IlIlmondo sestesso stesso mondo contro contro se a cura di Alessandro Schiavetti Con il patrocinio di: Regione Toscana Comune di Cecina Comune di Castellina Marittima Catalogo realizzato in occasione della mostra LA GRANDE GUERRA. IL MONDO CONTRO SE STESSO Dal 14 marzo al 3 maggio 2015 Sala esposizioni, Fondazione Culturale Hermann Geiger Piazza Guerrazzi 32, Cecina (LI) Mostra e catalogo a cura di Alessandro Schiavetti Testi in catalogo di: Federico Gavazzi Damiano Leonetti Massimo Polimeni Giulia Santi Alessandra Scalvini Alessandro Schiavetti Editing testi: Daria Cavallini Graphic Design e impaginazione: Fabrizio Pezzini Fotografie: © SchPhoto Immagini d’archivio: Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera Biblioteca Comunale Foresiana di Portoferraio Collezione Famiglia Casarosa Museo Civico del Risorgimento di Bologna Ufficio Storico della Marina Militare Mappe 3D e figurini delle uniformi: Enrico Ricciardi Ufficio stampa: Spaini & Partners Albo prestatori: Francesco Alunno, Archivio Storico del Comune di Cecina, Associazione Modellismo e Storia – Dlf Pontassieve, Giuliano Baratella, Federico Bardanzellu, Massimiliano Battini, Croce Rossa Italiana ‑ Comitato Provinciale di Livorno, Luca Dello Sbarba, Luca Luperini, Giacomo Luppichini, Maria Luisa Manni Guanti, Placido Narsetti, Luciana Narsetti Servolini, Marco Piermartini, Massimo Polimeni, Andrea Russo, Piero Santi, Michela Sgarallino, Elda Valori, Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Pontedera, Dario Viganò In copertina: Truppe d’assalto austriache, Piave, 27-3-1918 Museo Civico del Risorgimento di Bologna Bandecchi & Vivaldi – Editore ISBN 978-88-8341-608-8 Indice 4 IL MONDO CONTRO SE STESSO 5 Introduzione 8 La Grande Guerra 13 Cronologia 16 La guerra italo-austriaca 18 Strafexpedition – La battaglia degli Altipiani 20 La battaglia di Caporetto 22 La battaglia di Vittorio Veneto 24 LE UNIFORMI E LA GUERRA DEI GAS 25 Maschere antigas, elmetti, uniformi 44 LA TOSCANA NELLA GRANDE GUERRA 45 Le trincee della Toscana 50 Il bombardamento di Portoferraio 52 Il dirigibile U5 54 Ugo Narsetti e Cerbonesco Cerboneschi 55 Le lettere dei cecinesi 64 RICORDI DELLA GRANDE GUERRA 78 Numeri e schieramenti 79 Bibliografia scelta 4 Introduzione Il primo conflitto mondiale del 1914-18 è ricordato come «Grande Guerra». Le perdite furono immense: più di nove milioni i militari caduti, oltre venti milioni quelli feriti, quasi otto milioni i dispersi e circa sette milioni le vittime civili. Più del 50 per cento degli uomini impegnati nel conflitto furono fatti prigionieri, feriti o uccisi. Il 60 per cento delle vittime aveva tra i venti e i trent’anni. Fino alla Seconda guerra mondiale, è stato il più grande conflitto armato mai combattuto. Le ingenti perdite umane, la distruzione e l’impatto mutilante con cui il conflitto si è abbattuto sulla nostra era sono senza precedenti nella storia. La forza impulsiva dell’umana violenza scatenò battaglie apocalittiche. Le circostanze tragiche dei combattimenti, unite allo stress emotivo legato a un’illusione di cambiamento, causarono anche quelle che per la prima volta furono definite «ferite psichiche». È la guerra di trincea ad aver provocato i danni psicologici più gravi nei soldati i quali, inermi sotto i bombardamenti, attendevano di morire o di restare mutilati. L’abitudine a vivere in spazi angusti e nascosti evitando di calpestare i cadaveri dei propri compagni dilaniati dalle bombe aveva trasformato la morte in una componente costante e normale. Le uniche consolazioni di ogni soldato erano la religione e la carta su cui scrivere. La prima era compagna di viaggio in un percorso di dolore e sofferenza. La seconda era l’unico modo per sentirsi vicini alla famiglia; scrivere e ricevere lettere al fronte era il momento più atteso della giornata, nei pochissimi attimi in cui non si sparava o si scavava. Scrivere e leggere erano le uniche vie d’uscita dal dolore, dal fango, dalle malattie, dagli spari. Basti pensare che nel periodo della Grande Guerra furono scambiati oltre trenta milioni di lettere. Anche le famiglie erano in guerra. Con loro c’erano i figli, le mogli, le madri e i padri, i fratelli e le sorelle; ogni per- sona vicina al soldato combatteva insieme a lui una «grande guerra» fatta di attese, di pianti, di disperazione, di silenzi. Le attività principali nella giornata tipo di un soldato della Prima guerra mondiale erano scavare e sparare. Sparare per sopravvivere. Sparare per farcela. Sparare per ritornare. La guerra fu una tragedia collettiva, una sconfitta per tutti, una dolente, infinita conta delle vittime che ancora oggi non ha cifre certe. Pretendere di applicare un arrogante criterio matematico al bilancio di quella che è stata una catastrofe epocale sarebbe come infangare una volta di più gli scarponi delle vittime dimenticate, di coloro che sono spariti nel nulla, dei soldati che hanno combattuto per degli ideali di nazione per poi essere inghiottiti dai grandi numeri. Le conseguenze furono forse ancora più tragiche; interi paesi e regioni andarono distrutti. La mancanza di igiene e prevenzione, unita alla scarsità dei farmaci, fu causa del proliferare della pandemia di influenza spagnola, la più grave nella storia dell’uomo. Una malattia che per i medici era sconosciuta causò in poco tempo la morte di più di trenta milioni di persone. Fu un’ecatombe. Con la mostra «La grande guerra. Il mondo contro se stesso», nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia, la Fondazione Culturale Hermann Geiger ricorda con emozione quei giovani soldati che un tempo chiamavamo «famiglia», ogni metro di terreno conquistato con aspri combattimenti, le faticose vette delle Dolomiti, le infinite scalate al gelo, il pantano dell’Isonzo e del Piave, le vite di milioni di uomini, sospese nell’immobilismo di fortini e trincee improvvisate, che con il loro eroismo hanno scritto pagine di storia. Alessandro Schiavetti Direttore Artistico Fondazione Culturale Hermann Geiger 5 Cannone da 149G Cannone da 149G prolungato Museo Civico del Risorgimento di Bologna 6 Soldati italiani in trincea con maschere contro i gas asfissianti La posta in trincea Museo Civico del Risorgimento di Bologna 7 La Grande Guerra Il 28 giugno 1914 furono uccisi in un attentato a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, e la moglie. Gli attentatori erano nazionalisti serbi che cospiravano per la costituzione di una grande nazione slava nei Balcani. La palese complicità della Serbia convinse molti membri del governo di Vienna che una guerra contro Belgrado fosse inevitabile. Il 28 luglio fu dichiarata guerra. Un’operazione militare di questo tipo avrebbe potuto non produrre effetti catastrofici se non fosse entrato in gioco il sistema di alleanze e trattati di mutua assistenza militare siglati dalle principali potenze europee negli anni precedenti il 1914. La Serbia godeva dell’appoggio dell’Impero russo, che si poneva sul piano internazionale come difensore dei popoli slavi ed era desideroso, a sua volta, di ampliare la propria influenza nei Balcani; la Francia, alleata con la Russia, era al contempo scossa da forti sentimenti revanscisti e antitedeschi e voleva riconquistare Alsazia e Lorena, perdute nel 1871 nella Guerra francoprussiana; l’Inghilterra avrebbe aiutato la Francia con l’obiettivo di arrestare la crescita militare, navale ed economica della Germania. Fu il fallimento delle diplomazie e l’affermarsi degli interessi militari. Il 1° agosto la Germania dichiarò guerra all’Impero russo, il 3 alla Francia e il 4 invase il neutrale Belgio. A difesa di quest’ultimo e dell’alleato francese si mosse anche l’Inghilterra. L’Impero austroungarico dichiarò a sua volta guerra a Russia, Francia e Gran Bretagna. Il Regno d’Italia, appellandosi alla natura prevalentemente difensiva del trattato della Triplice Alleanza (che la vedeva ancora legata ad Austria e Germania), dichiarò subito la propria neutralità. In ottobre anche l’Impero ottomano entrò nel conflitto a fianco degli Imperi centrali. L’alto comando tedesco mise in atto il piano Schlieffen che prevedeva una rapida offensiva verso la Francia, attraverso il Belgio e il Lussemburgo. Il 20 agosto i tedeschi occuparono Bruxelles. L’esercito francese, supportato sul fianco sinistro dalla British Expeditionary Force, iniziò a contrastare i tedeschi su un ampio fronte: in quella che è conosciuta come battaglia delle Frontiere (14-24 agosto), i tedeschi sconfissero la Quinta Armata francese a Charleroi, gli inglesi a Mons e i belgi a Namour, avanzando fino a 40 chilometri da Parigi. La vittoria sembrava molto vicina, ma gli Alleati passarono al contrattacco e nella prima battaglia della Marna (5-12 settembre) indussero il nemico a ripiegare fino all’Aisne. Il piano Schlieffen era fallito. Entrambi gli schieramenti cercarono di guadagnare un vantaggio strategico aggirando il nemico da nord in quella che passerà alla storia come «corsa al mare»: in pochi giorni il fronte si allungò dal confine svizzero alle coste del Belgio. Gli schieramenti cominciarono a trincerarsi nelle posizioni raggiunte e la guerra di movimento si trasformò in guerra di trincea. Diversamente, sul fronte orientale, l’armata tedesca riuscì subito a infliggere due importanti sconfitte all’esercito russo a Tannenberg e in Masuria. Nel maggio del 1916 l’attacco tra Gorlice e Tarnów aprì la strada per Varsavia e quasi tutta la Polonia e parte della Lituania passarono in poco tempo sotto il controllo tedesco. Più a sud, in Galizia, la situazione divenne invece critica per l’esercito austroungarico che resistette solo grazie al supporto dell’alleato. Uno dei motivi che spinsero l’Italia a entrare in guerra a fianco dell’Intesa fu proprio la chiara difficoltà militare dell’Impero austriaco (23 maggio 1915). Nel 1915 i francesi attaccarono ripetutamente nello Champagne e gli inglesi nell’Artois, senza ottenere risultati di rilievo. L’unica azione tedesca fu l’offensiva a Ypres del 22 aprile, dove per la prima volta furono impiegati con efficacia i gas tossici. Nonostante l’uso di nuove e terribili armi (gas, lanciafiamme, carri armati) e di numeri sempre crescenti di uomini e risorse, i limiti strutturali dell’attacco di fanteria nella guerra di trincea e i ripetuti errori dei vari comandi trasformarono ogni battaglia in prolungati e inutili massacri di uomini. 