. Il primo errore della giornata era ormai compiuto : Baratieri perse di vista una Brigata (ovvero un terzo del suo esercito) e non fece nulla per riprendere il controllo. Inoltre, Albertone stava avanzando con un’avanguardia sproporzionata (4.000 uomini) composta da tutte le sue Bande, un Battaglione e una Batteria, proprio come una gran testa che si trascina dietro un corpo esiguo. Oltre a questo, permise alla sua avanguardia un distacco di oltre tre chilometri. Dopo 8 ore di marcia, le Brigate non si erano più compattate e Albertone si era perso tra le gole ed i monti intorno ad Adua : il resto dell’Armata non era più in grado raggiungerlo semplicemente perché non sapeva dove si trovasse. Alle 06.00 del mattino del 1° Marzo 1896 gli Ascari, dall’alto di una collina, scorsero in direzione di Adua un immenso accampamento con almeno 40.000 uomini ed altri 10.000 in marcia proprio verso la Brigata di Albertone. Il potente esercito del Negus era pronto ad abbattersi sugli Italiani : Menelik, perfettamente a conoscenza di tutti i movimenti del nostro esercito, scelse proprio il Chidane Meret, il colle dove si trova la punta più avanzata – ed isolata – dell’esercito di Baratieri, per sferrare il primo attacco. In realtà furono 20.000 i guerrieri che, avanzando a semicerchio ed incuranti delle cannonate, stavano travolgendo i nostri uomini, mentre altri 10.000 uomini spuntarono dalle colline circostanti e la strage ebbe inizio. Alle 08.30 le 142 cartucce in dotazione agli Ascari stavano per esaurirsi, ed al Generale Albertone arrivò finalmente un biglietto di Baratieri, dove gli si chiedeva di mettersi in contatto con le altri ali dello schieramento italiano, ma ormai era troppo tardi. Albertone ha potuto solo rispondergli che ha bisogno urgente di rinforzi. Nel frattempo la Regina Taitù (Taitù Zeetiopia Berean, moglie di Menelik) incitava personalmente i suoi uomini invocando San Giorgio (è proprio il giorno della festa del Santo guerriero) al comando della Guardia Imperiale, il 40 reparto scelto composto da 20.000 uomini, che stava marciando a supporto della prima linea abissina. Albertone perse presto il controllo tattico della battaglia e dovette solo subire le mosse aggressive dell’avversario. L’ordine fu quello dei momenti estremi : “Resistenza ad oltranza e consumare fino all’ultima cartuccia”. La mancanza di comunicazioni impedì a Baratieri di intervenire in soccorso : morirono molti Ufficiali (in prima linea, con la divisa bianca) ed i nostri Battaglioni furono scompaginati. Il Generale Albertone, ferito, venne portato via dagli Abissini trascinato in terra con la sua stessa sciarpa. Baratieri non era ancora al corrente di quello che stava succedendo e si trovava a soli 8 chilometri dalla battaglia, anche se la distanza era costituita da montagne, picchi e gole insidiose. Poco dopo Baratieri vide gruppi di Ascari in fuga dirigersi disordinatamente verso le sue truppe ed inseguiti dagli Abissini : l’iniziale confusione e la mancanza di coesione tra i reparti innestarono una inarrestabile reazione a catena e la ritirata non potè neanche essere ordinata perché Baratieri non aveva dato disposizioni per le modalità di ripiegamento, facilitando in questo modo il compito degli inseguitori (quando in Maggio le nostre truppe arrivarono sui luoghi dell’eccidio per seppellire i cadaveri, ben oltre mille corpi, degli oltre tremila trovati, giacevano fuori dell’area della battaglia, uccisi durante la ritirata). Il primo urto venne sostenuto dal Generale Arimondi che, appoggiato ad una montagna, si rese subito conto di non avere forze sufficienti e chiese l’aiuto del Terzo Indigeni di Galliano – gli epici difensori di Macallè – che si disposero all’ala estrema dello schieramento a fianco dei Bersaglieri e dei Cacciatori d’Africa, il Corpo di Fanteria appositamente creato per le campagne coloniali, anche se completamente privo di addestramento specifico per le torride ed insidiose zone africane. Gli Abissini, sfruttando l’opportunità di essere mescolati agli Ascari in fuga – e questo significa che la nostra artiglieria non fu in grado aprire il fuoco – occuparono le posizioni dominanti del monte Rajo, dove era stato fissato proprio l’estremo fronte della difesa italiana. Alle 15.30 erano