Prefazione
Aggiornare sistematicamente un libro a più di dieci anni dalla sua
pubblicazione è un’impresa impossibile, non solo per la gran quantità
di lavori apparsi nel frattempo (nel caso di Pasolini innanzitutto l’opera omnia dei “Meridiani” Mondadori, ricca di inediti), ma anche
perché chi scrive è, inevitabilmente, assai cambiato. Mi sono limitato
perciò a richiamare i saggi più significativi per il mio percorso, a riscrivere qualche punto, e soprattutto ad alleggerire in modo sostanziale l’apparato erudito delle note, francamente eccessivo. Dedico
questa seconda edizione alla memoria di Laura Betti. E vorrei farlo
ricordando un episodio legato a questo libro. Quando a suo tempo
ne organizzai una presentazione a Napoli all’Istituto di Studi filosofici, Laura, che era in un momento di grande amore per la mia città
natale (destinato come sempre a spegnersi nei topici litigi) si offrì per
una lettura finale. Scelse non le prevedibili poesie scritte durante la
lavorazione di Medea (troppo legate a Maria Callas), ma un brano di
Orgia, in cui si risente questo stesso mito. Dopo gli ottimi interventi
dei relatori (Jean Michel Gardair, Mario Martone, Guido Paduano),
prese la parola all’improvviso, quasi infastidita dall’attesa, e ottenne
subito, dopo il primo verso, un silenzio totale e raccolto, trasformando una sala di conferenze in un teatro. Capimmo tutti così cosa significa una grande attrice.
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Introduzione
Una Grecia barbarica
Pasolini è entrato da tempo ormai prepotentemente nel canone del
Novecento: lo stanno a dimostrare i dieci volumi dell’opera omnia apparsi nella collana più autorevole di classici in Italia, i “Meridiani”
Mondadori. Il paese che a suo tempo gli ha intentato un sistematico
linciaggio 1, proveniente da destra e purtroppo spesso anche da sinistra, gli ha poi tributato un processo di santificazione quasi altrettanto pericoloso, che a Pasolini stesso non sarebbe piaciuto (nonostante
il suo innegabile narcisismo). Per molto tempo si è pensato che questo successo postumo si dovesse alla crisi della politica, e al mito della preveggenza pasoliniana, secondo cui i suoi scritti giornalistici sarebbero una serie di profezie. Non c’è dubbio che con la sua nostalgia arcaicista, con il suo provocatorio antimodernismo (meno radicale comunque di quanto si creda) 2, Pasolini aveva colto alcuni fenomeni fondamentali della realtà italiana, che sono venuti fuori nella
loro assoluta gravità quasi due decenni dopo (basta ricordare gli articoli sulle stragi e sui Nixon italiani, o la proposta di processare la
classe politica democristiana). Ma le sue posizioni appaiono oggi
troppo apocalittiche e dettate da motivi autobiografici: in Italia in
realtà non c’è stato quel genocidio delle culture locali da lui tanto
deprecato, ma una ibridazione complessa ancora tutta da indagare.
Come scrive il curatore dell’edizione dei Meridiani, Walter Siti, quello che oggi resta di più di lui non sono singoli capolavori, ma proprio
il magma di un’opera intrinsecamente incompiuta, composta in gran
parte di progetti, e che contamina di continuo fra di loro i linguaggi,
come avviene nel romanzo postumo Petrolio, che avrebbe dovuto affiancare alla narrazione anche immagini, filmati, interviste, testimonianze orali 3; un’opera che propugna una visione performativa della
letteratura, come azione diretta sulla realtà, come esibizione del proprio corpo e del proprio vissuto 4. Su questi punti c’è ancora molto
da lavorare per la ricerca critica, che non a caso sembra fiorire quasi
più all’estero, in particolare negli Stati Uniti, dove trova una certa
11
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
consonanza con le tendenze poststrutturaliste (cultural studies, gay criticism, post-colonial studies); una fortuna che può stupire, ma che si
può spiegare con alcuni tratti del mondo pasoliniano: il suo provocatorio eclettismo, il suo interesse profondo anche se contraddittorio
per il Terzo Mondo, il suo vivere in modo tormentato e forzatamente
pubblico la propria omosessualità 5.
Pochi artisti si sono espressi in una gamma così ampia di linguaggi come Pasolini: dalla poesia al teatro, dal romanzo al film, dalla sceneggiatura alla pittura, affiancandovi inoltre un’intensa e peculiarissima attività critica e teorica. In questa poliedricità quasi ossessiva si
possono riconoscere alcuni tratti di poetica: la tendenza alla contaminazione, al pastiche, alla citazione, all’ibridazione stilistica fra alto e
basso; tutti elementi che richiamano le teorie di Bachtin sul mondo
carnevalesco 6, e che possono spiegare, come accennavo prima, un
certo successo critico di Pasolini oggi, in un momento in cui, abbandonate le ricerche immanentistiche sui testi “chiusi”, si privilegiano
per l’appunto le intersezioni e le contaminazioni fra i linguaggi. Una
delle sue ultime opere, La Divina Mimesis, era pensata ad esempio
proprio come un palinsesto letterario e figurativo, secondo quella
stessa metafora che fa da titolo al saggio più organico sulla letteratura
di secondo grado, Palimpsestes di Genette appunto: un’opera in progress, a strati successivi, che mirava ad avere «insieme la forma magmatica e la forma progressiva della realtà (che non cancella nulla, che
fa coesistere il passato con il presente)» 7. L’eclettismo svela comunque un tratto più profondo: il desiderio edipico di violare i codici, di
infrangere le distinzioni, con una carica vitale che ricorda le avanguardie storiche tanto amate da Pasolini 8 (mentre non amava, come
è noto, le avanguardie tecnologiche degli anni sessanta) 9.
Il passare da un linguaggio all’altro non esclude affatto la presenza di alcune costanti tematiche, che ricoprono spesso tutto l’arco della sua attività multiforme: potremmo dire, per usare una parola cara a
Pasolini, di alcune “ossessioni”. Che il mito antico e la tragedia greca
appartengano a queste ossessioni non c’è nemmeno bisogno di comprovarlo: basta ricordare che le opere direttamente ispirate dalla grecità ricoprono tutto il decennio più fecondo di Pasolini, dal 1960,
anno in cui appare la traduzione dell’Orestea di Eschilo, al 1970,
anno in cui esce il film Medea (tenendo conto degli inediti e delle
opere incompiute l’arco si allarga in entrambi i sensi: le traduzioni
giovanili di tragedie greche e quella in friulano di Saffo, qui pubblicata in Appendice, prima del 1960; dopo il 1970 Petrolio, che avrebbe
dovuto contenere delle strane Argonautiche).