8 La stasi sul fronte occidentale determinò l’estensione del conflitto ad altre aree geografiche (Caucaso, Medio Oriente, colonie dell’Africa, Dardanelli). Nei Balcani l’entrata in guerra della Bulgaria a fianco della Triplice Alleanza e l’aiuto tedesco portarono l’esercito austroungarico a invadere la Serbia (6 ottobre 1915). Il salvataggio dell’esercito serbo costretto alla fuga verso il mare fu una delle operazioni più importanti della Regia Marina Militare durante la Prima guerra mondiale. Il 1916 fu l’anno delle grandi battaglie. Gli Alleati avevano pianificato tre grandi offensive contro gli Imperi centrali: l’offensiva russa nella Prussia orientale, quella italiana sull’Isonzo e quella anglofrancese sulla Somme. Ma furono i tedeschi a muoversi per primi. Il 21 febbraio scatenarono l’attacco a Verdun, sulla Mosa, con l’obiettivo di logorare l’esercito francese in un lungo scontro che si protrasse fino all’autunno. Nella battaglia della Somme (1° luglio – 18 novembre), l’ampio fronte d’attacco, errori tattici e l’inefficacia del bombardamento preparatorio impedirono un reale sfondamento, e anche qui attacchi e contrattacchi si alternarono per mesi. Alla fine delle due battaglie i morti furono oltre 600 000. Il 31 maggio 1916 ebbe luogo anche la battaglia navale più importante della guerra: la flotta tedesca si scontrò con quella inglese nel tentativo di spezzare il predominio britannico sui mari e il blocco navale che questa attuava ai danni della Germania. Lo scontro avvenne nelle acque dello Jutland e si concluse con una parziale vittoria tedesca, ma senza che la supremazia navale inglese fosse scalfita. Il 1917 fu un anno determinante. Tutti i comandi militari avevano chiesto da subito ai propri governi misure eccezionali per sostenere lo sforzo bellico: conversione della produzione industriale, intervento crescente dello stato nell’economia, sospensione dei diritti civili, ampio ricorso a tribunali militari. Gli stati europei che nel 1914 erano entrati in guerra con entusiasmo e nella convinzione che il conflitto sarebbe stato breve adesso vedevano crescere il malcontento e l’opposizione interna al prolungarsi della guerra; ci furono scioperi e proteste e negli eserciti aumentarono gli episodi di ammutinamento. Il primo a cedere fu il «fronte interno» russo. A seguito della Rivoluzione bolscevica, il 1° novembre la Russia uscì di fatto dal conflitto e cominciò a intavolare le trattative per la pace separata di Brest-Litovsk. Sempre nel 1917, il 6 aprile, dichiararono guerra alla Germania anche gli Stati Uniti, che fino a quel momento erano rimasti neutrali nonostante gli incidenti causati dalla guerra sottomarina indiscriminata e la vicinanza alla causa dell’Intesa. L’enorme potenziale umano e industriale americano era destinato a spezzare gli equilibri. Il 21 marzo 1918 cominciò l’offensiva del Kaiser, l’ultima grande avanzata tedesca. Grazie a nuove tecniche d’assalto e a un maggiore coordinamento negli attacchi, il fronte sulla Somme venne travolto. Si era finalmente ritornati alla guerra di movimento e i tedeschi si spinsero di nuovo fino alla Marna, arrivando a pochi chilometri da Parigi. Tuttavia, il potenziale offensivo tedesco, sul piano sia del morale che dei mezzi, era ormai esaurito. L’arrivo delle divisioni americane determinò un’incolmabile superiorità di mezzi e uomini per le potenze dell’Intesa. Nelle controffensive sulla Marna (18 luglio – 4 agosto), ad Amiens e a Saint-Mihiel, l’esercito alleato avanzò rapidamente. Rivoluzioni di stampo bolscevico scoppiavano intanto a Vienna, Budapest e Berlino e l’Impero austroungarico si dissolse sotto le spinte delle diverse componenti nazionali. Il 2 ottobre divamparono in Germania le prime rivolte e l’11 l’esercito tedesco si ritirava su tutto il fronte, subendo nuove sconfitte; alcuni reparti cominciarono ad arrendersi. La Germania chiese l’armistizio e l’11 novembre i delegati tedeschi a Compiègne firmarono la resa, accettando le gravose condizioni imposte dagli Alleati. La guerra era finita. Tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920 i paesi vincitori si riunirono nella conferenza di pace di Parigi, che stabilì il nuovo assetto dell’Europa. 9 La batteria 149 in azione a Pietra Tagliata il 17 giugno 1915 Soldati all’interno di una galleria Ulisse Bernacchi Del Monte, Collezione Famiglia Casarosa 10 Traino con trattrice piattaforma obice 280 in Val Dogna Traino di un obice da 305 sul monte Slenza Ulisse Bernacchi Del Monte, Collezione Famiglia Casarosa 11 Crocerossine Ricovero in prima linea sul Carso e Trincea sul fronte dell’Isonzo l’8 settembre 1917 Museo Civico del Risorgimento di Bologna 12 Cronologia 1882 20 maggio A Vienna si stipula l’atto difensivo tra Impero tedesco, Impero austroungarico (già legati dalla Duplice Alleanza dal 1879) e Regno d’Italia, dando vita alla Triplice Alleanza. 1907 31 agosto Con l’accordo tra Impero britannico e Impero russo si stringe il sistema di alleanze che li unisce alla Terza repubblica francese nella Triplice Intesa. 1914 28 giugno A Sarajevo, in un attentato organizzato dai nazionalisti serbi, muore l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe. 23 luglio L’Austria presenta una nota al governo serbo, ma Belgrado respinge l’ultimatum. 28 luglio L’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia. 1° agosto La Germania dichiara guerra alla Russia. Una folla entusiasta invade le piazze della Germania. Tra i manifestanti si riconosce anche un giovane Adolf Hitler. 3 agosto La Germania dichiara guerra anche alla Francia. Il Regno d’Italia dichiara la sua neutralità. 4 agosto La Germania invade il Belgio neutrale. L’Inghilterra, dopo l’invio di un ultimatum, entra in guerra poco prima di mezzanotte. 5 agosto L’Impero austroungarico dichiara guerra alla Russia. 11-12 agosto La Francia e la Gran Bretagna dichiarano guerra all’Austria-Ungheria. 14-24 agosto I tedeschi sconfiggono la Quinta Armata francese a Charleroi. 20 agosto I tedeschi occupano Bruxelles. 23 agosto La British Expeditionary Force affronta i tedeschi a Mons. Il Giappone dichiara guerra alla Germania. 26-30 agosto L’esercito tedesco sconfigge i russi a Tannenberg. Nel frattempo la Germania arriva a quasi 40 km da Parigi, da cui fugge oltre un milione di abitanti. 5-12 settembre Prima battaglia della Marna: le truppe francesi e inglesi costringono i tedeschi a ripiegare, ritirandosi di quasi cento chilometri. 24-25 dicembre Incredibilmente, durante il primo Natale della Grande Guerra non si combatte. In molte zone e fronti di guerra i soldati fraternizzano. Alcuni cacciano insieme, altri giocano una partita di pallone in squadre miste 13 1915 18 marzo – 8 gennaio Spedizione anglo-francese a Gallipoli. La battaglia, che inizialmente si era pensato sarebbe stata breve, diviene invece lunghissima e sfiancante con brevissimi avanzamenti su entrambi i lati. 22 aprile – 25 maggio Battaglia di Ypres. I tedeschi, desiderosi di arrivare il prima possibile alla Manica e al Mare del Nord, impiegano per la prima volta i gas tossici. 26 aprile L’Italia e i paesi della Triplice Intesa firmano il Patto di Londra con cui l’Italia si impegna a scendere in guerra, entro un mese, contro gli Imperi centrali in cambio di importanti compensi territoriali. 1° maggio – 30 settembre Offensiva tra Gorlice e Tarnów: quasi tutta la Polonia russa e parte della Lituania passano sotto il controllo tedesco. 23 maggio Il Regno d’Italia dichiara guerra all’Impero austroungarico. 6 ottobre Invasione della Serbia da parte dell’esercito austroungarico. 1916 21 febbraio – 19 dicembre Battaglia di Verdun. È una delle battaglie più violente e sanguinose combattute sul fronte occidentale. 15 maggio – 27 giugno Battaglia degli Altipiani: gli italiani resistono alla Strafexpedition austriaca, un’offensiva punitiva dell’Austria-Ungheria contro l’Italia, colpevole di aver tradito la Triplice Alleanza. 31 maggio Battaglia dello Jutland tra la flotta tedesca e quella inglese. La flotta tedesca si rifugia in porto, ma gli inglesi subiscono enormi perdite. 4 giugno – 20 settembre Offensiva Brusilov. I russi sfondano il fronte austriaco in Galizia ma vengono fermati dall’esercito tedesco. 23 giugno – 7 luglio Prima battaglia dell’Isonzo. Si hanno numerosissime perdite da entrambi i lati, senza importanti progressi. 1° luglio – 18 novembre Le truppe anglo-francesi si scontrano con quelle tedesche nella battaglia della Somme. È una lunga e violenta battaglia di logoramento. 6-17 agosto La Sesta battaglia dell’Isonzo si conclude con la conquista di Gorizia. 1917 1° febbraio La Germania formalizza la cosiddetta «guerra sottomarina indiscriminata». 6 aprile Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania. 17-31 agosto Undicesima battaglia dell’Isonzo e occupazione dell’altopiano della Bainsizza. 24 ottobre – 12 novembre Battaglia di Caporetto e ritirata italiana sul Piave. Lo scontro è tuttora considerato la più grande disfatta nella storia dell’esercito italiano. 7-8 novembre Rivoluzione d’Ottobre e uscita della Russia dal conflitto. 14 1918 21 marzo – 5 agosto La Germania organizza l’offensiva di Primavera, detta anche offensiva del Kaiser. 27 maggio – 6 agosto Nella Seconda battaglia della Marna, dopo una prima avanzata tedesca che minaccia Parigi, la controffensiva degli Alleati termina con una vittoria. 10 giugno Il capitano di corvetta Luigi Rizzo, al comando di un Mas, affonda la corazzata austriaca Jzent Istvan al largo dell’isola di Premuda. 15-22 giugno Seconda battaglia del Piave: l’Italia contrasta l’ultima grande offensiva austroungarica. 8 agosto – 11 novembre Durante l’offensiva dei Cento giorni, gli Alleati riportano importanti vittorie nella battaglia di Amiens, nella Seconda battaglia della Somme e in quella di Cambrai–San Quintino. 24 ottobre – 4 novembre La battaglia di Vittorio Veneto è l’ultimo scontro armato tra Italia e Austria-Ungheria nel corso della Prima guerra mondiale. Si conclude con la vittoria italiana. 3 novembre L’armistizio di Villa Giusti viene siglato tra l’Impero austroungarico e il Regno d’Italia. 11 novembre In un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne, l’Impero tedesco firma la resa. 1919 18 gennaio – 21 gennaio 1920 I paesi vincitori si riuniscono nella Conferenza di Pace di Parigi per redigere i vari trattati di pace (il più famoso è quello di Versailles) con gli Imperi centrali sconfitti. 