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PUNTUALIZZAZIONE PRELIMINARE
- Non si può postulare l’esistenza, dalle origini a Giustiniano (565 d.C.), di un unico
ordinamento. Al contrario, la vicenda storica del diritto romano è caratterizzata da
molteplici rotture e da rinnovamenti pressoché completi in molti aspetti fondamentali.
Cambia più volte il gruppo sociale, nella sua composizione etnica, nella sua base
economica, nelle sue concezioni religiose (p. es. dalla religione politeistica tradizionale al
Cristianesimo come vera e propria «religione di Stato», nelle sue forme politiche (dalla
monarchia delle origini, alla Repubblica, al Principato, infine al cosiddetto Dominato).
- Scopo fondamentale di ogni periodizzazione è quello di isolare i punti di svolta
fondamentali della vicenda storica. L’intero arco temporale, che più da vicino ci riguarda,
può essere suddiviso in quattro diversi periodi: 1) Le Origini; 2) La Repubblica, dal 509 a
27 a.C., con due sottoperiodi: Repubblica arcaica, secoli V e IV a.C.; Media e Tarda
Repubblica, secoli III, II e I a.C.; 3) Il Principato: 27 a.C. - 235 d.C., suddivisibile in due
sottoperiodi fondamentali: l’Alto Principato, da Augusto a Traiano; il Medio Principato,
da Adriano (117 d.C.) alla fine della dinastia severiana (235 d.C.); 4) Il cinquantennio
compreso tra il 235 e il 283 d.C. è definibile, nel suo complesso, come l’età della cosiddetta
«Anarchia militare» e prelude all’Impero Tardoantico (il Dominato), da Diocleziano (284
d.C.) a Giustiniano (565 d.C.).
PARTE I
LINEE DI STORIA DELLA COSTITUZIONE ROMANA∗
I. LE ORIGINI.
LA FASE PROTOURBANA NEL LAZIO E LA ‘FONDAZIONE’ DI ROMA
- Tra l’830 e il 770 a.C. il sistema di insediamento individuabile nei comprensori più
importanti del Latium vetus1, come i Colli Albani, Roma e Gabii, era costituito da un
insieme di piccoli abitati vicini e, tra loro, reciprocamente interrelati sul piano religioso e
politico. Il fondamento di tutto il sistema sociale era costituito dalla famiglia, intesa nella
più rigida unità patriarcale. Il progenitore vivente del gruppo era signore assoluto delle
cose e delle persone, che regolava ai fini della sopravvivenza della famiglia,
disciplinandone ordine interno e organizzazione economica. Il pater era capo e sacerdote:
nella domus tutti gli erano sottoposti, dalla moglie ai figli, alle loro mogli, ai nipoti, agli
eventuali servi. Nelle fasi più antiche, la società laziale doveva presentare
un’organizzazione interna di tipo ‘egualitario’, fondata su gruppi familiari che si
ritenevano almeno originariamente imparentati tra loro. Tuttavia, tra fine del IX e gli inizi
dell’VIII secolo a.C., l’omogeneità dovette rompersi e, dopo l’unitarietà “ugualitaria“ della
età del ferro, ebbe inizio il processo di stratificazione da cui poi emersero le aristocrazie.
Nel Lazio, attorno alla metà dell’VIII secolo a.C., l’articolarsi dei livelli di ricchezza
all’interno dei gruppi sociali si accompagna a un’eccezionale crescita demografica in parte
ascrivibile anche all’aggregazione in situazione subordinata di nuclei cospicui di persone
d’origine estranea. Si operò, a partire dal 770 ca. a.C., una rottura del livello medio delle
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Materiale didattico per gli studenti frequentanti del corso di Storia del Diritto Romano
Il Latium vetus era limitato a nord dal Tevere, a ovest dal mare, a est dalle alture che segnavano il confine
con le popolazioni sabine e a sud dai colli Albani e dalla pianura verso Circei e Terracina.
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condizioni di vita: si accolse, in questo contesto, una simbologia del potere attinta alla
fastosa regalità orientale. Nelle tombe sontuose di questi aristocratici si ritrovano simboli,
quali per esempio troni, scettri, asce bipenni, carri, attestanti non solo la ricchezza
raggiunta ma anche la significativa influenza di idee provenienti dal mondo grecoorientale.
- Gli insediamenti di nuovo tipo e la realtà produttiva fondata sull’appezzamento di
terra ereditario (heredium) determinarono il rafforzamento progressivo di una struttura
sociale gerarchizzata, nella quale coesistevano gruppi parentali con autonoma capacità di
produzione e di accumulo di ricchezza. Da essi dipendevano clientele, sempre più
numerose, formate da individui di condizione inferiore, dediti all’agricoltura o
all’allevamento. Alle trasformazioni dell’VIII secolo a.C. può collegarsi l’origine della gens
(vd. anche infra III), che si affiancava alla familia, senza però sostituirla. La stessa
denominazione dei “capi“ dei due organismi ne sottolinea la differenza e la diversa
antichità. Nel pater familias si pone in evidenza, soprattutto, il rapporto di parentela, nel
princeps gentis, invece, il ruolo politico. Il sistema gentilizio era funzionale a un processo di
subordinazione fra i membri della medesima o di diverse comunità. Dalla seconda metà
dell’VIII secolo a.C. le comunità laziali furono dominate da capi guerrieri: la forza delle
armi, il possesso della terra e il controllo dei traffici s’accompagnavano con una grande
capacità di accumulazione di beni.
- I Romani, in età storica, fissarono la data della fondazione di Roma a un anno
corrispondente al 754/3 a.C.. Non è difficile spiegare perché giunsero a proporre questa
cronologia. Gli antiquari disponevano di un dato sicuro: la repubblica era nata in un anno
corrispondente al 509 a.C. Attenendosi al sistema seguito dagli storici greci, attribuirono ai
singoli periodi di regno la durata media di 35 anni, sebbene poi nel racconto
considerassero alcuni periodi più brevi e altri più lunghi. L’età regia doveva perciò essere
durata complessivamente 245 anni, che, risalendo dal 509 a.C., conducevano al 754 o 753
a.C., se si considerava o no l’anno di partenza. Il primo nucleo di Roma è sorto sul
Palatino. La primogenitura di questo colle deve attribuirsi alla sua importante posizione
geografica di controllo dell’ansa del Tevere. Vi fu un’epoca in cui Roma ancora non
esisteva e l’egemonia sul Lazio – a partire dal X secolo a.C. – spettava ad Alba Longa.
Trenta popoli del Lazio si riunivano una volta all’anno sul monte Albano per celebrare un
sacrificio in onore di Iuppiter Latiaris. Al primo posto dei triginta populi Albenses figurano
gli Albani. Non erano ricordati i Romani, ma citati i Velienses (abitanti della Velia sul
Palatino, i Querquetulani (abitanti del Celio) i Vimitellari (abitanti del Viminale). E’ facile
ricavarne l’esistenza di un’epoca in cui Alba Longa aveva una posizione di primato e
Roma, come organizzazione politica unitaria, ancora non esisteva. Nell’VIII secolo a.C. si
avviò il processo di integrazione che condusse alla fondazione della città. Il rito del
Septimontium, una processione che muoveva dal Palatino e sostava su altre alture a
eccezione del Quirinale e del Viminale, rivela l’esistenza di un legame religioso tra i pagi
che già esistevano sul luogo ove poi sarebbe sorta Roma. Promotrice di questo rito, che
aveva anche e soprattutto un originario valore politico, era la comunità del Palatino, la cui
importanza si accresceva con l’incremento dei traffici nell’area sottostante, dove poi si
sviluppò il foro Boario.
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II LE ISTITUZIONI DI ROMA DURANTE LA MONARCHIA LATINA
1. QUADRO GENERALE
Si può affermare, parafrasando i Gründrisse der Kritik der politischen Oekonomie di K. Marx,
che la guerra è il grande lavoro collettivo di ogni comunità primitiva. Essa si impone sia
«per occupare le condizioni obiettive di esistenza, sia per proteggere o perpetuare
quest’occupazione». Per tal motivo la comunità, composta da famiglie, si organizza in
primo luogo come organismo bellico e militare, e questa è una delle condizioni della sua
esistenza come ‘proprietaria’. La guerra, fondamentale compito sociale di queste comunità
di villaggio, ha comportato la conquista di terre e la sottomissione di gruppi vicini. Questo
duplice e concomitante fenomeno deve essere correlato con l’emergere nel Lazio, tra IX e
VIII secolo a.C., di élites guerriere in possesso di rilevanti ricchezze e quindi, come si è già
ricordato precedentemente, con l’affermarsi di vere e proprie aristocrazie.
- Le fonti antiche consentono di intravedere le diverse strutture portanti della società
arcaica. Indaghiamone le specifiche funzioni e, ove appaia possibile, le connessioni con
l’organizzazione militare di Roma primitiva.
- Il rex è, allo stesso tempo, il sacerdote e il capo militare della comunità.
- Il populus è – come indica una diffusa, per quanto controversa, etimologia2 di questo
termine (vd. il verbo populo = in ital. devastare, saccheggiare) – la comunità degli uomini
in armi.
- Le curiae (da *coviria = insieme di uomini) sono associazioni di genera hominum per il
reclutamento della fanteria.
- Le tribus sono istituzioni territoriali per il reclutamento della cavalleria (equitatus).
- Il Senato è l’assemblea dei patres, degli anziani delle gentes organizzati in assemblea.
- I clientes sono individui al seguito di persone eminenti (cliens è colui che ascolta o
che ubbidisce).
- Le familiae sono le famiglie nucleari (sul termine familia vd. Mantovani § 9.6, pp. 189
ss.).
- Le gentes sono aggregati più vasti, legati da consanguineità o dipendenza, dominati
e guidati da gruppi aristocratici (vd., per gli sviluppi successivi, Mantovani § 9.6, p. 189).
- L’artigianato è in linea di massima una struttura estranea al corpo sociale in epoca
arcaica. I metallurghi godono, però, di uno status privilegiato, mentre la ceramica e la
lavorazione dell’argilla è in mano ad artigiani stranieri, provenienti in gran parte, a
cominciare dall’VIII secolo a.C., dalla Grecia ionica3.
2. IL REX
- Il rex rappresentava il perno del sistema politico di Roma primitiva. Nella sua
potestas dovevano coesistere poteri militari, civili e soprattutto religiosi. Egli era il
fondamentale elemento di mediazione fra gli dèi e la città, il principale garante della pax
deorum, la pace con gli dèi. La facoltà di interrogare gli dèi su tutte le decisioni riguardanti
la vita della città – ovverossia di prendere gli auspicia – costituiva probabilmente, per la
mentalità arcaica, il compito fondamentale del suo potere. Non c’è campo più chiaro della
2 Ma quest’etimologia non è l’unica possibile. E’ possibile anche una derivazione da pubes (pubertà), nel
senso di gioventù in armi.
3 Una spia di questo arcaico aspetto della produzione artigianale viene fornita da alcuni tratti
dell’organizzazione socio-politica e dell’ideologia religiosa più antiche di Roma. Sappiamo che il flamine di
Giove (vd. infra), il sacerdote più elevato della fase protostorica, non poteva incontrare, recandosi a celebrare
sacrifici, alcun vasaio: l’esistenza di questo tabù prova che la figura del produttore di vasi era estranea al
corpo sociale più arcaico della comunità, perché, in quanto “straniero“, poteva contaminare la sacralità della
cerimonia.
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connessione fra “autorità“ politica e “autorità“ religiosa che nel concetto e nella pratica
dell’imperium, il potere supremo. Con il suo sommo imperium il rex poteva trarre gli
auspicia, render possibile, in altri termini, la consultazione degli dèi, attività sempre al
centro del sistema politico-religioso romano, rappresentando il raccordo fra azione degli
uomini e volontà divina, base di quel patto sul quale era nata e si fondava la comunità.
L’assenso degli dèi, interrogati attraverso gli auspicia, regolava ogni azione di rilievo
pubblico: «Chi non sa che sugli auspici è stata fondata questa città e mediante gli auspici è
condotta ogni attività in guerra e in pace, in patria e nelle campagne militari?» (Livio
6.41.4).
- Secondo le notizie degli antichi, il rex sarebbe stato eletto dai comizi curiati, con
l’autorizzazione del senato. La lex curiata (de imperio), di età repubblicana, è prova
incontestabile di una partecipazione delle curie, già nel periodo monarchico, al processo di
nomina del rex. E’, però, difficile individuare tracce di una qualche attività elettiva.
Probabilmente i comizi curiati, coincidenti con la primitiva organizzazione militare della
città, per mezzo della lex de imperio, si limitavano a riconoscere il nuovo capo scelto
dall’interrex (vd. infra): questo vincolo di obbedienza era formalizzato da un solenne
giuramento di fedeltà. Nell’investitura del rex l’assemblea dei patres doveva avere una
funzione assai rilevante, come dimostra l’istituto dell’interregnum. Venuto a mancare il
titolare del potere supremo, il potere era attribuito a un collegio di dieci senatori,
rappresentativi dell’intero consesso. Le funzioni di interrex erano esercitate per cinque
giorni consecutivi da ciascuno di essi. La creatio del nuovo re era opera di uno di loro – a
eccezione del primo – quando i segni divini e la situazione politica apparissero favorevoli.
Secondo le nostre fonti, tutti i re, tranne il primo (Romolo), sarebbero stati creati da un
interrex. In questo dato si può facilmente rilevare l’esistenza di una costante nella storia
istituzionale di Roma in età monarchica: alla morte del rex il potere ritornava regolarmente
ai patres, i quali a uno di loro – l’interrex – scelto nel consesso senatorio secondo le
procedure poc’anzi ricordate, demandavano il compito di creare il nuovo capo della
comunità. Il principio “auspicia ad patres redeunt” costituisce verosimilmente l’espressione
dell’idea della continuità della vita del gruppo, rappresentato dal solo elemento capace di
riassumerne e promuoverne la vita. Un riflesso mitico-religioso di questa ‘titolarità
corporativa’ del potere di direzione politica della città si coglie nella leggenda
sull’uccisione di Romolo da parte dei patres. Ognuno di loro sarebbe uscito dal tempio di
Vulcano, recando, nascosto tra le vesti, un pezzo del corpo dell’ucciso. Il potere di governo
della città è partecipato dal fondatore eponimo all’assemblea dei patres, che lo esercita
collegialmente, conferendolo, ove lo voglia, a un altro capo individuale, per riprenderlo di
nuovo nel momento in cui anche questi scompaia. In conclusione si può affermare che la
nomina del re è legata alla scelta dei patres; una scelta confermata non già dalla
partecipazione attiva dei comizi curiati – che si limitavano a proclamare, mediante un
solenne giuramento, la loro fedeltà e obbedienza al nuovo eletto – ma dall’inauguratio, una
cerimonia religiosa in cui un augure, presente il popolo radunato nei comizi, ponendo la
mano sul capo del re designato, invocava l’assenso divino.
Quel che contraddistingue tutti i re di Roma è la mancanza d’ogni legame di sangue
con il loro immediato predecessore. Lo stesso istituto dell’interregnum, del resto, sarebbe
inconcepibile in una monarchia di tipo dinastico. I re non appartenevano a un unico clan.
Questo dato, sottolineato anche da Cicerone nel de republica, lo si può verificare anche da
un punto di vista linguistico. La parola germanica per indicare il re (germanico chuning,
tedesco König) è legata all’idea di stirpe e condivide, dunque, la medesima radice con
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genus e genos. Discendenza, famiglia regnante e sangue reale ne costituiscono i presupposti
denotativi. Ben diverso è l’ambito semantico del rex romano. Tale termine contrassegna
colui che tiene il comando su un dominio, che il tedesco denota attraverso un termine,
Reich, costruito sulla medesima radice di rex. Questo principio romano dell’esclusione
d’ogni successione fondata sul sangue nell’ambito della monarchia è ben saldo e non
ammette eccezioni4.
3. IL SENATO
- L’assemblea degli anziani delle gentes era il senato, i cui componenti in origine
erano dunque soltanto i patres. Collaborava con il rex e a essa, in mancanza del re,
tornavano gli auspicia. Il rapporto tra senato e ordine patrizio (patres) era sottolineato, sia
pure in forma non sempre accettabile, dalla tradizione antica. L’assemblea, nell’età della
cosiddetta monarchia latina, avrebbe avuto originariamente cento membri e poi
centocinquanta o duecento, a seguito della fusione con la comunità sabina. Prerogativa del
senato era l’interregnum e forse già l’auctoritas, cioè la conferma delle deliberazioni del
comizio. Cómpito del senato era fornire pareri al re, qualora ne facesse richiesta (per gli
ulteriori sviluppi vd. Mantovani § 9.14).
4. I COMIZI CURIATI
- I comizi curiati furono la prima assemblea dei cittadini maschi, articolati nelle trenta
curie in cui era divisa la città. Lelio Felice, giurista di età adrianea (II secolo d.C.),
ricordava che la cittadinanza votava, nei comizi curiati, ex generibus hominum. La
testimonianza del giureconsulto è segno inequivoco dell’esistenza di una stretta relazione
dei legami parentali e di stirpe con l’appartenenza alle curiae. Curiae – da coviriae – secondo
un’etimologia ampiamente condivisa, significa luogo di riunione di viri, ovvero di uomini.
Un nesso preciso, come abbiamo visto, esisteva anche tra le curie e l’originaria
organizzazione militare della città: ognuna di esse doveva fornire un contingente di cento
fanti e dieci cavalieri. Il livello cronologico delle curie è certamente antichissimo5. Peraltro
l’estrema arcaicità di questi organismi di reclutamento è garantita anche dall’intervento
dei comizi curiati in materia di diritto familiare e dalla loro strutturazione interna, in
origine, non gentilizia, ma funzionale, basata, cioè, su oikoi, «Foikos», = in latino vici = case,
hiereis («sacerdoti») e leitourgoi («prestatori di servizi»), secondo la descrizione di Varrone
restituitaci da Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 2.21-23 e 47.4). La curia rappresentava la
comunità di villaggio o l’unità paganica ed era originariamente a struttura egualitaria,
come dimostra il rito delle feriae stultorum conservatosi ancora in epoca storica, che
prevedeva la partecipazione alle feste dei Quirinalia degli stulti, di coloro che «avevano
dimenticato l’appartenenza a una curia», prescindendo perciò dal loro status. La
collocazione cronologica della prima fase delle curie, certamente anteriore alla data di
fondazione della città, in quanto espressione ‘politica’ della comunità di villaggio va
indietro nel tempo, forse all’età del bronzo. Una seconda fase della loro attività è invece
quella che F. De Martino ha definito dello “stato federativo“, nella quale il numero delle
curie è fissato a trenta, in relazione alle tre tribù dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres. E’
A ciò corrisponde una struttura simile in àmbito divino. Il re ha in Giove Ottimo Massimo, la divinità
somma, il suo corrispettivo: anche questi era ugualmente un isolato. Egli non possedeva un padre divino,
non aveva moglie né discendenti. La concezione di paternità gentilizia come il concetto di famiglia gli erano
estranei. Questa specificità dello Iuppiter romano, la verifichiamo nelle peculiarità del culto capitolino. Esso
si differenziava da tutti i culti italici di Giove, legandosi soltanto alla monarchia di Roma: vd. C. Koch.
5 Come dimostra la festa curiale dei Fornacalia, dedicata alla confezione del pane di spelta: l’antichità della
festa è sicura e non può non risalire al II millennio a.C..
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questo forse il momento in cui nasce, non tanto Roma quale vera e propria città, ma il
nomen di Roma come federazione dei populi partecipanti al rito del Septimontium.
- La riunione dell’assemblea curiata, già nell’ultimo quarto del VII s. a.C., avveniva in
uno spiazzo – nel Foro – detto Comitium. I Quirites (ovverossia gli uomini delle curiae) si
dividevano per curie, ciascuna diretta da un curio. L’intero comizio, quando non
provvedesse il re, era presieduto da un curio maximus o, in casi particolari, dal pontifex
maximus. Secondo la tradizione, ai comizi curiati sarebbe spettato approvare la
designazione del nuovo re (ma vd. supra), fatta dall’interrex. Essi avrebbero svolto anche
una funzione legislativa, votando le leges proposte dal re (leges regiae vd. infra). E’
presumibile che, in entrambe le circostanze, il ruolo del comizio curiato dovesse essere di
tipo sostanzialmente passivo: di adesione e di acclamazione.
- Gli antichi ricordavano anche un altro tipo di assemblea delle curie: i comitia calata.
Probabilmente il nome derivava dalla diversa forma di convocazione, che avveniva
attraverso un araldo, un calator, su disposizione dei pontefici. Erano cómpiti dei comitia
calata: l’inauguratio del rex e dei Flamines, il testamentum calatis comitiis e la detestatio
sacrorum. L’adrogatio sembrerebbe invece di competenza del comizio curiato. Più che a due
diversi comizi, bisogna pensare alla medesima assemblea curiata che, in specifiche
circostanze e per compiti ben determinati, assumeva una diversa denominazione (vd.
Mantovani § 9.15).
- Ramnes, Tities e Luceres erano i nomi delle tre tribus originarie, dette anche romulee,
per la loro antichità. E’ difficile metterne in dubbio il carattere precivico, che sembra
attestato dalla loro incidenza modesta nella storia successiva delle istituzioni cittadine e
dalla loro precaria sopravvivenza di fronte allo sviluppo della città. E’ possibile che le
tribus originarie avessero caratteri genetici e territoriali: si tratterebbe di autonome
aggregazioni di vici, dislocati in territori finitimi, i quali, persa l’originaria indipendenza
politica con la ‘fondazione’ della città, divennero suddivisioni territoriali per il
reclutamento della cavalleria (equitatus). Il significato delle parole Ramnes, Tities e Luceres,
su cui molto si è scritto, è, per ora, destinato a restare oscuro.
5. LE GENTES E LA CLIENTELA
- La seconda fase della storia politica delle curie (per la prima vd. supra) è
sicuramente dominata dal rapporto con le gentes e dall’affermarsi, in Roma arcaica, del
potere gentilizio. Festo (180 L.) ci informa che sette antiche curie non potevano essere
evocatae nelle nuove e, conservandoci quattro di questi sette nomi, Foriensis, Rapta, Veliensis
e Velitia, ci svela la maggiore arcaicità delle curie con nome di luogo o di culto, rispetto a
quelle con nome gentilizio. La notizia ci rende edotti sul fatto che nella società si andava
affermando la irresistibile tendenza, da parte di taluni gruppi in seno alla comunità
primitiva, ad acquistare maggiore potere rispetto agli altri e a imporre il proprio nome alle
varie strutture della società, alle curie e ai sacerdozi ora, più tardi alle tribù serviane (da
non confondere con quelle romulee). (vd. anche infra).
- La seriorità dell’emergere del fenomeno gentilizio, rispetto alle prime
manifestazioni associative, trova, dunque, un riscontro nella creazione di curie con un
nome gentilizio, posteriori nel tempo a quelle caratterizzate da toponimi o da aggettivi
non gentilizi. Come ha sottolineato F. De Martino, la gens – preesista alla familia o in
origine si identifichi, come a me sembra più probabile, con questa – e s i s t e come entità
p o l i t i c a soltanto all’indomani della nascita della clientela, un’istituzione sociale che
cristallizzava un preciso rapporto di subordinazione tra distinti gruppi umani nel quadro
della medesima comunità. Tra gli elementi caratterizzanti la clientela vi è la facoltà di
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sfruttamento della terra, in termini ovviamente più ridotti rispetto ai membri veri e propri
della gens. Ai clientes, come dimostra il famoso episodio databile al 504, dopo la battaglia
di Aricia, di Atta Clausus, era concesso il pieno sfruttamento di porzioni ridotte di terra
(come è chiaro dal loro stato di cives), in cambio dei doveri connessi con il vincolo
sacrosanto della fides, primo fra tutti la partecipazione alle azioni politiche e militari della
gens in bella privata e in varie occasioni politiche. Le fonti illustrano l’ampia potestà del
patrono sul patrimonio dei clienti, la cui solidarietà con il princeps gentis si estendeva anche
in caso di delitto.
Addicti (l’espressione vuol indicare che la loro subordinazione al gruppo dominante
si ha uti singuli – in quanto individui – con l’addictio) o dediti (ciò vuol dire che, a differenza
del caso precedente, l’ingresso nel gruppo gentilizio dominante si identifica con la deditio
in fidem della comunità più debole), i clienti lavoravano le terre dei gentiles, non per
mercede, ma come dipendenti e, in quanto tali, erano tenuti, allo stesso tempo, a seguire i
loro patroni in guerra come aiutanti e ausiliari (i clienti dei Fabii al Cremera, per esempio).
Questi elementi coincidono perfettamente con il carattere economico della clientela arcaica
a Roma.