12
INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
Fra le Poesie mondane incluse nella raccolta Poesia in forma di
rosa compare uno dei brani pasoliniani più citati e anche autocitati
(sulle colonne di “Vie Nuove” e poi nella Ricotta per bocca del regista impersonato da Orson Welles) 10:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Tutta l’opera pasoliniana si può facilmente schematizzare (come difatti è stato fatto più volte) in una serie di opposizioni binarie (una
forma che Pasolini stesso amava molto, fin dai tempi della Scoperta di
Marx nell’Usignolo della chiesa cattolica, mentre rifiutò sempre ogni
forma di sintesi hegeliana, soprattutto negli ultimi anni). È una serie
di poli che ruota intorno a un’opposizione primaria, biografica: quella
cioè tra il mondo (amato) della madre, e il mondo (odiato) del padre.
Il Passato esaltato in questi versi si può allineare quindi sull’asse materno assieme al mito, al Friuli contadino, al sottoproletariato urbano,
al Terzo Mondo, e in genere a tutta la sfera emotiva, viscerale, corporea, prerazionale e prelinguistica; mentre sull’asse paterno si possono
allineare il presente neocapitalistico, l’illuminismo, la borghesia, la civiltà industriale. Da un lato il mondo di Edipo e degli oppressi, oggetto primario del suo eros, e dall’altro il mondo oppressivo di Laio,
contro il quale Pasolini si comportò fino alla morte come «sfidatore e
lottatore» (così secondo le parole con cui Gianfranco Contini concluse una toccante testimonianza umana) 11; l’opposizione si riverbera
anche in ambito religioso, fra il Cristo umano e diverso e il Dio autoritario e oppressivo 12. Ho detto per l’appunto “schematizzare”: sarebbe infatti assolutamente riduttivo contrapporre il polo positivo
della maternità e quello negativo della paternità in una sorta di visione manichea. Come sostiene da lungo tempo Francesco Orlando, il
testo letterario (e direi senz’altro ogni testo artistico) è una sede privilegiata in cui si fondono continuamente istanze contraddittorie, in cui
interagiscono sempre forze della repressione e forze del represso, entrambe con pieno statuto semiotico 13. Ciò è particolarmente vero in
un artista che ha elevato la contraddizione a cifra idiosincratica, rivendicandone il diritto contro ogni dogma ideologico; basta rileggere
i famosi versi delle Ceneri di Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi,
dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te
13
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
nelle buie viscere» (IV). È sin troppo ovvio che le «buie viscere» sono
una figura della maternità (la ritroveremo a proposito di Atena, dea
della ragione nata senza madre) 14, come è altrettanto ovvio che il
«cuore» e la «luce» ottengono un pari rilievo 15. In tutta l’opera pasoliniana, soprattutto nell’ultima fase, la paternità gioca un ruolo complesso, assai variegato, per nulla riducibile all’oggetto di una libido
parricida 16; per quanto riguarda l’aspetto della ragione, Pasolini non
abbandonò mai i modelli di lettura razionale del mondo appresi dalla
psicoanalisi freudiana e dal marxismo, anche nei periodi più “regressivi”, anche quando inseguiva le religioni misteriche, le alchimie junghiane 17; una simile ambivalenza la si ritrova anche nei confronti dell’origine borghese e perfino della tanto odiata civiltà industriale. È insomma una continua polarità fra corpo e storia, fra caos e istituzioni,
fra carne e potere, per usare una serie di termini pasoliniani (forse la
poesia che la esprime con più forza è Il glicine). Una polarità che
viene radicalizzata e quasi rovesciata in un appunto di Petrolio, dal
titolo allitterante e provocatorio Il fascino del fascismo (Appunto 67),
in cui l’attaccamento al Passato, la stabilità delle Istituzioni e del Potere sono letti come un mistero irrazionale ineludibile, espresso nella
forma più rozza ed elementare dal fascismo (un tratto già rappresentato da Elettra nel Pilade), ideologia dei potenti così come la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti e delle vittime, che però
può sempre trasformarsi in potere oppressivo. È il Pasolini cupo e
negativo di Porcile e soprattutto di Salò, che vede in ogni forma di
società una violenza perversa (la «santità del nulla») 18.
Questo discorso ci porterebbe comunque molto lontano: per ora
basta anticipare che una polarità di questo genere anima anche il rapporto con il mondo greco, che oscilla tra una lettura viscerale e barbarica (senz’altro dominante) e una lettura ideologica e didascalica:
due poli che corrispondono grosso modo ai due media con cui Pasolini ha riscritto i modelli greci, il cinema e il teatro.
Il primo approccio di Pasolini al dramma greco (la traduzione
dell’Orestea) coincide più o meno con un momento capitale del suo
itinerario creativo: la conversione al cinema 19. Si tratta di una coincidenza fortuita (la traduzione gli fu commissionata da Vittorio Gassman per uno spettacolo a Siracusa), ma possiamo attribuirvi comunque un valore quasi simbolico: nel cinema Pasolini trovò infatti la sua
idea di linguaggio del mito e del sacro. Il passaggio all’attività di regista cinematografico suscitò comunque svariate critiche: rappresentò
infatti un momento di rottura con il purismo umanistico della società
letteraria italiana 20. È comunque interessante interpretare questo passaggio alla luce di quanto ha dimostrato Walter Siti: il Pasolini poeta
14
INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
abbandona il suo espressionismo congenito proprio nel momento in
cui passa al cinema (cioè mentre scrive la Religione del mio tempo),
che dell’espressionismo rappresenta per lui una forma esasperata, una
violenza più diretta al reale 21. Su questo tema esiste un’interessante
dichiarazione d’autore: nel Poeta delle ceneri, una sorta di autointervista in versi 22, Pasolini risponde alla domanda inevitabile «Perché
sono passato dalla letteratura al cinema» elencando prima una serie
di risposte parziali e insufficienti – cambiare tecnica per dire la stessa
cosa, o usare una nuova tecnica per dire cose nuove, «secondo le varianti dell’ossessione» – e aggiunge poi di aver capito solo in seguito
che si trattava non di una semplice tecnica letteraria, ma di un’altra
lingua:
E allora dissi le ragioni oscure
che presiedettero alla mia scelta:
quante volte rabbiosamente e avventatamente
avevo detto di voler rinunciare alla mia cittadinanza italiana!