15 La guerra italo-austriaca Allo scoppio del conflitto il Regno d’Italia era ancora formalmente legato agli Imperi centrali dal trattato della Triplice alleanza, stipulato nella sua prima forma il 20 maggio 1882. La natura difensiva del trattato e la mancata consultazione sulla dichiarazione di guerra del 28 luglio 1914, durante la quale si sarebbero dovuti discutere eventuali compensi territoriali, furono i pretesti che indussero l’Italia a dichiarare la propria neutralità. Erano inoltre evidenti sia l’impreparazione militare del Regio Esercito sia l’impossibilità di sostenere uno scontro nel Mediterraneo contro Francia e Inghilterra. Dopo un periodo scandito da trattative segrete negoziate dal capo del governo Antonio Salandra e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, il 26 aprile 1915 fu firmato il Patto di Londra che, tenendo all’oscuro il Parlamento a maggioranza neutralista, schierava di fatto l’Italia dalla parte della Triplice Intesa. All’Italia si promettevano il completamento dell’unità nazionale con l’annessione di Trentino, Sudtirolo, Venezia Giulia e Dalmazia esclusa Fiume, e l’espansione imperialista in alcuni territori di Albania, Turchia e Africa orientale, oltre al diritto di mantenere la Libia e il Dodecaneso, occupati negli anni precedenti. La volontà dell’Italia di partecipare ai conflitti inter-imperialisti rappresentava un tentativo di affermare il proprio ruolo di grande potenza mediterranea, spinta dalle forze conservatrici e nazionaliste legate a grandi interessi industriali e militari. L’Italia dichiarò guerra all’Austria nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1915. La strategia iniziale elaborata dal generale Luigi Cadorna – succeduto come capo di Stato Maggiore del Regio Esercito ad Alberto Pollio, morto subito prima dell’inizio del conflitto – prevedeva una guerra rapida che avrebbe dovuto sorprendere il nemico con potenti attacchi frontali al fine di conquistare in breve tempo Gorizia e Trieste per poi lanciarsi nell’ambizioso obiettivo di raggiungere Vienna. Tuttavia, le notizie errate fornite dal controspionaggio riguardo alla reale entità delle truppe asburgiche dislocate ai confini, la scarsità di equipaggiamenti e i ritardi nella preparazione dell’esercito fecero rimandare di troppo l’attacco e permisero ai nemici di organizzare la difesa, vanificando così l’effetto sorpresa del piano iniziale. Gli eserciti si trincerarono lungo il corso del fiume Isonzo e sull’arco alpino orientale, stabilizzando i fronti in una lunga guerra di logoramento nella quale gli austriaci detenevano in genere le posizioni più alte e difficili da attaccare. La strategia degli attacchi frontali contava infatti molto sulla potenza di fuoco, ma non teneva conto del potere difensivo degli eserciti e della morfologia dei campi di battaglia, per cui piccoli spostamenti del fronte potevano essere ottenuti soltanto con grande dispendio di vite umane. Gli assalti delle prime linee, volti a sfondare le difese nemiche e a occuparne le posizioni, venivano spesso incalzati dalle retrovie per evitare defezioni: i fanti, nelle pause del fuoco amico, cercavano di avanzare in salita o in spoglie pianure per tagliare il filo spinato dei reticolati nemici, bersagliati dall’artiglieria contraria che mieteva vittime senza sosta. Anche se l’attacco riusciva, la linea del fronte si spostava di poche centinaia di metri, fino all’assalto successivo. Al Regno d’Italia veniva chiesto un grande sforzo collettivo: i distretti di reclutamento dislocati nelle varie città riunivano in brigate eterogenee giovani provenienti da tutta la penisola che spesso non si intendevano reciprocamente a causa dei dialetti troppo diversi e che impararono al fronte a conoscersi; molti combattevano in luoghi e per la liberazione di città di cui non avevano mai neanche sentito parlare. Le industrie cercarono di far fronte alle necessità del conflitto convertendo la loro produzione in materiale bellico; gli stabilimenti costieri, a rischio di attacco da parte dei sommergibili tedeschi, erano pattugliati dalle flotte degli aeroscali e idroscali dislocati in particolar modo sul versante tirrenico. Leggi apposite impedivano alla popolazione di manifestare pubblicamente il 16 proprio dissenso alla guerra e spesso i partecipanti a scioperi, agitazioni e proteste furono giudicati da tribunali militari. Da giugno a dicembre 1915, il generale Cadorna ordinò quattro offensive sull’Isonzo, che però non spezzarono la difesa nemica. Nell’aprile 1916 il feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, capo di Stato Maggiore dell’esercito austroungarico, avviò una campagna in Trentino passata alla Storia come battaglia degli Altipiani o Strafexpedition, ossia «spedizione punitiva», allo scopo di vendicarsi dell’alleato traditore e allentare la pressione italiana sul fronte isontino. Dopo un formidabile avanzamento iniziale, essa fallì per la difficoltà dell’artiglieria pesante di tenere dietro alla fanteria nei terreni difficili in cui si combatteva e provocò una resistenza italiana che terminò il 27 giugno col ripiegamento degli austriaci e seguita da un’immediata controffensiva. Il grande pericolo subìto fece vacillare il governo Salandra, che fu sostituito da un esecutivo di unione nazionale presieduto da Paolo Boselli. Tra il giugno 1916 e il settembre 1917 furono combattute altre sette battaglie sul fiume Isonzo, che tuttavia si discostarono di poco dalla logorante guerra di posizione: con la sesta offensiva, nell’agosto 1916, l’Italia aveva strappato Gorizia all’Austria, mentre l’undicesima, concertata con le potenze alleate, fece registrare una penetrazione di 10 chilometri nella linea di difesa nemica sull’altopiano della Bainsizza, al costo però di decine di migliaia di vite umane. La controffensiva austro-tedesca – l’Italia aveva dichiarato guerra alla Germania nel 1916 – fu travolgente: il 24 ottobre 1917 le linee italiane furono sfondate a Caporetto. Il Regio Esercito, sfiancato dalla lunga guerra di posizione, si abbandonò a una disordinata ritirata che permise al nemico di guadagnare l’accesso alla Pianura Veneta. Il fronte fu fatto arretrare fino al Piave; un nuovo governo di unità nazionale guidato da Vittorio Emanuele Orlando passò il comando militare da Luigi Cadorna ad Armando Diaz. Un’armata anglo-francese fu inviata a sostegno dell’Italia e contribuì a imbastire linee di difesa arretrate, in caso di cedimento di quella del Piave. A febbraio 1918 l’esercito italiano poteva dirsi ricostituito; a giugno, in quella che è ricordata come la battaglia del Solstizio, riuscì a fronteggiare i pesanti attacchi sferrati dal nemico contemporaneamente sul fronte montano e su quello del Piave e a indurlo alla ritirata. Il contrattacco italiano, volto a sconfiggere il nemico già logorato, fu lanciato nella battaglia di Vittorio Veneto fra il 24 ottobre e il 4 novembre. Dopo un’iniziale valida resistenza, le difese austroungariche crollarono. Per evitare la distruzione dell’esercito, il 29 ottobre l’imperatore Carlo I chiese all’Italia un armistizio. La ritirata dell’esercito e le defezioni delle truppe ungheresi e serbo-croate, nel contesto di un’insanabile crisi interna all’Impero minato da movimenti indipendentisti, permisero all’esercito italiano di avanzare rapidamente fino a occupare Trento e Trieste il 3 novembre 1918. Lo stesso giorno a Villa Giusti a Padova l’Impero austroungarico siglò con l’Italia l’armistizio, che fissava la fine delle ostilità per il giorno successivo. I rappresentanti dei paesi vincitori si riunirono nelle conferenze di pace di Parigi a partire dal gennaio 1919; l’Italia, rispetto ai territori promessi nel Patto di Londra, non ottenne la Dalmazia (tranne la città di Zara) né alcun possedimento in Turchia. La decisione era basata sul principio di autodeterminazione dei popoli enunciato dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson; questa alimentò il mito dannunziano della «vittoria mutilata» e le rivendicazioni italiane sulla città di Fiume. Nel conflitto avevano perso la vita più di 600 000 italiani e oltre 900 000 erano rimasti feriti, mutilati o invalidi. A fronte di tante perdite, soprattutto coloro che avevano combattuto rimasero delusi dalle disposizioni ratificate nei trattati e considerarono tradito lo sforzo della nazione. 17 Strafexpedition – La battaglia degli Altipiani (15 maggio - 27 giugno 1916) Dopo la rapida quanto contenuta avanzata dei primi giorni di guerra, la linea del fronte in Trentino tra la Val Lagarina e la Valsugana si era assestata a pochi chilometri da Rovereto, Lavarone e Levico. A partire dalla fine del 1915, il capo di Stato Maggiore austriaco Franz Conrad von Hötzendorf intraprese la pianificazione di una massiccia operazione militare contro il Regno d’Italia che prevedeva lo sfondamento delle linee in Trentino e l’invasione della pianura veneta, con possibilità di prendere alle spalle il grosso del Regio Esercito schierato sull’Isonzo. L’attacco, che se coronato da successo avrebbe consentito una rapida vittoria, voleva essere un modo per vendicarsi nei confronti dell’ex alleato italiano per il tradimento della Triplice Alleanza. Strafexpedition, termine con cui l’operazione è passata alla storia, significa appunto «spedizione punitiva». Dopo aver cercato, invano, l’appoggio militare tedesco per approntare le 16 divisioni ritenute necessarie per l’operazione, Conrad riuscì a convogliare in Trentino 14 divisioni raggruppate nell’Undicesima e nella Terza Armata, forti nel complesso di 300 000 uomini e 1150 pezzi d’artiglieria. La linea del fronte italiano, presidiata dalla Prima Armata, era particolarmente esposta in caso di attacco per la presenza di settori difficilmente difendibili e per il posizionamento dell’artiglieria troppo vicina alle prime linee. Cadorna si rese conto di questi problemi troppo tardi. 18 La notte fra il 14 e il 15 maggio iniziò il bombardamento a tappeto delle prime linee. L’attacco si svolse su un fronte di 70 chilometri. In Val Lagarina, l’VIII Corpo d’Armata austroungarico occupò Zugna Torta, Pozzacchio e il Col Santo costringendo le truppe italiane ad arretrare fino a una linea di resistenza sul Coni Zugna, il passo Buole e il monte Pasubio. Il XX Corpo d’Armata si scontrò con la Divisione 35a italiana ed entrò nella Val d’Astico con il I Corpo d’Armata sulla sinistra. Sull’altopiano dei Sette Comuni, il III Corpo d’Armata austroungarico riuscì a sfondare il fronte e dopo aspri combattimenti, tra il 27 e 28 maggio occupò Arsiero, Asiago, che fu completamente distrutta, e Gallio. In Valsugana gli italiani furono respinti dal XVII Corpo d’Armata austroungarico che arrivò fino a Ospedaletto. Con attacchi dalla Val Posina e dall’altopiano di Asiago, gli austriaci conquistarono anche il monte Cengio. Ai combattimenti del 29 sul monte Aralta, nei pressi di Arsiero, partecipò il capitano Cerbonesco Cerboneschi di Casale Marittimo (209° Fanteria), che fu insignito della Medaglia d’Argento al valore militare per l’eroica resistenza opposta al nemico prima della ritirata. A questo punto, grazie alla precisa pianificazione di Cadorna, la Prima Armata si riorganizzò. Negli stessi giorni, era stata costituita in tutta fretta una Quinta Armata posizionata tra Vicenza e Treviso a protezione della pianura. Nel frattempo, l’avanzata austroungarica si fermò anche per mancanza di rifornimenti alle prime linee, spintesi troppo in profondità, e il 2 giugno scattò la controffensiva: l’azione della Prima Armata prevedeva uno sfondamento al centro, sugli altipiani, ma ottenne scarsi risultati. L’attacco russo del 4 giugno sul fronte orientale e l’insistenza delle operazioni italiane costrinsero però Conrad a ripiegare (24 giugno) su una linea meglio difendibile che passava sul monte Pasubio, il Cimone, il monte Zebio e l’Ortigara, in alcuni tratti pochi chilometri oltre il fronte del 14 maggio. Anche se le perdite italiane furono superiori a quelle austriache e la linea del fronte arretrò, quella degli altipiani può essere considerata la prima grande battaglia difensiva vinta dagli italiani: nonostante gli errori strategici iniziali e l’inferiorità dell’artiglieria, la resistenza fu tenace e determinante. A partire dal 30 giugno, gli italiani tentarono una massiccia controffensiva che, il 24 luglio, portò alla conquista del Cimone e a pochi altri risultati marginali. A questo contrattacco partecipò anche il sottotenente Benedetto Ugo Narsetti di Casale Marittimo (159° Fanteria) che operava sulle pendici del monte Zebio. Linea del fronte prima dell’offensiva Linea del fronte dopo l’offensiva Corpi d’Armata austriaci Divisioni italiane 19 La battaglia di