In conclusione possiamo delineare questo quadro riassuntivo. Le diseguaglianze
sociali, registrate già all’inizio dell’VIII secolo a C., e la consistenza numerica della
popolazione dei singoli abitati consentono di affermare che i rapporti di produzione non
erano più mediati esclusivamente da quelli di parentela, da quelli di una famiglia
ancorché allargata. La struttura capace di fronteggiare la situazione sociale di questa fase
non è più la sola familia, ma un gruppo non basato esclusivamente sulla consanguineità,
ovverossia la gens. E’ questo un gruppo rappresentato dalle fonti come un organismo di
tipo familiare, in cui convivono membri legati fra loro da consanguineità e membri di altra
origine cooptati nel gruppo, o di loro spontanea volontà o perché, in qualche modo,
costretti. Coloro i quali, pur non essendo consanguinei, entrano a far parte del gruppo,
sono detti clientes. La stessa etimologia del nome cliens, participio presente del verbo cluere,
«ascoltare», «prestare orecchio», «obbedire», illustra la condizione subordinata di costoro,
sottoposti al vincolo sacrosanctus (perché creato mediante un giuramento solenne
pronunciato innanzi alla divinità) giuridico-sacrale della fides, il vincolo di reciproca
fiducia tra loro e il princeps gentis, il capo della casata6.
Sin dagli inizi del VII secolo a.C. in latino, in etrusco e in altre lingue dell'Italia antica si riscontra l’esistenza
della cosiddetta formula onomastica bimembre. Essa si compone di un prenome e di un gentilizio: nel nome
latino Aulus Marcius o in quello etrusco Avle Marcena(s), Aulus e Avle hanno la funzione di prenome ossia
di designativo non trasmissibile di un individuo all'interno di un gruppo, e Marcius e Marcena(s) hanno la
funzione di gentilizio ossia di designativo trasmissibile di un gruppo all'interno di una comunità. Il
gentilizio [Marcius e Marcena(s)] è un aggettivo che rappresenta un antico patronimico: Marcius vuol dire
«figlio di Marcus», Marcena «figlio di Marce». (Il genitivo latino *ius ha lo stesso valore del suffisso *na in
etrusco). L'innovazione del latino, di altre lingue italiche e dell'etrusco, rispetto al greco, consiste nel fatto di
aver reso fisso e trasmissibile il patronimico, che in greco muta invece in ragione della genealogia: la
successione genealogica del tipo Cleante - Cleonimo - Cleandro darà in greco «Cleonimo figlio di Cleante» e
«Cleandro figlio di Cleonimo», laddove in latino la successione genealogica Marcus - Aulus - Titus darà
«Aulus Marcius» e «Titus Marcius». Il fenomeno è tutt'altro che trascurabile e costituisce un indizio prezioso
della realtà sociale etrusca e latina. I latini avevano ben precisa la nozione che in epoca molto antica i «nomi
erano semplici»: nella leggenda delle origini di Roma, la fase cronologica, corrispondente alla fondazione, è
caratterizzata da «nomi semplici», Romolo, Remo, Proca, Numitore, Amulio. Al contrario, già nella
generazione successiva, l'onomastica appare bimembre, come dimostra ad esempio il nome del secondo re,
Numa Pompilio. Quando e perché è avvenuta la «fissazione» del patronimico? La genesi del fenomeno è da
collocare nel corso dell'VIII secolo a.C. in concomitanza con la nascita stessa delle aristocrazie. L'onomastica
attesta il progressivo irrigidirsi della struttura sociale nella sua cellula fondamentale della famiglia, dove la
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6. I SACERDOTI
- Il rex era il supremo sacerdote della città. A lui faceva capo una complessa
organizzazione di sacerdozi, la cui origine, in non pochi casi, affondava in tempi ancora
più antichi.
- Indiscutibile è l’origine remota dei Fatres Arvales, dei Salii nonché dei Luperci
Quinctiani e Fabiani, testimoni evidenti di ancestrali culti gentilizi. La remota risalenza dei
Flamines, i tre maiores – Dialis (di Giove), Martialis (di Marte) e Quirinalis (di Quirino) – e i
dodici minores, è indiscutibile. Una serie di tabú del Flamen Dialis riconduce l’istituzione di
questo sacerdozio all’età del bronzo. E cosí anche i cómpiti delle vestali, le sacerdotesse di
Vesta, custodi del fuoco sacro.
- Maggiore importanza per la vita politica della città e per lo sviluppo del suo diritto
– pubblico e privato – avevano i tre collegi degli Augures, dei Fetiales, dei Pontifices.
- Gli Augures – tre in principio, poi cinque – erano antichissimi sacerdoti legittimati a
ricercare e interpretare il volere divino, attraverso il volo e il canto degli uccelli,
l’osservazione di altri animali o di fenomeni naturali. A differenza degli auspicia, che il re
era legittimato a prendere prima di qualsiasi atto di rilevanza politica, gli auguria potevano
riferirsi a situazioni più lontane nel tempo e più ampie di atti determinati. Non erano
peraltro semplici interpretazioni della volontà degli dèi, ma comportavano (cfr. il
significato del verbo augere) un accrescimento di potenza, attraverso il richiesto favore
degli dèi. Agli augures spettava naturalmente l’inauguratio del re.
- Il collegio dei Fetiales era composto da venti sacerdoti a vita e designati per
cooptazione. Non pare sia esistito un ordine gerarchico all’interno del collegio. I Fetiales –
da fides o da foedus, secondo gli antichi – non erano un’istituzione soltanto romana, perché
si ritrovano anche al di fuori del Lazio. Erano i custodi dei trattati con le altre città e gli
altri popoli, e celebravano i riti che rendevano inviolabili i giuramenti politici dinanzi a
Iuppiter, con la pronuncia di formule magiche, che minacciavano terribili sanzioni nei
confronti dei contravventori. Essi presiedevano alla stipulazione dei trattati di alleanza e
vigilavano sul loro mantenimento e sulla loro esatta applicazione, chiedevano
soddisfazione e presiedevano al rito della dichiarazione di guerra. Per ogni rituale
avevano regole precise che andarono a costituire il ius Fetiale. Essi pertanto controllavano
la correttezza formale di tutte le attività di Roma aventi rilevanza “internazionale”: erano i
garanti, come scriveranno gli antiquari di epoca imperiale, della fides publica inter populos.
Alcuni oggetti in uso nei rituali – il coltello di selce, con cui il pater patratus uccideva il
porco, nella cerimonia di stipulazione del foedus, e la lancia lignea, dalla punta indurita dal
fuoco e sanguinea, scagliata entro il confine del nemico, per la dichiarazione di guerra –
indicano la risalenza di quei riti e forse di quei sacerdoti all’epoca preistorica,
presumibilmente all’età neolitica.
- Il collegio sacerdotale più importante, soprattutto per chi privilegi la storia del
diritto e della giurisprudenza, era quello dei Pontifices, i massimi custodi della religione
romana, e, dunque, dei sacra della città. Iudex atque arbiter rerum divinarum humanarumque è
la definizione che Festo dava del pontefice massimo. Il loro nome derivava, a giudizio di
Q. Mucio Scevola pontefice massimo, da posse e facere. Secondo Varrone invece – e questa
figura del capostipite assume un valore ideologico determinante, con il culto domestico del genius e del Lar
genialis – espressione della capacità generativa e della riproduzione della cellula familiare nel suo complesso
– e con l'esaltazione degli antenati. Ma da questo irrigidimento si intravede anche l'immagine di una realtà
sociale parallela, che, muovendo dall'istituto della familia, tende a superarla, attraverso l'ingigantimento e la
ritualizzazione delle caratteristiche formali proprie della familia: la gens.
9
era l’etimologia accettata dai più in epoca antica – il nome aveva origine da pontem facere:
erano dunque costruttori di ponti. A queste loro conoscenze era infatti attribuita
l’erezione, al tempo di Anco Marcio, del primo ponte sul Tevere, il ponte Sublicio. I
pontefici erano tre nei tempi più antichi. Divennero cinque già in età monarchica.
Probabilmente, soltanto dopo la fine della monarchia, il loro capo fu chiamato pontifex
maximus. Cómpito del collegio era di esprimere il parere sulle varie cerimonie religiose e
assistere con il proprio sapere i magistrati a esse preposti. Essi redigevano il calendario,
precisando i giorni in cui fosse o meno concessa dalle divinità la trattazione dei pubblici
affari, e gli Annales maximi, nei quali riportavano gli avvenimenti più importanti di ogni
anno. Erano gli interpreti dei mores maiorum e assistevano il re nell’interpretatio iuris.
Depositari della scientia iuris davano anche responsa ai privati, ma segretamente in
penetralibus, solo ai singoli interroganti. A questa funzione specifica era, ogni anno,
delegato un pontefice. Il collegio pontificale era dunque il più importante depositario della
“memoria storica” collettiva della città (per gli sviluppi successivi vd. Mantovani § 9.9).
8. IUS E FAS
- Le origini del primitivo diritto romano, di cui i pontefici erano gli interpreti, vanno
individuate negli ordinamenti delle comunità preciviche. Probabilmente, per garantire
ordine e coesistenza, in principio fu sufficiente un certo numero di divieti religiosi (nefas),
colpiti dalla vendetta divina e dalla sanzione degli uomini. Ciò che non era nefas era, di
conseguenza, fas (lecito). Il ius è uno sviluppo del fas. Nel quadro di quanto era
considerato fas si formò il ius, ossia l’insieme delle consuetudini ataviche degli antenati (i
mores maiorum). Soltanto in epoca storica avanzata il binomio fas/nefas fece esclusivamente
riferimento alla sfera divina, mentre il ius si riservò quella umana. E’, però, difficile
contestare l’esistenza di un nesso originario.
- Il ius Quiritium è la più antica qualificazione romana del ius, derivante dai più
arcaici mores maiorum. Era l’insieme dei diritti comuni alle gentes, che avevano preso parte
alla fondazione della città. Non s’identificava del tutto con il ius né con gli ordinamenti
gentilizi, poiché non comprendeva i iura esclusivi delle singole gentes (iura gentilicia). A
causa delle caratteristiche origini preciviche del ius Quiritium, “soggetti” di diritto privato
rimasero, anche successivamente, soltanto i patres familiarum, a differenza di quanto
accadeva nel il diritto pubblico, per il quale tutti i cittadini maschi adulti erano “soggetti”
pienamente capaci.
III LA MONARCHIA ETRUSCA: DAL BASILEUS AL TYRANNOS
1. I CARATTERI DELL’EGEMONIA ETRUSCA SU ROMA
- L’egemonia etrusca su Roma non ebbe i caratteri di una conquista. Bande di
guerrieri e ‘giovani capi’ militarmente forti, provenienti dall’Etruria meridionale,
dovettero tentare ripetutamente di impadronirsi del potere con la violenza, anche se con
l’accordo di elementi dell’aristocrazia locale. A esemplificazione di queste vicende si può
ricordare la storia di Servio Tullio (il secondo re etrusco di Roma, successore di Tarquinio
Prisco). Secondo la leggenda romana sarebbero stati i figli di Anco Marcio a uccidere
Tarquinio Prisco. Servio Tullio, nato da una prigioniera, sarebbe stato figlio di un princeps
di Cornicolo, e avrebbe sposato una figlia di Tarquinio. L’imperatore Claudio, nel I secolo
d.C., volle però ricordare la versione etrusca di questa vicenda: Servio Tullio, con il nome
di Mastarna, sarebbe stato un vulcente, cacciato dalla sua città al seguito dei fratelli Celio e
Aulo Vibenna. A questa stessa versione degli avvenimenti alludono anche i dipinti del
sepolcro dei Saties – la c.d. tomba François – a Vulci, databile entro la metà del IV secolo
10
a.C. (340 a.C.). Vi si rappresenta Macstarna mentre libera i fratelli Caile e Avle Vipinas; nel
frattempo, altri eroi suoi alleati prevalgono su alcuni nemici: Marce Camitlnas, in
particolare, uccide Cneve Tarchunies Rumach. Avle Vipinas è realmente vissuto nella
prima metà del VI s. a.C., dal momento che un personaggio, con questo stesso nome, ha
donato, intorno al 580 a.C., un vaso di bucchero al Santuario di Portonaccio di Veio
(etrusco: mine mulvanece Aviile Vipiinnas – mi ha donato Aulo Vibennna).
- Verso la fine del VII secolo a.C. nacque la città costruita di case in muratura
durevole e con copertura di tegole fittili. L’intenso sviluppo urbanistico è uno dei segni
più evidenti della notevole crescita economica, determinata anche dalla nuova intensità
degli scambi commerciali7.
- La crescita urbana e sociale richiese l’ampliamento, a volte il raddoppio, di
importanti istituzioni civiche. Il Senato fu portato a trecento membri. Ai patres delle maiores
gentes vennero affiancati i conscripti delle minores. Si duplicarono le centurie dei celeres
(cavalleria). Il numero delle vestali salì da quattro a sei. Non si trattò però di un processo
indolore di trasformazione. La vicenda del conflitto tra Tarquinio Prisco e l’augure Atto
Navio attesta i tentativi di resistenza al nuovo da parte dell’antica aristocrazia.
2. I FONDAMENTI DELLA “LEGITTIMITÀ“ DEL POTERE DEL RE IN EPOCA ETRUSCA
- Il re “etrusco”, pur conservando le funzioni di supremo sacerdote, era innanzitutto
il comandante di una rinnovata struttura militare di tipo oplitico (vd. infra). Il suo era un
potere di carattere militare, che richiedeva da tutti obbedienza assoluta: l’imperium. Il
carisma religioso del re “etrusco” non derivava soltanto dall’augurium e dall’auspicium, ma
da rapporti privilegiati con la divinità, sulla base di influenze greche e orientali8. Etruschi
erano i simboli del’imperium: la toga purpurea, la sella curulis, i fasces e i littori.
L’introduzione dei dodici fasces con le scuri, secondo Silio Italico, andava attribuita a
Vetulonia9. Di origine etrusca era anche il triumphus.
3. TATTICA OPLITICA E ORDINAMENTO CENTURIATO
Roma partecipò al più generale processo di arricchimento delle città costiere etrusche, dovuto alla
vertiginosa espansione mercantile, che produsse, soprattutto con gli elementi provenienti dal Mediterraneo
orientale, assieme allo scambio di manufatti e materie prime, veicolazione di tecnologie e ideologie. In
relazione al diffondersi della moda culturale orientalizzante aumentarono anche i “consumi” opulenti degli
aristocratici.
8 La leggenda ricordava il rapporto fra Servio Tullio e la dea Fortuna, cui il re fece costruire un sontuoso
santuario presso la porta Carmentalis. Il re in tal modo è investito del carisma della ierogamia, le nozze divine
(unione sacra con una dea o con un dio). L'istituzione monarchica tradizionale era stata indebolita dai
conflitti politico-sociali collegati all'urbanizzazione: il re aveva, in questo nuovo contesto, bisogno di un
carisma divino che ne legittimasse il potere. Tale carisma gli deve giungere, oltre che dalle tradizioni patrie
della divinazione attraverso il volo degli uccelli, l'augurium e l'auspicium, anche dal lontano mondo orientale,
dall'Afrodite di Cipro (Inanna, Ishthar, Astarte), la più vecchia delle Parche, identificata con Fortuna, dea
della Fors, del fato e del caso. L’accoglimento del mito greco in area tirrenica vuole enfatizzare l’astuzia e la
virtù degli eroi con i quali intendono identificarsi i capi politici delle città etrusche e laziali. Tale
sottolineatura si presenta come una necessità nel momento in cui l’antico assetto gentilizio, che garantiva
perpetuamente e automaticamente la preminenza sociale dei relativi membri, è costretto a fare i conti con la
nuova realtà urbana che stimola nuove forze sociali e nuove forme culturali. In sostanza, il mito viene a
situarsi al centro del nuovo linguaggio del potere che, a seconda delle dinamiche operanti entro le diverse
realtà urbane, di volta in volta riprende, rielabora e trasforma un più antico linguaggio del potere che
celebrava la gloria della gens e dei suoi antenati. Ora, invece, i principes, che si assimilano agli eroi del mito,
introducono un elemento tendenzialmente in contrasto con l’antica etica gentilizia, in quanto mettono in
rilievo la propria virtù personale che deve giustificare e legittimare l’esercizio del potere. L’appartenenza a
una gens non è più sufficiente a giustificare un ruolo di preminenza sociale, che deve ora rifarsi ai modelli
degli eroi del mito e delle loro titaniche imprese.
9 La notizia ha trovato conferma suggestiva nel ritrovamento della ‘tomba del littore’ proprio a Vetulonia.
7
11
- Ogni tattica militare, in quanto espressione della struttura sociale, presuppone
l’esistenza di corrispondenti istituzioni politiche. La guerra, agli inizi dell’età del ferro, era
combattuta in “duelli eroici” attuati con armi di origine in gran parte centro-europea.
Nell’VIII secolo a.C., pur con importanti novità nell’armamento, le forme della guerra
presentavano una sostanziale continuità col passato. A partire dalla metà del VII secolo
a.C. le tattiche militari furono completamente rinnovate: è documentato, infatti, da
significative raffigurazioni, il costituirsi in Etruria, di falangi oplitiche. A Roma, come in
Etruria del resto, il nuovo tipo di organizzazione militare doveva confrontarsi e convivere
con le precedenti strutture gentilizie. L’affermarsi della tattica oplitica avviò sicuramente
un processo dissolutivo degli antichi eserciti gentilizi, fondati sul valore dei principes.
Tuttavia, ancora agli inizi del V secolo a.C. come dimostra la sconfitta dei Fabii al
Cremera, erano ben vive milizie gentilizie, in grado di condurre autonome operazioni
belliche. La classis oplitica può considerarsi uno dei prodotti più importanti della crescita
di ricchezza, con i connessi, fortissimi fenomeni migratori e di dinamica sociale, e della
pressione che gli emigrati più ricchi e armati esercitavano, in accordo con i re “etruschi”,
sulle strutture militari e politiche della comunità. Non sono dunque inattendibili gli storici
antichi quando attribuiscono a Servio Tullio l’ordinamento centuriato, che si affermò
prima come organizzazione militare del populus (vd. supra) (vd. Mantovani § 9.15, pp. 258
s.) per trasformarsi compiutamente, solo in età repubblicana, nel comizio centuriato.
- L’esercito ora doveva esser reclutato per classi di censo, non più, come in passato, in
base all’appartenenza alle tribù gentilizie. L’organizzazione centuriata, fondandosi sulla
ricchezza fondiaria, presentava uno spiccato carattere timocratico, allo stesso modo della
costituzione ateniese, introdotta da Solone agli inizi del VI secolo a.C., fondata su quattro
classi di censo e sistemata poi definitivamente da Clistene, alla fine dello stesso secolo, con
l’istituzione dei demi. Sui più ricchi incombevano maggiori doveri, compensati, però,
dall’esercizio del potere e dall’onore che a esso consegue (timocrazia da time, in greco
«onore»). Al censimento, cioè alla ripartizione del popolo in classi e centurie, doveva
molto probabilmente sovrintendere il re.
Un ulteriore confronto, per quanto sommario, con analoghe istituzioni del mondo
greco consente di comprendere meglio il significato di quelle corrispondenti romane.
Anche Aristotele10 era consapevole del fatto che l’ordinamento cittadino nacque, dopo
l’era dei re, dall’ordinamento degli armati e che per ordinamento degli armati doveva
intendersi l’evoluzione della tattica oplitica e l’involuzione dell’importanza della
aristocratica cavalleria gentilizia. La causa di questa trasformazione, in Grecia come in
Italia, fu di ordine economico e tecnico: lo sviluppo della metallurgia e la conseguente
diffusione di arnesi e armi metalliche a un costo accessibile al combattente a piedi con
armatura pesante.
- Di certo funzionale alla nuova organizzazione dell’esercito fu la suddivisione del
territorio della città in tribù. Alle prime quattro tribù urbane (Suburana, Palatina, Collina,
Esquilina) si aggiunsero ben presto altre, relative al territorio extraurbano (le cosiddette
tribù rustiche). Con il costituirsi delle tribù rustiche cambiò il criterio d’appartenenza,
basato da allora non solo sul domicilio ma sulla proprietà fondiaria. Quanti ne fossero
Politica IV, 13, 1297b. 16 ss. «... così il primo ordinamento cittadino tra i Greci, che succedette alle
monarchie, risultò di combattenti e fu, all’inizio, di cavalieri (perché il nerbo e la superiorità di guerra
riposavano sui cavalieri e la fanteria pesante senza adeguato coordinamento è inutile e la pratica di queste
cose e la tattica non esistevano presso gli antichi, sicché il nerbo era nei cavalieri); ma cresciute le città e
aumentata la forza della fanteria, molto più persone entrarono a far parte dell’ordinamento cittadino».
10
12
privi, erano iscritti nelle quattro tribù urbane. Anche se non abitavano in Roma, i non
proprietari di beni fondiari erano iscritti nelle tribù urbane, con coloro che erano
proprietari di immobili in città. La monarchia “etrusca”, proprio per le caratteristiche fin
qui illustrate, di “tirannide” fondata sulla forza delle armi, sull’imperium e sul favore dei
gruppi sociali esclusi dalla aristocrazia delle gentes, ampliò le basi della cittadinanza
4. LE LEGES REGIAE
- Gli storici antichi attribuivano ai re, fin da Romolo, un’importante attività
normativa, non consistente soltanto in dichiarazioni orali, ma anche in formulazioni
scritte. A conferma di questa tradizione si invoca l’attribuzione all’età dell’ultima
monarchia etrusca del famoso cippo rinvenuto, alla fine del XIX secolo, sotto il Lapis niger.
Su di esso è incisa una norma di carattere sacrale, putroppo ormai quasi illegibile, che
conteneva comunque la sanzione finale della sacertà, espressa nella formula sakros esed,
per quanti avessero violato le sue disposizioni. E’ la stessa clausola sanzionatoria che, nella
forma, propria del latino di epoca storica, sacer esto, la storiografia antica riferiva ad alcune
leggi attribuite ai re. L’homo sacer – “destinato agli dei” – poteva essere ucciso
impunemente da chiunque, in modo da inviarne l’anima alle divinità cui era consacrata.
- Molto incerta è la tradizione che attribuiva a un pontefice Papirio (Gaio, Sesto,
Publio?) la redazione e la pubblicazione, al tempo di Tarquinio il Superbo o subito dopo la
caduta della monarchia, delle leges regiae in un unico corpus. Gli scrittori precesariani,
benché citassero le norme emanate dai re, ignoravano il ius civile Papirianum, al quale,
però, nei decenni centrali del I secolo a.C., Granio Flacco dedicò un’opera di commento
(De iure Papiriano). Forse, nella sua redazione definitiva, ha avuto un ruolo Sextus Papirius,
auditor del pontefice massimo Q. Mucio Scevola (vd. Mantovani § 9.11, pp. 221-223): è
possibile che proprio quest’allievo del grande giureconsulto repubblicano abbia attribuito
il nucleo originario della raccolta da lui pubblicata a un suo lontanissimo omonimo e
antenato.
5. I CARATTERI DELLA PRIMITIVA REPRESSIONE CRIMINALE
- L’esistenza di un’attività normativa dei re appare credibile. Ciononostante è difficile
giudicare veritiere tutte le notizie pervenute sui suoi contenuti. A Numa Pompilio gli
antichi attribuivano le norme repressive dell’omicidio volontario e involontario. “Si qui
hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto” Chi avesse ucciso volontariamente,
avrebbe dovuto – secondo l’interpretazione più convincente della disposizione numaica –
essere messo a morte, in modo eguale all’assassinato, dai parenti di questo. In caso di
omicidio involontario si sarebbe imposta al responsabile l’offerta “pro capite occisi”, davanti
ai comizi curiati, di un ariete agli agnati dell’ucciso, perché fosse sacrificato al posto
dell’omicida.
- Per tutto il periodo arcaico si può parlare solo molto approssimativamente di
repressione criminale. Oggetto della sanzione non era il ‘reato’, ma l’offesa arrecata alla
divinità, l’atto sacrilego che attentava al rapporto armonico tra la comunità
politicamente organizzata e gli dèi. Naturalmente al re, sacerdote supremo e garante
dell’ordine religioso della città, spettava la persecuzione di tutti quegli atti che
potessero incrinarne la saldezza. Molti illeciti, proprio per questo, erano colpiti con la
pena della sacertà. La consacrazione agli dèi e il sacrificio del colpevole placavano
l’irritazione divina e purificavano la città. E’ possibile che esistesse qualche forma di
partecipazione popolare ai giudizi criminali. Varrone, in un passo di controversa
interpretazione, si riferiva all’esistenza di un’attività giurisdizionale in materia
13
criminale, esercitata, dal re nel Comizio, che, come attestano alcune testimonianze
archeologiche, nell’età della monarchia “etrusca”, aveva assunto notevole rilevanza.