Ebbene, abbandonando la lingua italiana, e con essa,
un po’ alla volta, la letteratura,
io rinunciavo alla mia nazionalità.
Dicevo no alle mie origini piccolo borghesi,
voltavo le spalle a tutto ciò che fa italiano,
protestavo ingenuamente, inscenando un’abiura
che, nel momento di umiliarmi e castrarmi,
mi esaltava. Ma non ero del tutto
sincero, ancora.
Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica,
ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica.
Viene ripercorso dunque un crescendo di motivazioni, da quella semplicemente tecnica a quella più astrattamente epistemologica. E sono
tutte motivazioni concomitanti, che corrispondono a diverse fasi e a
diverse componenti dell’universo pasoliniano. Non c’è dubbio che all’inizio il cinema fu soprattutto un mezzo per trascrivere con una tecnica nuova il mondo dei romanzi romani, anche se certo Accattone è
meno edificante di Una vita violenta ed è più vicino a Ragazzi di
vita 23. Subentra poi l’insoddisfazione per la realtà italiana degli anni
sessanta e per la sua modernizzazione selvaggia: il cinema è infatti
un’arte transnazionale, che gli permette di rivolgersi a un pubblico
più ampio. Forse la motivazione più significativa di questo rifiuto dell’italianità la si può leggere in un articolo scritto per “Paese sera”
dell’8 luglio del 1974 e poi ripubblicato negli Scritti corsari con il titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino; all’ac15
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
cusa di rimpiangere l’«Italietta» lanciatagli da Maurizio Ferrara e anche dall’amico Calvino, Pasolini risponde che l’Italietta piccolo borghese, fascista e democristiana, ignorante e volgare, è il paese di gendarmi che lo ha perseguitato per due decenni; oggetto del suo rimpianto è invece il mondo contadino estraneo all’idea di nazione: «è
questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla
dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo, dove esso
sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando
nell’orbita del cosiddetto Sviluppo)» 24. Il cinema rappresentò appunto un modo per evadere dall’Italia ormai «irriconoscibile» e per ritrovare il suo mondo contadino perduto nei paesi del Terzo Mondo,
soprattutto nell’Africa vissuta come «unica alternativa».
Esiste comunque una motivazione meno contingente, espressa da
una serie di scritti teorici che vedono nel cinema, con ingenua provocazione, «la lingua scritta della Realtà». Con l’espressionismo poetico
prima, e con l’uso del dialetto romanesco nei romanzi poi, Pasolini
aveva cercato di liberarsi dalla prigione simbolica del linguaggio verbale, dalla sua asfittica convenzionalità, per cercare quella «fisicità»
che Contini già nel 1954 individuava come una sua tendenza peculiare 25. Nell’esperienza del cinema confluisce quindi la ricerca dell’immediato, del primitivo, del primigenio, che corrisponde, a livello psichico, alla nostalgia della simbiosi con il corpo della madre 26: gli
sembra di raggiungere così un rapporto ancora più autentico con il
reale. Bisogna comunque chiarire cosa si intende per reale e cosa si
intende per rapporto autentico. «Il mondo non sembra essere, per
me, che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto
totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto
venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose» 27. La
realtà è dunque per Pasolini qualcosa di sacro, di ontologicamente
poetico, che in quanto tale gli suscita un desiderio di possesso totale;
ma nello stesso tempo è anche la realtà che lo ha escluso in quanto
omosessuale: la violazione dei codici di questa realtà non è quindi
che un’affermazione della propria diversità (o una maniera per esorcizzarla) 28. Il cinema offre la possibilità preziosa di rispondere a queste due esigenze solo apparentemente contraddittorie: grazie alla sua
immediatezza, alla sua corporeità, alla sua transnazionalità, permette
un possesso del reale nel suo carattere di infinito; essendo poi un’arte
giovane e poco codificata, concede una libertà stilistica quasi assoluta:
dà l’illusione di andare oltre i codici.
Per Pasolini il cinema è un’arte irregolare, onirica, barbarica, pregrammaticale, corporea: insomma un’arte in cui si esprime al massi16
INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
mo grado la sua tendenza regressiva verso lo stadio infantile, prima
del complesso di Edipo, cioè prima dell’«obbligo di conoscere», verso un eden «fuori dalla storia, / in un mondo che non ha altri varchi / che verso il sesso e il cuore / altra profondità che nei sensi» (La
ricchezza, in La religione del mio tempo, 5.2). Un mondo che non può
che avere i caratteri del sogno (un Leitmotiv del cinema pasoliniano
da Accattone al finale del Decameron: «perché realizzare un’opera
quando è così bello sognarla soltanto?»); basta ricordare l’apostrofe
finale di Al sole: «Tu splendi sopra un sogno, / buio sole: chi vuole
non sapere, / vuole sognare...» (aprile 1960). Dopo la crisi dell’impegno marxista, nel cinema trova dunque espressione una sfiducia crescente nei poteri della comunicazione verbale, e una passione altrettanto crescente per i linguaggi non verbali, per il gesto, per il rito,
unita alla vecchia «folgorazione figurativa» che risaliva agli anni universitari e alle lezioni di Roberto Longhi (così nella nota dedica di
Mamma Roma).
Questo vale per il cinema tout court, inteso come una sorta di
continuum esistenziale su cui i singoli film costruiscono le loro strutturazioni: anche il film più tradizionale conserva sempre secondo Pasolini dentro di sé, latente, un «mostro ipnotico», uno strato di immaginario puro 29. Ma vale ovviamente di più per un tipo di cinema
che si liberi dalla convenzionalità narrativa; in proposito Pasolini cita
spesso una serie di classici: Dreyer, Mizogouchi, Chaplin, Rossellini,
su cui modella uno stile di ripresa tutto peculiare. Uno stile che si
distanzia sia dalla grande stagione neorealistica (il piano sequenza gli
appare, ad esempio, troppo naturalistico: quasi un rincorrere la realtà
nel suo evolversi), sia dal maestro del cinema postneorealista, da Fellini, considerato troppo artificioso, sia infine dalla ricerca di Antonioni e della nouvelle vague, codificata come «cinema di poesia» e con
cui i contatti erano certo consistenti, ma che in ultima analisi gli sembrava un nuovo codice della trasgressione 30. A tutto ciò contrapponeva un cinema apertamente primitivo e povero, basato sulla fissità
ieratica dei primi piani, sull’impianto figurativo delle inquadrature
frontali, sull’uso insistito di campi e controcampi, sull’assenza di movimenti di quinta, sulle lunghe panoramiche, sul procedere per frammenti, sul predominio di immagini semisoggettive (la «soggettiva libera indiretta») e soprattutto – come novità più dirompenti, anche se
ereditate dal neorealismo – sull’uso di attori non professionisti e sul
rifiuto della ricostruzione nel set (tranne ovviamente eccezioni motivate), in favore della ripresa in luoghi esotici. Un cinema che oscilla
quindi fra una tendenza onirica – talvolta più programmatica che reale 31 – e una tendenza documentaria («un film o è un sogno o è un
17
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
documento», secondo la suggestiva espressione di Ingmar Bergman):
tra il recupero di una visione arcaica e la fascinazione feticistica dei
corpi e dei luoghi, o, meglio, del corpo come luogo di passione,
come fondamento di una nuova estetica 32. L’arte più tecnologica doveva servire dunque all’espressione del mito e del sacro 33.