già caduti 10 Ufficiali – tra di loro il Maggiore Galliano : “Signori, si dispongano con 41 la loro gente e vedano di finir bene” – ed oltre 1.000 Ascari. Il crollo della Brigata di Arimondi (che rimase ucciso o si uccise, secondo diverse testimonianze) trascinò con sé nel gorgo anche le truppe del Generale Ellena. Il Generale Dabormida, commettendo un altro errore, finì isolato in una valle laterale dove la sua colonna venne facilmente sterminata (al suo seguito, morì anche il giovane Luigi Bocconi, figlio del cavaliere Ferdinando Bocconi, proprietario dei Magazzini Bocconi di Milano, che fece di tutto per partire per l’Africa dopo la sconfitta dell’Amba Alagi, scomodando persino Crispi, e raggiunse il Corpo di Spedizione giusto in tempo per la battaglia di Adua, accompagnato dal fotografo Pippo Ledru. Il padre volle dedicargli un’iniziativa benefica, oggi universalmente riconosciuta, appunto l’Università Bocconi. E’ doveroso aggiungere che nella battaglia morì anche l’amico fotografo, così come quasi tutti i fotografi presenti, ed è questo il motivo per cui non abbiamo fotografie degli scontri, ma solo disegni ed illustrazioni fatti sulla base dei racconti dei superstiti). Baratieri si ritirò penosamente con quanto restava dei suoi Reparti e solo il ritardo nell’inseguimento da parte della Cavalleria nemica (la temuta ed implacabile Cavalleria Galla) lo salvò dall’annientamento totale. Oltre a 46 cannoni a tiro rapido Hotchkiss, che per inesperienza non vennero usati al meglio, e alle mitragliere Maxim, gli abissini utilizzarono ad Adua non meno di 120 mila fucili, per la maggior parte Remington e Gras (i moderni Remington a ripetizione, di fabbricazione americana, risultarono di proprietà dello Stato del Vaticano , donati dal clero americano con una colletta all'epoca di Mentana), ma anche Mauser, Berdan, WetterlyVitali (gli stessi in dotazione alle nostre truppe), Winchester, Peabody, Martini-Henry, Chassepot e Kropatschek (trafficanti da tutto il mondo, tra i quali anche il poeta Arthur Rimbaud, mercante di schiavi, facevano la fila per vendere armi a Menelik), mentre alle nostre truppe in Colonia non era stato ancora distribuito il nuovo Modello 91 – usato durante l’addestramento in Patria ed in dotazione in Eritrea al solo Battaglione Alpini – molto più arretrato rispetto al Modello 70, ma necessario per omogeneità di munizionamento con i Battaglioni indigeni, oltre a pochi 42 Wetterly 87 con caricatore. Sul terreno restarono circa 8.000 cadaveri sui quali si scatenò la furia dei vincitori, mentre i prigionieri, circa 1.500, vennero avviati in lunghe file verso il campo del Negus. La Regina Taitù considerò gli Ascari dei traditori e li rimandò a Massaua dopo aver tagliato loro la mano destra ed il piede sinistro, e lo stesso trattamento – anche se molti storici esprimono opinioni diverse al riguardo – venne applicato anche ad alcuni dei nostri soldati. In quel tragico 1° marzo 1896 i caduti italiani furono oltre il 40% dell'intero Corpo d'Operazione, una cifra spaventosa rispetto alle guerre risorgimentali che fino ad allora l’Italia aveva combattuto. Le Medaglie d'Oro alla memoria concesse ai caduti di quella battaglia furono 14, un numero elevatissimo se confrontato a quello dei combattenti. Baratieri ed Ellena furono tra i pochi superstiti. Anche se i dati non sono certi, sembra che gli abissini contarono 7.000 morti e 10.000 feriti. Adua, o Abba Garima, dal nome del Convento sul monte omonimo dei pressi del quale fu combattuta, rimase la più sanguinosa battaglia delle guerre coloniali del XIX secolo, e fu un tale eccidio da lasciare inorridito lo stesso Negus : quando i suoi uomini gli chiesero di poter festeggiare la vittoria, egli vietò loro ogni manifestazione di esultanza poiché” erano morti cristiani da una parte e dall'altra”. Adua è però rimasta ancor oggi, nella memoria degli abissini, "la Battaglia dei Leoni contro i Leoni" e secondo il complicato calendario copto (23 Yekatit) quella ricorrenza è festa nazionale. Il 18 maggio avvenne lo scambio dei prigionieri, dopo che avevano prestato servizio presso alti notabili abissini svolgendo i più umili e disparati mestieri (l’incaricato a negoziare fu il Maggiore Salsa) e due Compagnie del Genio poterono iniziare