IV. LA REPUBBLICA PATRIZIA
- IL PROBLEMA DELLA MAGISTRATURA SUPREMA: LA NASCITA DEL CONSOLATO
La crisi dell’influenza etrusca sul Lazio meridionale e la Campania favorì, anche se non
determinò, la caduta della monarchia dei Tarquini e il risorgere del potere delle gentes e
dei loro apparati di dominio. Il potere supremo finì per concentrarsi nel consiglio dei
patres (Senato). Dalle sue fila (il cosiddetto patriziato: vd. infra), furono nominati con
cadenza annuale i comandanti delle forze militari. La forma romana del potere – due
magistrati di pari grado, detentori del pieno imperium dei re – nacque, molto
probabilmente, assieme alla repubblica. L’obiettivo degli autori di questa eccezionale
soluzione costituzionale risulta chiaramente dal fatto che nel caso di dissenso tra consoli
aveva la meglio il principio della protesta: si cercava così di mettersi al sicuro dalla
possibilità di un abuso del suo enorme potere da parte del console. L’altro principale
mezzo di protezione fu naturalmente la limitazione del potere dei consoli a un anno. La
sola eccezione al principio della collegialità fu la dittatura. Il dittatore, detentore del
supremo potere, era nominato da uno dei consoli con un mandato che prevedeva un
incarico concreto che esigeva il possesso dell’imperium maximum. Dopo la nomina il
dittatore designava il suo magister equitum. Il dittatore poteva tenere la carica per sei mesi
al massimo, ma normalmente abdicava dopo aver compiuto il suo incarico (sul tema vd.
Mantovani § 9.13, pp. 234 s.).
Tuttavia, l’abolizione della monarchia espose la comunità all’immenso pericolo di perdere
la pax deorum, garantita dai re. In quanto detentori dell’imperium, i consoli ereditarono dai
re l’obbligo dell’adempimento delle funzioni religiose direttamente collegate alla vita della
comunità civica. A differenza dei re, tuttavia, essi non venivano inaugurati: la maggior
parte delle funzioni che i re avevano eseguito come sacerdoti fu, dunque, assunta dal rex
sacrorum di nuova creazione. Quanto il nuovo regime temesse i re e al tempo stesso quanto
ne avesse bisogno è ben illustrato dal fatto che il rex sacrorum non poteva ricoprire nessuna
altra carica pubblica, nemmeno far parte del Senato, e che l’altro importantissimo impegno
religioso dei re, la cura del culto pubblico in generale, fu assunta da un altro sacerdote, il
pontifex maximus, il capo del collegio che vegliava sui sacra.
L’odio per la monarchia, del resto, fu sempre accompagnato dalla venerazione nei
confronti delle istituzioni d’origine monarchica. Coloro che avevano rovesciato i re
conservarono scrupolosamente le istituzioni create da quelli considerandole sacrosante. Ai
loro occhi, il fatto stesso che erano state create dai re garantiva automaticamente la loro
eccellenza e, soprattutto, la loro correttezza rituale.
2. PATRIZIATO E PLEBE
- Gli antichi facevano risalire la dicotomia “patrizi/plebei” a una divisione artificiale
operata da Romolo, nell’ambito del popolo. Ai patrizi, sostanzialmente identificabili con i
senatori, egli affidò il cómpito di attendere ai sacra, coadiuvandolo nella gestione politica
della città; ai plebei, invece, comandò di dedicarsi all’agricoltura, alla pastorizia e al
commercio.
- Gli storici moderni, soprattutto a partire dal XIX secolo, non hanno accolto la
semplicistica spiegazione fornita dalla storiografia antica. E’ ora inutile elencare le
innumerevoli teorie esplicative di questa dicotomia. Le scoperte archeologiche attestano
l’emersione, nell’VIII secolo a.C., di gruppi aristocratici: è possibile identificarli con i primi
patrizi, cui poi, nel corso del tempo, si aggiunsero altre gentes, via via cooptate
14
nell’aristocrazia. Tuttavia, soltanto agli inizi del V secolo il patriziato divenne un ordine
chiuso.
- Appartennero alla plebe quegli elementi non inseriti nell’aristocrazia, strutturata in
gentes (“vos solos gentem habere”). L’origine della plebe è dunque assolutamente composita,
ancor più di quella del patriziato, frutto di tutte le immissioni successive di popolazione,
esclusa dalla cooptazione nell’aristocrazia: fuggiaschi, che sfruttavano l’asylum istituito,
secondo la tradizione, da Romolo, artigiani, commercianti, ex clienti, nonché ex schiavi. La
plebe, già nell’età monarchica, aveva di sicuro, al suo interno, elementi poveri e ricchi. Da
essa Tarquinio Prisco trasse addirittura dei senatori e quindi dei patrizi (i patres delle
minores gentes). Soltanto la reazione patrizia, la trasformazione della struttura politica, da
monarchico-tirannica in aristocratico-oligarchica e, a partire dal secondo quarto del V
secolo a.C., una grave crisi economica provocarono il raggiungimento dell’identità, come
ordine sociale unitario, da parte dei plebei, che allora si costituirono in una comunità
alternativa al patriziato, dandosi una struttura politica, necessaria per condurre la lotta
nella città, e un’autonoma organizzazione sacrale.
3. LA CRISI DEL V SECOLO A.C. E IL CONFLITTO FRA GLI ORDINI
- E’ innegabile11 che, soltanto agli inizi del V secolo, il patriziato si trasformò in un
ordine chiuso, con connotati che ricordano quelli di una casta. I patrizi godevano di
un’indiscutibile posizione di supremazia religiosa: essi soltanto potevano prendere gli
auspicia. Proprio il terrore del sacro era il più forte sostegno al potere patrizio, lo strumento
più formidabile e spaventoso della dominazione oligarchica.
- All’inizio del V secolo a C., le difficoltà economiche determinarono una crisi di
grandi proporzioni. Si concludeva in tal modo quel ciclo che aveva consentito l’opulenza
delle aristocrazie nei secoli anteriori. Si affermò un modello sociale ed economico, che
negava i “consumi opulenti” e imponeva una diffusa austerità. Roma del resto era una
città circondata da nemici e costretta alla difensiva. Questa condizione contribuiva ad
aggravare il malessere dei gruppi non aristocratici, che prima avevano potuto godere di
una prosperità relativamente diffusa. Ridimensionati drasticamente sul piano economico e
politico, ridotti a elementi residui di un’epoca trascorsa, marginalizzati ed esclusi dal
governo della città, essi erano anche tradizionalmente privati di ogni possibilità di accesso
alla possessio dell’ager publicus, riservata ai soli patrizi.
- Si può datare agli anni successivi alla caduta della monarchia la vera “nascita” della
plebe, se con questo termine si intende il raggiungimento di un’identità unitaria da parte
di gruppi sociali di diversa origine. Nel V secolo a.C. essi erano cittadini, ma in condizione
subordinata, non ammessi a prendere gli auspicia ed esclusi, dunque, da magistrature,
sacerdozi e Senato. Estranei all’organizzazione gentilizia, non dotati del connubium con i
patrizi, erano anche privi di poteri giudiziari, esposti alla prigionia per debiti e senza
cognizione sicura dei mores maiorum, la cui custodia e interpretazione esclusiva spettava al
collegio dei Pontefici, sempre patrizi (fino al plebiscito Ogulnio del 300 a.C.: vd.
Mantovani § 9.9, pp. 206 s.).
- All’interno della plebe era comunque di sicuro presente, fin dalle origini
un’articolazione fondamentale fra i benestanti, che aspiravano non solo a partecipare allo
sfruttamento dell’ager publicus, da cui i plebei erano esclusi, pur potendo essere proprietari
di fondi urbani e rustici, ma anche all’ammissione alle magistrature, all’ingresso in senato,
all’integrazione con i patrizi, attraverso le unioni matrimoniali.
11
Come dimostra l’episodio dell’accoglimento dei Claudii nel 504 a.C. (dopo la battaglia di Aricia).
15
- Ai componenti poveri della plebe interessava il miglioramento della precaria
condizione economica, con la possibilità di accedere anch’essi alla possessio dell’ager
publicus e di risolvere il drammatico problema dei debiti e il terribile istituto del nexum
(una sortà di servitù per debiti), che comportava l’assoggettamento personale del debitore
alla potesta (meglio dire mancipium) del creditore. La plebe poteva anche battersi per
realizzare obiettivi contingenti, come la ricerca di frumento in Sicilia nel 480 a.C., in
occasione di una grave carestia.
- Tutti i plebei avevano lo stesso avversario politico. Le loro possibilità di successo
risiedevano proprio nella capacità di coalizzarsi in modo non episodico, ma stabile e
organico. Il metodo più importante di lotta plebea fu la secessione o anche la semplice
minaccia di farne uso: essa, in momenti di particolare gravità, costituiva un fortissimo
strumento di pressione politica. Le secessioni, o il semplice minacciarle, non erano però
spontanee sollevazioni popolari ma presupponevano una forte coesione e sviluppate
strutture organizzative, di cui la plebe si dotò già agli inizi del V secolo a.C.
A favore delle proprie richieste, i plebei poterono far pesare una serie di circostanze di non
secondario rilievo: l’esistenza dell’exercitus centuriatus, allo stesso tempo popolo in armi e
assemblea politica (vd. Mantovani § 9.15). La partecipazione all’exercitus era regolata dal
censo, dalla ricchezza di ogni individuo quale membro di una famiglia. Si prescindeva
dunque dai rapporti e dalle relazioni di tipo gentilizio. L’affermarsi della tattica oplitica, il
combattimento in formazione serrata (falange), e il conseguente costituirsi dell’assemblea
centuriata, suddivisa in più classi di censo, avevano rappresentato l’”ingresso della
politica” nella vità della comunità. Quantomeno il nucleo centrale della classis,
dell’exercitus doveva essere equipaggiato con armi di attacco e di difesa in metallo (bronzo
e ferro). Qualsiasi defezione, per quanto limitata, avrebbe gravemente danneggiato le
capacità militari della principale unità tattica della città. Di qui la forza delle minacce
plebee di secessione. Durante il V secolo a.C., quando Roma fu ripetutamente attaccata da
popolazioni ostili e molto bellicose (Volsci, Equi), la minaccia dei plebei di abbandonare la
città e l’esercito e di lasciare ai soli patrizi e ai loro clienti il difficile cómpito di difendere il
territorio della Repubblica costituiva una potente arma di pressione politica.
4. L’ORGANIZZAZIONE DELLA PLEBE
I templi di Diana e di Cerere sull’Aventino. La triade plebea: Cerere, Libero e Libera.
L’organizzazione della plebe, prima dell’inizio della lotta contro il patriziato, consisteva
soltanto nella pratica di culti e di feste comuni, collegati con divinità estranee alla città
patrizia e ai suoi sacerdozi. Divinità tipicamente plebee sono quelle della triade Cerere,
Libero e Libera, penetrate in Roma dal mondo ellenico12, e alle quali, nel 493, fu edificato
un tempio sull’Aventino, il colle plebeo per eccellenza. Un’attendibile supposizione
riconosce nel re il naturale protettore di tutti quegli stranieri stabilmente installatisi in
Roma, durante l’intenso periodo di crescita economica del VI secolo a.C. Nella protezione
regia si può identificare uno dei centri d’unificazione dell’amorfa massa degli immigrati. I
culti della plebe e, di conseguenza, le forme originarie della loro organizzazione
rappresentano il retaggio storico della cultura emporica greco-orientale affermatasi al
tempo della “grande Roma dei Tarquini”.
I tribuni della plebe e le leges sacratae: l’inviolabilità (la c.d. sacrosanctitas) dei tribuni
della plebe. L’ordinamento politico della plebe porta impresso il segno della sua origine
rivoluzionaria. Nella prima secessione sul Monte Sacro la plebe armata si sarebbe data dei
Il culto, infatti, era celebrato Graeco ritu, mentre le sacerdotesse erano reclutate nelle città magnogreche di
Napoli e di Elea.
12
16
capi, vincolandosi con un giuramento collettivo a rispettarne e a farne rispettare
l’inviolabilità. Il potere dei capi (tribuni) non deriva da un mistico legame di carattere
religioso, quale è l’auspicium, ma immediatamente dall’impegno della massa di rispettare
all’interno e di far rispettare all’esterno la volontà dell’investito del potere. La massa non
interviene, in questo caso, a riconoscere un’investitura ricevuta dall’alto, ma giura
solennemente di far rispettare il potere del capo nell’atto stesso in cui glielo conferisce. Le
più antiche deliberazioni dell’assemblea plebea sono le leges sacratae. La parola lex designa,
secondo Th. Mommsen, il legame d’un soggetto di diritto verso un altro (vd. Mantovani §
9.7) Applicando questa nozione all’espressione lex sacrata, questa ci si rivela come un
legame costituito mediante sacramentum, dove esplicitamente il sacramentum (ossia
l’invocazione della divinità a testimonianza del legame costituito, perché punisca chi
tradisce l’impegno assunto) costituisce la garanzia della forza vincolante della lex.
L’organizzazione giuridica della plebe è fondata sopra leges sacratae: prima in ordine di
tempo e di importanza è quella che ha fondato la potestà dei capi dell’ordinamento
plebeo, colpendo chiunque menomasse la loro potestà con la caratteristica sanzione della
sacertas, consistente nel considerare il colpevole sacer e abbandonarlo, di conseguenza, alla
vendetta della divinità invocata nel sacramentum. Per tale sanzione chiunque ne sia colpito
perde la tutela che gli compete in quanto membro di una collettività: ognuno è libero di
uccidere l’homo sacer, senza che da tale atto derivi una qualche responsabilità penale.
Le attribuzioni dei tribuni: l’auxilium plebis; l’intercessio; il ius prensionis; il ius agendi
cum plebe. Le attribuzioni dei tribuni della plebe sono il risultato di un’evoluzione storica,
che muove da una funzione meramente negativa di assistenza dei plebei contro le
vessazioni patrizie, e, in particolare, dei magistrati patrizi (auxilium plebis) per raggiungere
un potere capace di paralizzare, per mezzo della intercessio, l’azione dei consoli o di altri
magistrati patrizi, e infine di poter irrogare delle multe pecuniarie e procedere all’arresto
personale di questi ultimi (ius prensionis) e instaurare eventualmente contro di essi giudizi
penali innanzi all’assemblea plebea. A queste attribuzioni si aggiunge naturalmente il
potere di convocare l’assemblea della plebe (ius agendi cum plebe), dal quale non deve
essere disgiunto anche un potere di decidere come arbitri nelle controversie fra plebei. Il
potere di intercessio dei tribuni non è dunque, come nei rapporti tra consoli, una
conseguenza del principio di collegialità. Esso è un potere di intervento dall’esterno, un
diritto di veto, che funzionalmente e non strutturalmente, si atteggia come l’intercessio
derivante dalla collegialità. Pertanto è legittimo supporre che anche i limiti di esercizio di
questo potere siano andati sempre più allargandosi. Nel corso del III secolo a C., quando i
tribuni furono equiparati ai veri e propri magistrati del popolo romano, devono aver
acquistato il diritto d’entrare in Senato e di trattare col Senato. Dapprima i tribuni ne erano
esclusi, e stavano davanti alla porta per esaminarne i decreti e decidere sulla opportunità
d’apporvi il loro veto. In seguito, però, già durante il IV secolo, essi devono aver
conseguito il diritto di parlare in Senato, e, infine, attorno alla metà del III, il diritto di
convocare e di presiedere l’assemblea senatoria (ius agendi cum patribus) (vd. Mantovani §
9.13, pp. 235 e 244 ss.).
Gli aediles plebei e il tempio (aedes) di Cerere, Libero e Libera. Oltre ai tribuni si
ricordano anche altri magistrati plebei. Dei cosiddetti iudices decemviri nulla ci è noto
all’infuori del nome. Il nome degli edili è da collegare con il tempio (aedes) Cerere, Libero e
Libera, la triade plebea. La sua custodia ha rappresentato certamente il primo compito di
questi magistrati.
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Le competenze degli edili. Gli edili della plebe, in numero di due, hanno in età storica la
funzione di archivisti e di cassieri della plebe e di amministratori della cassa del tempio, a
beneficio della quale erano confiscati i beni dei violatori della persona dei magistrati
plebei. Essi hanno inoltre funzioni di sorveglianza dei quartieri plebei. Sovrintendono
anche al leale adempimento dei contratti nei pubblici mercati, all’esattezza di pesi e
misure, al rifornimento del mercato granario (sugli edili plebei e curuli vd. Mantovani §
9.13, p. 243).
5. IL DECEMVIRATO LEGISLATIVO
- La tradizione antica presenta la richiesta di una legislazione complessiva scritta,
come una rivendicazione plebea, tendente a rendere le leggi egualmente fruibili per tutti i
cittadini. L’eguaglianza di fronte al diritto costituisce dunque una delle principali
rivendicazioni plebee, accanto alle richieste di poter accedere alla magistratura suprema e
di poter partecipare alla distribuzione dell’ager publicus.
- La storiografia più recente ha ormai fugato ogni dubbio sull’attendibilità del nucleo
essenziale di questo racconto tradizionale, oggetto in passato di critiche distruttive, giunte
addirittura a negare la stessa realtà storica della “codificazione“ decemvirale. Ciò non
significa ovviamente salvare tutti gli aspetti di quel racconto, non di rado apertamente
contraddittorio13.
- La richiesta plebea di una legislazione scritta e l’invio di una delegazione, se non in
Grecia, almeno nelle città della Magna Grecia, appaiono notizie sostanzialmente
Fin dal 461 a.C., il tribuno della plebe Terentilio Arsa avrebbe chiesto la nomina di magistrati straordinari,
che provvedessero a scrivere leggi sull’imperium dei consoli. Bloccata questa proposta, per l’opposizione dei
patres, essa, rinnovata per cinque anni da altri tribuni, fu al centro di duri scontri, fino alla decisione dei
tribuni plebei, ottenuto l’aumento a dieci del loro numero, di non insistervi ulteriormente. Nel 456 a.C. essi,
con la lex Icilia de Aventino publicando, avrebbero anche ottenuto l’attribuzione alla plebe povera del suolo
dell’Aventino. Nel 454 a.C., sorta una questione relativa al potere legislativo della plebe e dei suoi tribuni,
questi avrebbero avanzato al senato la proposta di creare una commissione, formata da membri di entrambi
gli ordini, «con il compito di proporre leggi utili a entrambe le parti e tali da rendere eguale la libertà di
tutti». La proposta sarebbe stata accolta, purché però i legislatori fossero soltanto patrizi. Si sarebbero inviati
ambasciatori ad Atene, per studiare le leggi di Solone, e nelle altre città greche nonché, almeno secondo una
fonte antica, in quelle della Magna Grecia. Al ritorno degli ambasciatori, i tribuni della plebe avrebbero
premuto perché non si frapponessero indugi alla redazione delle leggi scritte. Sarebbe stato quindi eletto, nel
451 a.C., un collegio di decemviri legibus scribundis, formato da soli patrizi, che in precedenza avevano
ricoperto la suprema magistratura, e dotato di imperium, non sottoposto al limite della provocatio. Le
magistrature ordinarie, patrizie (consolato) e plebee (tribunato), furono sospese. Un ruolo guida, nel collegio,
avrebbe assunto Appio Claudio. I decemviri, gestendo il loro potere con impegno e moderazione e
amministrando con imparzialità la giustizia, lasciarono discutere dal popolo ogni punto delle leggi da
scrivere e accettarono i suggerimenti considerati opportuni. Infine, le dieci tavole di leggi, così redatte,
furono sottoposte all’approvazione dei comizi centuriati. Lasciata correre la voce che l’opera legislativa non
fosse però ancora terminata, avrebbero fatto eleggere per il 450 a.C., un nuovo collegio decemvirale, in cui
sarebbero rimasti alcuni membri del precedente, ma ammessi tre plebei o forse addirittura cinque. Il secondo
decemvirato si sarebbe comportato in modo assai diverso dal primo. Non avrebbe discusso con il popolo le
due nuove tavole di leggi – le cosiddette tabulae iniquae, in quanto contenenti il divieto di connubium tra
patrizi e plebei – né le avrebbe sottoposte al voto dei comizi centuriati. I decemviri, in particolare Appio
Claudio, avrebbero mostrato di non essere disposti ad abbandonare il potere alla scadenza dell’anno,
assumendo anche atteggiamenti di tipo tirannico. L’assassinio di L. Siccio e il caso di Virginia, rivendicata in
schiavitù da un cliente di Appio Claudio, per porla a disposizione del patrono, ma uccisa dal padre per
salvarne l’onore, avrebbero scatenato la reazione popolare e soprattutto una secessione plebea. Caduto il
decemvirato ed esiliati quanti si fossero maggiormente compromessi, sarebbero state ripristinate le
magistrature cittadine e plebee, nonché la provocatio. Prima di partire per combattere contro Equi e Sabini, i
consoli eletti, per il 449 a.C., L. Valerio Potito e M. Orazio Barbato, avrebbero esposto al pubblico le leggi
decemvirali, incise su dodici tavole di bronzo.
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fededegne. Al contrario tutto il racconto relativo al secondo decemvirato dipende da
tradizioni annalistiche orientate in senso politicamente disomogeneo. A parte alcuni
episodi chiaramente mitici (l’assassinio di Siccio e la morte di Virginia), appare singolare il
dato che proprio il secondo decemvirato, con una componente plebea, abbia inserito nelle
due tabulae il divieto di connubium, fra patriziato e plebe, mentre i gruppi più abbienti di
essa desideravano fosse definitivamente abolito. Ed è altrettanto singolare che i consoli
Valerio e Orazio, acclamati anche dalla plebe come restauratori della libertà, abbiano
pubblicato le due cosiddette tabulae iniquae. La stessa rappresentazione di Appio Claudio
decemviro non è priva di contraddizioni: uomo giusto, nel primo decemvirato patrizio, si
sarebbe trasformato, con il secondo, in un pericoloso elemento mirante al dispotismo.
- Forse, nel secondo decemvirato, piuttosto che un tentativo di mutamento delle
strutture oligarchiche del potere, è possibile identificare un tentativo abortito di
restaurazione ‘tirannica’, appoggiata, non a caso, anche da elementi della plebe. Questa
uscì comunque rafforzata dal biennio decemvirale: innanzitutto per l’introduzione della
legislazione “complessiva” scritta, ma anche per il riconoscimento ufficiale, da parte dei
patrizi, delle cariche plebee.
Le XII tavole costituiscono, senza dubbio alcuno, l’episodio più significativo successivo
alla caduta dei re. L’esempio greco ha esercitato una forte suggestione sui romani, non
tanto per le significative somiglianze che pure si riscontrano con questa o con quella
legislazione ellenica (le leggi soloniche e le leggi della città cretese di Gortina), quanto
piuttosto per il nuovo modello complessivo che si propone: quello della norma
individuale che passa attraverso la forma della legge. Dopo la caduta della monarchia si
stabilisce un’altra forte discontinuità rispetto al passato. E’ la città nel suo insieme che
pone ora se stessa a garanzia del comportamento dei propri cittadini, senza più rinviare
soltanto a remote tradizioni affidate alla memoria esclusiva dei sapienti (i pontefici). Il
ricorso alla scrittura accentua ancor di più la portata della rottura. La radicalità di questa
svolta è spia abbastanza evidente della profondità dei contrasti che accompagnarono,
come abbiamo visto, la stesura del testo legislativo. Le XII Tavole sono sicuramente anche
il primo frutto del rafforzamento delle strutture politiche della città (sulla legislazione
decemvirale vd. Mantovani § 9.6).
V LA MEDIA E TARDA REPUBBLICA: L’ETÀ DELLA RIVOLUZIONE ROMANA
PREMESSA
- La nozione di nobilitas. Dopo la composizione del conflitto patrizio-plebeo (367 a.C.), il
Senato cominciò, a poco a poco, a perdere i suoi connotati di organo dell’esclusivismo
patrizio. La caratteristica principale di questa fase storica è proprio il costituirsi d’una
nuova classe politica: la nobilitas patrizio-plebea. Questo processo di integrazione
soggiaceva a un duplice controllo, quello del popolo attraverso le elezioni, e dei censori,
dopo la lex Ovinia, mediante la lectio senatus (vd. Mantovani § 9.14, pp. 248 s.). Ciò permise
la progressiva integrazione, nel ceto dirigente, non solo di homines novi ma anche di
famiglie insigni appartenti alle comunità che caddero sotto il dominio diRoma nel corso
della sua espansione in Italia. Già alla metà del IV secolo a.C. nelle liste consolari si
incontrano uomini di provenienza latina, sabina, campana ed etrusca. Della nobilitas
facevan parte, dopo il compromesso del 367 a.C. (leggi cosiddette Licinie-Sestie), quanti
avessero ricoperto magistrature curuli (ma, a partire dalla metà del II secolo a.C., il solo
consolato) e i loro discendenti, fino ai nipoti. La nobilitas comprendeva, dunque, i membri
dell’antico patriziato e delle famiglie plebee, ascese ai vertici del potere politico e ormai
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molto spesso legate da stretti vincoli di parentela ai patrizi. A questi erano ormai rimasti
soltanto residui dell’originaria posizione di predominio: in Senato l’auctoritas patrum e
l’interregnum; nell’organizzazione sacrale, alcuni sacerdozi antichissimi come il rex
sacrorum, i flamines (tra i quali il flamen Dialis aveva il diritto alla sella curulis, a un littore e a
sententiam dicere in Senato) le vestali.