Proprio un cinema così inteso era la forma più adatta per una
rilettura della tragedia greca. Una rilettura fortemente innovativa rispetto alle trasposizioni sullo schermo del teatro non solo greco, dominate in genere da verbosità e da letterarietà (come i pur apprezzabili film di Cacoyannis, o l’Oedipus the King di Philippe Saville uscito
nello stesso anno dell’Edipo re) 34, mentre i film pasoliniani sono prevalentemente visivi e assolutamente antiletterari. O meglio: sviluppano una drammaturgia originale, che riscrive liberamente quella dei
modelli greci e in cui la parola non gioca un ruolo dominante, ma
coopera con tutti gli altri codici: suono, immagine, gesto, musica, costumi. Ed è una rilettura fortemente innovativa anche rispetto ai cliché classicistici che dominavano ancora la cultura italiana degli anni
sessanta. Il titolo di questa Introduzione è certo un ossimoro, che sarebbe risultato incomprensibile a un greco della classicità, per il quale tutto ciò che non era greco era automaticamente barbaro (una parola che suggeriva per onomatopea il balbettio di lingue incomprensibili). Ma la Grecia secondo Pasolini è una Grecia barbarica perché
rifiuta ogni idealizzazione neoclassica: ogni immagine di olimpica
freddezza e di equilibrio razionale. Una visione barbarica dell’antico
si era già propagata nella cultura europea grazie all’influsso di Nietzsche (basta pensare alle letture dionisiache di Hofmannsthal-Strauss e
di Hauptmann); più però che a questo filone, Pasolini si ispira invece
apertamente a due scienze che frequentò molto, e che presero sempre
più il posto di Marx (mai comunque rinnegato): l’antropologia e la
psicoanalisi; oggi che l’interpretazione antropologica del mondo antico è diventata in Italia quasi una moda lo si potrebbe considerare un
precursore anche da questo punto di vista. Va comunque chiarito che
negli anni sessanta la ricerca scientifica sull’antichità non era certo
tutta arenata ai miti classicistici di una Grecia sede dell’armonia universale; soprattutto fuori dell’Italia c’erano stati contributi decisivi:
basta fare un nome per tutti, il nome di uno dei migliori interpreti
del mondo greco, Eric Robertson Dodds, che nel suo saggio I Greci e
l’irrazionale aveva dissipato ogni incrostazione winckelmanniana, con
il richiamo alle due categorie antropologiche della civiltà di vergogna
e della civiltà di colpa, e con lo studio sistematico dei fenomeni di
trance emotiva che sfuggivano al controllo della razionalità 35.
18
INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
Non è il caso però di andare troppo in cerca delle fonti erudite
alla base delle riletture pasoliniane, che sono e restano riletture creative, testi artistici e non saggi scientifici. Testi di secondo grado, che
stabiliscono con il dramma greco e con il mito che gli sta alle spalle
un dialogo complesso. Come è noto, questo tipo di dialogo attraversa
tutta la storia della cultura occidentale, e conosce nel Novecento una
stagione particolarmente florida, soprattutto nei primi anni del secolo
grazie all’influsso diretto di Freud e di Frazer: a Vienna Hugo von
Hofmannsthal, a Parigi i due rivali Jean Cocteau e André Gide, in
America Eugene O’Neill, in Italia Alberto Savinio, ci presentano un
fiorire di drammi e di opere che riscrivono le storie di Edipo, Medea,
Elettra, Alcesti, spaziando dai registri violentemente tragici ed espressionistici al puro grottesco. Ma è una tendenza viva anche nella seconda metà del secolo, soprattutto in questi ultimi anni dominati dalle riscritture postmoderne che coinvolgono tutti i generi artistici, dal
romanzo (Everett, Bauchau) all’opera lirica (Rihm, Guarnieri). Pier
Paolo Pasolini è senza dubbio una delle voci più significative del macrotesto formato da tutte le riscritture novecentesche del dramma
greco 36; ed è per questo motivo che analizzeremo spesso i suoi film
greci su questo sfondo, in genere assai trascurato dalla critica pasoliniana (perlopiù una critica militante legata all’uscita dei film), oltre
che, ovviamente, sullo sfondo della sua opera complessiva e del cinema di ricerca. Si scoprono così talvolta delle connessioni impreviste,
come succede nelle ricerche che esplorano le intersezioni fra letterature e arti diverse: il caso più eclatante è la consonanza fra il film
Edipo re e un dramma di Hofmannsthal, l’Edipo e la Sfinge, che non
gli era noto (Pasolini lavorava direttamente sui testi antichi e sui dizionari mitologici). In casi come questi si ha l’impressione che il sistema letterario viva di una vita autonoma, al di là delle intenzioni
d’autore, e imponga quindi un approccio che superi la prospettiva
angusta dello studio delle fonti.