il riconoscimento e la sepoltura dei resti dei caduti. La pace fu firmata a Addis Abeba il 15 Ottobre 1896 e il Negus per l'occasione fece pervenire ad Umberto I questo telegramma: "Sono lieto di far conoscere a Vostra Maestà che il Trattato di pace è stato oggi sottoscritto. Iddio ci mantenga sempre amici". Con la sconfitta di Adua, l’Italia abbandonò completamente il suo progetto di occupazione dell’Abissinia e fu costretta a riconoscere 43 l’assoluta indipendenza dell’Etiopia, ritirando ogni suo presidio dalla zona del Tigrè (la regione occidentale del paese) limitando la sua presenza militare con distaccamenti dislocati solo lungo i confini della Colonia Eritrea. Quella di Adua fu però anche per Menelik una vittoria sterile di risultati: poco dopo la battaglia, il 20 marzo, dovette ritirarsi dalla regione, sciogliere l'esercito e lasciare l'iniziativa agli italiani (in Etiopia il potere passò in diverse mani per finire poi a Zaiditù, la figlia dell'imperatrice Taitù, ed alla sua morte Tafari Maconnen, figlio del ras dell'Harrar, venne incoronato Negus Neghesti (re dei re) con il più famoso nome di Hailè Selassiè). Baldissera sbarcò il 4 Marzo, soltanto tre giorni dopo l'eccidio, con gli aiuti tanto invocati da Baratieri, ed il Tricolore fu ammainato nel forte di Adigrat che il Generale Baldissera aveva riconquistato, benché non ci fosse alcun nemico a minacciarlo; ed anche Cassala, luogo di una nostra splendida vittoria contro i Dervisci, fu ceduta agli inglesi (Colonnello Pearson). Il Generale Domenico Primerano, Capo di Stato Maggiore, commentò sulla Nuova Antologia : "Adua fu un doloroso episodio militare, ma non dell'importanza che gli si volle attribuire, e sarebbe stato riparabile all'indomani, se avessimo avuto la calma, la serenità e la fermezza di propositi che erano richieste in quel momento" (identica fu l'opinione del Times, che osservò : "Adua è un disastro militarmente inferiore all’apparenza, ma politicamente gravissimo”). In patria, le reazioni dei partiti, dei giornali e degli uomini politici furono scomposte ed esagitate : i socialisti esultarono perché era venuta in terra d'Africa la "batosta risolutiva", sui muri della caserma Sant'Ambrogio di Milano una mano scrisse: "Soldati, non andate al macello! Viva la bandiera rossa, viva Menelik!" ed esultarono anche i cattolici dalle pagine de “L'Osservatore Romano” e della “Civiltà Cattolica”. Felice Cavallotti fece pressioni sul Governo perché Baratieri non fosse giudicato da un Tribunale Militare, ma da un'Alta Corte di Giustizia formata da nove deputati, ed Andrea Costa di rimando gridava in piena Aula: "Neanche più un soldo per l'Eritrea! Neanche più un 44 soldo per l'Africa!". Ma Umberto I inviò a Menelik venti milioni di Lire oro come rimborso spese di guerra – offerta che il Negus commentò come un atto di sudditanza – e lo Stato Maggiore congedò le classi di riserva che stavano per partire per l'Africa. È però anche vero che “l'onore” non fu affatto perduto, poiché dalle inchieste successive ad Adua emerse il comportamento assolutamente coraggioso e impavido (per altro riconosciuto dallo stesso nemico) dei nostri soldati e dei nostri Ufficiali. E l'onore, tutto sommato, non fu perduto neppure dall'Italia nel suo complesso : la proposta parlamentare di abbandonare l'Eritrea fu respinta dalla Camera con centoventisei voti contrari e solo ventisei favorevoli, ed un prestito nazionale aperto dal Governo per le spese sostenute nella guerra in Africa fu coperto ventidue volte più del richiesto. Il Generale Oreste Baratieri fu processato davanti al Tribunale Speciale Militare, che lo assolse dall'accusa di aver attaccato il nemico con certezza di insuccesso e di avere abbandonato il posto durante la ritirata, e pertanto non accolse la richiesta del Sostituto Avvocato Generale Bacci di una pena di dieci anni di reclusione militare. Tuttavia, nella sentenza si legge: "Il Tribunale non può astenersi dal deplorare che la somma del Comando, in una lotta così disuguale e in circostanze tanto difficili, fosse affidata ad un Generale che si dimostrò tanto al di sotto delle esigenze della situazione". Nonostante i meriti di guerra che Baratieri aveva colto nelle campagne contro i Dervisci, e la grande popolarità che