1.L’EREDITÀ DI ANNIBALE: LA CRISI SOCIALE
Non è possibile seguire fasi e momenti dell’ascesa di Roma a potenza mondiale. Essa fu in
gran parte conseguenza dell’acquisito dominio sull’Italia. Nella vittoria della guerra
annibalica (seconda guerra punica) fu decisivo il potenziale demografico della repubblica.
Le enormi perdite inflitte dal grande generale punico alle forze armate romane14 furono
sempre colmate, anche se con difficoltà crescenti, mentre i Cartaginesi esaurirono ben
presto, una volta perso il controllo della Spagna, le loro riserve. Nel 225, sette anni prima
dell’inizio della guerra contro Annibale, i Romani, accingendosi a respingere un’invasione
di Galli cisalpini, chiesero agli alleati di indicare le loro riserve umane. Le cifre,
tramandate non senza qualche errore da Fabio Pittore, ci sono note grazie a Polibio (2.24).
Ne risulta che il numero dei Romani e dei Latini ammontava rispettivamente a 273.000 e
85.000 maschi adulti; gli alleati (i socii Italici) probabilmente si aggiravano intorno alla
somma di queste due cifre. La repubblica, dunque, poteva disporre di circa 750.000 uomini
arruolabili (tra 17 e 46 anni). Il potenziale demografico di Roma e dell’Italia dipendeva in
gran parte dall’esistenza di piccoli e medi proprietari agricoli, in grado di sostentare,
generazione dopo generazione, un numero sufficiente di figli. La vittoria contro Annibale
e la successiva repentina affermazione dell’egemonia romana sull’intero Mediterraneo
modificarono profondamente questo quadro. Le grandi guerre avevano attirato in Italia
denaro e schiavi: grazie a questi mezzi e alla conseguente disponibilità d’enormi capitali,
la concentrazione in atto della proprietà terriera, soprattutto nel centro e nel sud della
penisola, agevolò la nascita di coltivazioni specializzate (arboricoltura: vite e olivo) e il
contestuale affermarsi (in particolare nel profondo sud dell’Italia e in Sicilia) della
pastorizia transumante, attività economiche organizzate in maniera tale da produrre
eccedenze per il mercato (vino, olio, lane, pelli etc.). Tutti questi presupposti favorirono il
formarsi del latifondo e il concentrarsi in poche mani dello stesso ager publicus (terra
appartenente al populus Romanus). In questi sviluppi non era ancora insita alcuna minaccia
all’economia contadina di sussistenza: i piccoli contadini non pativano la concorrenza dei
latifondisti perché non producevano per il mercato. A ciò si aggiunga il fatto che, dopo la
guerra annibalica, con la fondazione di colonie soprattutto nell’Italia settentrionale e con
l’assegnazione di terreni ai veterani, venne creato ancora una volta un numero sufficiente
di nuovi poderi. Questo programma d’assegnazioni tuttavia si concluse intorno al 170 a.C.
La terra non era un bene automaticamente incrementabile e poiché, per i limiti tecnici
dell’agricoltura antica, un singolo contadino non era in grado di coltivare molto terreno in
più di quello necessario al sostentamento di una famiglia, i suoi figli, con la consueta
suddivisione dell’eredità, rischiavano di non raggiungere la base minima per la
sussistenza. La richiesta di forza lavoro stagionale per i fondi specializzati delle grandi
proprietà poteva portare, in questo quadro, un guadagno complementare al ceto dei
piccoli contadini; ma ciò tuttavia non impedì che parte dei suoi membri dovesse essere
cancellata dalle liste di reclutamento (si ricordi che di norma nell’esercito, a quel tempo,
servivano soltanto gli adsidui) a causa della diminuzione della loro proprietà terriera.
Probabilmente nella sola disastrosa sconfitta di Canne – 216 a.C. – persero la vita quasi settantamila
uomini tra cittadini e alleati italici.
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Dopo che, nei decenni immediatamente seguenti la guerra annibalica, il numero degli
idonei al servizio militare era aumentato, a partire dal 163 calò leggermente, per poi
crollare nel 135. Questo processo provocò forte apprensione nella classe dirigente.
L’impegno militare su scala mondiale rappresentava ormai un peso intollerabile,
quantitativamente e qualitativamente, per l’esercito tradizionale. Più volte, nel II secolo
a.C., si mobilitarono grandi armate, in occasione dei conflitti, di durata limitata, contro i
regni ellenistici e contro Cartagine (terza guerra punica). Ancor più gravosa, però, si rivelò
la necessità di mantenere truppe per lunghi periodi in Spagna. Specialmente la lunga e
sanguinosa guerra, scoppiata nel 154 a.C. e conclusasi solo nel 133 a.C., contro le
popolazioni celtibere gettò l’esercito romano in una crisi profonda. La prospettiva d’un
servizio pluriennale, la forte incidenza delle perdite e la mancanza di incentivi materiali – i
soldati non avevano né la speranza di impadronirsi di bottino né la prospettiva di ottenere
un podere in Italia – producevano effetti demoralizzanti. Si ridestò un’opposizione alla
leva, davanti alla quale il ceto al governo (l’élite senatoria) oscillò tra l’intervento drastico e
l’inclinazione a venire incontro alle lamentele degli interessati. Le nostre fonti sottolineano
inoltre che un altro motivo di forte preoccupazione fu la grande rivolta servile in Sicilia
(136 – 132 a.C.), che rese tutti consapevoli del pericolo costituito dai latifondi, con le loro
folle di schiavi fuori controllo e nemiche dell’ordine esistente. La rinascita del piccolo ceto
contadino e la sostituzione degli schiavi-pastori avrebbe permesso un miglior controllo del
territorio e la fine, specialmente nel Sud, del brigantaggio endemico. Da queste premesse
scaturirono i tentativi di riforma dei Gracchi e la profonda crisi che investì, con il loro
fallimento, il sistema politico.
2. LA RIFORMA AGRARIA DI TIBERIO GRACCO
Tiberio Sempronio Gracco, proveniente da una nobile famiglia plebea imparentata con i
Cornelii Scipioni e i Claudii, fu, nel 133, come tribuno della plebe, esponente d’un gruppo
d’aristocratici che fece proprio un progetto di riforma agraria, già presentato nel 140 da
una fazione senatoria rivale e poi ritirato. Il progetto prevedeva la restituzione dei terreni
dell’ager publicus occupati dopo il 180 a.C., qualora questi eccedessero il limite massimo di
500 iugeri (125 ettari ca.) o di 1000 iugeri di terra coltivabile. Quanto restituito doveva
essere distribuito a nuovi coloni scelti tra i cittadini più poveri. La giurisdizione sui casi
controversi era attribuita alla commissione incaricata delle distribuzioni, commissione
costituita, oltre che dai due fratelli Tiberio e Caio Gracco, dall’eminente consolare Appio
Claudio Pulcro (tresviri agris dandis adsignandis iudicandis). Un collega di Ti. Gracco, Caio
Ottavio, oppose il suo veto al disegno, facendolo, di fatto, fallire. Tiberio, tuttavia, non si
volle dare per vinto e, sebbene avesse verificato l’ostilità della maggioranza dei senatori al
suo progetto, fece deporre il proprio collega dall’assemblea della plebe (concilia plebis
tributa). L’iniziativa, la deposizione del tribuno, colpiva il sistema politico in un suo punto
nevralgico: la possibilità di porre il veto all’iniziativa d’un collega era un mezzo conforme
alla prassi costituzionale, sovente adoperato dal Senato per bloccare sgradite iniziative di
qualche magistrato. Il comportamento di Tiberio delineava la possibilità che un tribuno
della plebe, controllando l’assemblea popolare, governasse contro la volontà del Senato.
L’ordinamento stesso della repubblica aristocratica era così messo in discussione. Infine
Tiberio, una volta approvata la legge agraria, aggirando il parere contrario del Senato, fece
deliberare dall’assemblea della plebe la decisione di utilizzare l’eredità di re Attalo III (che
aveva lasciato al populus Romanus il proprio regno, il regno di Pergamo, riorganizzato, poi,
nella provincia d’Asia) per finanziare la riforma agraria e fornire, in tal modo, ai nuovi
coloni i capitali sufficienti per riconvertire i terreni assegnati loro a colture più proficue dal
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punto di vista commerciale. Quando Tiberio, contro la consuetudine, sollecitò la propria
rielezione a tribuno della plebe, scattò violenta la reazione dei suoi avversari. Il giorno
delle elezioni, constatato il rifiuto del console Publio Mucio Scevola di dar corso allo stato
d’emergenza (senatus consultum cosiddetto ultimum: vd. Mantovani § 9.14, pp. 250 s.), gli
antigraccani, guidati dal pontifex maximus Cornelio Scipione Nasica, si gettarono su Tiberio
e i suoi sostenitori. Seguì la carneficina, nella quale perì Tiberio con trecento suoi
partigiani. La scarsa resistenza dei graccani, nei confronti dei colpi omicidi dei loro
avversari, dipende forse dallo strumento giuridico-sacrale impiegato dal pontefice
massimo Nasica: questi, avendo ritualmente maledetto Tiberio quale violatore della
sacrosanctitas tribunizia e presunto aspirante al potere regio, lo espose, come homo sacer,
alla distruzione per opera delle divinità infere (consecratio capitis). La riforma rimase in
vigore, ma la distribuzione delle terre, mediante l’uso di differenti artifici dilatori, arrivò
praticamente a un punto morto.
3. LE RIFORME DI CAIO GRACCO: EQUITES E SENATORI. SCONFITTA DEL MOVIMENTO
RIFORMATORE GRACCANO
La riforma agraria era naufragata ma i suoi sostenitori non vollero desistere dai loro
propositi. Dal momento che il fallimento era dipeso in larga misura anche dalla resistenza
dei socii italici, si doveva semplificare la struttura politica differenziata dell’Italia ed
elevare gli alleati allo stato di cittadini romani con diritto di voto. Una proposta in tal
senso, avanzata nel 125 dal console Fulvio Flacco, fu respinta. Nel 123 a.C. fu eletto tribuno
della plebe Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, che riprese il progetto di riforma sulla
base di una visione politica più ampia. La necessità d’assicurarsi una solida base di
consensi, questa volta fu valutata con ponderazione. C. Gracco cercava l’alleanza con la
popolazione urbana, con il ceto benestante che, assieme ai senatori, formava le centurie dei
cavalieri nell’ordinamento per classi di censo, e anche con gli alleati italici. La proposta di
sovvenzionare l’approvvigionamento granario andava incontro agli interessi della plebe
urbana, quella di concedere ai latini il diritto di cittadinanza romana e agli altri socii il
diritto di voto nell’assemblea popolare andava incontro agli interessi degli alleati. I
cavalieri furono costituiti in un vero e proprio secondo ordine e fu concesso loro l’appalto
delle tasse nella provincia d’Asia; ma soprattutto le liste dei giudici furono formate con
membri dell’ordine equestre, mentre fino ad allora l’esercizio delle funzioni giudiziarie era
stato monopolio dei senatori. Il nuovo tribunale de repetundis così formato (vd. Mantovani
§ 9.16, p. 275 part.), al quale potevano essere presentate le accuse di concussione nelle
province contro i governatori di rango senatorio, doveva essere composto esclusivamente
di cavalieri. Per quanto riguarda la riforma agraria, la legge di Tiberio venne, se non
accantonata, posta in secondo piano dalla proposta di fondare nuove colonie in Italia e
soprattutto in Africa nei territori una volta appartenuti alla distrutta Cartagine. L’azione
del tribuno della plebe faceva dell’ordine equestre un polo che poteva contrapporsi al
Senato. In tal modo si poneva in gioco la questione stessa del potere, prefigurando, in
luogo della repubblica aristocratica, la nascita d’un ordinamento democratico fondato
sulla sovranità dell’assemblea popolare. La maggioranza senatoria seppe colpire C. Gracco
con gli strumenti della demagogia: al progetto di colonizzazione africana oppose il piano
d’una vasta deduzione di colonie nella stessa Italia; il piano non era solido, ma, come si
può ben comprendere, molto popolare. Infine, nella questione del diritto di voto ai socii, fu
facile fare appello ai sentimenti d’egoismo dei cittadini. L’opera riformatrice andò così
incontro al fallimento. L’assemblea popolare tolse il suo sostegno a C. Gracco e gli negò la
rielezione per il tribunato del 121. Nel giugno di questo stesso anno, il tentativo di
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difendere la parte più significativa della riforma graccana (la deduzione di una colonia
romana a Cartagine) fu stroncato dal Senato con la proclamazione dello stato d’emergenza
(senatus consultum c.d. ultimum). Caio Gracco si tolse la vita, mentre tremila dei suoi
seguaci, asserragliati sull’Aventino, furono massacrati. A differenza del pur grave
episodio del 133, si trattò questa volta d’una provocazione architettata nei minimi
particolari, come dimostra la presenza in Roma d’un corpo d’arcieri cretesi, lo strumento
principale della repressione scatenata dal console L. Opimio.
4. LA RIFORMA MARIANA DEL RECLUTAMENTO: LA NASCITA DELL’ESERCITO PROFESSIONALE
Nessuno dei problemi obiettivi, sollevati dall’azione riformatrice graccana, fu risolto.
Anzi, nel decennio successivo alla tragica morte di Caio, s’assistette al graduale
smantellamento della riforma agraria. I problemi ciononostante rimanevano tutti sul
tappeto: il confronto tra Senato e ordine equestre, le aspirazioni dei socii italici, la
necessaria ripresa della colonizzazione. L’inettitudine degli optimates, nelle guerre contro
Giugurta, re di Numidia (112 – 105 a.C.), e le popolazioni germaniche dei Cimbri e dei
Teutoni (113 – 101 a.C.), incrinò il loro potere, riaprendo una nuova stagione di scontro
politico. Il malcontento suscitato dall’incapacità o dalla corruzione dei nobili rese possibile
l’ascesa di Caio Mario, un homo novus (primo, cioè, della sua famiglia a rivestire una
magistratura curule e il consolato). Mario concluse vittoriosamente entrambe le guerre.
Egli aveva tratto le conseguenze della crisi del tradizionale esercito cittadino e aveva
chiamato alle armi, già in occasione della guerra contro Giugurta (nel 107 a.C.), proletarii
(capite censi)(nullatenenti) (vd. sul significato dell’espressione Mantovani § 9.6, p. 192, §
9.15, pp. 261 s.) in gran numero. I soldati, che provenivano dal proletariato rurale,
attendevano naturalmente, come ricompensa, al termine d’un servizio che poteva ora
prolungarsi anche per molti anni, un podere che potesse assicurare loro il sostentamento.
Un comandante vittorioso e potente, che volesse guadagnarsi il rispetto e la fedeltà di
clienti e sostenitori capaci di imporre anche con la violenza le sue ragioni, doveva
tutelarne, a ogni costo, gli interessi economici. La forza militare di Roma non poggiò più,
come in passato, su contadini piccoli e medi proprietari terrieri, compresi, per questo, del
loro dovere civico, ma su un esercito professionale disponibile quale strumento di lotta
politica tra le fazioni che si contendevano il dominio nella res publica.
5. IL PROBLEMA ITALICO E LA GUERRA SOCIALE
L’alleanza tra Caio Mario e tribuni della plebe di parte popolare si delineò, dunque, quasi
naturalmente. Una legge coloniaria del 103 assegnava ai veterani della guerra giugurtina
100 iugeri di terra a testa nella provincia d’Africa. Dopo la vittoria sui Cimbri e sui
Teutoni, nel 100 a.C., fu presentata un’altra legge che prevedeva la fondazione di colonie
in Sicilia, Grecia, Macedonia e anche nella provincia d’Asia. Il provvedimento autorizzava
Mario ad accogliere in ogni colonia un certo numero di socii veterani dell’esercito. Anche
questo tentativo, però, finì nel nulla: di fronte al continuo ripetersi di violenze e
sopraffazioni nella lotta politica interna, Mario provò timore del suo stesso potere e
sacrificò i suoi principali alleati. Il tribuno L. Appuleio Saturnino trovò così la morte, con i
suoi seguaci, durante la repressione ordinata dal Senato, mediante il consueto strumento
del senatus consultum c.d. ultimum, ma portata a termine da Mario quale console in carica.
- Verso la fine del decennio seguente, alcuni optimates, meno irragionevoli di altri,
pervennero alla conclusione che il puro e semplice rifiuto d’ogni riforma non poteva più
essere una risposta adeguata alle esigenze dei tempi. Fu M. Livio Druso, tribuno della
plebe del 91 a.C., a prospettare un adeguato piano di riforme. A tutti si doveva prendere
qualcosa per poi poterli altrimenti ricompensare. Le terre pubbliche, occupate dai socii,
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dovevano essere restituite e distribuite ai cittadini più poveri, mentre i socii dovevano
ricevere il diritto di cittadinanza romana. Ai senatori fu promesso il ristabilimento del
monopolio sulle giurie; ai cavalieri più eminenti, invece, si fece balenare la possibilità di
entrare in Senato: una lectio, infatti, avrebbe dovuto raddoppiare il numero dei suoi
membri portandolo a seicento. Il piano naufragò e Druso stesso fu assassinato prima che
fosse presa una decisione nell’assemblea popolare. La resa dei conti interna con i
sostenitori della riforma si sovrappose alla sollevazione dei socii italici contro Roma (91 –
89 a.C.). La ribellione non poteva essere domata unicamente con l’uso della forza delle
armi: solo l’offerta del diritto di cittadinanza tolse forza alla volontà di rivolta. La
soluzione del problema dei socii ritornò all’ordine del giorno del dibattito politico quando
si trattò di distribuire i nuovi cittadini in solo 8 delle 35 tribù o in dieci tribù
sovrannumerarie, in modo da rendere il loro peso elettorale sostanzialmente ininfluente. A
questa miope soluzione s’oppose il tribuno della plebe C. Sulpicio Rufo, il quale nell’88
presentò una rogatio che prevedeva la distribuzione dei nuovi cittadini in tutte le 35 tribù.
6. LA GUERRA CIVILE TRA MARIANI E SILLANI
Per impedire il fatto compiuto dell’iscrizione dei nuovi cittadini in dieci tribù aggiuntive,
Sulpicio Rufo dovette cercare l’alleanza di Mario. A tal fine, assieme alla rogatio sulla
distribuzione dei nuovi cittadini in tutte le 35 tribù, presentò altri due provvedimenti: il
comando della guerra contro Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, già affidato dal Senato al
console in carica L. Cornelio Silla, era concesso, con un imperium straordinario, a C. Mario.
Non potendo ricorrere ad alcuna misura di intercessione contro la sacrosanta potestà
tribunizia, i consoli, Silla in particolare, per prendere tempo e difendersi, proclamarono il
iustitium, ossia la sospensione generale delle attività politiche. Silla, minacciato di morte, si
recò presso il suo esercito, a Nola, mentre le leggi di Sulpicio venivano votate contro il
iustitium, che avrebbe dovuto impedire l’attività legislativa. Facendosi forte delle illegalità
compiute da Sulpicio, Silla marciò alla testa delle sue legioni su Roma, violando così il
pomerio con un esercito in armi, fece bandire i suoi avversari – Sulpicio in questo
frangente restò ucciso – e cassare i loro provvedimenti. Con questo inasprimento del
conflitto, il confronto interno raggiunse una nuova dimensione: un comandante
mobilitava il suo esercito per imporre i suoi interessi e quelli dei suoi soldati. Né Silla né i
suoi legionari erano disposti a lasciarsi sottrarre le prospettive di fama, di bottino e di
assegnazione di terre. La riforma mariana rivelava per intero il suo terribile significato: la
lotta politica si radicalizzava, entrando in nuova fase, quella delle guerre civili. D’ora in
poi le lotte politiche si sarebbero vinte non con il voto, ma con le legioni. Mentre Silla
conduceva la guerra in Oriente, Mario e L. Cornelio Cinna si impadronirono del potere
assieme ai loro sostenitori. Silla fu bandito. Mario uscì rapidamente di scena di morte
naturale. Cinna, muovendosi con abilità tra le diverse ali della fazione mariana, riprese il
programma di riforma proposto da Sulpicio, distribuendo i nuovi cittadini nelle 35 tribù e
iniziando, allo stesso tempo, a includere nel Senato membri dell’aristocrazia municipale
equestre dell’Italia. Scomparso Cinna, ucciso dai propri soldati nell’84, le tensioni
sfociarono in una guerra civile devastante, quando Silla nell’83 a.C. sbarcò a Brindisi con il
suo esercito. La battaglia decisiva si combattè a Porta Collina, nel novembre dell’82: Silla
risultò vincitore e divenne padrone assoluto di Roma.
7. LE RIFORME COSTITUZIONALI DI LUCIO CORNELIO SILLA. LA LEX VALERIA DELL’82 A.C. E
LA DITTATURA COSTITUENTE: LE QUAESTIONES PERPETUAE, LA LEX CORNELIA DE
TRIBUNICIA POTESTATE, LA LEX CORNELIA DE PROVINCIIS
L’imperio proconsolare, sul quale Silla fino a quel momento aveva fondato il suo potere,
risultava del tutto inadeguato per procedere alla necessaria opera di consolidazione delle
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istituzioni repubblicane. E’ naturale, dunque, che egli abbia pensato alla dittatura, già
esistente come magistratura straordinaria, anche se non più praticata da almeno
centoventi anni (216 a.C. dictatura optimo iure; 202 dictatura imminuto iure). Constatata la
mancanza dei consoli, si sollecitò la nomina di un interrex, nella persona del princeps
senatus L. Valerio Flacco. L’interrex, seguendo le istruzioni impartitegli con una lettera di
Silla, propose ai comizi una legge (lex Valeria de Sylla dictatore creando et rei publicae
constituendae), la quale non solo prefigurava una dittatura a tempo non determinato, con
pienezza di potere coercitivo e normativo, ma indicava nominativamente in Silla il futuro
detentore di questa carica: occorse, dunque, per l’investitura una successiva dictio. Silla,
lungi dal far uso del proprio potere per una normazione autonoma, preferì passare, nella
generalità dei casi, attraverso la rogazione ai comizi. Non si deve occultare, tuttavia, il
ruolo giocato dalla lex Valeria: essa divenne il modello di tutte le successive leggi
d’investitura di poteri straordinari, fino alle leges de imperio dell’età del Principato. La lex
Valeria, come osservò Cicerone, equiparava, nei suoi effetti normativi, ogni atto di Silla a
una lex publica, ponendosi così, per età più lontane, a modello giustificativo dell’autocrazia
imperiale. Lo scopo di Silla era quello di rafforzare nuovamente l’egemonia del senato. Per
fare ciò non fu sufficiente eliminare gli avversari, premiare i suoi sostenitori e creare una
rete di roccaforti della propria fazione in Italia con la fondazione di colonie di veterani. Il
dominio del Senato doveva essere protetto con mezzi legislativi dalle minacce che lo
avevano turbato a partire dai Gracchi. Portando il Senato a seicento membri con la
cooptazione d’un numero di membri dell’ordine equestre pari a quello dei vecchi senatori,
e togliendo contestualmente ai cavalieri il diritto di sedere nelle giurie (lex Cornelia
iudiciaria), Silla realizzò un punto importante del progetto di Livio Druso. L’esautorazione
del tribunato della plebe, la magistratura dalla quale erano partite le minacce all’egemonia
politica del Senato, non trovava invece alcun confronto nel passato. Non era più
sufficiente, come egli aveva già fatto nell’88, subordinare le iniziative dei tribuni al
consenso preventivo del Senato. Si escluse invece ogni capacità propositiva dei tribuni. Si
consentì che si conservasse loro, come strettamente complementare all’auxilii latio, il potere
di intercessione. L’elezione al tribunato della plebe escludeva automaticamente il
detentore dalla possibilità di candidarsi per le cariche superiori. In tal modo, nei piani di
Silla, il tribunato non poteva più costituire una base di lancio verso una fortunata carriera
politica (lex Cornelia de tribunicia potestate). Si provvide con due leggi fondamentali a
disciplinare il governo magistratuale della città e delle province. La prima (lex Cornelia de
iure magistratuum) stabilì l’ordine delle magistrature, i limiti d’età e la non iterabilità della
stessa carica prima di dieci anni. L’altra (lex Cornelia de provinciis) operò una radicale
scissione – ma il contenuto normativo di questo provvedimento è molto controverso – tra
imperium domi e imperium militiae, per far sì che l’uno e l’altro venissero esercitati in ordine
di sequenza temporale e in spazi geografici nettamente distinti. I pretori (l’urbanus, il
peregrinus e gli altri che presiedevano le quaestiones) dovevano risiedere a Roma nell’anno
di carica, mentre nell’anno (o in un anno) successivo tutti avrebbero potuto essere
utilizzati in funzione magistratuale per il governo delle province. I consoli, una volta
allargato l’ager Romanus a tutta l’Italia, esclusa naturalmente la Gallia Cisalpina, non
avevano eserciti alle loro dipendenze. Tuttavia, in un anno successivo avrebbero esercitato
l’imperium, in una provincia, sotto forma di prorogazione, non più eventuale, come in
passato, ma ormai necessaria. Silla prestò cura anche a una compiuta riforma del processo
criminale, attraverso un’estensione del sistema delle giurie permanenti (vd. Mantovani §
9.16) e fu attento alla repressione della violenza politica a Roma. Alla persona di Silla
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furono anche riconosciuti caratteri religiosi, che, in una certa misura, avvicinavano la sua
posizione a quella dei monarchi ellenistici. Dopo la celebrazione del trionfo (81 a.C.), Silla,
attribuendo le sue vittorie alla protezione della dea Fortuna, annunciò al popolo la sua
intenzione di assumere, assieme al titolo di dictator, il soprannome di Felix. Nella
denominazione greca, il tentativo di sacralizzare la sua persona appare ancora più
evidente. Non usò infatti Eutuches, precisa traduzione di Felix, ma Epaphroditos, ossia il
favorito di Afrodite. Il Senato (meglio sarebbe dire il ceto senatorio), con le riforme sillane,
ottenne il controllo sul processo di formazione delle leggi e, attraverso il monopolio sulle
giurie dei tribunali, esercitò anche il controllo sul mantenimento della pace interna e sulla
condotta dei governatori. Per il resto Silla fu abbastanza saggio da non rimettere in
questione la distribuzione dei nuovi cittadini in tutte le tribù. Il problema politico
strutturale dell’Italia era risolto: tutta la penisola fino al Po era territorio dei cittadini
romani. Silla non volle mai instaurare una monarchia. Egli depose la dittatura non appena
ebbe condotto a termine il suo programma di riforme (79 a.C.). La sua opera, tuttavia,
introdusse forti elementi di novità nella morfologia del potere. Per la prima volta nella
storia repubblicana – e ciò in aperta contraddizione con i progetti sillani di rafforzamento
della repubblica senatoria – l’eguaglianza aristocratica – il principio materiale sul quale
ogni regime oligarchico-aristocratico si fonda – fu rotta e, di fatto, negata. Il funerale di
Silla, morto dopo essersi ritirato dall’attività politica nel 78 a.C., non fu più celebrazione
delle virtù d’un grande aristocratico, ma esaltazione d’un eroe ai confini col divino, una
novità e un precedente assai importante per le successive apoteosi imperiali.