Pasolini enunciava con passione la propria poetica barbarica: «La
parola barbarie – lo confesso – è la parola al mondo che amo di
più» 37. C’è senz’altro un sostrato romantico e decadente in questa
esaltazione della barbarie, lo stesso sostrato che determina l’illusione
di possedere la realtà al di là dei codici grazie al mezzo cinematografico. Oltre all’amato Rimbaud, gioca un ruolo incisivo la figura di
Pascoli, con la sua regressione ossessiva verso lo stadio infantile 38, e
anche il vitalismo di D’Annunzio, poeta invece tanto detestato 39. Ma
si tratta per l’appunto di un sostrato, ampiamente rielaborato in una
chiave per nulla decadente e per nulla irrazionalistica. Pasolini non
giunge mai alla celebrazione anarcoide di un desiderio illimitato, di
19
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
una visceralità senza freni, ma è attratto piuttosto da tutto ciò che
rientra, per citare un famoso titolo di Freud, nel «disagio della civiltà» (e non c’è dubbio che è il Freud pessimista ad affascinarlo di
più) 40. I valori della razionalità e della storia non sono mai abbandonati del tutto; ma, a partire da Le ceneri di Gramsci e ancor più, da
Uccellacci e uccellini, geniale apologo sulla crisi dell’ideologia, il suo
interesse si concentra sempre più su tutto ciò che si pone al di fuori
di questi valori: sul sogno, sul mito, sul sacro, sull’eros fuori dalle
norme («anomico»). La sua identificazione poetica si orienta perciò
verso gli elementi regressivi che negano il principio di realtà, che rifiutano il contratto sociale, che si pongono fuori dalla temporalità lineare del progresso: e sono fenomeni che la letteratura e l’arte hanno
sempre privilegiato. Ma è un’identificazione controllata: gli elementi
“barbarici” vanno sempre e comunque integrati nella dinamica sociale, secondo una metafora-guida tratta da Eschilo, la trasformazione
delle Erinni in Eumenidi, vista come sublimazione della furia ossessiva. Il nemico per eccellenza è il razionalismo esasperato della società
neocapitalista, che si illude di poter rimuovere per sempre questi fenomeni imprescindibili dell’esperienza umana.
La stessa metafora è utilizzata comunque anche per la critica al
marxismo ortodosso: nei dialoghi con i lettori del settimanale comunista “Vie nuove” Pasolini cita appunto l’Orestea in una risposta su
Pasternak per sottolineare come la Russia abbia conosciuto l’intervento razionale di Atena, ma non abbia ancora trasformato le Erinni,
non abbia cioè ancora sublimato l’elemento irrazionale; in una risposta successiva tornerà sul tema per chiarire che l’irrazionalità non
equivale semplicemente all’elemento religioso, ma è una dimensione
base dell’esistenza umana (questi temi proromperanno poi nella polemica con la sinistra non solo italiana sul Vangelo secondo Matteo). Bisogna infatti ricordare che la cerchia di intellettuali di cui Pasolini era
un protagonista attivo (Moravia ma assai più Elsa Morante, per fare
solo due nomi assai famosi e a lui legati da amicizia profonda) ha
svolto un ruolo di continuo stimolo e di provocazione rispetto ai dogmi del marxismo ufficiale: basta pensare alla recensione di Pasolini al
Mondo salvato dai ragazzini, considerato un possibile manifesto della
nuova sinistra 41. Questo tipo di rapporto con l’«irrazionale» viene
splendidamente evocato nella Lettera aperta a Silvana Mangano, apparsa sulla rubrica “Caos” del 1968, servendosi di una metafora greca, Dioniso e le Baccanti, un mito alla base del film Teorema dello
stesso anno 42: chi ha conosciuto la grazia, la dolcezza, ma anche l’orrore e la violenza di questo dio della libertà e del mutamento non
può che vivere isolato, rifiutando il buon senso della maggioranza,
20
INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
cioè, citando Morante, degli Infelici Molti, chiuso o nella nevrotica
rinuncia (così Silvana Mangano) o nel nevrotico impegno (così Pasolini).
Le tematiche della barbarie creano un filo rosso tra le varie opere
ispirate dalla tragedia greca. Edipo re rappresenta tutta la potenza del
desiderio parricida e incestuoso, e quindi tutta la tragicità dell’«obbligo di conoscere», cioè del patto sociale che istituisce i tabù; Edipo
passa dalla fisicità di barbaro e di sottoproletario (cioè dallo stadio
libidinale preedipico) alla sublimazione nella poesia, mentre Giocasta
incarna ancor più l’eros scandaloso, la sensualità pura che non vuole
sapere (qui si sente qualche suggestione nietzschiana, poiché per
Nietzsche Edipo dimostra che la saggezza è un peccato contro natura). Con Medea si passa dal piano ontogenetico della persona al piano filogenetico della storia culturale: il film esalta il mondo arcaico
come un mondo dotato di una sua diversa temporalità, di un suo
pensiero peculiare; un mondo che viene violato dall’aggressione colonialista di Giasone, dettata da un cinico pragmatismo. Per opera di
un violento eros fisico Medea perde così il legame profondo con il
suo ambiente magico: come in Teorema, il sesso è il sostituto della
sacralità. Questa problematica colonialista costituisce ancor più il
centro degli Appunti per un’Orestiade africana, film-documentario di
enorme fascino visivo.
A una tematica barbarica corrisponde un’ambientazione barbarica, con piena solidarietà tra forma dell’espressione e forma del contenuto. I film di Pasolini sono quanto di più lontano si possa immaginare dalla ricostruzione archeologica (che, nel caso di soggetti antichi,
scade quasi inevitabilmente nel kitsch): alla solarità accecante del Marocco (dove è girata la parte mitica dell’Edipo re), alle architetture
arcaiche in pietra della Cappadocia (la Colchide di Medea), ai bastioni di una città siriaca, Alep (Corinto in Medea, contaminata con la
piazza dei Miracoli di Pisa), sono associati costumi in cui si incrociano svariate culture arcaiche, e musiche provenienti per lo più da aree
non occidentali (africane, tibetane, giapponesi, rumene); mentre a più
riprese vengono raffigurati riti, feste, danze, e altri momenti sociali
arcaici (matrimoni, funerali) grazie all’andamento quasi picaresco che
assume talvolta il racconto nelle parti indipendenti dal dramma greco, cioè negli antefatti (soprattutto quello di Edipo re); d’altronde il
cosiddetto cronotopo del viaggio gioca un ruolo vitale in tutta l’opera
pasoliniana: in Uccellacci e uccellini, nella Terra vista dalla luna sempre con Totò, nella Trilogia della vita. Quest’uso di elementi africani
e orientali si ritrova anche in alcune messinscene del dramma antico
di quegli stessi anni (non note comunque a Pasolini), ad esempio nel21
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
la rielaborazione dell’Edipo re di Heiner Müller rappresentata a Berlino Est nello stesso anno in cui uscì il film pasoliniano (1967, Deutsches Theater), con la regia dell’allievo di Brecht Benno Besson (si
possono ricordare anche gli strumenti africani usati nell’Antigonae e
nell’Oedipus der Tyrann di Carl Orff) 43; mentre questi e altri esperimenti teatrali miravano a produrre un senso di fredda ritualità e di
straniamento, la barbarie del cinema di Pasolini richiede coinvolgimento emotivo, e non disdegna la contaminazione con il presente.