per le sue vittorie lo aveva circondato negli anni recenti, venne allontanato dall'Esercito. Il 5 Marzo 1896 Crispi venne costretto alle dimissioni. Perché un colonialismo così difficile? Fu una partita decisamente rischiosa e Francesco Crispi, anche se non fu lui ad iniziarla, non abbandonò mai il gioco perché rimase sempre un convinto sostenitore del consolidamento del giovane Stato italiano nel novero delle grandi potenze europee, ed in questo contesto una politica 45 coloniale coronata da successi militari e diplomatici venne perseguita con volontà e determinazione. Ma è anche vero che il governo del nostro Regno fu afflitto da pressanti incombenze di diversa natura, dai tempestosi rapporti con la Chiesa, dagli scandali politici e dal drammatico deficit del Bilancio – oltre ai gravi e pericolosi problemi sociali – e tutto questo generò probabilmente la difficoltà di impartire direttive strategiche chiare e precise alle autorità della nuova Colonia, senza contare l’oggettiva impossibilità di ottenere conquiste politiche e territoriali coniugate con limitazioni, o meglio restrizioni, dei finanziamenti necessari. Anche sotto il profilo militare, la politica coloniale perseguita non fu in grado di affrontare con una visione completa ed innovativa – le circostanze lo richiedevano – la gestione militare necessaria a consolidare e ad espandere la presenza italiana nel Corno d’Africa. Le stesse vittorie militari, alcune valorosamente conquistate ed altre soltanto agognate, dovettero fare i conti con l’assenza di servizi cartografici adeguati e con l’arretratezza e la disorganizzazione dei servizi logistici, oltre alla mancanza di decise linee operative, sia strategiche che tattiche, alle quali si è accompagnata un’attività diplomatica spesso ingenua, se non addirittura ambigua. Anche se l’esercito abissino si rivelò un avversario coraggioso ed intraprendente – proprio il contrario di quelle bande indisciplinate che i nostri militari pensarono di poter mettere facilmente in fuga con la superiorità tecnica dell’addestramento e delle armi – è doveroso sottolineare che gli eserciti, e le stesse classi dirigenti, di tutte le potenze coloniali dell’epoca erano intimamente persuasi che la supremazia dei soldati europei – qualità morale, armamento e disciplina – avrebbe sicuramente avuto ragione sul nemico che erano chiamati ad affrontare, specialmente se questo nemico, come nel nostro caso, si trovava in una delle aree più marginali e povere di tutto il continente africano. Altri paesi furono in grado di assorbire le inevitabili battute d’arresto che questo tipo di guerra comportava a cadenze quasi regolari, ma il Regno d’Italia, ancora fragile a causa dei numerosi problemi interni e con una classe politica non del tutto formata, stava tentando un’impresa 46 coloniale di grande respiro decisamente superiore alle sue possibilità, ed inoltre condotta in ritardo rispetto agli altri Stati, lì dove le altre potenze europee avevano intrapreso la strada dell’espansione coloniale dopo secoli di unità politica e sociale e dopo aver raggiunto una forte e stabile coesione militare. Ma anche se tardiva, e spesso contraddistinta da un ordito retorico che continuamente cercava di legittimare il proprio operato, l’avventura coloniale italiana in Africa ebbe però nel suo intrinseco sviluppo una forte ed elevata carica ideologica. Ai richiami delle allettanti possibilità strategiche o economiche del nuovo mondo, l’Italia di fine secolo aveva risposto, forse con eccessiva baldanza, con lo spirito mazziniano che aveva marcato il nostro Risorgimento, così avaro di trionfali stendardi di vittoria, e quindi con il riscatto di una ipotesi di sviluppo nazionale e sociale che incontrò adesioni diffuse in tutto l’arco dell’Età umbertina. Anche se furono comunque pagine amare di storia patria, che solo una recente storiografia ha ridisegnato – marcandone i contorni sociali, politici e militari – nel debito tentativo di restituire dignità concettuale ad avvenimenti e vicende umane, rimane innegabile il valore che i nostri soldati hanno dimostrato tra le sperdute ed assolate ambe africane, sotto l’ombra del nostro Tricolore. 