8. LA CRISI DELLA COSTITUZIONE SILLANA. I COMANDI STRAORDINARI ATTRIBUITI A CN.
POMPEO: LA LEX GABINIA E LA LEX MANILIA
La posizione del Senato non fu mai formalmente così forte come con l’ordinamento fissato
da Silla, e, tuttavia, nel giro di dieci anni subì un tracollo. Esso si può, in buona misura,
attribuire a molti degli stessi beneficiarii delle riforme costituzionali e delle proscrizioni,
che non si fecero scrupolo d’utilizzare, per fini personali, la diffusa ostilità al sistema
sillano. Lo sforzo maggiore dell’opposizione popolare si concentrò sul ripristino dei diritti
del tribunato plebeo. Durante il consolato (70 a.C.) di Cnaeus Pompeus e di M. Licinius
Crassus si eliminarono i pilastri istituzionali del sistema sillano: i diritti dei tribuni della
plebe furono ripristinati (lex Pompeia Licinia de tribunicia potestate) e i cavalieri vennero
riammessi nelle giurie dei tribunali (lex Aurelia iudiciaria). Capace organizzatore e stratega,
Pompeo strinse accordi con alcuni tribuni di parte popolare (67 a.C.) per ottenere il
comando delle operazioni che avrebbero dovuto mettere termine alla piaga della pirateria.
Il tribuno A. Gabinio, nel proporre, in stretto accordo con Pompeo, una rogatio (de uno
imperatore contra praedones constituendo) delineò un disegno strategico complesso e
impegnativo. A un consolare, da determinare con atto ulteriore, si doveva conferire, con
durata triennale, un imperium infinitum, esteso, cioè a tutto il Mediterraneo e per
quattrocento stadi entro la terraferma), aequum rispetto all’imperio dei proconsoli di rango
consolare, maius, invece, nei confronti dei governatori di rango pretorio. Oltre alla facoltà
di poter nominare ventiquattro legati pro praetore, al comandante in capo era anche
assicurata una ingente dotazione di truppe (20 legioni e 500 navi) e di mezzi finanziari. A
dispetto dell’acerrima opposizione senatoria, questo provvedimento fu approvato. In soli
tre mesi Pompeo risolse, in termini definitivi, l’annoso problema della pirateria cilicia. La
lex Gabinia, tuttavia, rappresentò un pericoloso precedente per la sostanza monarchica del
comando creato. Il suo schema fondamentale, la possibilità di esercitare un imperium
infinitum attraverso la collaborazione di legati propraetore, non a caso fu ripreso da
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Ottaviano Augusto, nel 27 a.C., per costruire uno dei pilastri fondamentali del nuovo
regime imperiale. La fortissima organizzazione militare, creata dalla lex Gabinia, non
poteva limitarsi alla campagna, assai breve in verità, contro i pirati, né in essa avrebbe
forse neppure trovata una sufficiente ragion d’essere. Un’altra legge di Gabinio sostituiva
nuovamente il Senato nelle sue attribuzioni e decideva di non prorogare il comando di
Lucullo nella guerra contro Mitridate VI Eupatore: l’anno successivo, 66 a.C., una nuova
legge del tribuno C. Manilio, attraverso contrasti e sopraffazioni, lo attribuiva a Pompeo,
assicurandogli ancora per qualche tempo la continuazione del suo potere. Anche l’impresa
contro Mitridate fu coronata dal successo: così, nel 63 a.C., l’intera area orientale fu
riorganizzata e sottomessa al dominio romano.
9. IL C.D. PRIMO TRIUMVIRATO: POMPEO, CRASSO E CESARE E LA LOTTA POLITICA
TARDOREPUBBLICANA
A Roma tuttavia un difficile cómpito politico attendeva il generale vittorioso: egli doveva
far approvare la concessione di terre per il mantenimento dei suoi veterani e far ratificare
le misure da lui prese in Oriente. Si temeva che Pompeo, alla testa del suo esercito,
avrebbe spezzato con la violenza la prevedibile resistenza del Senato. Egli, al contrario,
una volta sbarcato a Brindisi, congedò i suoi uomini. Il Senato, scampato questo grave
pericolo, non volle desistere dalla sua politica ostruzionistica. Nella situazione di difficoltà
in cui si trovava, Pompeo strinse un’alleanza con M. Crasso e C. Giulio Cesare (60 a.C.).
Quest’ultimo, proveniente da una famiglia patrizia imparentata con Mario e altri capi
della fazione popolare, si candidò, giovandosi dell’appoggio dei suoi alleati politici, al
consolato per l’anno 59 a.C. Il patto privato tra i tre capi fazione prevedeva la concessione
di terre per il mantenimento dei veterani di Pompeo e la ratifica dei suoi provvedimenti in
Oriente. Essi si accordarono sul principio fondamentale che nessuno di loro potesse recare
danno agli interessi degli altri alleati. Questo patto tra l’uomo più potente, l’uomo più
ricco e quello più geniale dal punto di vista politico si rivelò davvero l’inizio della fine
della repubblica. Eletto console, Cesare portò a termine, ricorrendo ampiamente all’uso
della forza, il programma concordato con i suoi alleati. Una legge tribunizia assegnò a
Cesare un comando quinquennale straordinario sulla Gallia cisalpina e l’Illirico; a questi
territori, dal Senato piegato e rassegnato, fu aggiunta anche la Gallia Transalpina. Le
campagne galliche, durate per circa nove anni, dimostrarono le straordinarie capacità
militari di Cesare, che acquistò in tal modo enorme popolarità e immense ricchezze. Nella
primavera del 56, i tentativi di costringere Cesare a rendere conto del suo comportamento
nelle Gallie erano giunti a un punto tale che egli dovette temere lo scioglimento del
triumvirato. Cesare prese una contro iniziativa: a Lucca l’accordo venne rinnovato. Crasso
e Pompeo ottenevano il consolato, mentre leggi tribunizie assicuravano ai triumviri le più
importanti province dell’Impero.
10. LA GUERRA CIVILE TRA CESARIANI E POMPEIANI: LE RIFORME COSTITUZIONALI DI CESARE
La morte di Crasso, nel 53, durante la guerra da lui stesso iniziata contro i Parti (battaglia
di Carre), poneva, senza alcuna possibilità di mediazione, i due capi fazione superstiti
l’uno di fronte all’altro. Cesare progettava di farsi eleggere, al termine dell’intervallo
decennale, console per il 48 a.C., ma doveva evitare di presentare personalmente la
propria candidatura a Roma: non vi era alcun dubbio che i suoi nemici lo avrebbero
accusato, non appena egli, ritornato semplice privato, fosse stato perseguibile in giudizio.
Per questo motivo egli si era assicurato il privilegio, attraverso una legge tribunizia, di
poter presentare la propria candidatura in assenza. Il motivo scatenante del conflitto tra
Pompeiani e Cesariani fu appunto l’implicita abrogazione di questa norma: si impedì, in
ogni caso, la proposizione di candidature in absentia. All’inizio del 49 a.C., Cesare venne
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rimosso dal comando e richiamato a Roma. Egli rispose con l’invasione dell’Italia: la
guerra civile era iniziata. La sua prima fase si concluse con la battaglia di Farsalo (48 a.C.),
ove Cesare riuscì a ottenere una decisiva vittoria. La vita di Pompeo, assassinato per
ordine del re d’Egitto, si concluse in quello stesso anno. La resistenza repubblicana,
tuttavia, fu spezzata soltanto nella primavera del 45 a.C., dopo la battaglia di Munda in
Spagna. Cesare tentò, in campi diversi, profonde riforme (46 – 44 a.C.), attraverso
un’intensa attività legislativa. Sul piano costituzionale, gli eventi più importanti si
collocano tra la fine del 45 e gli inizi del 44 a.C. Nell’ottobre del 45 Cesare abdicò al
consolato, ma la carica gli fu attribuita con durata decennale, come già era accaduto con la
dittatura (febbraio 46 a.C.). Ai primi del 44 gli fu attribuita la dittatura perpetua. La
differenza con quella precedente non è irrilevante. Quest’ultima era, di fatto, senza limiti
di tempo, ma giuridicamente restava pur sempre temporanea. Con il conferimento della
dittatura a vita, invece, Cesare diventava dictator perpetuo. Infine, l’attribuzione, senza
limiti di tempo, del potere censorio, impropriamente definito dalle fonti praefectura morum,
conferiva al dittatore un potere di controllo su tutta la cittadinanza, compreso il Senato, e
quindi facoltà dispotiche sulle singole persone. Cesare, tuttavia, commise un errore fatale
che lo condusse alla morte. Con alcuni atti pubblici di elevato valore simbolico, egli diede
l’impressione, confidando nel consenso delle masse popolari, di contemplare fra i progetti
d’innovazione costituzionale la creazione di una figura di monarca, un re che ovviamente
si sarebbe identificato con la sua persona. Se l’oltrepassare, con un esercito in armi, il
confine dell’ager Romanus (il famoso episodio del Rubicone) aveva interiormente turbato lo
stesso Cesare, infrangere il principio antimonarchico (odium regni), che coincideva con la
stessa identità costituzionale di Roma repubblicana, fece sorgere contro di lui una
coalizione che comprendeva anche importanti esponenti della sua fazione. L’assassinio di
Cesare fu ordito e perpetrato, con spettacolare simbolismo, nella sede dell’assemblea
senatoriale (15 marzo del 44 a.C.). Le élites dirigenti, per quanto disgregate e stremate da
un secolo di conflitti civili, non erano in alcun modo disposte a tollerare un monocrate che
governasse senza il rispetto, almeno formale, dei principii basilari dell’ordinamento
repubblicano. La necessaria riforma delle istituzioni non poteva risolversi nella semplice
sostituzione della repubblica oligarchica con un sistema di tipo monocratico. Occorreva
percorrere una via intermedia: salvare l’ordinamento repubblicano pur trasformandolo
profondamente.
VI. LA NASCITA DEL PRINCIPATO
1. IL SECONDO TRIUMVIRATO: M. ANTONIO, C. GIULIO CESARE OTTAVIANO E M. EMILIO
LEPIDO
I promotori della congiura, M. Giunio Bruto in particolare, ritenevano che, con
l’eliminazione del dittatore, si potesse ottenere la libertà e che, riconoscendo i diritti
stabiliti da Cesare e le aspettative che egli aveva soddisfatto, si potesse evitare una guerra
civile. Questo calcolo, alla fine, si rivelò errato. Il console in carica M. Antonio, dopo
qualche esitazione, riuscì a escludere i cesaricidi dalla gestione degli affari politici.
Antonio, tuttavia, trovò presto un pericoloso rivale in C. Ottavio, il pronipote di Cesare. Il
dittatore, nel testamento, aveva nominato suo erede principale questo giovane – allora di
soli diciannove anni – e gli aveva concesso il diritto di portare il suo nome (C. Giulio
Cesare). Ottaviano (od Ottavio, come era chiamato per spregio dai suoi nemici) accettò
l’eredità e venne in conflitto con Antonio. L’erede di Cesare coagulò attorno alla sua
persona gli interessi e i sentimenti di lealtà di molti cesariani. L’ora del confronto armato
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arrivò quando Antonio volle impadronirsi, prima del tempo, della Gallia Cisalpina, che gli
era stata attribuita da una legge per cinque anni, contro la volontà del Senato. Ottaviano
reclutò tra i veterani del prozio un esercito privato e, grazie alle sue promesse, attirò dalla
sua parte due legioni regolari. Si trattava di alto tradimento (lesa maestà). Ottaviano aveva
bisogno d’un riconoscimento ufficiale dei comandi che si era illegalmente arrogato e cercò
dunque l’alleanza con il Senato. Il ruolo di mediatore toccò a M. Tullio Cicerone. In Senato,
Cicerone impose che si assegnassero comandi straordinari al giovane erede di Cesare e ai
cesaricidi M. Bruto e C. Cassio, che nel 43 a.C., avevano guadagnato alla causa
repubblicana l’intero Oriente. In primavera l’oratore, alfiere d’una restaurazione
repubblicana pur profondamente rinnovata nei suoi presupposti politici, parve essere
vicino alla vittoria: Antonio fu battuto presso Modena e costretto a ritirarsi nella Gallia
Transalpina. Tuttavia ben presto arrivò il voltafaccia: Ottaviano sapeva che non sarebbe
sopravvissuto politicamente alla sconfitta dei cesariani. Alla testa dei suoi soldati chiese e
ottenne il consolato, si alleò (accordo di Bologna) con Antonio e M. Emilio Lepido, il
principale luogotenente del suo prozio, mettendo sotto processo i cesaricidi.
2. IL CONTENUTO DEI POTERI TRIUMVIRALI: LA LEX TITIA DEL 43 A.C.
L’accordo tra i tre esponenti della fazione cesariana, a differenza del primo triumvirato che
rimase sempre una semplice amicizia privata, fu definito da una lex (la lex Titia novembre
43 a.C.) istitutiva della nuova magistratura dei IIIviri rei publicae constituendae, di durata
quinquennale. Essa ebbe come modello non tanto la dittatura cesariana quanto, piuttosto,
la dittatura sillana. Come quest’ultima, infatti, essa comportava, assieme a poteri
coercitivi, anche nel giudizio capitale, sottratti a ogni forma giuridica, anche la capacità
per ogni sorta di normazione e statuizione (leggi date, imposizione di tributi, ordinare
leve, nominare senatori, scegliere gli alti magistrati, espropriare, fondare colonie, battere
moneta etc.). Il nome di dictatura fu evitato non solo perché, in questo caso, i titolari
sarebbero stati più di uno, ma, soprattutto, in ragione del fatto che questa magistratura era
stata recentemente abrogata (lex Antonia del 44). La contitolarità, nel triumvirato, doveva
esservi, non nel segno della collegialità, che avrebbe comportato la possibilità d’una
reciproca intercessio, ma, piuttosto, d’una vera ‘poliarchia’, implicante, dunque, la
possibilità di collisione tra i rispettivi àmbiti. Proprio per tal motivo era necessario
prefigurare, in via d’accordo tra i titolari, una precisa ripartizione territoriale e un
coordinamento dei rispettivi cómpiti. Nel 42, a Filippi, i cesariani alleati annientarono gli
eserciti dei cesaricidi. Lepido, dopo la vittoria, fu accontentato con l’Africa; Antonio
ottenne l’Oriente e in un primo momento anche le Gallie; Ottaviano l’Italia e le rimanenti
province occidentali. Al pronipote di Cesare toccò anche l’ingrato fardello di assegnare
terre in Italia ai veterani. Questo risultato non poteva essere raggiunto senza ricorrere a
espropri. Del resto, anche il cómpito di rifornire Roma di grano si rivelò assai difficile, a
causa del controllo sui mari esercitato da Sesto Pompeo. A tutto ciò si aggiunsero le lotte
di potere ingaggiate dai sostenitori di Antonio (guerra di Perugia 41 – 40 a.C.). Tuttavia
gradualmente il rapporto di forza si spostò a favore di Ottaviano. Antonio si dedicò a
rinsaldare il dominio romano in Oriente. Impegnato in questo sforzo, egli non era in grado
di mantenere la propria influenza in Occidente. A poco a poco, il fatto che Ottaviano
controllasse l’Italia si rivelò conveniente. Quando, alla fine del 33, la carica triumvirale,
rinnovata a partire dal 3715, giunse alla sua scadenza, la resa dei conti tra i due
Non è chiaro se questo periodo di tempo fosse computato retroattivamente dal 1° gennaio del 37 a.C. o
solo dal 1° gennaio del 36. E’, in ogni caso, significativo che Ottaviano facesse convalidare formalmente il
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contendenti, che già dal 35 a.C. avevano completamente esautorato Emilio Lepido,
divenne inevitabile.
3. LA GUERRA CIVILE TRA OTTAVIANO E ANTONIO: LA BATTAGLIA DI AZIO (31 A.C.)
Il legame che Antonio aveva stretto con la regina lagide d’Egitto Cleopatra diede a
Ottaviano un comodo, quanto efficace, pretesto, per trasformare la guerra civile in una
guerra esterna. Ottaviano, profittando della delazione d’alcuni seguaci d’Antonio, riuscì a
impossessarsi del testamento di quest’ultimo. Letto in Senato e al popolo, servì a disvelare
i progetti d’Antonio: questi, oltre a precostituire eredità ingenti per i figli generati da lui e
Cesare con Cleopatra, aveva anche disposto per la propria sepoltura ad Alessandria.
Antonio appariva, dunque, un romano degenerato o, meglio ancora, un vero incapace,
bisognoso in quanto tale d’essere privato di tutto il potere. La guerra, rispettando le forme
tradizionali del diritto feziale, fu dichiarata alla regina d’Egitto. Antonio, negando validità
alla destituzione disposta contro di lui, si sentiva, oltre che tuttora investito del potere
triumvirale, costretto a condurre una nuova guerra civile. Ottaviano, viceversa, una volta
deposti i propri poteri triumvirali (Tac. Ann. 1.2.1 posito triumviri nomine) procurò, per
legittimarsi dal punto di vista giuridico, che la totalità dei Romani d’Italia
(ricomprendente dal 42 a.C. anche l’antica provincia di Gallia Cisalpina) esprimesse, per
mezzo d’un giuramento, fedeltà alle determinazioni politiche sue (e della sua parte) (R.G.
25 Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua). La vastità del consenso, pur in assenza della
forma comiziale, legittimava non solo l’attribuzione del comando militare (R.G. 25 … et me
belli … ducem depoposcit), ma anche poteri più vasti (R.G. 34 … postquam bella civilia
exstinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium …). Lo stesso giuramento fu
pronunciato, infine, dagli abitanti di tutte le province occidentali (R.G. 25 …Iuraverunt in
eadem verba provinciae Galliae, Hispaniae, Africa, Sicilia, Sardinia). La decisione della guerra si
ebbe nel 31 a.C., con la battaglia navale di Azio. Un anno più tardi Ottaviano conquistò
l’Egitto e Alessandria, mentre Antonio e Cleopatra si toglievano la vita. Eliminati e battuti
tutti gli avversari: nessuno poteva contendere a Ottaviano il potere assoluto. L’esempio
tracciato da Cesare, tuttavia, suscitava ancora orrore: occorreva trovare forme giuridiche
d’esercizio del potere che apparissero accettabili alle élites tradizionali.
4. LA C.D. RESTITUTIO DELLA RES PUBLICA NEL GENNAIO DEL 27 A.C.: IL TITOLO DI AUGUSTUS
Negli ultimi giorni del 28 a.C., Ottaviano pubblicò un editto, con il quale annullava tutte le
disposizioni illegali e contrarie al diritto eventualmente assunte durante il periodo
triumvirale. Infine, all’inizio del nuovo anno, ebbe luogo la restitutio rei publicae al Senato e
al popolo, il ripristino, cioè, della normalità istituzionale, in conseguenza della quale
Ottaviano, restando console assieme al proprio collega, conservava, in ogni caso, la
pienezza dell’imperium. Il 13 gennaio del 27 a.C., Ottaviano, in quanto console, propose al
Senato la rinuncia ai propri poteri straordinari. In seguito a questo atto, e a certe misure
che non si conoscono con precisione, il Senato decretò in suo onore la corona civica di
foglie di quercia per aver salvato cittadini (ob cives servatos). Il 15 o il 16 gennaio il Senato e
Ottaviano elaborarono un senatoconsulto, successivamente approvato con legge, che
definiva i termini di una divisione dei poteri e delle province: questo provvedimento, di
fatto, segnò la nascita del regime imperiale. L’elemento più significativo del dispositivo,
che esamineremo fra breve, fu l’attribuzione a Cesare Ottaviano del titolo di Augustus.
Questo soprannome, preso in prestito dalla sfera augurale, era legato al dominio
dell’auctoritas. Il suo detentore era perciò dotato di una capacità e di una felicitas d’azione
rinnovo da parte dell’assemblea popolare: assunse infatti l’appellativo di triunviro per la seconda volta
triumvir rei publicae constituendae iterum. Antonio, al contrario, trascurò queste sottigliezze giuridiche.
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eccezionali. Il titolo significava letteralmente “dotato del massimo della forza sacra”,
abilitando il principe a portare a termine, con pieno successo, ogni compito affidatogli. Gli
antichi lo comparavano esplicitamente alla parola augurium (letteralmente “constatazione
della presenza del massimo della forza sacra”) e al verbo augere (“accrescere”). In tal modo
si equiparò, implicitamente, Ottaviano all’eroe eponimo della città, al suo fondatore,
Romolo.
5. LA DEFINIZIONE DEI POTERI CONFERITI AD AUGUSTO NEL 27 A.C.: L’IMPERIUM SULLE
PROVINCIAE NON PACATAE
In conseguenza delle determinazioni assunte nella seduta del 15 (o 16) gennaio, il Senato
avrebbe amministrato direttamente le province attraverso proconsoli di rango consolare o
pretorio, estratti a sorte, tra gli ex consoli e gli ex pretori, secondo il modo tradizionale
(fissato dalle leggi di Silla e di Pompeo). Il principe, dal canto suo, riceveva l’incarico di
governare per dieci anni le Spagne, le Gallie, la Siria e di comandare le truppe dislocate in
queste province, in virtù del suo imperium consolare, attraverso legati di rango consolare o
pretorio, definiti, proprio per questo, legati Augusti pro praetore.
6. LA SVOLTA DEL 23 A.C.: LA TRIBUNICIA POTESTAS E IL C.D. IMPERIUM MAIUS ET INFINITUM
Gli anni seguenti furono decisivi. La situazione politica rimaneva confusa. La crisi scoppiò
nel 23 a.C. In seguito a una cospirazione e al termine di una grave malattia, Augusto
decise, in giugno, di rinunciare al consolato, che aveva rinnovato tutti gli anni a partire dal
29, e di fare così un passo decisivo nella costruzione d’un nuovo ordine costituzionale. In
cambio, il Senato e il popolo gli accordarono, a titolo vitalizio, la potestà tribunizia,
accompagnata dal diritto di convocare il Senato e di poter fare una relatio (proposta) per
primo in ogni seduta di quest’assemblea (ius primae relationis). D’altra parte, egli
continuava a governare l’enorme provincia che gli era stata affidata fino al 18, ma ormai
esercitava il potere consolare in quanto promagistrato (proconsole). Quando Augusto,
nelle province, voleva denominare questo potere magistratuale nella propria titolatura,
adoperava il termine proconsul, come proprio ora è stato confermato da un editto scoperto
recentemente, che egli emanò nel 15 a.C. (riferito dalla cosiddetta Tessera Paemeiobrigensis)
per una comunità della Spagna nord occidentale (provincia Transduriana). A tal proposito il
senato e il popolo precisarono che l’imperium del principe, diventato proconsolare, dopo la
sua rinuncia al consolato, non si sarebbe estinto quando avesse passato il pomerium e
sarebbe stato, in ogni caso, superiore a quello dei governatori delle province.