Sono dunque ambientazioni che mirano a creare un effetto di lontananza cronologica, sfruttando innanzitutto il potenziale cromatico
del cinema; in un’intervista ad Alberto Arbasino Pasolini dichiarò infatti, a proposito del Marocco: «certi rosa e verdi stupendi; berberi
quasi bianchi, però “alieni”, remoti, come doveva essere il mito di
Edipo per i Greci: non contemporaneo, fantastico...» 44. Ciò significa
andare alle radici del teatro greco, verso quel livello del “prima della
storia” che lo ha sempre affascinato fino all’ossessione: amava infatti
ripetere, con senso del paradosso, che il mondo sottoproletario viveva
ancora nell’antica preistoria, mentre la borghesia neocapitalistica si
avviava invece verso un’atroce Nuova Preistoria.
L’ossessione della preistoria si incrocia di continuo con un’altra
ossessione che attraversa tutta l’opera pasoliniana: il Terzo Mondo;
prima mito decadente, poi modello politico da contrapporre al neocapitalismo, infine – quando anche i paesi socialisti dell’Africa si avviarono verso la modernizzazione e verso il consumo – memoria utopica da preservare con disperata nostalgia, in una prospettiva quasi
preecologista 45.
Con le armi della contaminazione e del pastiche Pasolini vuole
dunque ricreare il linguaggio atemporale del mito, un linguaggio primario in cui si inscrive quella civiltà contadina «illimitata» e «transnazionale» oggetto del suo amore più antico. Questo rapporto tra il
mito greco e il mondo contadino ruota principalmente intorno al
concetto di ciclicità; come vedremo meglio, sia Edipo re che Medea
(in parte anche Affabulazione) sono caratterizzati da un forte senso
ciclico: «la vita finisce dove comincia» suona l’ultima battuta pronunciata da Edipo (le letture dell’Orestea risentono invece ancora di
un’idea lineare del tempo, proiettata verso un’utopia). Negli Scritti
corsari Pasolini teorizza più volte la ciclicità del mondo contadino,
che ha assorbito e vanificato la novità del pensiero cristiano, di per
sé «unilineare» e non ciclico; così scrive, ad esempio, in un articolo
del 6 ottobre 1974: «Nell’universo contadino Cristo è stato assimilato
a uno dei mille adoni o delle mille proserpine esistenti: i quali ignoravano il tempo reale, cioè la storia. Il tempo degli dèi agricoli simili
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INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
a Cristo era un tempo “sacro” o “liturgico” di cui valeva la ciclicità,
l’eterno ritorno». Sono concezioni ispirate soprattutto da Mircea
Eliade, oltre che ovviamente, a monte, dal Ramo d’oro di Frazer; di
Eliade viene spesso citato il saggio sull’eterno ritorno, mentre il suo
Trattato di storia delle religioni è stato una fonte primaria della Medea. Pasolini ne parla nella sua rubrica “Il caos” in un pezzo intitolato I problemi della Chiesa, per sottolineare come per dodici millenni
la storia e la religione umana siano state dominate dai ritmi ciclici
della civiltà agricola, che si basano sul continuo alternarsi di principio e fine, morte e resurrezione, alba e tramonto; una lezione che
deriva dalla pratica della seminagione e che gli appare ora del tutto
annientata dal neocapitalismo 46. L’opera di Eliade è ricordata in un
altro pezzo assai suggestivo, a proposito del proprio sognare versi e
del «terreno comune al mondo del sogno» – che non conosce «il
principio di non contraddizione e gli altri principi aristotelici» – e
allo stato della veglia; un mondo «dionisiaco» che non può essere separato e accantonato così facilmente come fa la cultura laica. Ancora
una volta dunque il riferimento al mito greco e alla metafora dionisiaca, sempre mediati dalla cultura psicoanalitica, è un monito contro
gli eccessi del razionalismo, non un’evasione escapistica 47. Non a
caso si distaccherà alla fine anche dalla lezione di Eliade, criticando –
in una recensione a Mito e realtà apparsa un anno prima della morte,
nel 1974 – l’uso un po’ reazionario del mito fatto dal grande storico
delle religioni, lasciando comunque intatto il valore conoscitivo dell’etnologia e dell’antropologia, così poco frequentate dai «colleghi
letterati» 48.
Quest’immagine prerazionale, barbarica, atemporale (o meglio ciclica) della Grecia non è comunque l’unica che ci trasmetta Pasolini.
Nello stesso periodo in cui concepisce la prima trasposizione cinematografica del più celebre dramma greco (l’Edipo re è del 1967), si
dedica anche alla stesura di sei tragedie, accompagnate da uno scritto programmatico, il Manifesto per un nuovo teatro (1968). Pasolini
stesso ha raccontato la genesi atipica di queste opere teatrali: nel
1966, costretto a restare a letto per due mesi di fila da una violenta
ulcera, ne compose di getto la prima versione, stimolato fra l’altro
dalla lettura dei dialoghi di Platone. Una lettura che ha certo lasciato
la sua impronta su questi testi dal chiaro impianto ideologico: le tesi
mai perentorie si costruiscono per gradi, nell’interazione dei dialoghi.
Il teatro di Pasolini è infatti un teatro di parola, che si scaglia tanto
contro l’accademismo vuoto della scena tradizionale quanto contro
l’avanguardia dell’“Urlo e del Gesto”. Il modello di questo “Nuovo
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LA GRECIA SECONDO PASOLINI
Teatro” è proprio il teatro greco, imitato non solo nella struttura a
episodi, ma anche e soprattutto nell’idea base di rito sociale, di assemblea civile 49. Rifiutando quasi del tutto gli altri codici della comunicazione teatrale (gesto, musica, scene, luci ecc.), Pasolini assegna quindi alla parola un ruolo centrale, e ne sottolinea le peculiarità
in termini che verranno sviluppati anni dopo dalla semiologia del
teatro. Come viene affermato proprio dall’ombra di Sofocle in un
passo metalinguistico di Affabulazione (dove ovviamente il nucleo
teorico si affianca alle consuete mitologie poetiche), la parola teatrale
è sempre orientata alla recitazione, e vive dunque di una doppia
vita:
Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata. E perché?
perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata come le parole
che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato – come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita:
le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello.