Caporetto (24 ottobre - 12 novembre 1917) La battaglia di Caporetto rappresenta la più grande sconfitta patita dall’Esercito italiano durante la Prima guerra mondiale. Il comando italiano riteneva improbabile un’azione di quelle proporzioni sul finire di ottobre e pertanto sottovalutò i molti segnali dell’offensiva nemica fino a pochi giorni dall’attacco. Fu allora troppo tardi per predisporre le adeguate contromisure e riorganizzare il fronte in chiave difensiva. L’offensiva austro-tedesca fu sferrata contro il settore del fronte isontino, fra Plezzo e Tolmino, che era presidiato dalla Seconda Armata (Luigi Capello). L’attacco iniziò alle due del mattino del 24 ottobre 1919. L’azione della Quattordicesima Armata (Von Below), composta da cinque divisioni austriache e sette efficientissime divisioni tedesche, si sviluppò secondo cinque direttrici d’azione. La 3a e la 22a Divisione austroungarica attaccarono la 50a Divisione italiana sul monte Rombon e nella conca di Plezzo (dove furono impiegati anche gas tossici), costringendola ad arretrare fino a Saga. La 55a Divisione austroungarica attaccò la 43a divisione italiana e conquistò il monte Rosso. Sul monte Nero gli Italiani opposero invece una lunga resistenza. La 50a Divisione austroungarica attaccò la 46a Divisione italiana e conquistò i monti Sleme e Mrzli, per poi ridiscendere nella valle dell’Isonzo. La 12a Divisione germanica (Slesiana), dalla 20 testa di ponte di Tolmino, sfondò e risalì l’Isonzo in direzione di Caporetto. Si ricongiunse alla 50a Divisione e occupò Caporetto. Da qui si rimise in marcia verso sud, puntando verso la valle del Natisone. La 200a Divisione germanica e la 1a Divisione austroungarica attaccarono la 19a Divisione italiana con obiettivo la dorsale che sovrasta sulla destra la valle dell’Isonzo. Fu l’azione della divisione Slesiana, non adeguatamente contrastata dal VII Corpo d’Armata italiano (Bongiovanni), che creò lo scollamento tra il XXVII (Badoglio) e il IV Corpo d’Armata (Cavaciocchi) e che aggirò e indusse alla ritirata la 50a e la 43a Divisione italiana, sulla difensiva ma ancora saldamente attestate sulla linea di difesa a oltranza, e quello che restava della 46a Divisione. Inspiegabilmente, i cannoni del XXVII Corpo d’Armata rimasero inattivi perché privi di ordini. L’idea iniziale di Cadorna di difendersi con contrattacchi in loco e non con un’azione strategica di ampio respiro consumò quello che rimaneva delle divisioni operanti in zona. Il 25 ottobre caddero in mano nemica il monte Rombon, il monte Nero e lo Stol, mentre truppe tedesche dell’Alpenkorps guidate da Rommel avanzavano sul Kolovrat. Le tre divisioni del XXVII Corpo d’Armata italiano, ancora sulla Bainsizza, ricevettero l’ordine di ritirarsi. Cadorna ordinò di stabilire una nuova linea difensiva attorno a Montemaggiore, ma ormai non c’era più tempo: l’esercito nemico controllava già tutte le alture della valle dell’Isonzo e gli imbocchi della valle del Natisone e Uccea, quindi la via per Cividale e Udine. La sera del 26 ottobre cadde anche Montemaggiore, mentre le divisioni austroungariche erano già in marcia per Udine e San Daniele. Preso atto dell’impossibilità di una nuova difesa, Cadorna ordinò a tutta la Seconda e Terza Armata di ripiegare sul Tagliamento, ma l’avanzata austro-tedesca si arresterà solo il 12 novembre sul Piave. Linee trincerate austroungariche Linee trincerate italiane Divisioni austroungariche Divisioni tedesche Divisioni italiane 21 la battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre - 4 novembre 1918) La vittoria italiana nella battaglia del Solstizio, o seconda battaglia del Piave (15-22 giugno 1918), aveva bloccato l’ultimo tentativo dell’esercito austroungarico di vincere la guerra e l’Impero era ormai sull’orlo del collasso. Anche sul fronte occidentale le potenze dell’Intesa stavano definitivamente prevalendo e si profilò nel governo italiano la volontà di affrettare i tempi per arrivare a una schiacciante vittoria sul campo. Sostenuto da francesi e inglesi, il Regno d’Italia schierava 57 divisioni contro le 50 austriache. L’offensiva italiana scattò il 24 ottobre con l’attacco della Quarta Armata sul Grappa, presidiato dalle divisioni austriache del Gruppo Belluno: il IX Corpo d’Armata attaccò sul Col della Berretta e sul monte Asolone, il IV Corpo d’Armata sul monte Pertica e il Prassolan e il XXX Corpo d’Armata sui monti Solaroli e sul Valderoa. Gli attacchi, ripetuti anche nei giorni successivi, ebbero scarsissimi risultati. L’azione, tuttavia, aveva come obiettivo solo quello di richiamare le forze austriache in questo settore, mentre il grosso dell’offensiva italiana sarebbe stato sferrato poche ore dopo sul Piave, tra Pederobba e la Grave di Papadopoli, ad opera dell’Ottava Armata del generale Caviglia, fiancheggiata dalla Dodicesima del generale francese Graziani a sinistra e dalla Decima del generale inglese Cavan a destra. La piena del Piave ritardò però le operazioni fino al giorno 26. Solo l’isola della Grave di Papadopoli venne occupata dai battaglioni 22 inglesi del XIV Corpo della Decima Armata. Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre iniziarono le operazioni per traghettare i primi reparti di assalto oltre il fiume, che ancora scorreva vorticosamente. La Dodicesima Armata riuscì a far passare a est di Pederobba alcune unità che avanzarono verso Alano di Piave e Valdobbiadene. L’Ottava Armata riuscì a costituire solo una testa di ponte di fronte al Montello con alcuni reparti del XXII Corpo d’Armata (Vaccari). Approfittando della scarsa resistenza nemica, le truppe italiane occuparono Mosnigo, Moriago e Sernaglia, e arrivarono fino a Pieve di Soligo e Falzè, dove però furono respinte dai reparti della Sesta Armata austroungarica. Verso mezzogiorno del 27, dall’isola della Grave di Papadopoli, la Decima Armata attraversò il Piave e si diresse a sud, verso Roncadelle, e a nord, verso Borgo Malanotte. Il giorno seguente, anche il XVIII Corpo d’Armata decise di oltrepassare il fiume attraverso l’isola e di puntare a nord per sbloccare la situazione del XXII Corpo d’Armata a Sernaglia, rimasto isolato. Sulla destra avanzava anche la Decima Armata, che occupò Tezza di Piave e arrivò al fiume Monticano. L’esercito austriaco dava ormai segni di cedimento. Il generale Borojević ordinò alla Quinta Armata, che doveva fronteggiare la Terza Armata italiana sul basso corso del Piave, di ripiegare dietro il Monticano. Cominciava la ritirata austriaca. Il tempo in miglioramento e la minore efficacia dei cannoni austriaci consentirono infine il rapido attraversamento del Piave a tutta l’Ottava Armata. Il XXII Corpo affondò in direzione Pieve di Soligo-Refrontolo, l’VIII da Nervesa risalì verso Susegana-Manzana, il XVIII, duramente contrastato, avanzò su Conegliano e il fiume Monticano; la Decima Armata superò anche il Monticano e la Sesta Armata austriaca, per evitare l’accerchiamento, ripiegò dietro il Livenza; scoperto sul fianco, anche il Gruppo Belluno cominciò a ritirarsi. Borojević ordinò l’evacuazione del Veneto. Alle tre del pomeriggio del 30 ottobre, le truppe del XX Reparto d’Assalto entrarono in Vittorio Veneto e alla sera raggiunsero il fiume CdA austroungarici CdA italiani CdA italo-francese CdA anglo-italiani Quarta Armata (Giardino) IX CdA De Bono VI CdA Lombardi XXX CdA Montanari Livenza. La Terza Armata (Duca d’Aosta) attraversò il Piave e puntò verso il Tagliamento. La Dodicesima avanzava verso Feltre e minacciò di aggirare il Grappa, costringendo anche il Gruppo Belluno alla definitiva ritirata; la Quarta Armata, dopo giorni di inutili attacchi, poteva finalmente avanzare. Anche la Sesta procedeva sull’altopiano di Asiago e la Settima entrò in Trentino attraverso i passi dello Stelvio, del Gavia e del Tonale. Gli italiani marciavano veloci verso est. Il 3 novembre, il cacciatorpediniere Audace attraccò nel porto di Trieste, che diventò così italiana. Il 4 novembre dalle ore 15 entrò in vigore l’armistizio di Villa Giusti che pose fine alla guerra. Ottava Armata (Caviglia) VIII CdA Asclepia-Grazioli XVIII CdA Basso XXII CdA Vaccari XXVII CdA Di Giorgio Decima Armata (Cavan) XI CdA Paolini XIV CdA Babington Dodicesima Armata (Graziani) I CdA Etna 23 24 Maschere antigas, elmetti, uniformi di Massimo Polimeni La guerra chimica. Le maschere antigas «Ovunque gente che fuggiva. Territoriali, zuavi, artiglieri, tiratori scelti correvano come pazzi in tutte le direzioni, buttando i fucili, stravolti, gettando o cercando di sbottonarsi il pastrano, col colletto della camicia aperto, implorando acqua a gran voce, sputando sangue. Qualcuno si rotolava per terra facendo sforzi disperati per respirare. Non erano dei soldati che scappavano, ma poveri esseri umani divenuti improvvisamente folli». È la tragica testimonianza con la quale il generale francese Henri Mordacq descrive il primo massiccio attacco a gas sferrato dai tedeschi contro le linee francesi a Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915, data che segna la nascita della guerra chimica moderna. In realtà, nell’ottobre 1914, i francesi avevano impiegato proiettili carichi di gas lacrimogeno contro le linee tedesche, fornendo così al nemico la giustificazione per una rappresaglia terrificante che costerà la vita a cinquemila soldati alleati nel breve volgere di pochi minuti. La nube di gas al cloro e fosgene che investe le trincee francesi coglie i soldati del tutto impreparati e senza dispositivi di difesa adeguati. Le maschere modello M, realizzate come semplici tamponi imbevuti di sostanze neutralizzanti (soda) e distribuite alle truppe all’inizio del conflitto, non riescono a trattenere i gas asfissianti e gli alti comandi sono costretti a correre immediatamente ai ripari realizzando nuovi dispositivi di difesa passiva contro gli aggressivi chimici utilizzati dal nemico (maschere T, TN, M2). Di pari passo, l’utilizzo dei gas velenosi si allarga a tutti i contendenti, ognuno dei quali cerca di spezzare a proprio vantaggio l’equilibrio che la guerra di posizione e la trincea hanno imposto alle inadeguate strategie tattiche messe in atto dai due schieramenti. Nuove micidiali sostanze vengono prodotte in tutta fretta dall’industria chimica, posta ora al servizio della guerra. Sono ancora i tedeschi a sperimentare e utilizzare – sempre nella regione di Ypres – una nuova sostanza corrosiva e vescicante che, fra l’altro, ha la caratteristica di permanere per giorni sul terreno. L’attacco sferrato contro le linee alleate ha effetti spaventosi e i gas sprigionati dalle bombe tedesche provocano istantaneamente vesciche, piaghe e ulcere sulla pelle, attraversando i tessuti delle uniformi. Moltissimi soldati perdono la vista in pochi minuti; la maggior parte delle vittime muore tra spasmi indicibili perché i vapori velenosi entrati nel circolo sanguigno attraverso le vie respiratorie e la pelle distruggono i tessuti e le mucose. Questione di attimi, e tremila soldati rimangono fulminati sul terreno. È così che passa alla storia uno strumento di morte fra i più micidiali. Dal nome della località belga del suo primo utilizzo, prenderà tristemente il nome di «iprite». Sul fronte italiano la guerra chimica viene applicata con la stessa, metodica crudeltà. Il primo episodio contro le linee italiane avviene per mano degli austroungarici all’alba del 29 giugno 1916. Alle 5:30 circa, vengono attivate tremila bombole di cloro e fosgene e il vento trasporta rapidamente il gas nelle trincee del monte San Michele, presidiate dai soldati delle divisioni 21a e 22a dell’XI Corpo d’Armata che ancora dormono nei camminamenti e nelle baracche, avvolti nelle loro coperte. L’allarme lanciato dalle sentinelle è inefficace, così come le rudimentali maschere a imbuto Ciamician-Pesci in dotazione ai nostri soldati. Queste, costituite da semplici strati di garza imbevuti di una soluzione acquosa di carbonato di sodio e potassio, sono in grado di contrastare parzialmente i vapori di cloro, ma nulla possono contro i terribili effetti del fosgene, gas velenosissimo con effetti letali e ritardati anche se assunto in piccolissime dosi. La nube tossica investe in pieno le trincee italiane neutralizzando quasi settemila uomini delle Brigate Regina e Pisa. Duemila uomini passano istantaneamente dal sonno alla morte e i pochi sopravvissuti agonizzanti vengono finiti a colpi di 25 mazze ferrate dai militari ungheresi del Reggimento Honved che, dispersa la nube, hanno invaso le trincee e procedono di soldato in soldato compiendo un massacro sistematico. Gli effetti dei gas sono immediati: molti uomini vengono ritrovati seduti o sdraiati, con le armi e gli equipaggiamenti intatti, senza aver avuto il tempo di indossare la maschera perché la morte è sopraggiunta fulminea. All’indomani di questi primi attacchi si cerca affannosamente di dotare l’esercito di nuovi dispositivi, in grado di proteggere adeguatamente le vie respiratorie. Viene adottata inizialmente la maschera francese modello M2, realizzata con ben quaranta strati di garza imbevuti di glicerina, solfato di nichelio, urotropina e carbonato di sodio. Successivamente si passa alla maschera italiana polivalente modello Z, costituita da sessanta strati di garza con occhiali di celluloide incorporati e ricoperta da un rettangolo di tela gommata che protegge il tampone sottostante dalla pioggia ed evita l’evaporazione dei reagenti chimici. Tale maschera si rivelerà tuttavia inefficace contro gli aggressivi chimici più potenti e verrà finalmente e tardivamente sostituita – nel 1918 – dallo «Small Box Respirator» inglese. Realizzato con un facciale in tela cerata assicurato al capo mediante dei tiranti, munito di una valvola a farfalla per espellere l’aria espirata e di un filtro con sostanze assorbenti collegato alla maschera mediante un tubo corrugato e contenuto in una sacca di tela assicurata sul petto, è un dispositivo di impostazione finalmente moderna ed efficace, in dotazione ai soldati inglesi già dal 1916 (i tedeschi, sempre nello stesso anno, ne adottano un modello simile, con il filtro fissato direttamente al facciale). Gli attacchi a gas continuano incessantemente per tutta la durata della guerra, mietendo migliaia e migliaia di vittime da ambo le parti. La notte del 24 ottobre 1917, fra Tolmino e la conca di Plezzo, gli austriaci aprono il fuoco sulle linee italiane con proiettili caricati di difenilcloroarsina, un gas estremamente tossico in grado di attraversare qualunque maschera. La nebbia letale che avvolge i soldati della Brigata Friuli ne uccide seicento all’istante. Altri attacchi all’iprite saranno sferrati all’inizio di novembre del 1917 sull’altopiano di Asiago e nella battaglia del Solstizio del giugno 1918 sul fronte del Piave, quando l’Impero asburgico tenterà lo sforzo supremo e ultimo contro l’Italia. Dopo l’armistizio, i soldati italiani troveranno nei depositi austriaci oltre due milioni di proiettili a gas pronti per essere utilizzati contro le nostre truppe. L’elmetto nella Grande Guerra Gli eserciti che allo scoppio della Grande Guerra si affrontarono sui campi di battaglia europei non erano ancora dotati di un’idonea protezione per il capo, a fronte di una vecchia concezione tattica di sapore ottocentesco che non aveva ancora fatto i conti con i terribili effetti della «guerra di posizione». I soldati francesi, inglesi, italiani e austriaci andarono quindi in battaglia indossando képi o pesanti berretti di panno; solo i tedeschi mantennero inizialmente il Pickelhaube, il tradizionale casco chiodato in cuoio bollito che offriva al soldato una protezione comunque modesta. Già dai primi mesi di guerra emerse dunque la necessità di proteggere la testa dei soldati che combattevano nelle trincee dalle schegge metalliche, di roccia e dai detriti prodotti dai colpi d’artiglieria oltre che dall’azione dei colpi di fucile, sparati sovente da brevissima distanza (in molti casi, le posizioni erano separate da poche centinaia di metri di terreno scoperto). Iniziò dunque nelle varie intendenze uno studio mirato a realizzare un casco metallico standard che potesse equipaggiare tutti i soldati impegnati nelle prime linee del fronte. La Francia fu la prima nazione ad adottare un elmetto, destinato poi a passare alla storia come simbolo stesso della Grande Guerra: l’elmetto Adrian. Ideato dall’intendente generale Adrian, l’elmo omonimo era costruito in acciaio dello spessore di 0,7 mm e provvisto di un’imbottitura in pelle che poggiava su un lamierino ondulato per favorirne l’aerazione e il molleggio. I primi modelli del «Casque Adrian 1915», distribuiti a partire dal settembre di quell’anno, erano composti da quattro pezzi (calotta, visiera, paranuca e crestina) montati insieme e provvisti frontalmente di un fregio metallico che indicava la specialità (Fanteria, Artiglieria, Genio ecc.). I colori degli elmi furono 26 inizialmente il bleu horizon e il gris artillerie. Questo elmo dalle linee gradevoli e raccolte fu molto apprezzato dalle truppe, pur risultando qualitativamente inferiore ai modelli prodotti nello stesso periodo dai tedeschi. L’elmo Adrian fu utilizzato dagli eserciti di diverse nazioni e prodotto in circa venti milioni di esemplari. Alla fine della guerra, ad ogni soldato che vi aveva preso parte, fu consegnato un elmetto sulla cui visiera veniva applicata una placchetta ricordo in ottone a forma di mezzaluna con inciso il nome del militare e l’iscrizione «1914-1918 – Soldat de la Grande Guerre». A partire dal 1915 l’Italia avviò alcuni esperimenti che portarono alla realizzazione dell’elmo da trincea Farina (dal nome del suo ideatore). Si trattava di un elmo di concezione medievale che, associato a una corazza pettorale, era destinato alle vedette e ai reparti incaricati di aprire varchi nei reticolati avversari e che, scomodo e inadeguato, non aveva i requisiti per divenire una dotazione standard per tutto l’esercito. Prodotto in due modelli (alto e basso) formati da cinque fogli di acciaio antiproiettile, l’elmo Farina era munito di una cuffia di cotone grezzo imbottita di crine e presentava all’interno dei cuscinetti di caucciù per ammortizzare il peso che, a seconda delle taglie, poteva andare dai 2,6 ai 2,8 kg. Al fine di dotare in breve tempo tutte le truppe al fronte di un elmo protettivo, si decise quindi di ricorrere a forniture di elmetti francesi Adrian. Utilizzati inizialmente nei colori originari, in seguito furono prodotti in Italia su licenza e tinti in grigioverde. Nel 1916 venne introdotto un nuovo modello di elmetto che ricalcava la forma del precedente, ma era stampato nell’acciaio in un unico pezzo al quale venivano poi applicati il crestino e l’imbottitura. Fino alla fine della guerra le nostre truppe utilizzarono entrambi i modelli, spesso dotati di una foderina mimetica in tela grigioverde recante frontalmente il fregio del corpo di appartenenza. Nel 1916 la Germania introdusse lo «Stahlhelm 16», un elmo destinato a sostituire i tradizionali e obsoleti caschi chiodati e che rispondeva pienamente e con efficacia alle esigenze della guerra di trincea. Realizzato in acciaio al nichel-cromo dello spessore di 1 mm, presentava una calotta con ampie falde che coprivano la nuca e le orecchie, risalendo poi frontalmente all’altezza degli occhi a formare una sorta di visiera. L’elmo proteggeva egregiamente la testa del soldato e per quelli comandati ai turni di vedetta prevedeva l’utilizzo di una corazzetta frontale aggiuntiva che andava ad agganciarsi agli aeratori laterali. L’imbottitura era costituita da tre cuscinetti di pelle riempiti di crine, mentre un sottogola in cuoio assicurava l’elmo alla testa. Questo stesso modello di elmo, con piccole modifiche al sistema di aggancio del sottogola, venne prodotto in Austria e distribuito a tutte le truppe dell’Impero asburgico impegnate sul fronte italiano. Il Regno Unito dotò le proprie truppe del «Brodie MkI», l’elmo a forma di catino rovesciato ideato dall’ingegnere John Leopold Brodie nel 1915 e destinato a divenire – insieme all’Adrian e alle sue versioni successive – uno degli elmi più diffusi al mondo. Era realizzato con acciaio dello spessore di 0,9 mm e la sua forma larga e piatta rispondeva adeguatamente alle esigenze della guerra di trincea, proteggendo la testa e il collo del soldato dalle schegge e dai detriti che dopo ogni esplosione piovevano sui ripari. La calotta era completata da una cuffia regolabile con alla sommità un cuscinetto di cotone assorbente e da un sottogola in cuoio. Più di sette milioni di questi elmi vennero prodotti dal 1915 alla fine del 1918 ed esportati in diverse nazioni. Gli Stati Uniti, all’entrata in guerra, acquistarono dall’Inghilterra 400 000 di questi elmi con cui equipaggiare i loro contingenti e successivamente, nel 1917, ne realizzarono una versione quasi identica prodotta in 2700 esemplari. Le uniformi Già dall’inizio del Novecento, gli stati maggiori degli eserciti europei avevano cominciato a interessarsi a diversi progetti con l’intento di dotare i loro uomini di nuove uniformi, più pratiche e funzionali di quelle che avevano equipaggiato le truppe fino alla fine del secolo precedente. Grazie all’impiego delle nuove munizioni che non producevano fumo, si poteva cominciare a pensare di rendere le unità meno visibili sul campo. Si avviò pertanto un lento processo teso a eliminare dalle 27 uniformi tutti quegli elementi ornamentali e appariscenti che mal si coniugavano con le nuove esigenze tattiche, mentre gradualmente si faceva strada il concetto di «mimetismo», in parte già sperimentato nelle recenti guerre coloniali. Soprattutto l’Inghilterra e la Germania avevano infatti dotato le loro truppe di adeguate uniformi color kaki, abbandonando i tradizionali colori (ad esempio il rosso) che in una guerra moderna rischiavano di fare di ogni soldato un comodo bersaglio per il nemico. Vennero quindi studiate e adottate nuove uniformi monocolore, le cui tinte si armonizzavano con lo sfondo del campo di battaglia e con i colori della terra e della vegetazione. L’Italia condusse fin dal 1905 esperimenti finalizzati all’ammodernamento delle dotazioni militari in materia di uniformi e nel 1906 equipaggiò quaranta Alpini del Battaglione Morbegno (il cosiddetto «Plotone Grigio») con una nuova tenuta sperimentale il cui colore si discostava