Conformemente alla tradizione, l’imperium proconsulare implicava il comando dell’esercito.
Tuttavia l’imperium esercitato dall’imperatore si distingueva da quello dei proconsoli della
repubblica, in quanto era accordato a titolo vitalizio, benché, sotto Augusto, fosse ancora
periodicamente rinnovato. Questo potere era illimitato, svincolato dalle regole coercitive
legate al superamento del pomerium di Roma, ed esteso a tutte le province dell’Impero, non
soltanto a quelle attribuite ad Augusto nel 27, ma anche, se necessario, alle province
senatorie, in virtù del principio che nessun imperium poteva essere superiore a quello del
principe. Così Augusto poteva arruolare le truppe o controllare la leva, dare istruzioni ai
proconsoli (mandata), emanare regolamenti speciali o entrare nel merito di questioni
particolari. L’Italia e Roma erano escluse da questo imperium, e d’altra parte le legioni vi
penetravano solo per celebrare il trionfo. La superiorità esclusiva dell’imperium
proconsolare appare chiaramente quando si considera che tutte le operazioni militari si
svolgevano sotto gli auspici esclusivi del principe: di qui derivò che, dopo un breve
periodo transitorio (fino al 18 a.C.), solo l’imperatore e gli eventuali coreggenti
continuassero a celebrare il trionfo. Nello stesso tempo il potere di coercizione, inerente
31
all’imperium proconsolare, abilitava l’imperatore a esercitare una giurisdizione civile e
penale, in prima istanza, e – in ragione del suo imperium maius – in appello (vd. Mantovani
§ 18.9). La potestà tribunizia non faceva dell’imperatore un tribuno della plebe: erano suoi
colleghi solo coloro che esercitavano come lui la potestà tribunizia, in altri termini, i
coreggenti. D’altronde questo potere non era attribuito al principe per un solo anno, ma a
titolo vitalizio: veniva perciò rinnovato a una data che finì con l’essere fissata al 10
dicembre (data tradizionale di entrata in carica dei tribuni della plebe), indubbiamente a
partire dagli anni 98 o 99 d.C. Sono, del resto, gli anni di potestà tribunizia che permettono
di contare gli anni di regno. Oltre ai privilegi onorifici e alla sacrosantità, ossia
l’inviolabilità assoluta della persona e delle decisioni, la potestà tribunizia attribuiva al
principe un potere temibile, che si adattò tuttavia al contesto nuovo e specialmente alle
modificazioni che vennero introdotte nel sistema comiziale durante l’Impero. E’ per
questo motivo che noi conosciamo solo opposizioni imperiali contro i senatoconsulti o
contro le decisioni dei magistrati, soprattutto in materia giudiziaria. In virtù del diritto
d’auxilium i principi si servivano della potestà tribunizia per reprimere abusi e per
proteggere la plebe. I primi imperatori fecero anche uso dei poteri tribunizi, a cominciare
dal diritto di convocare il senato, e, soprattutto, del diritto di convocare il popolo (la plebe)
e di proporgli delle leggi, perché è provato che le leggi sui brogli elettorali, il celibato e le
materie matrimoniali furono proposte da Augusto alla plebe in virtù della sua potestà
tribunizia. Infine, aspetto non trascurabile della potestà tribunizia, l’opposizione dei
tribuni della plebe propriamente detti, che continuava a essere esercitata, perdeva la sua
temibile forza, perché non poteva scontrarsi con la potestà tribunizia del princeps.
7. ALTRI ONORI E POTERI CONFERITI AL PRINCIPE: IN PARTICOLARE IL PONTIFICATO MASSIMO
A partire da Augusto, come regola generale, fin dal loro avvento i principi furono eletti e
cooptati in tutti i collegi sacerdotali pubblici. Il fatto di appartenere a tutti collegi,
soprattutto a quelli la cui missione era di esercitare e di rivelare il diritto sacro, i quattro
collegi detti maggiori, permetteva di controllare dall’interno le cooptazioni sacerdotali e
soprattutto le regole di diritto sacro dettate al Senato e ai magistrati in caso di bisogno. Per
di più, da quando Augusto fu eletto pontefice massimo, il 16 marzo del 12 a.C., tutti i
principi ricevettero, in occasione dell’avvento al trono, questa dignità, che permetteva loro
di controllare l’intera vita religiosa pubblica.
8. DEFINIZIONE GIURIDICA DEL PRINCIPATO
Punto di partenza obbligato per un discorso sul principato, dal punto di vista giuridicocostituzionale, è la teoria del Mommsen. Egli coglieva il principato come diarchia, fra
principe e Senato, due poteri sommi, sovraordinati a tutto il vasto e complicato sistema
imperiale. Da una parte v’erano l’Italia e le province amministrate dal Senato; dall’altra le
province imperiali, ove l’imperatore aveva le sue legioni. A tale duplicità
dell’amministrazione delle province corrispondeva una duplicità di funzionari e di
carriere. Da una parte i governatori delle province senatorie, dall’altra quelli delle
province imperiali: i primi, promagistrati, come era di regola nella tarda repubblica; i
secondi, legati Augusti propraetore, che dipendevano dall’imperatore. Questi ultimi, però, in
omaggio al principio diarchico venivano presi dal ceto senatorio16. Né la distinzione
L’unica eccezione rilevante è rappresentata dall’Egitto, governato da un praefectus di rango equestre, che
comandava prima tre, poi due sole legioni. Altri territori minori, come la Iudaea, lee Asturie, la Rezia, erano
amministrati da praefecti (in seguito prevalse l’impiego del termine procurator) appartenenti al medesimo
ordine: ma si tratta di eccezioni più apparenti che reali, perché questi prefetti equestri non erano autonomi
governatori provinciali ma gestivano territori più limitati sotto il comando superiore di un amministratore
16
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riguardava soltanto le province. Vi era altresì la duplicità dell’amministrazione finanziaria:
non già una sola cassa (l’erario) come ai tempi repubblicani, bensì due: l’aerarium populi
Romani, amministrato dal senato, e il fiscus Caesaris, gestito dall’imperatore. La diarchia,
tuttavia, anche, come mera finzione giuridica, non riesce a dar conto della realtà del
principato. Di alcune anomalie di tale ricostruzione si rese conto anche il Mommsen, il
quale aggiunse una spiegazione complementare: la teoria del commonwealth. La diarchia
Imperatore-Senato poteva essere intesa come una divisione di poteri nell’ambito d’un
vasto commonwealth, analogo a quello britannico: ove però il governo di Londra si
occupasse soltanto degli affari dell’Inghilterra, mentre gli affari dei dominions spettassero
all’esclusiva competenza della Re (al quel tempo la regina Vittoria), imperatore delle Indie.
Questa nuova formulazione ci abitua a guardare all’Impero dal punto di vista delle
province. Da questo versante, l’imperatore appare in una posizione diversa e più alta
rispetto all’ordinamento senatorio, in un atteggiamento di protezione e di tutela. Si apre
così la strada alla formulazione della tesi del protettorato. Secondo V. Arangio-Ruiz nel
principato non si realizza un sistema diarchico, nel senso di due poteri all’interno di un
unico ordinamento; in esso coesistono due ordinamenti, il primo facente capo al principe,
il secondo al popolo romano. Si tratta di due ordinamenti interdipendenti, l’uno dei quali
ricomprende l’altro. Dall’osservazione che le province imperiali (ove sono di stanza le
legioni) costituiscono la fascia esterna dell’Impero, fascia che avvolge l’Italia e le province
senatorie in una cintura protettiva, V. Arangio-Ruiz ha avanzato l’ipotesi che l’imperatore
fungesse da protettore rispetto al populus Romanus. Proiettata su questo sfondo,
l’esperienza storica del principato è ricondotta all’interno della dialettica, propria del
mondo ellenistico, tra due realtà istituzionali distinte, ma reciprocamente integrate tra
loro, la polis e la basileia. Augusto non avrebbe soppresso la repubblica, ma l’avrebbe
avvolta entro una fascia protettiva dandole garanzia di difesa attraverso il suo potere
monarchico. Augusto non è estraneo a Roma; anzi la sua funzione protettiva si esplica
proprio in quanto egli fa parte della comunità romana, in posizione eminente. Il
protettorato non si pone, dunque, sul piano internazionale, bensì su un piano interno (la
nozione di protettorato è usata dall’Arangio-Ruiz in modo atecnico). Il protettorato di
Augusto su Roma non sarebbe dissimile da quello dei re ellenistici sulle poleis. A sostegno
di quest’ipotesi, V. Arangio-Ruiz adduce un’iscrizione di Cirene riguardante il
“protettorato” di uno dei Tolomei sulla città di Cirene. In essa è trascritto un programma
di costituzione elaborato di concerto tra Tolomeo (non si sa quale, data l’incertezza della
datazione) e la polis di Cirene, la quale vantava una lunga tradizione di indipendenza. In
questa costituzione la polis è considerata quale soggetto giuridico dotato di tutti gli
attributi dell’autonomia e dell’eleutheria (magistrati, assemblee, un duplice consiglio). In
essa, accanto agli strateghi annuali, vi è un Tolomeo, stratego a vita. Osserva V. ArangioRuiz.: «Ecco un protettore che, come Augusto, fonda il suo potere formalmente
sull’imitazione di qualche magistratura cittadina, sostanzialmente sulla disposizione
esclusiva delle forze armate». Lo stesso rapporto che collegava Tolomeo e Cirene sarebbe
intercorso tra Augusto e la repubblica romana. Secondo alcuni non è possibile ipotizzare
un protettorato all’interno di un unico stato. Alla base di quest’obiezione vi è un’idea
preconcetta, perché gli antichi e i romani, in particolare, non solo mancavano d’una
nozione unitaria dello Stato, ma non conoscevano neppure lo Stato come unità politica ed
appartenente all’ordine senatorio. Cosí il prefetto di Giudea era subordinato al legato consolare di Siria e,
parimenti, il prefetto delle Asturie al governatore della Spagna Tarraconense. In queste figure non si può
vedere una limitazione della piena competenza militare del legato senatorio.
33
ente esponenziale della sovranità. La tesi del protettorato interno fu accolta e sviluppata
da P. Frezza, nella sua teoria del principato come rapporto clientelare. Il Frezza procede
anche dalle osservazioni di A. von Premerstein circa la coniuratio totius Italiae et
provinciarum: questo giuramento avrebbe instaurato tra Ottaviano e abitanti dell’Italia e
delle province un vincolo analogo a quello della clientela del diritto privato. Il giuramento
di fedeltà a Ottaviano, che gli conferì la posizione di dux delle forze che vinsero Antonio
ad Azio, e mise nelle sue mani quel potere «su tutte le cose», che Augusto, nelle sue Res
Gestae, presenta come fondato sul consenso universale, costituì un rapporto
personalissimo, quasi-clientelare, fra Augusto e l’insieme dei cittadini e dei non cittadini. E
questo tipo di rapporto non fu oggetto della restitutio del 27, rimanendo quindi nelle mani
di Augusto, a qualificare il potere del principe. Sopra questo vincolo riposa il potere di
Augusto. Lo stesso potere di comando militare, di cui Augusto e tutti i suoi successori
sono titolari gelosamente esclusivi, si fonda sopra un giuramento di fedeltà, identico a
quello prestato da tutti gli abitanti dell’Impero, che coesiste con il tradizionale sacramentum
militare repubblicano. Più che i vaghi legami di clientela, è particolarmente reale il
giuramento di fedeltà pro salute honore victoria, derivato dal giuramento pro salute Caesaris
del 45-44 a.C. e dal famoso giuramento del 32 a.C., che legava strettamente soldati,
magistrati, senatori, cittadini e città all’imperatore e ai suoi discendenti. Derivante
dall’estensione del giuramento militare, esso si generalizzò progressivamente, non già
quale semplice atto di omaggio, ma in quanto fondamento sostanziale del potere
imperiale. In verità, la costruzione della nuova sintesi imperiale gravò, almeno in parte, su
istituzioni sociali estranee, in quanto tali, alla più antica tradizione costituzionale
repubblicana. La lotta politica di Roma e i conflitti tra i principes civitatis, nel secolo delle
guerre civili, furono caratterizzati da una complicata trama di relazioni personali fondate
sul patronato e la clientela, un rapporto sociale protetto dagli dèi e retto dalla fides. Con
l’allargamento delle clientele, dopo la riforma mariana del reclutamento, anche a forze
armate disponibili per la lotta politica interna, si rese necessario riformulare quest’antico
vincolo in forme più aderenti alle realtà sociali del tempo. Furono, perciò, elaborati
speciali giuramenti in sempre maggior numero e varietà. Il principato rappresenta, anche
da questo punto di vista, la più significativa evoluzione politica del patronato. Il rapporto
diretto fra il princeps, il populus e l’insieme degli individui sottoposti al dominio romano fu
garantito estendendo il giuramento clientelare alla res publica, nella sua totalità – come
ricorda Plinio nel Panegyricus – e a ogni abitante delle province. Il giuramento di fedeltà a
Ottaviano, che gli conferì, nel 32 a.C., la posizione di dux delle forze impegnate contro
Antonio ad Azio, costituendo un rapporto personalissimo con l’Italia e le province
d’Occidente, divenne, dunque, un’istituzione permanente. Esso fu prestato, in Occidente
come in Oriente, da tutti gli abitanti dell’Impero, anche ai suoi successori in occasione
della loro ascesa al potere e, a partire da Caligola, fu ripetuto e rinnovato anno dopo
anno17. Questo giuramento imponeva d’avere gli stessi nemici dell’imperatore e
Per quanto riguarda Caligola, tale giuramento, citato per la Siria da Giuseppe Flavio (Antiquitates Iudaicae
18.5.3), e per la Grecia, da un’iscrizione di Akraephia in Beozia (IG VII 2711), ci è pervenuto in due
esemplari: uno latino (iscrizione di Aritium in Lusitania: CIL II 172 = ILS 190), l’altro greco (iscrizione di
Assos in Troade: IGR IV 251 = Ditt. Syll.3 797). Ma un giuramento molto simile a quello tramandato da questi
documenti ascrivibili al principato di Caligola, c’è tramandato anche da un’epigrafe d’età augustea,
riguardante la città di Phazimon Neapolis in Paflagonia: IGR III 137 = OGIS II 582. Tr. it. «… Giuro su Giove,
la Terra, il Sole, su tutti gli dei e le dee, e su Augusto stesso, di essere fedele a Cesare Augusto, ai suoi figli e
discendenti per tutto il tempo della mia vita, in parole, azioni e pensieri, considerando amici o nemici quelli
che loro considerano tali; per difendere i loro interessi giuro di non risparmiare né il mio corpo, né la mia
17
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d’anteporre, subordinandole ogni altro legame personale o familiare, la salus principis alla
propria. Si sospendeva così (o si poneva temporaneamente nel nulla) ogni altra relazione
di fedeltà: dei figli nei confronti dei propri genitori, dei liberti nei confronti dei propri
patroni, dei servi nei confronti dei propri domini. I vota pro salute et incolumitate formulati,
per l’imperatore, da cittadini e peregrini all’inizio di ogni anno, appaiono in gran parte
analoghi a quelli pronunciati dai clienti nei riguardi dei loro patroni, come si evince, del
resto, da un riferimento del «Panegirico di Traiano»: amamus quidem te in quantum mereris;
istud tamen non tui facimus amore, sed nostri, nec umquam inlucescat dies quo pro te nuncupet
vota non utilitas nostra, sed fides. (tr. it. Ti amiamo per quanto tu meriti, ma è amore,
tuttavia, non per te ma per noi; e non spunti mai il giorno in cui non sia il nostro bene a
formulare voti per te ma la nostra fides, o Cesare!). E’, dunque, la fides a imporre – e
basterebbe di per sé a imporlo, di là da qualsiasi altra considerazione – ai cives e a tutti gli
uomini, qui sub imperio populi Romani sunt, il dovere di formulare e rispettare i vota pro
salute principis. Durante il principato, la fonte dell’«obbligazione politica» non è unica, ma
duplice: alla legittimazione del potere, che si manifesta nelle leggi d’investitura (leges de
imperio), fondata sulla tradizione costituzionale repubblicana, si sovrappone la peculiare
elaborazione dell’«ideologia patronale» utilizzata da Ottaviano e dai suoi successori.
Questo nuovo vincolo, riconoscendo nel principe il «rappresentante esistenziale di quel
vasto agglomerato di territori e popoli» posti sotto il dominio di Roma, costituisce un
rapporto, che, già dal tempo d’Augusto, supera, almeno virtualmente, i rigidi steccati della
cittadinanza e della supremazia romano-italica. Questi due elementi convivono in un
equilibrio sempre più precario fino alla metà del III secolo, quando le forme della
legittimazione repubblicana furono travolte, nonostante resistenze, conflitti e, più o meno,
velleitari tentativi di restaurazione, dalla crisi finanziaria e militare dell’Impero.
9. IL PRINCIPATO E IL PROBLEMA DELLA SUCCESSIONE
Nonostante gli sforzi costanti dei detentori del trono, non si riuscì mai in Roma imperiale a
stabilire una successione al trono basata in maniera certa sul principio dinastico. Il
fondatore del principato, Augusto, tentò inutilmente di trasmettere i suoi poteri a un erede
anima, né la mia vita, né i miei figli, ma di affrontare senza esitazione qualunque pericolo per proteggere ciò
che loro appartiene. Se mi accorgo o se capisco che si parla, si complotta o si fa qualche cosa contro di loro,
giuro di denunciarlo e di mostrarmi ostile a colui che parla, complotta o agisce di conseguenza. Se qualcuno
viene considerato da loro come nemico, giuro di perseguitarlo e di punirlo in terra e in mare, con le armi e la
spada. Se una soltanto delle mie azioni fosse contraria a questo giuramento o non conforme a ciò che ho
promesso, io consacro me stesso, corpo e anima, la mia vita e i miei figli e tutta la mia stirpe e i miei beni allo
sterminio e all’annientamento fino all’ultima discendenza e a quella di tutti i miei eredi. E che la terra e il
mare non accolgano mai i corpi dei miei e quelli dei miei posteri e che essi non producano alcun frutto per
loro …». Il giuramento di Sestinum in Umbria (CIL XI 5998a) non è databile con precisione. CIL II 172 = ILS
190 Iusiurandum Aritiensium / Ex mei animi sententia, ut ego iis inimicus / ero, quas C. Caesari Germanico inimicos
esse / cognovero, etsi quis periculum ei salutiq(ue) eius infert inferetque, armis bello internecivo / terra mariq(ue)
persequi non desinam, quoad .poenas ei persolverit, neq(ue) me <neque> liberos meos / eius salute cariores habebo,
eosq(ue) qui in eum hostili animo fuerint, mihi hostes esse / eum hostili animo fuerint, mihi hostes esse / ducam; si
sciens fallo fefellorove, tum me liberosq(ue) meos Iuppiter Optimus Maximus ac / Divus Augustus ceteriq(ue) omnes di
immortales / expertem patrai incolumitate fortunisque / omnibus faxint. Tr. it. «Giuramento degli abitanti di
Arizio. Nella mia anima e in tutta coscienza, giuro di essere nemico di coloro che considererò nemici di C.
Cesare Germanico. Se qualcuno mette o avrà messo in pericolo la vita di costui, non cesserò di perseguitarlo
con le armi e in una guerra mortale per mare e per terra, fino al giorno in cui abbia ricevuto la sua punizione.
I miei figli non mi staranno a cuore più della sua vita. Considererò miei nemici tutti coloro che avranno
avuto intenzioni ostili nei suoi riguardi. Se coscientemente io avessi mancato o mancassi alla mia parola, che
Giove Ottimo Massimo e che il divino Augusto e tutti gli dei immortali spoglino me e i miei figli, della
nostra patria, della vita e di tutti i nostri beni».
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diretto; alla fine questi toccarono, più per caso che per disegno intenzionale, al suo coreggente, il figliastro Tiberio, già in precedenza adottato. Il disegno dinastico della
famiglia giulio-claudia (fino a Nerone) non fu mai assicurato, poiché ogni volta vennero a
mancare gli eredi diretti. La dinastia flavia non sopravvisse alla seconda generazione e
Nerva dovette la sua elezione (96 d.C.) al Senato. Nel corso del secolo successivo (del II
secolo) la legittimità della successione imperiale si basò unicamente sull’adozione, dal
momento che i cosiddetti imperatori buoni (Nerva, Traiano, Adriano e Antonino Pio) non
ebbero alcun successore diretto. Nel corso del III secolo, a cominciare dai Severi (193 d.C.),
il principio dinastico funzionò solo sporadicamente; in ogni caso fu legalizzato attraverso
l’adozione e spesso rafforzato con il matrimonio dell’erede presuntivo all’interno della
famiglia imperiale. Nel corso dell’intero principato l’adozione fu riconosciuta, dunque,
come lo strumento più adeguato per garantire la successione imperiale. In quest’ultimo
secolo si è formata una estesa letteratura sulla questione se la successione imperiale sia
stata regolata dal principio dinastico oppure dalla adozione. Dal punto di vista giuridicocostituzionale, questo problema suscita interesse se si guarda al fenomeno della
cooptazione. Linguisticamente, sin dal tempo di Cicerone, adoptare e cooptare erano usati
come sinonimi. Tra i due concetti vi era una corrispondenza non solo linguistica, ma reale.
Il detentore del potere imperiale sceglieva (‘eleggeva’) il suo successore con un
procedimento inter vivos. Spesso – e in questo modo la coincidenza tra adozione e
cooptazione diventava piena – il successore presuntivo diventava co-reggente del vecchio
imperatore con il titolo di Caesar, preparandosi in tal modo alla successiva assunzione
delle funzioni imperiali. La co-reggenza e la condivisione della carica imperiale non
presupponevano un esercizio congiunto del potere, ma di regola piuttosto una
ripartizione, dettata da esigenze pratiche, delle competenze funzionali e regionali.
VII IL TARDOANTICO
LA CRISI DEL PRINCIPATO E LA C.D. ANARCHIA MILITARE DEL III SECOLO (235 – 284 D.C.).
LE RIFORME DI GALLIENO
Verso la metà del III secolo d.C. l’Impero versava nella crisi più grave che avesse mai
dovuto affrontare. In larga misura essa era stata determinata dagli spostamenti di popoli
che avvenivano nel profondo delle regioni euro-asiatiche. Intorno al 200 d.C., gli unni di
stirpe turco-mongolica, nella loro marcia verso occidente, avevano raggiunto la zona tra il
Mar Caspio, l’Ob, il Volga e le montagne che limitavano l’altipiano iranico. Il contraccolpo,
da ovest a est, mise in movimento i germani orientali, in particolare i Goti. Un altro
pericoloso avversario dell’Impero sorse in Oriente, ove si affermò il regno neopersiano dei
Sassanidi, i quali, a differenza dei Parti, nel proclamarsi eredi dell’antico impero
universale degli Achemenidi, distrutto dalle conquiste di Alessandro Magno (334 – 327
a.C.), non nascondevano le loro pretese egemoniche sull’intero Oriente romano (la Siria,
L’Egitto e l’Anatolia). La resistenza delle legioni non riuscì a contenere la pressione su tutti
i confini. Il limes fu ripetutamente sfondato in più punti. L’imperatore Decio cadde in
battaglia contro i Goti sul corso inferiore del Danubio (251 d.C.). Valeriano fu fatto
prigioniero a Edessa (in alta Mesopotamia) dai Persiani (260 d.C.). Nonostante la caotica
situazione militare, anzi anche in ragione di questa, l’esercitò finì per diventare l’unica
organizzazione capace di garantire sicurezza a chi non trovava più una risposta ai propri
problemi nel sistema politico e sociale dell’Impero. L’esercito imperiale si presentava da
sempre come una somma di centri di potere che godevano d’ampia autonomia. Tuttavia la
presenza d’una forte autorità politica centrale aveva impedito, per più di due secoli, il
-
36
continuo ripetersi di conflitti e crisi istituzionali. Con il declino del controllo esercitato dal
potere centrale, le legioni conquistarono ampi spazi d’autonomia, contrapponendosi le
une alle altre. L’antico e consueto meccanismo dell’acclamazione imperatoria fu usato
impropriamente per nominare imperatori spesso legittimati dal gradimento d’una o, al
più, di poche legioni. La conseguenza fu l’aprirsi d’una crisi politico-militare gravissima:
per molti anni gli imperatori si susseguirono l’uno all’altro. Sovente vi furono più
imperatori contemporaneamente, ciascuno dei quali considerava gli altri usurpatori. La
quasi totalità dei personaggi, che si disputarono il potere nei cinquant’anni compresi tra il
235 e il 284 d.C., era, in effetti, costituito da comandanti militari. E’ stato acutamente
osservato dal Montesquieu che il regime dell’impero, durante la c. d. fase dell’anarchia
militare (235 – 284 d.C.), potrebbe qualificarsi come una specie di repubblica irregolare,
dove la qualifica irregolare vuol significare l’assenza di un ordinamento organizzato in
vere e proprie istituzioni. Chi consideri, infatti, i due poli attraverso i quali passa la
tensione del potere politico, l’esercito (il popolo romano in armi) e l’imperatore, e abbia
presenti i frequenti contatti del capo con i gregari, relativi ai vari problemi di governo che
questi suole risolvere facendo appello alle assemblee dei militi, non può fare a meno di
riconoscere in siffatti rapporti la continuazione di quelli, regolati dalle raffinate istituzioni
cittadine, che passavano tra il magistrato e il popolo. Tale riflessione, tuttavia, ci conduce a
riconoscere un altro aspetto caratteristico dell’ambiente storico che stiamo analizzando.