Grazie a questa ideologia della parola il teatro diventa uno dei luoghi
privilegiati in cui si concretizza quell’ossessione pedagogica messa
chiaramente in luce da Enzo Golino nel suo saggio del 1985 Pasolini:
il sogno di una cosa (una pedagogia che, sulla scia di Platone, è sempre tinta di eros, come è chiaro soprattutto in Atti impuri) 50. Non a
caso si ritrovano nelle tragedie pasoliniane tutti i temi affrontati durante gli stessi anni sessanta nei dialoghi con i lettori sulle colonne di
“Vie Nuove” e del “Tempo”, e che culmineranno poi negli Scritti
corsari: la mutazione antropologica determinata dal potere consumista, la Nuova Preistoria neocapitalistica, l’omologazione di massa e la
morte della civiltà contadina. Ovviamente non sono enunciati direttamente, ma trasfigurati nella finzione drammatica, affiancati ad altre
tematiche come l’eros, la sessualità, la diversità, il sogno, e soprattutto il rapporto padre/figlio. Il Pasolini polemista si scopre infatti, quasi con stupore, nel ruolo insolito di padre, in quel ruolo che era stato
l’oggetto della sua aggressione demistificatoria e che aveva rifiutato
anche nell’articolo con cui aveva inaugurato la ripresa dei suoi dialoghi su “Vie Nuove” e che ribadirà ancora sulle colonne del “Tempo”
a proposito del Movimento studentesco 51. È interessante notare
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INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
come questa difficile presa di coscienza di un ruolo paterno sia stata
descritta una volta con un richiamo diretto alla tragedia greca, nell’incipit delle Lettere luterane, quindi dell’opera apparsa postuma dove
l’ossessione pedagogica giunge al culmine 52. Pasolini racconta infatti
di aver sempre considerato il tema della «predestinazione dei figli a
pagare le colpe dei padri» uno degli aspetti più misteriosi e lontani
della tragedia greca (è in realtà un tema essenzialmente eschileo), ma
di aver poi realizzato la propria ormai inesorabile appartenenza alla
generazione dei padri: «Per la prima volta in vita mia, riesco così a
liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce
come naturale la “punizione dei figli”». Al tema della paternità e dell’innocenza/colpevolezza dei figli è dedicata infatti una delle due tragedie direttamente legate al mito classico, Affabulazione. E anche
questo nucleo portante dell’opera e del vissuto di Pasolini trova in
Petrolio un’espressione esasperata: nell’Appunto 67 citato sopra, il
rapporto padre/figlio e la dinamica della storia sono visti come un
mistero inafferrabile, inafferrabile proprio perché l’esperienza corporea ha una primarietà assoluta (una primarietà del corpo che realmente precorre i movimenti poststrutturalisti) 53: «Ci sono delle cose
– anche le più astratte o spirituali – che si vivono solo attraverso il
corpo. Vissute attraverso un altro corpo non sono più le stesse. Ciò
che è stato vissuto dal corpo dei padri, non può più essere vissuto
dal nostro».
A questo punto si potrebbe scorgere una contraddizione fra la visione della Grecia proposta dal cinema pasoliniano, “prerazionale” e
dominata dai linguaggi non verbali, e quella proposta dal teatro, affidata interamente alla parola, e ad una parola ideologica e razionale 54.
Come si è già accennato, la contraddizione è la cifra dell’opera pasoliniana, apertamente rivendicata e felicemente messa in luce per il Pasolini poeta già nel 1959 da Franco Fortini, che sottolineò il ruolo
dell’ossimoro e della sineciosi 55. In questo caso però si tratta di una
contraddizione apparente. In primo luogo fra teatro e cinema Pasolini stabilisce una differenza di destinatario: mentre i suoi film, anche
quelli più di ricerca, puntano a un pubblico abbastanza ampio, i suoi
drammi si rivolgono invece alle élite avanzate della borghesia intellettuale, avendo perso il teatro ogni carattere di autentica ritualità 56. In
secondo luogo anche il teatro esprime l’insufficienza del linguaggio
verbale e la fascinazione del linguaggio corporeo: il passo di Affabulazione citato prima è preceduto da una rievocazione del finale delle
Trachinie, dove si sottolinea come l’impatto emotivo dell’azione tragi25
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
ca resterebbe uguale anche ignorando la lingua in cui gli attori recitano; e soprattutto è seguito da quest’altro passo:
OMBRA DI SOFOCLE
Se fossi stato solo un poeta,
te lo spiegherei con le sole parole!
Ma io sono più che un poeta; perciò
le parole non mi bastano; occorre che tu,
tuo figlio, lo veda come a teatro; occorre che tu completi
l’evocazione della parola con la presenza di lui,
in carne ed ossa, magari mentre nudo fa l’amore
– o qualcuno di analogo a lui, e, comunque anch’esso
in carne ed ossa – con le sue membra scoperte.
Devi vederlo, non solo sentirlo;
non solo leggere il testo che lo evoca,
ma avere lui stesso davanti agli occhi. Il teatro
non evoca la realtà dei corpi con le sole parole
ma anche con quei corpi stessi...
PADRE
Ebbene?
OMBRA DI SOFOCLE
L’uomo si è accorto della realtà
solo quando l’ha rappresentata.
E niente di meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla.
A questa esaltazione della presenza corporea come linguaggio più alto
e più pregno di senso (un’esaltazione che vale in forma diversa anche
per il cinema, che però rimonta l’azione al passato) 57 si può affiancare un altro testo assai significativo, Orgia, che nel primo episodio rievoca il linguaggio muto delle cose e del pragma in un arcaico paese
agricolo, e drammatizza in generale il linguaggio del corpo e della
sessualità sadomasochistica.
In terzo luogo bisogna distinguere in Edipo re e soprattutto in
Medea fra le parti liberamente inventate sulla falsariga del mito sintetizzato nei dizionari (gli antefatti) e le parti che seguono invece il
dramma greco: la poetica del silenzio sacrale, del gesto e del rito, domina infatti soprattutto nelle prime, mentre nelle seconde prende uno
spazio maggiore la parola, anche se spesso è una parola più emotiva
che referenziale, e anche se il dialogo dei testi originali viene ampiamente tagliato, sostituito spesso dall’immagine e dall’azione muta. Bisogna insomma distinguere fra raffigurazione del mito e rappresentazione del dramma.