finalmente dal «turchino scuro» delle uniformi umbertine. Dopo vari studi e prove comparative sul campo, venne infine approvata e adottata nel 1909 una nuova uniforme standard per tutto l’esercito, realizzata in panno di lana di colore grigioverde. La giubba per Armi a Piedi della nuova uniforme da truppa presentava una bottoniera coperta, spallini «a salsicciotto» e colletto in piedi sul quale venivano posizionate le mostrine reggimentali. Era completata da pantaloni e fasce mollettiere in panno dello stesso colore, dagli scarponcini da truppa modello 1912, da un pesante pastrano e da una funzionale mantellina che proteggeva il soldato dalle intemperie. Anche le buffetterie, già in cuoio naturale, vennero tinte in grigioverde, colore che accompagnerà il Regio Esercito per oltre trent’anni. Il «fantaccino» italiano della Grande Guerra visse, combatté e morì in trincea indossando questa semplice divisa. Anche le uniformi degli ufficiali si adeguarono a questa nuova esigenza di sobrietà e vennero dapprima confezionate in cordellino nella nuova tonalità di colore, poi nello stesso panno utilizzato per le uniformi della truppa. Precise disposizioni imponevano agli ufficiali – specie quelli al comando di unità di prima linea – di uniformarsi alle tenute dei sottoposti, al fine di non esporsi al riconoscimento e al fuoco dei cecchini nemici che tendevano a eliminare tutti gli ufficiali per creare scompiglio e confusione nei reparti. L’uniforme degli ufficiali – quando indossavano lo stesso modello previsto per la truppa – era costituita da una giubba con tasche applicate o a taglio, controspalline semifisse, pantaloni a sbuffo, stivali o molto più spesso stivaletti, calzettoni e fasce mollettiere. Cinturoni, fondine e bandoliere erano in cuoio grigioverde. L’Austria si dotò nel 1910 di un’uniforme color grigio cenere, hechtgrau, munita di ampie tasche e di un berretto da campo dal disegno pratico e moderno. Era prodotta in panno di lana di buona qualità e composta di una giubba a collo chiuso e dritto (Stehkragen) e di un berretto (Kappe) dello stesso panno e colore, alla cui sommità della cupola era fissata una coccarda metallica con le cifre imperiali. Ai piedi si portavano scarponi di cuoio chiodati e fasce mollettiere. Completavano l’uniforme da campo un cappotto (Mantel) di panno di uguale colore e lo zaino in pelle di vitello a cui si agganciavano il cinturone e gli spallacci che, a loro volta, sostenevano quattro giberne in cuoio per le munizioni, la baionetta e la vanghetta da fanteria. In questo modo, tutto l’insieme zainocinturone poteva essere agevolmente sfilato e indossato. Nel 1915 fu prodotta una nuova giubba da campo, di colore grigioverde chiaro, con colletto rivoltato anziché dritto. A parte questo dettaglio, la foggia dell’uniforme restò pressoché invariata per tutta la guerra. La Francia entrò nella Grande Guerra (1914) equipaggiando i propri soldati con un’inadeguata uniforme composta da giubba blu scuro, képi e pantaloni rossi, identica a quella indossata nel 1870 durante la guerra franco-prussiana, tenuta che l’anno successivo l’intendenza si sarebbe affrettata a sostituire con la famosa uniforme in panno bleu horizon che accompagnerà il «poilu» per tutto il conflitto. Il taglio della nuova uniforme era semplice e funzionale, con giubba a colletto rovesciato, pantaloni, scarponcini chiodati e fasce mollettiere, oltre a un comodo pastrano dello stesso colore le cui estremità potevano essere ripiegate e fissate sul retro per non ostacolare i movimenti delle gambe. Giberne, cinturone e spallacci erano in cuoio naturale o tinto di nero. 28 La Germania adottò nel 1910 un’uniforme di colore grigio chiaro con tonalità di verde, denominato feldgrau, che mantenne per tutta la guerra. La giubba aveva bottoniera scoperta, colletto rivoltato e due tasche inferiori con patte applicate; i pantaloni erano infilati in comodi stivali di cuoio. Completava la tenuta un pesante pastrano in panno. Cinturone, spallacci e giberne erano in cuoio naturale. L’Inghilterra mantenne per le proprie truppe il tradizionale colore kaki già sperimentato nelle campagne d’Africa realizzando comode uniformi in pesante panno, con pantaloni e fasce mollettiere. Il colore scelto per i soldati di Sua Maestà si adattava perfettamente agli sfondi fangosi dei teatri operativi in cui le truppe si trovavano a combattere, mentre la razionalità dei dettagli eliminava le vistose differenze tra truppa e ufficiali che tante perdite avevano causato in quest’ultima categoria. L’unico elemento distintivo tra ufficiali e truppa era costituito dall’equipaggiamento individuale. Mentre i soldati erano dotati del webbing equipment, o web, realizzato in robusta canapa ritorta, che comprendeva dieci giberne, zaino, portabaionetta e portautensili, tascapane e portaborraccia, gli ufficiali indossavano il cinturone di cuoio, destinato a sorreggere, insieme a una giberna per le munizioni, la pesante rivoltella Webley d’ordinanza. Solo le truppe scozzesi non vollero inizialmente rinunciare ai propri segni distintivi – il kilt e i copricapo tradizionali come il glengarry – ma dopo i primi mesi di guerra il computo delle perdite impose agli orgogliosi scozzesi di celare il coloratissimo kilt e lo sporran sotto un grembiule di tela kaki e di sostituire i tradizionali calzettoni a scacchi bianchi e rossi con calze o mollettiere kaki. Anche gli Stati Uniti dotarono il proprio corpo di spedizione al comando del generale John Pershing di uniformi unificate di panno kaki, composte da giubba a quattro tasche, pantaloni al polpaccio, ghette e buffetteria in canapa kaki. Elemento caratteristico dei soldati americani era l’immancabile campaign hat, il tradizionale copricapo a falde larghe in feltro. 29 1 2 3 4 1. Tenente generale italiano di Corpo d’Armata 2. Sergente italiano, I Reparto d’Assalto 3. Fante italiano, Brigata Campania 4. Geniere italiano, Compagnia della Morte 5. Fante tedesco 6. Caporale austriaco 7. Fante francese 8. Fante russo 9. Fante inglese 10. Sergente US Marines 30 5 6 8 7 9 10 31 Soldato di fanteria 1916, Prussia Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento Collezioni Francesco Alunno, Giuliano Baratella, Andrea Russo 32 Sottufficiale dei Landesschützen 1916, Austria Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento Collezione Luca Dello Sbarba 33 Alpino del 2° Reggimento 1915, Italia Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento Collezioni Francesco Alunno, Massimiliano Battini, Luca Dello Sbarba 34 Soldato di Fanteria («poilu») Cacciatore a piedi del 5° Reggimento 1916, Francia Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento Collezione Massimiliano Battini 35 Caporale della 3a Divisione di Fanteria «La Marne» 1918 Stati Uniti d’America Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento Collezioni Francesco Alunno, Massimiliano Battini 36 Elmo Farina modello basso Collezione Francesco Alunno Elmo Farina modello alto Collezione Giuliano Baratella 37 Dall’alto in senso orario: Elmo Pickelhaube mod. 1895 da Fanteria, Prussia Elmo Pickelhaube mod. 1895 da Artiglieria, Prussia Elmo mod. 1918 a falde tagliate con schema mimetico geometrico, Germania Collezione Giuliano Baratella 38 Dall’alto in senso orario: Elmo Brodie mod. 1916 Mark I, Regno Unito Collezione Giuliano Baratella Elmo mod. 1917 del 332° Reggimento di Fanteria, 83a Divisione, Stati Uniti d’America Elmo Adrian mod. 1915, Serbia Collezione Piero Santi 39 Elmo Adrian mod. 1915, Belgio Collezione Giuliano Baratella Da sinistra in senso orario: Elmo Adrian mod. 1915, Russia Elmo Adrian mod. 1915 con fregio Cacciatori, Francia Elmo mod. 1918 con corazzetta, Austria-Ungheria Elmo Adrian mod. 1915, Cecoslovacchia Collezione Giuliano Baratella 40 In alto: Maschera antigas polivalente a protezione unica, Italia e Maschera antigas mod. 1916, Austria Collezione Luca Dello Sbarba In basso: Maschera antigas mod. 1917, Regno Unito Collezione Massimiliano Battini 41 1 2 3 4 1. Baionetta austriaca mod. 1895 da sottufficiale di Polizia, con fodero 2. Baionetta austriaca mod. 1890 da Cavalleria EA. IX, con fodero 3. Baionetta austriaca mod. 1895 Steyr FGGY, con fodero 4. Baionetta tedesca mod. 1898/05 Mauser Anker-Werke, con fodero Collezione Dario Viganò 42 5 6 7 8 9 5. Baionetta italiana mod. 1870 Vetterli da Fanteria molla lunga, Torre Annunziata, con fodero 6. Baionetta italiana mod. 1891 Carcano da Fanteria, con fodero 7. Baionetta italiana mod. 1870/16 Vetterli molla corta, FT (Torino), con fodero 8. Baionetta italiana mod. 1891 Carcano Truppe Speciali (Brescia), con fodero 9. Baionetta italiana mod. 1917 «ersatz» (di ripiego) per fucile mod. 1891, con fodero Collezione Dario Viganò 43 44 Le trincee della Toscana di Damiano Leonetti Leggendo la storia della Grande Guerra, saremmo indotti a pensare che abbia riguardato solo una zona ben precisa del nostro Paese, dove ancora oggi sono visibili le tracce e le ferite lasciate da circa quaranta mesi di combattimenti. Vengono in mente il Carso e le sue doline, le Dolomiti con le postazioni in quota, il Piave o il monte Grappa. Quell’immane conflitto coinvolse però un territorio molto più ampio, fra cui la Toscana con le sue zone costiere. Le celebrazioni del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia offrono anche l’occasione per riportare alla luce circostanze ed episodi per lo più sconosciuti a cui la nostra regione ha fatto da sfondo. 23 maggio 1916, la Grande Guerra arriva all’Elba Era l’alba del 23 maggio 1916 quando il sommergibile tedesco U-39 battente bandiera austroungarica (la Germania non era ancora ufficialmente in guerra con l’Italia) emerse di fronte a Portoferraio e iniziò a bombardare gli altiforni dell’importante stabilimento siderurgico locale e la flottiglia dei carbonieri attraccata ai pontili di discarica. La sorpresa fu generale. L’episodio venne riportato con tutti i dettagli nel supplemento del «Popolano», bisettimanale di Portoferraio diretto all’epoca dal noto giornalista elbano Sandro Foresi, uscito appena due ore dopo il fatto. In epoca successiva (1938), lo stesso Foresi completò la ricostruzione dell’attacco subito dalla città di Portoferraio in un altro supplemento del «Popolano» in cui diede conto anche della versione nemica. Erano le 5,26 al nostro orologio, le 6,30 a quello del nemico. [...] Il pensiero è corso rapido a qualche incursione aerea, o a qualche esercitazione delle numerose artiglierie che difendono Portoferraio. Ma al primo colpo un altro, a breve distanza, è seguito, rombando sulla nostra Darsena, a fiore delle case che coronano la Calata. Portoferraio aveva il suo battesimo di fuoco! Quasi nascosto da una leggera nebbia violacea che velava la spiaggia di Bagnaia un sottomarino, emerso in quelle prossimità dalle tranquille acque del mare, sparava contro il piroscafo Teresa Accame ancorato al ponte di scarico degli Alti Forni e contro le ciminiere degli stessi Alti Forni1. Le sue dimensioni non erano così notevoli come è potuto a taluno sembrare. Persone venute da Bagnaia ce lo hanno descritto della lunghezza di circa 70 metri. Aveva a prua schierato parte dell’equipaggio, e vomitava da un pezzo da 77 la sua rabbia contro il nostro maggiore opificio industriale. Aveva issato bandiera Austriaca. I colpi sparati dal sottomarino furono poco più di venti. L’artiglieria, piazzata in vari punti a difesa della rada di Portoferraio e dello stabilimento, rispose con il lancio di alcuni proiettili. Verso le 10, dopo qualche altra cannonata, il sottomarino scomparve sott’acqua sottraendosi ai tiri delle batterie. Complessivamente, i danni furono limitati, ma le schegge delle granate raggiunsero diverse persone colpendo a morte due inconsapevoli marinai. Altri proiettili caddero in città, ferendo alcune persone fra le quali due donne. Dalla direzione dello stabilimento siderurgico si ebbe una descrizione dettagliata di quanto subito dall’opificio. La versione austriaca su quanto accadde la mattina del 23 maggio e il giorno precedente arrivò nelle mani del direttore Foresi per quella che lui definì «una fortunata combinazione» già nel cor1 Le parti in corsivo furono censurate e poi riscritte a matita sul supplemento del giornale dallo stesso direttore Foresi. 