L’impero del III secolo appare una rozza forma di democrazia militare a chi si ponga dal
punto di vista dei rapporti fra imperatore e soldati; al contrario, osservato dal versante
della popolazione cittadina e del Senato, esso viene configurandosi, per il fatto stesso della
loro esclusione dall’esercizio del potere, quale regime di tipo autocratico. Il momento di
passaggio dal principato all’impero tardoantico può cogliersi, sostanzialmente, in tre
eventi decisivi: a) emarginazione politica del Senato, ancora influente e decisivo al tempo
della rivolta contro Massimino il Trace (238 d.C.), e dei senatori, in conseguenza delle
riforme di Gallieno. L’esclusione dei senatori (databile attorno al 261-62 d.C.) dai comandi
militari rompe quell’involucro istituzionale, nel quale il Mommsen ha riconosciuto un
aspetto fondamentale della costituzione diarchica del principato. Le ragioni che indussero
Gallieno, membro della più alta aristocrazia senatoria, a un’iniziativa tanto drastica paiono
ovvie: di fronte a un pericolo mortale, l’Impero non poteva permettersi il lusso di lasciare
ai posti di comando degli ignoranti di cose militari (i quali, per di più, costituivano una
minaccia come potenziali usurpatori). I senatori, in tal modo, furono quasi completamente
rimossi dal governo delle province, fino a quel momento, loro monopolio, a parte alcune
eccezioni [Egitto, Mesopotamia (a partire dal principato di Settimio Severo) e altri territori
– le c.d. province procuratorie – di minore importanza]; b) abolizione delle forme legali di
conferimento del potere d’origine repubblicana. Aurelio Caro (282 d.C.), ascendendo al
trono, dopo l’acclamazione dei soldati, non avvertì la necessità di richiedere, secondo la
consuetudine costituzionale, l’approvazione del senato e la conseguente convocazione dei
comitia imperii (lex de imperio). L’abrogazione, o la sottovalutazione del rilievo, di queste
forme legali del conferimento dei poteri imperiali equivalse al riconoscimento solenne
dell’evoluzione assolutistica e autocratica della monarchia imperiale; c)
provincializzazione dell’Italia, ovverossia sostanziale equiparazione del governo della
penisola a quello delle province.
- La riorganizzazione delle istituzioni che la nuova situazione imponeva, a differenza di
quella portata a termine da Augusto, rivoluzionaria nella sostanza ma inserita in un
discorso propagandistico volto a restaurare il modello politico repubblicano, modificò
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apertamente il sistema precedente. Si trattò di più di mezzo secolo d’interventi riformatori,
avviati da Gallieno e Aureliano e conclusi da Costantino, grosso modo, dunque, tra il 261 e
il 337 d.C.
- LA RICERCA DI NUOVI FONDAMENTI DI LEGITTIMITÀ DEL POTERE IMPERIALE: L’OPERA DI
AURELIANO
Dopo l’assassinio di Gallieno (268 d.C.), si determinò il crollo definitivo della legittimità
del potere imperiale. Meglio di tutto lo dimostra il fatto che, a eccezione di Claudio il
Gotico (268 – 270), che morì di peste, nel corso dei quindici anni successivi – tra il 268 e il
284 – ben cinque imperatori caddero vittima dei propri soldati, mentre gli altri due
vennero assassinati proditoriamente. Le usurpazioni degli anni 268 – 284 furono con ciò
fondamentalmente differenti da quelle che ebbero luogo nel 260 – 1, quando la notizia
della cattura di Valeriano (da parte dei Persiani) scatenò, nello stesso momento, tre
usurpazioni contro Gallieno: in Gallia, in Pannonia e in Oriente. Quelle erano la reazione
alle sconfitte che, da un lato avevano scosso l’autorità dei detentori del potere e, dall’altro,
avevano esposto le province alle incursioni nemiche. Gli imperatori militari, i restitutores
illirici (così chiamati perché tutti provenienti dalle province balcaniche), invece, morirono
quando ormai il pericolo maggiore era superato e per mano di coloro i quali avevano
guidato di vittoria in vittoria. Le campagne degli anni 267 – 271 fermarono l’impeto dei
barbari, nel 272 – 274 venne arrestata la divisione dell’Impero, e, ciononostante, la
rivoluzione ai vertici del potere, iniziata nel 268, divorò i suoi figli fino all’ascesa di
Diocleziano. La causa di questa situazione è facilmente individuabile: agli ufficiali illirici,
che provenivano dalle fila dell’esercito, molti dei quali erano cittadini romani di terza
generazione appena, riusciva più facile accettare un imperatore di un’eminente famiglia
senatoria, piuttosto che qualcuno del proprio gruppo. Perciò, quando alla fine raggiunsero
il potere, misero in moto un inesorabile meccanismo d’assassini e usurpazioni. I nodi, che i
restitutores illirici (dallo «slogan» ‘restitutio imperii’ presente nelle legendae di molte monete
coniate in questo periodo) furono chiamati a sciogliere, erano sostanzialmente tre e
interconnessi tra loro: ricomporre l’Impero sotto un’unica guida, sostituendo alle forme di
legittimazione del potere di tradizione repubblicana, travolte dagli eventi del III secolo,
altri principii, in grado di giustificare l’esistenza di un forte e accentrato sistema
monocratico; avere un esercito potente e fedele per imporre e conservare il nuovo sistema;
recuperare, attraverso la riorganizzazione fiscale, la disponibilità economica necessaria per
realizzare questi obiettivi.
- Sotto Aureliano (270 – 75 d.C.) si affermò una monarchia militare, con un vago sapore
democratico, in quanto l’imperatore sottopose ai soldati decisioni importanti. Allo stesso
tempo, però, Aureliano impiegò, per la prima volta nella titolatura ufficiale, l’appellativo
‘dominus et deus’. L’essenza del regime di Aureliano e la sua stessa concezione del potere
coincidono con questi titoli, rivolti ad accentuare il carattere teocratico della monarchia.
Nel pensiero di Aureliano, il carattere militare della monarchia è congiunto con la sua
derivazione dalla divinità: l’imperatore è tale in grazia del favore divino. Lo stesso
imperatore si sentiva guidato dal dio Sole: durante una rivolta disse ai soldati che egli non
doveva ringraziar loro per aver ripreso il trono, ma il suo signore e la sua guida divina.
L’enoteismo di Aureliano riconosce nel Sol invictus un simbolo spirituale e politico allo
stesso tempo. Le religioni enoteistiche, quali generalmente sono i culti solari, partecipano
della natura sia dei culti politeisti sia di quelli monoteisti: come i primi contemplano
l’esistenza di tanti dèi, ma come i secondi attribuiscono la massima importanza a un unico
dio considerando gli altri solo delle divinità minori, costrette a ubbidire al dio più
38
importante. La religione politeista specializza molto i cómpiti, assegna a ogni divinità una
funzione specifica, mentre nei sistemi enoteistici gli dèi minori sono propriamente tali e
non possono agire autonomamente o contro il volere della divinità più importante.
Proprio per queste caratteristiche, i culti solari hanno fornito, in più occasioni, una
legittimazione al potere politico: come il Sole è il vertice supremo della gerarchia divina,
perché gli altri dèi gli sono sottomessi, così l’imperatore è la sua manifestazione, il suo
riflesso nel mondo e il suo comes (compagno di imprese) sulla terra. Sulle monete appare il
dio Sole, in quanto signore dell’Impero romano, assieme all’imperatore, che, quale suo
rappresentante sulla terra, regge le sorti degli uomini: l’identificazione tra la struttura del
potere politico e il sistema trascendente è palese. Come esiste una divinità più importante
di tutte nel cielo, il sole, attorno al quale si dispongono gli dèi minori, dotati di
competenze limitate e deferite, così pure deve avvenire nell’Impero. Il sistema politico
riprende, nel mondo degli uomini, ciò che nel cielo si propone sul piano universale: un
unico sovrano, circondato da una serie di figure dotate di minor potere che a lui fanno
riferimento per tutte le decisioni fondamentali. Questo discorso propagandistico si rivolge,
peraltro, soprattutto ai militari, più sensibili – per l’ampia diffusione sotto forma di sette
iniziatiche, tra i soldati e gli ufficiali superiori, del culto di Mitra (una religione solare
misterica, d’origine anatolico-iranica) – di altri gruppi sociali al richiamo della religiosità
solare. Proprio per questo motivo il simbolo del sole compare, più volte, sulle insegne
degli scudi dell’esercito tardoantico (vd. le illustrazioni della Notitia Dignitatum). Un
esercito, che adopera sulle proprie insegne simboli solari di diversa provenienza e origine,
si pone evidentemente sotto l’egida del nuovo dio.
- IL NUOVO IMPERO DI DIOCLEZIANO E COSTANTINO
Diocleziano e Costantino, soprattutto dal punto di vista delle concezioni relative al
fondamento del potere imperiale, si pongono su due versanti nettamente distinti. Sul
piano della storia amministrativa dell’Impero tardoantico, tuttavia, la loro opera deve
essere esaminata congiuntamente. Dopo Aureliano, ucciso nel 275, Diocleziano fu il primo
a tentare di impostare una riforma complessiva del principato in quanto regime. L’azione
di quest’imperatore fu particolarmente incisiva in due settori: provvedimenti strutturali
caratterizzarono la riforma dell’apparato burocratico-amministrativo e del sistema fiscale.
Le soluzioni dell’epoca della crisi – l’affidamento dell’amministrazione delle province agli
ufficiali e la copertura dello sforzo militare mediante le requisizioni, ricompensate solo in
apparenza con una moneta che si svalutava a un ritmo vertiginoso – erano semplici
palliativi. Tra i maggiori risultati ottenuti dal generale illirico Aurelio Valerio Diocleziano
(284 – 305), asceso al trono dopo un decennio di recrudescente anarchia, va annoverata
senz’altro la riforma fiscale, che istituì – eliminato il dualismo tributum soli – tributum
capitis – un meccanismo d’esazione rimasto in vigore per tutto il tardo impero e destinato a
durare, nell’Impero bizantino, fino al XV secolo. Alla base vi era un principio generale,
l’attribuzione a ciascuna proprietà terriera d’una produzione annua stimata in funzione
della quantità di terra, del numero dei contadini che lavoravano su di essa e quindi della
quantità di terreno che ognuno di questi contadini poteva lavorare nell’arco d’una
giornata (iugatio – capitatio), secondo parametri generali minimi per i vari tipi di
occupazione e di coltura. Attraverso questi elementi si calcolava quanto ogni
appezzamento di terreno dovesse produrre e si stabiliva, in conseguenza, l’imposta
fondiaria, che oscillava fra il 7 e il 12 % della produzione. Il nuovo sistema, che portò a una
maggiore giustizia fiscale rispetto all’arbitrio che si era diffuso nell’età degli imperatori
soldati, permetteva di calcolare le imposte da riscuotere sulla base delle necessità
39
dell’esercito, dell’amministrazione e dei centri del governo imperiale. Viceversa il
tentativo di Diocleziano di ridare stabilità al sistema monetario sconvolto dalla
svalutazione del denarius argenteo nel corso del III secolo, anche nell’interesse di coloro
che ricevevano il soldo e le remunerazioni in denaro, fallì completamente. L’Editto dei
prezzi, un calmiere generale con cui l’imperatore definì non solo il livello massimo dei
prezzi di vendita che potevano avere tutte le merci in commercio, ma anche i livelli
salariali per ciascuna categoria lavorativa e professionale, non colse gli obiettivi che i
gruppi al potere confidavano di raggiungere. Solo Costantino fu in grado, con
l’introduzione di una nuova moneta d’oro, il solidus, di porre le basi per un parziale
risanamento del sistema monetario, che finì, però, per favorire unicamente i ceti superiori,
gli unici in grado di procurarsi, in quantità significative, la moneta aurea. Il nuovo impero,
inaugurato da Diocleziano, mise in discussione il paradigma, risalente all’epoca ellenistica,
ma accolto, poi, anche da Roma, della Basileia (eparcheia) che si accontentava di due soli
livelli istituzionali: al vertice un centro, nella persona d’un monarca, sotto di esso migliaia
di comunità autonome, le città. Dopo il ristabilimento della situazione politica, il gruppo al
governo cominciò a creare una struttura intermedia, con il cómpito di trasmettere alla
popolazione la volontà del potere, vigilare che essa venisse eseguita e, soprattutto, tenere
sotto controllo le élites locali. La comparsa d’un apparato burocratico, un vero e proprio
corpo estraneo al mondo della civiltà greco-romana, fu la novità maggiore di questo
tempo, dalle ripercussioni importantissime. La cronologia delle riforme di Diocleziano
mostra chiaramente che le fiscali precedettero le amministrative e che in qualche misura le
resero necessarie. Circa dieci anni dopo l’introduzione della riforma fiscale (databile
attorno al 285 – 287), l’Impero fu diviso in diocesi (formate da alcune province) a capo
delle quali furono posti sostituti (vicarii) dei prefetti del pretorio, e accanto a loro due
ufficiali finanziari: i rationales summarum, che si occupavano dei conti del fisco, e i magistri
rei privatae, che sovrintendevano al demanio imperiale. Le competenze fiscali dei prefetti e
dei loro vicari erano collegate alla trasformazione dell’annona militaris in un’imposta in
natura, riscossa come parte dell’imposta complessiva sulla terra poc’anzi descritta. Nel 314
v’erano dodici diocesi. Dagli inizi del IV secolo fu avviata una divisione in province più
piccole – fino alla fine del regno di Diocleziano il loro numero crebbe da poco più di
cinquanta a circa cento –, preceduta da una modifica sostanziale dei cómpiti di chi le
amministrava. Fu sottratta ai governatori ogni competenza militare, devoluta a duces
territoriali: tutto ciò fu accompagnato da un allargamento delle loro competenze alle
questioni fiscali che prima spettavano a questori e procuratori. Poco dopo la creazione
delle diocesi prese a configurarsi il livello più alto dell’amministrazione provinciale, quello
delle prefetture stabili del pretorio. Quando la diarchia di Diocleziano e di Massimiano si
trasformò in tetrarchia (vd. infra), il numero dei prefetti fu portato a quattro, ciascuno dei
quali doveva aiutare uno dei membri del collegio imperiale, con competenze limitate al
territorio soggetto a un tetrarca. Sembra che Costantino, dopo aver unificato l’Impero, si
decise a lasciar loro stabilmente le funzioni di capi dell’amministrazione, tra cui quella
fiscale, al di sopra del livello delle diocesi, cosa che peraltro significava escluderli dal
comitatus imperiale. Le antiche e ampie competenze civili e militari dei prefetti, tra il 320 e
il 330, vennero distribuite ad alcune cariche centrali (magistri militum, quaestor sacri Palatii,
magister officiorum). Nel IV secolo la regola era la divisione dell’Impero in tre prefetture:
Gallica (Britannia, le Gallie e la Spagna), Italica o Illirica (Italia, Africa, Pannonia, Dacia,
Macedonia) e Orientale (Tracia, Asia, Ponto e Oriente). Gli unici territori non sottoposti ai
prefetti erano due province, l’Africa e l’Asia, peraltro radicalmente rimpicciolite rispetto al
40
passato, da sempre assegnati, in omaggio alla tradizione, a proconsoli, ossia a senatori di
alto rango. Sull’Italia suburbicaria, la penisola in senso stretto, la giurisdizione era esercitata
dal prefetto di Roma. A Costantino, infine, si deve attribuire una configurazione
dell’amministrazione centrale, che sarebbe rimasta sostanzialmente invariata fino al
termine del VI secolo d.C. Gli uffici centrali (Palatini) costituivano, accanto ai servizi
personali dell’imperatore (sacrum cubiculum), l’elemento più numeroso e importante del
comitatus imperiale. Accanto ai tradizionali uffici a memoria, a libellis, ab epistulis, vi erano i
comites (compagni) imperiali, che sedevano nel consistorium: di esso facevano parte, in
ragione del loro ufficio, i capi degli uffici finanziari (comes sacrarum largitionum e comes rei
privatae) e i dignitari creati sotto Costantino per assumere le vecchie funzioni dei prefetti
del pretorio: i magistri militum, il magister officiorum e il quaestor sacri Palatii, il principale
consigliere dell’imperatore in materia giuridica, responsabile della redazione delle
costituzioni imperiali. Il compito principale del magister officiorum era il controllo
dell’amministrazione centrale e le comunicazioni tra il comitatus imperiale e il resto
dell’Impero. Tra i cambiamenti portati dal nuovo Impero, il più importante fu la
burocratizzazione, ossia l’enorme incremento delle dimensioni e delle competenze degli
apparati amministrativi, e, in particolare, il mutamento della posizione giuridica e delle
possibilità di promozione sociale del suo personale. Un membro della familia Caesaris del
Principato, in quanto schiavo, trascorreva tutta la vita nel suo ufficio, senza avere, in
pratica, la possibilità di salire ai livelli superiori della struttura alla quale apparteneva e
tantomeno in quelli della società18. Al contrario, nell’apparato amministrativo del tardo
impero, a servire erano individui liberi e ingenui, ai quali il servizio nella burocrazia,
offriva possibilità amplissime di promozione, fornendo loro, spesse volte, il trampolino di
lancio per la carriera di dignitario in senso stretto, nel vero esercizio del potere. Grazie a
ciò, essi potevano, nel corso della loro vita, salire da un gradino relativamente basso della
scala sociale fino al più alto, a differenza di quanto accadeva nell’apparato amministrativo
del Principato, ove la distanza tra funzioni esecutive e dirigenziali era, di fatto,
incolmabile.
- DIOCLEZIANO E LA TETRARCHIA. IL SIGNIFICATO DELL’ABDICAZIONE DI DIOCLEZIANO E
MASSIMIANO
La tecnica del frazionamento del potere, già sviluppatasi nel principato, raggiunse il suo
culmine nello schema della cosiddetta tetrarchia (terminologia esclusivamente moderna),
posto in essere da Diocleziano. Le esigenze della difesa di un impero mondiale andavano
troppo oltre le capacità di una singola persona per quanto eccezionale. Nel 285-6,
Diocleziano insediò Massimiano come co-imperatore, dapprima con il titolo di Caesar poi
come Augusto, in quanto suo collega nell’interezza dei poteri. Alcuni anni più tardi (293
d.C.), i due Augusti nominarono come loro aiutanti nell’esercizio del potere i più giovani
Galerio e Costanzo Cloro con il titolo di Cesari. In questo modo sarebbero stati addestrati
all’arte del governo in vista del momento in cui, dopo vent’anni di governo dei due
Augusti, avrebbero assunto, come prestabilito, la pienezza della carica imperiale. Galerio
fu adottato da Diocleziano e Costanzo da Massimiano. I rapporti tra gli Augusti erano
definiti come fraterni: avevano entrambi la titolatura imperiale completa ed esercitavano
congiuntamente le funzioni di pontefice massimo. I Cesari erano trattati come figli, cosa
che tra l’altro s’esprimeva nel fatto che non spettavano loro le annuali salutazioni
imperiali. Invece le acclamazioni per una vittoria riportata da uno di loro entravano a far
Anche le possibilità di promozione sociale d’un liberto erano alquanto limitate, dal momento l’ingresso nei
due ordini privilegiati, senatorio ed equestre, era interdetto, in linea di principio, a uno schiavo liberato.
18
41
parte della titolatura degli altri tre. Anche gli atti imperiali erano emessi in nome di tutti e
quattro. Il fatto che gli Augusti e i Cesari formassero una sola ‘famiglia’ imperiale fu
ribadito dall’assunzione del nome di Diocleziano, Valerius, da parte degli altri tre. La
tetrarchia non comportava un esercizio congiunto del potere imperiale: fondamentalmente
essa si articolava nella divisione territoriale, dettata da esigenze strategico-militari, tra
Occidente e Oriente. All’interno di queste due aree, l’Augusto era il vertice e il Cesare il
suo aiutante. Diocleziano si è sottratto all’ideologia solare, elaborata da Aureliano, e ha
giustificato diversamente, dal punto di vista mitico-religioso, il suo potere. All’atto
dell’associazione di Massimiano, i due imperatori assunsero rispettivamente i titoli di
Iovius (Diocleziano), e di Herculius (Massimiano), come se l’uno e l’altro fossero
discendenti – siamo sul piano dell’elaborazione mitica del potere imperiale – della stirpe
di Giove e di Ercole. Il fine ultimo di questa costruzione è screditare in anticipo le
usurpazioni. L’imperatore appare superiore a tutti e nettamente distinto dagli altri, ai
quali la sua figura s’impone, non solo per il potere illimitato che gli compete, ma per la
luce mistica che lo circonda. Lo schema della tetrarchia era stato pensato come uno
strumento di cooptazione, che i detentori della carica imperiale mettevano in atto nei
confronti dei loro coreggenti e futuri successori. La cooptazione inter vivos, collegata
sempre all’adozione e, quando possibile, anche ad alleanze matrimoniali all’interno della
famiglia dell’Augusto, dovette essere l’espediente per risolvere il problema della
successione imperiale. La costellazione tetrarchica è stata magistralmente descritta con
queste parole da W. Hartke: «Diocleziano costruì il potere imperiale dei due Augusti,
denominati Iovius ed Herculius, come un collegio divino e fraterno di imperatori funzionari
pubblici. La sua continuità doveva essere assicurata dalla cooptazione e, attraverso
l’adozione, i titolari della carica imperiale, determinati in maniera durevole, dovevano
essere uniti vicendevolmente in un vincolo interiore. L’adozione assunse dunque un
significato di principio giuspubblicistico e come tale alla fine tramontò». La comune
origine illirica dei tetrarchi, attestata anche da un icastico elemento del loro abbigliamento
nei monumenti che li rappresentano insieme, esalta l’ideale della concordia: i quattro
imperatori di comune accordo perseguono il bene della repubblica (bono rei publicae nati)19.
Il momento migliore per valutare la tetrarchia, dal punto di vista costituzionale, è quello
dell’abdicazione (1 maggio 305) di Diocleziano e Massimiano. La tetrarchia non può essere
definita una Notstandverfassung, una costituzione dello stato di necessità, ma risponde
invece, in tutte le sue articolazioni, a un progetto ben definito nel tempo. Diocleziano non
intendeva stabilire una monarchia di diritto divino. Nel suo pensiero istituzionale
convivono due prospettive diverse, ma non confliggenti: A) Ricondurre il potere imperiale
al quadro delle magistrature d’età repubblicana, che, assunte per un certo periodo, vanno
poi lasciate, ritornando alla vita privata. Le monete con la legenda “Quies Augustorum”,
coniate dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, annunciano al mondo che i padri
L’ideale della concordia, nel famoso gruppo scultoreo in porfido di San Marco a Venezia e in altri
monumenti, è attestato dal fatto che i tetrarchi sono sempre rappresentati tutti e quattro abbracciati. Giuliano
l’Apostata, nel suo convivium Caesarum, scrive: 315 A – B «e quindi in bell’ordine avanzò Diocleziano,
assieme ai due Massimiani e a mio nonno Costanzo. Si tenevano tutti e quattro per mano, quantunque non
marciassero di pari passo; perché intorno a Diocleziano gli altri formavano come un coro, ossia cercavano di
corrergli innanzi e fargli da guardia d’onore; ma egli a ciò si opponeva, non volendo nessuna prerogativa.