26
INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
Il teatro greco è dunque per Pasolini un teatro del logos, nella
duplice accezione del termine come “parola” e come “ragione”; un
teatro quindi alle origini di quella razionalità occidentale da cui Pasolini non volle mai uscire, nemmeno nei momenti di nichilismo più
disperato. Ma nello stesso tempo è un teatro che permette di recuperare gli strati più arcaici della cultura occidentale, i livelli più profondi della psiche umana, le forme viscerali ed emotive della comunicazione non verbale; tutti elementi che l’ideologia pasoliniana ha
sempre voluto preservare contro gli attacchi del neocapitalismo, e
contro il dogmatismo marxista, e che la sua poetica barbarica ha privilegiato sempre di più nel corso del tempo. Il secondo versante,
quello barbarico, ottiene perciò alla fine un predominio netto, il che
spiega fra l’altro come mai in questo saggio i film giochino un ruolo
preponderante rispetto alle pièces teatrali. Inoltre, mentre i drammi –
di cui Pasolini non ha mai curato una versione definitiva – risentono
un po’ di una certa confusione ideologica e di una certa verbosità, i
tre film tratti dalla tragedia greca sono da annoverare, a mio parere,
fra le sue opere più mature e più riuscite (soprattutto Edipo re), anche se hanno avuto un’accoglienza critica controversa, soprattutto in
Italia 58.
Questo saggio non si articola secondo i generi artistici (teatro e
cinema), né secondo la cronologia, ma secondo i tre grandi miti a cui
Pasolini si è dedicato, Oreste, Edipo, Medea, che corrispondono alle
tre opere più celebri dei tre tragici greci, e nello stesso tempo corrispondono anche ai tre assi tematici su cui procede la rilettura pasoliniana della Grecia classica: politico, psicoanalitico, antropologico.
Ovviamente i tre assi interagiscono tra loro, ma non c’è dubbio che
vi sia sempre una dominante. La rilettura dell’Orestea di Eschilo non
si è mai concretizzata in un’unica opera (motivo per cui qui compare
per ultima, e non per prima, come la cronologia tanto antica quanto
pasoliniana avrebbe imposto), ma solo nella traduzione del dramma,
nell’ideale continuazione del plot di Eschilo concepita nel Pilade e
nel film-documentario Appunti per un’Orestiade africana. Queste tre
esperienze sono comunque accomunate da un filo rosso chiaramente
politico: come la democrazia moderna possa assimilare gli elementi
della civiltà primitiva; una sintesi che al momento della traduzione
(1960) gli sembrò ancora un modello proponibile, e che già nel 1966,
al momento cioè della prima stesura di Pilade, appariva invece un’utopia lontana (salvo a ricercarla poi un’ultima volta nel 1969 nell’Africa nera), scalzata dall’aggressività del potere consumista. Nell’affrontare l’Edipo re di Sofocle il centro tematico si sposta invece al
campo psichico, e alla famosa interpretazione freudiana, utilizzata so27
LA GRECIA SECONDO PASOLINI
prattutto per leggere la propria esperienza biografica e la propria diversità di artista (anche se non mancano nel finale suggestioni marxiste). Infine, con la Medea di Euripide viene ripreso il problema politico della sintesi fra le culture, universalizzandolo nei termini di un
conflitto antropologico, e giungendo a una tragica conclusione sospesa (la stessa sospensione che chiude il Pilade) 59 prima che, dopo la
parentesi ambiguamente gioiosa della Trilogia della vita, non prevalga
la cupa negazione di ogni storia e di ogni società, l’orrore per il potere di Salò e di Petrolio (già preannunciati da Porcile).
Il mito greco è un tema in cui si condensa un tratto radicato in
tutto l’universo multiforme di Pasolini: la ricerca di un linguaggio che
potesse cogliere il mistero ontologico del reale, quel mistero che, a
differenza dell’enigma, non può essere decodificato dalla ragione. Un
linguaggio che non mira alla riproduzione meccanica del reale, ed è
dunque assai lontano dal naturalismo (rischio latente forse solo nei
romanzi) 60. La poetica pasoliniana si inserisce in modo assai personale e innovativo nell’ossessiva ricerca di “realismo” che accomuna buona parte della cultura italiana di quegli anni 61, personale e innovativo
proprio grazie alla frizione continua fra mitico e realistico. Pasolini si
vuole infatti appropriare della poeticità già inscritta nel reale; quella
struggente ambiguità delle cose che le parole riducono a mere convenzioni: «Tendo dunque con tutto me stesso all’agrammaticale /
(però rielaborato in studio) / Vorrei mimare l’ecolalia, essere fàtico,
fàtico, / e così esprimere, al grado più basso, il tutto» (Propositi di
leggerezza, in Trasumanar e organizzar). Da qui scaturisce l’interesse
semiologico per i linguaggi non verbali, e l’idea eretica di una «semiologia della Realtà» (oggi si direbbe con Derrida di una testualità
del reale). Nella splendida autointervista del Poeta delle ceneri Pasolini attribuisce questo potere espressivo – da lui cercato soprattutto nel
mito e nel cinema – all’unico grande linguaggio in cui non si è
espresso, alla musica 62, esaltata in termini che richiamano Schopenhauer:
Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti,
che io vorrei essere scrittore di musica,
vivere con degli strumenti
dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,
nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto
sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta
innocenza di querce, colli, acque e botri,
e lì comporre musica
l’unica azione espressiva
forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.
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INTRODUZIONE . UNA GRECIA BARBARICA
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare innanzitutto l’Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, e in particolare Laura Betti e Giuseppe Iafrate, che mi hanno
dato un aiuto prezioso nel reperimento del materiale; per il materiale
tedesco un grazie particolare a Rolf Klaiber, della libreria Max und
Milian di Monaco di Baviera, e, per quello filmico, al Centre of Motion Picture della Library of Congress di Washington. Il secondo capitolo rielabora il testo di un seminario da me tenuto prima all’Università di Urbino, nell’ambito di una giornata di studi sul mito di
Medea organizzata da E. Mascilli Migliorini e da Cesare Questa (febbraio 1991), e poi ad Atene, Salonicco, Berlino, Londra e Salerno
nell’ambito di manifestazioni promosse dal Fondo Pasolini: una versione ridotta è apparsa in Pasolini e l’antico. I doni della ragione, a
cura di Umberto Todini (ESI, Napoli 1995). Devo ringraziare inoltre:
Umberto Albini, Paolo Benvenuti, Clotilde Bertoni, Antonio Carlini,
Graziella Chiarcossi, Lorenzo Cuccu, Concetta D’Angeli, Hellmut
Flashar, Mario Lavagetto, Mario Martone, Charles Segal, Jennifer
Stone e, soprattutto, Guido Paduano e Walter Siti, che hanno seguito
con pazienza tutta la stesura di questo libro.
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