45 so degli anni Trenta. Un suo amico illustre, del quale non rese noto il nome, gli fece pervenire il rapporto-diario del tenente di vascello austriaco Gastone Vio, imbarcato sul sommergibile U-39 che bombardò Portoferraio. Ecco alcuni stralci di quello che Foresi definì «il rapporto del nemico»: […] Noi speravamo che, in conseguenza del bombardamento, i nostri prigionieri avrebbero tentato di fuggire verso di noi coi battelli2. […] Disgraziatamente l’avvenimento rimase solo nella nostra speranza. […] Alle 7,30 emergiamo e intraprendiamo l’inseguimento di un vapore che dirigesi verso il passo fra l’Elba e l’Isola di Palmaiola antistante. Il piroscafo non si ferma ai nostri colpi d’avviso, ma aumenta la velocità. […] Dalla costa dell’Elba si dirige verso di noi a tutta forza un piccolo vapore. Noi supponiamo un naviglio di sorveglianza costiera. Ci immergiamo e lanciamo un siluro al piroscafo. […] Noi emergiamo e passiamo rasente di poppa al grande vapore. Esso è il piroscafo italiano Washington 2819 T. in pieno carico, apparentemente carico-misto. Per accelerarne l’affondamento vogliamo ancora tirargli qualche colpo alla linea d’acqua. Ma non è necessario, perché esso è già in procinto d’affondare. L’attacco pare collegato anche alla vicenda personale del tenente Stefano Wollemann, protagonista di un volo sul cielo di Bari il 17 luglio 1915 durante il quale lanciò bombe sulla popolazione «assassinandone sei innocenti e ferendone eroicamente molti altri». Caduto in mare all’altezza di Barletta, venne catturato insieme a un altro ufficiale austriaco. I due prigionieri furono trasferiti a Potenza e successivamente, per maggiore sicurezza, all’Elba, dove arrivarono il 22 agosto 1915 «accolti» da una gran folla incuriosita. Wollemann venne alloggiato sotto stretta sorveglianza alla caserma De Laugier di Portoferraio nella sala di disciplina dei sottufficiali. Definito «nemico nell’anima e nel fegato», neppure in quella situazione rinunciò a rivolgere minacce alla popolazione. Ciò nonostante, «il cuoricino tenero di noi latini» – per dirla con Sandro Foresi – permise il suo trasferimento in un locale più comodo, dove poté godere di un trattamento di favore e di maggiori libertà. Successivamente, in modo per certi versi ancora inspiegabile, fu trasferito a Bibbiena, nel Casentino, da dove riuscì a fuggire nel marzo del 1916. La notizia della fuga suscitò nella popolazione di Portoferraio sentimenti di rabbia e di preoccupazione. Sicuramente il tenente Wollemann avrebbe dato informazioni preziose al Comando Superiore e il tenente di vascello Vio ne avrebbe fatto tesoro. Resta il mistero di come fossero stati informati anticipatamente del bombardamento del 23 mattina i prigionieri, che lo accolsero con «voci alte e fioche e suon di man con elle». Rimarrà il dubbio della presenza di spie all’interno della prigione. Le nostre artiglierie risposero all’attacco con grave ritardo, ma bastarono pochi colpi dal cannone della Batteria Falcone perché il sommergibile si allontanasse inabissandosi con rapidità. Non mancò la reazione della popolazione. Scrisse Foresi: Portoferraio ha dimostrato di essere pari per nobiltà di sentimenti, per saldezza di cuore alle città consorelle che hanno provato l’ira del nostro secolare nemico. Non un atto, non una voce che tradisse il più lieve senso di paura. La nostra popolazione ha scagliato in faccia al nemico tutta la potenza del suo spirito forte; e un solo, un unico grido ha risposto alle cannonate nemiche: «Viva l’Italia Viva l’Elba». La censura autorizzò l’uscita del supplemento del «Popolano» solo dopo «estenuanti trattative». Si pensò che la vendita del giornale potesse «incitare la popolazione ad essere calma e fiera nel pericolo», così si disse. Le bozze furono visionate dalle autorità civili e militari prima del via ufficiale alla pubblicazione. Il giornale andò a ruba. In un’ora ne furono vendute ben seimila copie nella sola città di Portoferraio, che contava diecimila abitanti. Nonostante i tagli preventivi, inspiegabilmente, il giorno successivo un commissario di Pubblica Sicurezza si recò in redazione per procedere al sequestro del foglio. Ma ormai era troppo tardi: si dovette accontentare di portar via le venti copie conservate per l’archivio del giornale, compiendo così solo un gesto simbolico. 2 I prigionieri si trovavano nella Palazzina dei Mulini di Portoferraio, che aveva già ospitato Napoleone. 46 L’attacco sarebbe rimasto nella memoria della popolazione elbana anche per il gesto d’eroismo compiuto dall’avvocato Giuseppe Tonietti e dalla moglie Luisa Monti. Il sottomarino era emerso a circa 400 metri dalla loro villa di Punta Pina quando iniziò a lanciare proiettili contro la città. Fu allora che il Tonietti, con l’aiuto della coraggiosa moglie, si mise a sparare ripetuti colpi di carabina. L’atto di «patriottica rivendicazione degli audaci coniugi Tonietti» valse loro la Medaglia d’Argento al valore. Nell’inchiesta condotta dal generale Ibba Piras per conto del ministero della Guerra si legge: L’avv. Giuseppe Tonietti, nato a Buenos Aires da genitori elbani, ed ora residente con la propria moglie a Punta Pina, visto il sommergibile emergere ed iniziare il tiro in vicinanza della sua casa, impugnò la propria carabina (una carabina a ripetizione tipo Vinchester con caricatori a pallottola) e con essa fece fuoco contro il sommergibile affacciandosi ad una finestra del piano superiore della propria abitazione, avendo a fianco la consorte signora Luisa Monti, la quale lo accompagnò, anche quando egli ritenne opportuno allontanarsi dalla casa per continuare il fuoco stando appostato dietro un cespuglio. […] Ritengo entrambi i coniugi meritevoli della medaglia d’argento al valor militare per avere l’avv. Tonietti, con alto sentimento patriottico e con sprezzo del pericolo gravissimo che correva, fatto fuoco a palla contro un sommergibile nemico che attaccava la propria città a brevissima distanza dalla costa; e per avere la signora Tonietti, di lui consorte, con nobile slancio femminile e con raro coraggio, pari all’affetto pel marito, assistito questo, con grave pericolo della propria vita, durante la generosa azione che egli stava compiendo. Retorica a parte, il gesto del Tonietti è sicuramente significativo del suo carattere e del suo animo irredentista, in linea con la sua storia personale e con quella della sua famiglia. Nato nel 1862 a Buenos Aires, dove il padre era fuggito perché ricercato come cospiratore dal governo Granducale di Toscana, appena giovinetto Giuseppe fu inviato in Italia a compiere gli studi. Conseguì la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa dopo aver frequentato, a Prato, il rinomato Collegio Cicognini dove si trovò a essere compagno di classe e di camerata di Gabriele d’Annunzio. Il precettore del Cicognini Enrico Lotti definì l’allievo Tonietti «incorreggibile per i suoi costumi cattivi, e per quanto m’adoperi con ammonizioni e castighi non ottengo di metterlo nella via buona e civile, essendo di un carattere pessimo». Altrettanto negativo il giudizio dato su di lui da d’Annunzio: «una specie di maligno canchero nato nell’isola d’Elba da un armatore arricchito nell’Argentina». Fervente sostenitore delle dottrine mazziniane, il Tonietti tenne numerose conferenze a Pisa e a Livorno nel corso degli studi universitari e fu più volte arrestato. Sposatosi con Luisa Monti dopo un breve rientro a Buenos Aires, si stabilì con la moglie all’Elba, nella villa di Punta Pina. L’attacco del sommergibile austro-tedesco agli Alti Forni di Portoferraio non fu certo casuale. Nei primi anni del Novecento, l’Italia aveva intensificato gli sforzi per ridurre la propria dipendenza dalle potenze straniere in materia di armamenti. L’industria siderurgica assumeva così un ruolo strategico di fondamentale importanza, e con essa le miniere di ferro elbane. Nel 1899 veniva costituita a Genova la società Elba. Fu deciso di costruire l’impianto siderurgico a Portoferraio – l’area scelta fu quella delle antiche saline granducali – sia per la vicinanza alle zone estrattive sia per l’ottima e sicura rada di Portoferraio. Nel periodo precedente la Grande Guerra si intensificò il contrasto di interessi economici con la Germania, ben rappresentati in Italia dalla Banca Commerciale, proprio attorno alla produzione dell’acciaio. Nell’estate del 1914, con l’Italia in ufficiale neutralità, lo scontro in atto con la potenza alleata è raccontato in un articolo del «Corriere di Livorno», giornale interventista pubblicato in una città dove, per la presenza dei Cantieri Orlando, si sentiva particolarmente la rivalità economica con la Germania. L’articolo, intitolato Boicottiamo i Tedeschi!, recitava […] boicottare l’Austria e la Germania non è soltanto una prelibata soddisfazione per i nostri animi italiani e neutrali; ma è anche un’immediata necessità imposta dalla vita economica del nostro paese. Così chi boicotta un tedesco unisce l’utile al dilettevole, ciò che non è poco davvero! 