Quando poi si accorse di essere stanco, cedette loro tutto intero il fardello che recava sulle spalle, e camminò
da sé più spedito. Gli Dèi furono pieni di ammirazione per il buon accordo di questi principi, ed
assegnarono loro un posto onorevole, sopra molti convitati: eccettuato uno dei Massimiani, un incorreggibile
peccatore, che la mensa degli dèi non potè accogliere …»
19
42
dei nuovi Augusti non hanno deposto la loro dignità, ma hanno soltanto rinunziato
all’esercizio del potere loro spettante per godersi un meritato riposo. Si concilia, così, la
posizione di chi riteneva che l’imperatore fosse per naturam dominus et deus con la
tradizionale concezione delle magistrature romane. B) Rafforzare, allo stesso tempo, la
legittimazione religiosa del potere imperiale. Il pensiero politico-costituzionale di
Diocleziano propone un’elaborazione religiosa del potere molto raffinata. L’idea di
perpetuità trascende le persone degli imperatori e si compie, invece, nelle due dinastie
divine, la Iovia e la Herculia, in realtà due manifestazioni distinte di un’unica famiglia
imperiale. L’idea di renovatio, secondo il ritmo ciclico (il ciclo delle stagioni e, dunque, del
Sole) del tempo, si rapporta all’idea che una divinità – Giove per esempio oppure SolHelios – può ritornare a manifestarsi, all’inizio di un nuovo saeculum, come un bambino20.
L’imperatore è manifestazione storica di una stirpe divina, destinata all’impero. E’ un
magnum Iovis incrementum, per riprendere un verso virgiliano della quarta Ecloga, che nel
clima spirituale della tetrarchia potrebbe aver giocato un ruolo importante. Nel gruppo dei
tetrarchi di Venezia, il motivo della renovatio, attraverso la successione delle generazioni, è
simbolicamente espresso dal fatto che gli Augusti portano la barba dei seniores, mentre i
Cesari sono imberbi come si addice a dei iuniores21. Il bambino Messia, secondo Virgilio,
doveva essere magnum Iovis incrementum, il nuovo grande virgulto della stirpe di Giove (o,
forse, lo stesso Giove ringiovanito e, nel nuovo ciclo, incarnato nel neonato principe
imperiale). L’ecloga messianica di Virgilio ha sempre esercitato una forte influenza sulla
configurazione del potere, almeno sino al crollo dell’Impero d’Occidente. Non è un caso,
forse, che, in polemica, probabilmente, con l’interpretazione tetrarchica, Costantino,
nell’Oratio ad sanctorum coetum, volle vedere, nel bambino divino dell’ecloga virgiliana, un
riferimento alla nascita di Gesù Cristo22.
- LA MONARCHIA DI COSTANTINO E IL CRISTIANESIMO (EDITTO DI MILANO: 313 D.C.). IL
CONCILIO DI NICEA (325 D.C.) E IL SIMBOLO DOGMATICO DEL CREDO. L’EDITTO DI
TESSALONICA (380 D.C.)
Diocleziano era stato un risoluto restauratore, deciso a conservare intatta l’autorità della
tradizione romana. Costantino, al contrario, apparve e fu davvero un deciso innovatore. Il
segno più evidente di quest’inclinazione si coglie nel suo rapporto con il cristianesimo,
religione, fino a quel momento, giudicata dalle élites dirigenti, incompatibile con ogni vera
professione di lealtà a Roma e all’imperatore. La repressione del cristianesimo, soltanto
con gli editti di Decio (251 d.C.) e di Valeriano (257 d.C.), assunse le forme di persecuzione
collettiva e indiscriminata. Dopo la lunga pace per la Chiesa proclamata da Gallieno (261
d.C.), Diocleziano, nel 303 d.C., inaugurò una persecuzione tanto sanguinosa quanto
Scriveva Macrobio a proposito di Dioniso-Helios: «Egli (Sol-Helios) appare bambino nel solstizio
d’inverno e durante l’anno va crescendo progressivamente finché non ritorna parvus et infans nel giorno più
breve».
21 Sempre Dioniso-Helios, nel ritmo ciclico del suo divenire, è rappresentato come un fanciullo, come un
giovane imberbe, un uomo maturo con la barba e, infine, come un vecchio.
22 Su una moneta bronzea dell’imperatore Graziano, si vede il principe mentre regge il vessilo cristiano (con
il Cristogramma): la legenda recita “Gloria novi saeculi”, chiaro riferimento all’età di Cristo come nuovo
saeculum. Per comprendere il valore religioso dell’identicazione della dinastia imperiale con la stirpe di
Giove, è sufficiente ricordare una medaglia bronzea di Antonino Pio, sulla quale è raffigurato sul ‘verso’ il
bambino che cavalca di lato la capra Amaltea in direzione d’un altare sotto un albero. Poiché l’albero è
decorato con un’aquila, simbolo di Giove, giungiamo direttamente alla conclusione che quest’immagine
rappresenta il rinato Giove che cavalca come fanciullo il fedele animale: il novus Iuppiter (da identicare con
un giovane nato della dinastia imperiale) andrebbe a inaugurare una sorta di età aurea (Redeunt Saturnia
regna …).
20
43
inutile. Lo stesso Galerio, il suo più deciso sostenitore forse, addirittura, il suo principale
ispiratore, emanò nel 311 un editto di tolleranza. Nel 313, dopo la vittoria al Ponte Milvio
contro Massenzio, Costantino e il suo collega, Licinio, promulgarono a Milano il famoso
editto di tolleranza, con cui legittimarono indirettamente il cristianesimo, stabilendo il
diritto d’ogni cittadino di professare la religione che voleva, senza eccezioni. E’ evidente
che l’Editto fu emanato per tutelare in primo luogo i cristiani, anche se nel suo testo non è
presente un riferimento esplicito alla nuova religione. Solo più tardi Costantino, dopo aver
eliminato Licinio (324 d.C.), suo ultimo collega e rivale, fece in direzione del cristianesimo
un passo ben più importante, decisivo non solo per la vicenda complessiva del
tardoantico, ma per l’intera storia dell’umanità. Nel 325 si riunì a Nicea, in Bitinia, un
concilio ecumenico: la dottrina d’un presbitero d’Alessandria, Ario, fu condannata e fu
fissato il simbolo di fede, il Credo, nel quale ancor oggi si riconosce la maggior parte delle
chiese cristiane (non solo cattolici e ortodossi, ma anche la maggior parte delle sette
protestanti). Ario negava la consustanzialità del Padre (prima persona della Trinità) e del
Figlio (o Logos) (seconda persona della Trinità). Ma la lotta contro l’eresia ariana non
terminò con questo Concilio. Soltanto nel 381 il Concilio Costantinopolitano, preceduto da
un editto dell’imperatore Teodosio I (editto di Tessalonica: 380), eliminò ogni sacca di
resistenza nell’episcopato e nella stessa corte imperiale. Teodosio, d’altra parte, pose anche
fine alla tolleranza nei confronti dei culti pagani. Tutte le manifestazioni della religione
tradizionale, in particolare il sacrificio cruento d’animali, furono punite con le pene brutali
previste per sanzionare e reprimere le pratiche magiche dirette contro la persona
dell’imperatore. L’effetto più duraturo della vittoria di Costantino, nel 324, fu la decisione
di creare la sua ‘città’ (Costantinopoli) nei luoghi della vittoria finale su Licinio. La scelta
cadde su Bisanzio, che godeva d’una posizione impareggiabile. L’11 maggio del 330 ebbe
luogo la solenne consacrazione della città. L’impero aveva ora, nelle intenzioni di
Costantino, una seconda urbs, una altera Roma (una seconda Roma). L’idea costantiniana
della seconda Roma e, in particolare, il suo più importante corollario, il secondo Senato, fu
la fonte principale d’un patriottismo romano specificamente orientale, intriso di senso di
responsabilità per le sorti dell’Impero, in evidente contrasto con la crescente indifferenza,
per questo riguardo, delle élites occidentali. Costantinopoli divenne in questo modo, già
alla metà del IV secolo, l’indiscusso centro ideale della parte di lingua greca dell’Impero.
Tuttavia la conquista della posizione di esclusivo centro politico – di unica residenza degli
imperatori della pars Orientis e dell’amministrazione – arrivò solo nel secolo successivo,
per la somma di molteplici fattori: la posizione naturale unica, le possibilità di difesa, la
grandezza, ma soprattutto l’evoluzione dell’idea della seconda Roma verso la posizione
che la prima aveva tenuto fino alla metà del III secolo: la sua piena identificazione con
l’Impero e, soprattutto, con quella sua parte che convezionalmente identifichiamo nel
nome di Bisanzio. Con Costantino, il principio dinastico ebbe il sopravvento. Di tanto in
tanto assunse la forma di una co-reggenza dell’impero, alla quale prendevano parte padre
e figlio oppure più membri della stessa famiglia per effetto d’una designazione ereditaria.
Il nuovo credo cristiano dell’imperatore ebbe conseguenze rivoluzionarie sull’evoluzione
del potere in Occidente. Da questo punto di vista, la tarda antichità rappresenta, davvero,
l’inizio della storia moderna. La dedivinizzazione cristiana del mondo significò la fine
d’un ciclo di civiltà, dal momento che essa era destinata a trasformare radicalmente le
culture etniche di quell’insieme di popoli e di città, integrato nell’organizzazione
sovrannazionale dell’Impero romano. La convinzione che il cristianesimo fosse utilizzabile
a sostegno della teologia politica dell’Impero non fu senza influenza, probabilmente, sulle
44
sue fortune. Essa, però, fu ben presto smentita sul piano concreto. Seguiamo l’evolversi di
questa vicenda. Nella sua ‘Metafisica’, Aristotele, citando Omero, aveva formulato il
principio: «il mondo non vuole essere governato male; il governo di molti non è buono,
uno solo deve essere il Signore». Filone alessandrino, pensatore ebreo fortemente
influenzato dal platonismo e dall’aristotelismo, adattò questa costruzione al monoteismo
giudaico. La speculazione filoniana fu accettata dai pensatori cristiani e, in particolare, al
tempo di Costantino, da Eusebio di Cesarea. Egli, come molti pensatori cristiani, fu colpito
dalla coincidenza della venuta di Cristo con la pacificazione dell’Impero a opera di
Augusto. Quando quest’imperatore pose fine all’esistenza autonoma delle varie entità
politiche del Mediterraneo, gli apostoli del cristianesimo poterono muoversi indisturbati
per tutto il territorio dell’impero e predicarvi il Vangelo: essi non avrebbero certo potuto
svolgere la loro missione se la collera dei «fanatici della polis» non fosse stata tenuta a
freno dalla paura della potenza romana. Per Eusebio la pax Romana non ebbe solo
un’importanza pratica. Augusto ha anche compiuto le profezie escatologiche sulla pace
del Signore: la pax Romana coincise con la manifestazione e l’incarnazione del Logos.
Eusebio riteneva che l’opera, iniziata da Augusto, dovesse essere portata a compimento da
Costantino: questi, nella sua monarchia imperiale, imitava la monarchia divina. Il vescovo
di Cesarea in un discorso, pronunciato in occasione dei tricennalia di Costantino, affermò
che il megas basileus, nell’amministrazione dell’impero, si regolava secondo l’esempio
divino. Nell’esecuzione di questo compito, Costantino si avvicinava sia alla prima sia alla
seconda persona della Trinità. Alla seconda, perché, come Cristo co-reggente del Padre
amministra per Lui tutto il kosmos, anche l’imperatore comanda sulla terra entro il limite di
tempo della sua vita. Alla prima perché il megas basileus, Costantino, grazie alla coreggenza dei suoi figli, i Caesares portatori della luce diffondentesi dal Monarca-Sole, può
governare l’impero, così come la luce inaccessibile di Dio è riflessa, nel mondo, dal suo
mediatore, il Logos. Tuttavia per i cristiani ortodossi, secondo il Credo stabilito, nel 325, dal
concilio di Nicea, Cristo è Dio, al pari del Padre, ed è anche della Sua stessa sostanza.
Costruzioni, come quella di Eusebio, giustificabili alla luce dell’eresia di Ario, dopo la
piena affermazione dell’ortodossia trinitaria23 non poterono più sopravvivere. Quando la
resistenza di Sant’Atanasio e dei vescovi occidentali determinò il trionfo definitivo del
simbolo trinitario niceno-costantinopolitano, caddero le speculazioni sul parallelismo tra
la monarchia del cielo e della terra. L’espressione monarchia divina acquistò un nuovo
significato. San Gregorio Nazianzeno affermava che i cristiani credevano nella monarchia
divina, ma – si affrettava a precisare – essi non credono nella monarchia d’una sola
persona nella divinità. I cristiani credono nella Trinità, e questa Trinità di Dio non ha
alcunché di analogo nel mondo delle creature. L’unica persona del monarca imperiale non
può, dunque, rappresentare, in terra, la Divinità Trina e Una. Così finisce, nel
cristianesimo cattolico-ortodosso, la teologia politica: il destino spirituale dell’uomo, nel
senso cristiano, non può essere rappresentato sulla terra dall’organizzazione di potere
d’una società politica.
Costantino – nonostante Nicea – negli ultimi anni di vita, e i suoi figli, in particolare Costanzo II, non
nascosero le loro inclinazioni verso l’eresia ariana, perché essa era conforme all’ideologia monoteistica sulla
quale si fondava la concezione dell’imperatore come rappresentante del’unico Dio. L’analisi iconografica del
medaglione aureo costantiniano, conservato al ‘Kunsthistorisches Museum’ di Vienna, da questo punto di
vista è particolarmente interessante. Costantino riceve il diadema dalla mano di Dio, che penetra le nubi. Il
modulo iconografico impiegato in questo oggetto riprende il medesimo schema adoperato per celebrare, sin
dal regno di Traiano, l’investitura di un rex socius et amicus populi Romani da parte dell’imperatore.
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PARTE II
LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA
PREMESSA
L’imperatore Giustiniano24 (527 – 565 d.C.), di origine illirica, manifestò subito
l’aspirazione di restaurare l’integrità del’Impero, non solo nei suoi confini territoriali, ma
anche nei valori che giustificavano la conservazione della civiltà romana. In questo
disegno di restaurazione, accanto alla riconquista delle regioni cadute nelle mani dei
barbari, si palesava l’esigenza d’una definitiva unificazione normativa del mondo romano,
sulla base dei testi dell’antico sapere giuridico tardorepubblicano, alto e medioimperiale,
per i quali i giuristi delle scuole orientali nutrivano un rinascente entusiasmo.
1. IL NOVUS CODEX IUSTINIANUS
La prima realizzazione di questo disegno rimase sul piano relativamente modesto d’una
prosecuzione perfezionatrice dell’opera legislativa teodosiana. Il 13 febbraio del 528, con la
costituzione Haec quae necessario, indirizzata al Senato di Costantinopoli, l’imperatore
nominava una commissione di dieci membri, presieduta da Giovanni di Cappadocia, e di
cui faceva parte anche Triboniano. Essa aveva il cómpito di riunire in un’unica raccolta,
che sarebbe stata denominata Codex Iustinianus, le costituzioni contenute nei tre codici
Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, integrate dalla successiva legislazione imperiale.
Le costituzioni, entro i titoli dei singoli libri, dovevano essere disposte in ordine
cronologico, con la facoltà di mutare il loro testo, abbreviarlo, eliminare le parti superflue e
le disposizioni cadute in desuetudine. A parte la migliore realizzazione tecnica del primo
programma giustinianeo di codificazione, le sue linee generali ripercorrono quelle del
progetto teodosiano. Quest’identità di prospettive risulta evidente, come ha rivelato un
frammento papiraceo (P. Oxy. 1814) di un indice del primo codice giustinianeo, dalla
conferma della c.d. legge delle citazioni (vd. Mantovani § 18.17, pp. 530 ss.). Il primo
atteggiamento di Giustiniano di fronte alle opere della giurisprudenza ripeteva puramente
e semplicemente quello del suo predecessore Teodosio II. L’imperatore e i suoi
collaboratori non avevano ancora maturato l’idea di una raccolta delle opere dei giuristi
c.d. classici. Il primo codex Iustinianus, pubblicato il 7 aprile del 529 con la costituzione
Summa rei publicae, indirizzata al prefetto del pretorio Mena, entrò in vigore il 16 aprile
dello stesso anno.
2. I DIGESTA
Il 15 dicembre del 530, nella costituzione Deo Auctore, indirizzata al quaestor sacri Palatii
Triboniano, l’imperatore annunciò il suo nuovo e grandioso piano. Triboniano, vero
ispiratore del progetto, potè scegliere personalmente i collaboratori più capaci per
condurre a compimento l’ardua opera delineata, nelle sue linee essenziali, da questa stessa
costituzione. Al Quaestor e ai suoi commissari fu dato l’incarico di riunire in una
compilazione sistematica, divisa in cinquanta libri25, e denominata Digesta (per indicare
che l’ordine seguito nella partizione della materia era quello dei Digesta dei giuristi
Giustiniano, o meglio Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus, nasce nel 482 a Tauresium, un piccolo villaggio
montagnoso della Dardania, nei pressi dell’odierna Skoplje in Macedonia, ai confini con l’Albania.
25 I libri, a loro volta, furono suddivisi in tituli, tranne quelli dal 30° al 32° che costituirono l’unico titolo de
legatis et fideicommissis.
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“classici”), brani tratti dalle opere dei giuristi dotati di ius respondendi26, curando di evitare,
anche attraverso una modifica del loro testo, ripetizioni e contraddizioni. Il progetto fu
realizzato in soli tre anni. Il 16 dicembre 533 una costituzione Tanta / Dedoken annunziava
ad Senatum et omnes populos il compimento dei Digesta, e ne disponeva l’entrata in vigore il
30 dicembre, assieme alle Institutiones (vd. infra). Nella costituzione, Giustiniano
sottolineò, non senza fondamento, l’immensità del lavoro compiuto e attribuì a Triboniano
non soltanto il merito della gubernatio totius operis, ma anche quello d’aver fornito alla
commissione molte opere messe a contributo per la compilazione. L’imperatore dispose
inoltre che un elenco di tutti gli scritti utilizzati fosse premesso al Digesto27. La tecnica
seguita dalla commissione per l’elaborazione del Digesto è stata rivelata dalle ricerche
condotte, attorno al 1820, dal von Bluhme. Questi, partendo da alcuni titoli del Digesto
particolarmente lunghi (D.45.1, D.50.16 e D.50.17), osservò che le opere dei giuristi, dalle
quali sono tratti i frammenti che compongono i singoli titoli, si susseguono secondo un
ordine fisso, meccanicamente osservato in tutta la compilazione, salvo eccezionali
mutamenti giustificati da ragioni attinenti al peculiare ordinamento della materia d’alcuni
titoli. A partire da questa fondamentale osservazione, risultò possibile risalire alla
ripartizione di tutte le opere utilizzate per le Pandette. Il von Bluhme individuò quattro
gruppi, qualificandoli attraverso le opere appartenenti a ciascuno di essi: massa edittale,
sabiniana, papinianea, appendice. L’ultima massa comprende le opere pervenute ai
commissari a lavoro già iniziato; la massa papinianea si definisce così a partire dagli scritti
di Papiniano (Responsa e Quaestiones) che in essa precedono sempre le opere dello stesso
genere d’altri giuristi; le masse sabiniana ed edittale dai commentari, che in esse
rispettivamente prevalgono, ad Sabinum e ad Edictum (vd. Mantovani § 18.5 e § 18.7).
Verificata tale ripartizione del materiale da elaborare per la compilazione, poteva
intravedersi quasi naturalmente un’analoga suddivisione della commissione elaboratrice. I
commissari giustinianei si divisero in tre sottocommissioni, corrispondenti alle tre masse
principali, mentre l’elaborazione delle opere appartenenti all’Appendice, sopraggiunte
successivamente, può essere stata affidata alla sottocommissione papinianea, impegnata
nello spoglio d’una quantità di libri minore rispetto a quella delle altre due masse. L’opera
dei commissari giustinianei dovette svolgersi in una duplice fase: In un primo momento,
essi, in ognuna delle tre separate sottocommissioni, escerpirono dai testi dei giuristi quelle
parti giudicate adatte alla compilazione, la cui trama sistematica, nella sua struttura
essenziale, era già stata fissata, modificando e raccorciando, se del caso, i testi. In una
seconda fase – che si deve tenere concettualmente distinta dalla prima, ma che con la
prima può essere stata anche concomitante – i singoli gruppi di frammenti delle tre masse
furono ordinati assieme nei differenti titoli dei cinquanta libri delle Pandette. Questo
lavoro poteva essere condotto a termine soltanto dall’insieme delle tre sottocommissioni.
Dovevano essere disposti in un’unica trama frammenti appartenenti alle singole masse,
evitando tanto le ripetizioni quanto le contraddizioni. Dal confronto emergeva un criterio
univoco di politica legislativa, in conformità del quale si doveva procedere alla esclusione
o eventualmente alla modificazione dei testi che non corrispondevano ai principii adottati.
L’elaborazione di questi criteri di politica legislativa è attestata dalle constitutiones ad
Questa indicazione fu seguita con una certa libertà, anche perché non esisteva una lista precisa dei giuristi
onorati con questo privilegio (vd. Mantovani § 18.2, pp. 467 ss.). Del resto sono stati utilizzati anche
frammenti escerpiti da opere appartenenti a giuristi d’epoca repubblicana.
27 Questo elenco, pervenutoci assieme al testo della compilazione, nel manoscritto fiorentino delle Pandette
(Littera Florentina conservata nella Biblioteca Laurenziana) è noto con il nome di index Florentinus.
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commodum propositi operis pertinentes di cui una parte è stata inclusa nella nuova edizione
del codex Iustinianus (vd. infra).
3. LE INSTITUTIONES
La grande compilazione delle Pandette era già terminata, quando a Triboniano fu affidato
l’incarico di comporre, con l’aiuto di due professori di diritto, Teofilo di Costantinopoli e
Doroteo di Berito, un piccolo manuale scolastico di Institutiones sive Elementa, per la prima
formazione dei principianti. Il libro seguiva da vicino la trama delle Institutiones gaiane
(vd. Mantovani § 18.6), combinando in un unico contesto il manuale gaiano con brani
escerpiti da opere istituzionali d’altri giuristi (vd. Mantovani § 18.11, pp. 505 s.). Le
Institutiones giustinianee, divise in quattro libri, furono pubblicate il 21 novembre 533 con
la costituzione Imperatoriam maiestatem indirizzata cupidae legum iuventuti (ossia agli
studenti di Costantinopoli e di Berito). Assieme alle Pandette, esse acquistarono valore di
legge il 30 dicembre del medesimo anno.
4. IL CODEX REPETITAE PRAELECTIONIS
La piena realizzazione del grande piano legislativo imponeva, a questo punto, una
revisione del Codex Iustinianus, entrato in vigore quando il disegno della compilazione
delle Pandette non era stato ancora concepito. Dopo la pubblicazione del primo codice (7
aprile 529), era stata emanata una raccolta di Quinquaginta decisiones, cui avevano fatto
seguito le già ricordate constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes. Era dunque
necessario rifondere in una sola raccolta il nuovo materiale legislativo con il codice del 529
e armonizzare le norme in esso contenute con le Pandette e le Istituzioni. Triboniano,
assieme a una commissione composta da Doroteo e da tre avvocati del foro di
Costantinopoli, si assunse quest’incarico. La costituzione Cordi, diretta al Senato di
Costantinopoli, pubblicò solennemente il Novus Iustinianus Codex repetitae praelectionis il 16
novembre del 534, disponendone l’entrata in vigore dal 29 dicembre del medesimo anno.
Il Novus Codex Iustinianus repetitae praelectionis abrogava, dal momento della sua entrata in
vigore, il primo codice giustinianeo, del quale nulla ci è pervenuto, se non un frammento
papiraceo di indice, già ricordato (vd. supra). Il codex repetitae praelectionis, giuntoci, salvo
piccolissime lacune, quasi integro, è diviso in dodici libri, ripartiti, a loro volta, in
numerosi titoli. L’ordine sistematico della materia è quello dell’Editto del pretore.
5. LE NOVELLAE
Con il codex, la realizzazione del piano giustinianeo di riforma poteva considerarsi
completa. Tuttavia, più intensamente fino alla morte di Triboniano (546 d.C.), in ogni caso
fino alla conclusione del regno di Giustiniano (565 d.C.) l’attività legislativa continuò a
esercitarsi in tutti i campi nei quali l’imperatore vedesse l’opportunità di intervenire con
nuove norme. Il nome tecnico di queste nuove disposizioni è, in età bizantina, Novellae
constitutiones. Le raccolte private di novellae pervenuteci sono l’Epitome Iuliani, epitome in
latino di 122 novelle (fino al 555) e l’Authenticum, collezione di 134 novelle (dal 535 al 556),
compiuta in Italia, contenente le novelle emanate in latino nel loro testo originale, e quelle
emanate in greco in una scorretta versione latina. Si deve ricordare, infine, una collezione
di 168 novelle, nel testo originale in cui furono emanate, comprendente, oltre alle novelle
giustinianee, anche alcune costituzioni dei suoi successori, Giustino II e Tiberio II (vd.
Mantovani, Bibliografia pp. 614 – 615).