47 Oreste Baratieri (1841-1901) iniziò la sua carriera militare nel 1872 con il grado di Capitano, dopo la lunga militanza nelle “camicie rosse” di Garibaldi dal 1860 al 1867 (fu tra i volontari nella spedizione dei Mille). Oltre a ricoprire la carica di deputato per sei legislature (eletto a Breno, Brescia) comandò con il grado di Colonnello prima il 4° Bersaglieri a Cremona (1886), e poi il 1° Reggimento Bersaglieri d’Africa al seguito della spedizione in Africa comandata dal Generale Di San Marzano. Nel 1892 venne nominato Governatore della Colonia Eritrea e Comandante in capo delle truppe con il grado di Generale. Dopo le vittoriose campagne del Tigrè e di Cassala, venne processato ed assolto per la tenuta durante la battaglia di Adua. Antonio Baldissera (1838-1917) nato da famiglia povera, venne affidato dalla madre vedova al Vescovo di Udine che lo iscrisse all’Accademia Militare di Vienna con i fondi di un’Istituzione benefica retta dall’Imperatrice Elisabetta (più conosciuta come Sissi). Nel 1857, raggiunto il grado di Sottotenente, rifiutò l’invito a passare nel Regio Esercito e combattè nel 1866 con il grado di Capitano sul fronte boemo contro la Prussia. All’atto della cessione del Veneto all’Italia, venne esentato dal giuramento di fedeltà all’Imperatore Francesco Giuseppe e fu libero di scegliere il ritorno in Italia. Con il grado di Colonnello comandò nel 1886 il 7° Reggimento Bersaglieri a Firenze e raggiunse la terra d’Africa al seguito del Generale Di San Marzano e con il successivo grado di Generale ebbe l’incarico di riorganizzare la Colonia. Rientrato in Italia, nel 1896 ebbe l’ordine di sostituire il Generale Baratieri e gli subentrò nel Comando all’indomani della battaglia di Adua, con la carica di Governatore Generale. Fu nominato senatore ed insignito della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Militare d'Italia, dopo essere già stato decorato in Austria dell'Ordine di Maria Teresa. Giuseppe Galliano (1846-1896) entrò giovanissimo nel Collegio Militare di Asti per passare nel 1864 nella Scuola Militare di Fanteria. Nel 1866 fu Sottotenente al 24° Reggimento Como e partecipò alla guerra contro l'Austria-Ungheria. Alla costituzione del Corpo degli Alpini transitò in questa nuova specialità (1873) per rimanervi 10 anni. Promosso Capitano partì per l’Africa nel 1887. Dopo una breve ritorno in patria, chiese di essere destinato nuovamente all’Eritrea. Nel 1893 ad Agordat il suo III Battaglione Indigeni riuscì a riprendersi i cannoni persi alcune ore prima, 48 insieme a tutte le armi degli Abissini, conservati oggi al Museo di Artiglieria di Torino. Alla notizia che Umberto I gli aveva assegnato la Medaglia d'Oro al Valor Militare, Galliano così scrisse al fratello: « ... una sola cosa disturba la mia gioia per tanta onorificenza, ed è che si discosta troppo da quella data ai miei ufficiali che me l' hanno guadagnata e per i quali il Ministero non fu largo come per me » La sua promozione a Maggiore venne assegnata sul campo per meriti di guerra. I combattimenti di Coatit prima e di Makallè dopo, gli valsero il nomignolo di Leone presso gli Abissini, e gli venne anche conferita una Medaglia d'Argento. Sempre per tali valorose azioni ebbe in premio anche la Croce di Cavaliere dell'Ordine dei S. S. Maurizio e Lazzaro per « motu proprio » del Sovrano e la promozione per Merito di Guerra a Tenente Colonnello (1896). Ad Adua nel 1896 i nemici lo trovarono ferito e lo riconobbero per la Medaglia d'Oro che gli luccicava sul petto. Menelik, informato della cattura, gli mandò in segno di rispetto un muletto per trasportarlo al suo campo. Galliano lo rifiutò per ben due volte accompagnando gli epiteti rivolti al Negus con la parola "chenzir”, porco : nel campo di Menelik arrivò la sola testa. Per l’eroico comportamento in battaglia gli venne assegnata alla memoria una seconda Medaglia d’Oro al Valor Militare. Menelik II (1844-1913) Ras del regno di Shoa (Abissinia centrale) dal 1865 al 1889, sconfisse gli Oromo annettendosi il loro territorio (Abissinia meridionale) ed alla morte di Giovanni IV venne eletto Imperatore d’Abissinia dal 1889 al 1909 e perseguì l’unificazione del paese attraverso l’annessione di piccoli stati governati dai Ras locali. Durante il suo regno cercò di abolire la tratta degli schiavi e fondò la città di Addis Abeba. 49