47 La città di Portoferraio venne decorata da S. M. Vittorio Emanuele III con la Croce al Merito di guerra per le «serene virtù del suo popolo», onorificenza consegnata alla città il 27 novembre 1922 dal generale Ravazza. Dirigibili contro U-Boot Quello contro Portoferraio fu solo uno dei tanti attacchi portati dai temuti U-Boot tedeschi nel Mediterraneo. Nel 1917, i 28 sommergibili in azione nel nostro mare affondarono ben 94 navi mercantili alleate. I tedeschi sapevano bene che la loro condotta avrebbe portato in guerra anche gli Stati Uniti, come in effetti avvenne nell’aprile del 1917. Tuttavia le truppe americane sarebbero arrivate sui campi di battaglia solo un anno dopo, e la Germania pensava che nel frattempo avrebbe portato la Gran Bretagna alla resa. Non fu così. Dal mese di maggio del 1917 gli inglesi assicurarono, con successo, una scorta navale (navi da guerra mimetizzate) e aerea (mediante l’uso di dirigibili) ai propri convogli mercantili. Qualcosa di molto simile accadde anche nel mar Tirreno ed è in questo contesto che si inquadra l’arrivo all’aeroscalo di Pontedera del dirigibile Usuelli 5 (U5) al quale venne assegnato il servizio di pattugliamento antisommergibile del tratto di mare compreso tra Punta Ala, l’isola d’Elba e la Corsica dando allo scalo pontederese un ruolo ben diverso da quello che aveva indotto la Regia Marina alla sua realizzazione. All’epoca, infatti, facendo ancora parte della Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, l’Italia aveva la necessità di proteggere da una potenziale minaccia francese le navi e i convogli che transitavano nel Tirreno e nel Mar Ligure. Furono così realizzate lungo le coste numerose stazioni di scalo sia per dirigibili sia per idrovolanti. Pontedera sembrò l’ubicazione migliore per coprire il tratto di mare fra i porti di Livorno e La Spezia. La cittadina era infatti servita dalla «Leopolda», la ferrovia che dal 1844 collegava Livorno con Firenze via Pisa e la stessa Pontedera, le condizioni aerologiche della zona erano giudicate buone, la posizione era baricentrica rispetto al tratto di mare da sorvegliare e, non trovandosi direttamente sulla costa, godeva di un’adeguata protezione contro eventuali attacchi provenienti da unità navali. I progetti dell’aeroscalo pontederese iniziarono nel marzo del 1914. Per il timore che i fili sospesi della vicina stazione radiotelegrafica di Coltano nei pressi di Pisa potessero interferire con i dirigibili in scalo a Pontedera, lo Stato Maggiore della Regia Marina interpellò la Direzione Generale di Artiglieria ed Armamenti e, ottenute le debite rassicurazioni, avviò la procedura per la realizzazione dell’aeroscalo. Il Comune mise a disposizione le aree per circa 33 ettari complessivi. Il progetto, completamente definito alla fine di giugno del 1914, prevedeva: un hangar di 110 m di lunghezza e 33 m di larghezza per un’altezza libera di 32,3 m; tettoie per deposito di tubi per l’idrogeno; officina e magazzino; palazzina per l’alloggio di 6 ufficiali; caserma per 100 uomini di truppa e 12 sottufficiali; uffici per il Comando e la Direzione dell’aeroscalo; corpo di guardia e sale di punizione; rimessa per automobili; piattaforma per la manovra dei dirigibili. I lavori, affidati alle Officine di Savigliano, terminarono nel gennaio del 1916. Dall’ottobre del 1917, all’epoca dello sfondamento di Caporetto, lo scalo assunse un ruolo attivo nel conflitto. Da marzo, l’U5 venne affiancato nel suo servizio da altri due dirigibili (M9 e PVO). Era questa la dotazione dell’aeroscalo al 2 maggio 1918, quando alle tre del pomeriggio giunsero al comandante, maggiore Stabarin, due telegrammi, uno dal capostazione di Castellina Marittima e uno dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che lo informavano della tragedia appena accaduta: « […] essersi verso le 13,15 il Dirigibile U5 incendiato e caduto nella tenuta di Valdiperga presso la Stazione Ferroviaria di Castellina Marittima». I cinque componenti dell’equipaggio (comandante tenente Federico Fenu, tenente Enrico Magistris, tenente Luigi Carta, sottocapo Michele Rosato radiotelegrafista della Marina, caporale Tommaso Perrone motorista) morirono tutti schiacciati dai motori dell’aeronave. Messosi subito in viaggio, seguito da un camion con soldati e attrezzi, il comandante trovò al suo arrivo i corpi già estratti dai rottami dell’aeronave e ricomposti nelle 48 vicinanze. Seguì la fase del riconoscimento da parte del pretore e la stesura di un verbale con la descrizione degli oggetti trovati addosso agli avieri morti. Esaminando i resti del dirigibile, Stabarin cominciò a farsi un’idea delle cause dell’incidente: […] dalla interrogazione dei testimoni e dall’esame dei resti si dedusse essere la caduta dell’aeronave dovuta a un’improvvisa fuoruscita dell’idrogeno dall’involucro [in quanto] nessuna traccia d’incendio si riscontrò ad eccezione di una bruciatura sulla coscia sinistra nei pantaloni di tela del Sottocapo Rosato […]. La Commissione d’inchiesta nominata dallo Stato Maggiore della Regia Marina – ne fece parte come esperto di meccanica anche Umberto Nobile – imputò la caduta del dirigibile a un cedimento strutturale dovuto alla lacerazione dell’involucro a seguito del distacco del serbatoio d’acqua di poppa o a particolari condizioni atmosferiche. Celestino Usuelli, titolare della ditta costruttrice, impugnò le conclusioni della perizia. Ne scaturì una lunga polemica che portò al definitivo abbandono della costruzione degli Usuelli, compresa la serie dei «semirigidi» della quale l’U5 (anno 1917, lunghezza totale 55 m, cubatura 4.000 m3 circa) fu l’ultimo realizzato. Nell’immediato primo dopoguerra lo scalo pontederese venne destinato ad altro uso. Iniziarono «escursioni a scopo turistico di beneficenza» il cui ricavato veniva devoluto a favore delle famiglie dei caduti della città. Con 100 lire si poteva scegliere fra tre itinerari diversi nei cieli della Toscana. In due ore, per esempio, si poteva partire da Pontedera, sorvolare Lucca, Pisa, Livorno e rientrare allo scalo. Per assistere alle partenze e agli arrivi dell’aeronave si pagavano 5 lire. A ricordo del vecchio aeroscalo rimangono a Pontedera poche cose: la via Hangar e la via dell’Aeroporto; un breve tratto di ferrovia; l’elica del dirigibile U5 malamente conservata nel Cimitero della Misericordia cittadino, appesa a una parete lungo un corridoio di passaggio, senza nessuna protezione, tra passanti per lo più inconsapevoli. Le due lapidi sottostanti, una probabilmente dell’epoca e una più recente (con un errore nel nome del comandante), ricordano l’incidente dell’aeronave e la storia dei poveri corpi degli avieri recentemente traslati (23 gennaio 1993) da Pontedera a Livorno presso il Cimitero Militare «La Cigna». C’è ancora lo storico Ristorante «Aeroscalo» di proprietà della famiglia Marianelli. Posto sulla vecchia via Provinciale Pisana in angolo con via dello Spedale, a due passi dalla posizione attuale, poteva considerarsi la locanda degli avieri e dei dirigibilisti; gli stessi a realizzare in Valdiperga, nel settembre del 1918, un monumento che, insieme a una lapide all’entrata del palazzo comunale di Castellina Marittima, rende onore ancora oggi all’equipaggio dell’U5. Cecina e la memoria della guerra Con la parata di Parigi del 14 luglio 1919, i francesi resero omaggio al cenotafio dell’Arco di Trionfo. Nelle cerimonie, così si disse, «i morti rubavano ai sopravvissuti il loro giorno di gloria». L’11 novembre 1920, nel secondo anniversario della vittoria delle nazioni dell’Intesa, Parigi e Londra dettero sepoltura al Milite Ignoto. In Italia questo avvenne il 4 novembre del 1921 con la cerimonia all’Altare della Patria a Roma. Da quel momento, in ogni paese, s’intitolarono vie e si realizzarono parchi della rimembranza e monumenti in onore dei caduti. Il 21 ottobre 1923 anche Cecina ebbe il suo monumento ai caduti. Dello stesso periodo fu la realizzazione del viale della Rimembranza, che portava direttamente all’ingresso principale del cimitero, ai cui lati furono piantati tanti cipressi quanti i soldati caduti. I loro nomi vennero scritti su targhette in legno poste accanto a ogni pianta. Simboli e luoghi dimenticati a partire dal secondo dopoguerra. Oggi quel viale non è più nemmeno l’entrata principale del cimitero; le targhette sono scomparse. Quei poveri soldati, però, non sono stati dimenticati così in fretta da tutti: per tanti anni un’anziana signora è stata vista deporre mazzi di fiori vicino al primo cipresso del viale. 49 il bombardamento di Portoferraio All’alba del 23 maggio 1916 avvenne uno dei pochi episodi bellici che coinvolse la popolazione civile della Toscana. Il sommergibile U-39 battente bandiera austriaca entrò nella baia di Portoferraio ed emerse, quasi nascosto nella nebbia mattutina, nelle acque davanti la spiaggia di Bagnaia. Da qui, alle ore 5:26, esplose una ventina di colpi di cannone (61 secondo la ricostruzione austriaca) in direzione degli altiforni dello stabilimento siderurgico e verso il piroscafo Teresa Accame, ancorato all’antistante pontile di scarico: i primi colpi sorvolarono lo stabilimento ed esplosero nella retrostante collina di Albereto; dodici colpi andarono a segno provocando alcuni limitati danni alle ciminiere; il Teresa Accame fu danneggiato; una piccola imbarcazione da carico, la Mistico Maria – Porto di 50 Salvezza fu affondata. Le esplosioni causarono la morte di due marinai e il ferimento di alcuni abitanti, tra cui due donne. L’azione del sommergibile fu interrotta dopo pochi minuti dal fuoco di un cannone del vicino Forte Stella che costrinse l’U-39 all’immersione.Poco dopo il fatto, come gesto di sfida per l’attacco subito, le case di Portoferraio esposero i tricolori alle finestre. L’attacco fu ricostruito in dettaglio sul Supplemento al n. 60 del «Popolano», storico giornale elbano diretto da Sandro Foresi e uscito, censurato, poche ore dopo il fatto. Rimase nella memoria della popolazione elbana il gesto eroico dell’avvocato Giuseppe Tonietti che dalla sua villa a Punta Pina, 400 metri alle spalle del punto di emersione dell’U-39, aprì prontamente il fuoco con la sua carabina Winchester contro i marinai austriaci sulla tolda. Supplemento al n. 60 del «Popolano» del 23 maggio 1916 Biblioteca Comunale Foresiana di Portoferraio Nella pagina precedente: Sommergibile tedesco U-39 battente bandiera austroungarica 51 il dirigibile U5 A partire dall’ottobre 1917 la flotta dell’aeroscalo di Pontedera svolse un fondamentale ruolo nel pattugliamento del tratto di mare compreso tra Orbetello e La Spezia allo scopo di contrastare gli attacchi ai siti produttivi costieri e ai mercantili da parte dei temibili sommergibili tedeschi U-Boot. La dirigibilistica italiana era tuttavia ancora agli inizi e gli aerostati costruiti fino ad allora erano molto instabili. Il 2 maggio 1918 il dirigibile U5 (dove U è l’iniziale del costruttore Elica del dirigibile U5 caduto a Castellina Marittima il 2 maggio 1918 Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Pontedera 52 Usuelli e 5 il numero dell’aeronave), di ritorno a Pontedera dopo un giro di perlustrazione tra Punta Ala, l’isola d’Elba e la Corsica, precipitò a Castellina Marittima (PI) nella tenuta Valdiperga di proprietà dei conti Davico a causa di un cedimento strutturale causato dal forte vento. Nell’incidente persero la vita il comandante, tenente Federico Fenu, e i quattro membri dell’equipaggio. Sul luogo del disastro è presente ancora oggi un cippo a memoria dell’evento. Dirigibile U5 all’aeroscalo di Pontedera, 1917-18 Ufficio Storico della Marina Militare 53 Ugo Narsetti e Cerbonesco Cerboneschi Tra il maggio e il giugno del 1916 il Regio Esercito Italiano si trovò a fronteggiare l’avanzata austroungarica sull’altopiano di Asiago. L’offensiva, voluta dal feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf e conosciuta come Strafexpedition («spedizione punitiva»), fu alla fine fermata. Fu durante questo momento decisivo che il sottotenente Benedetto Ugo Narsetti (classe 1895), toscano di Casale Marittimo, prese parte alla resistenza con grande coraggio e patriottismo. Nell’attacco nemico del 29 maggio 1916 sui Monti Aralta e Priaforà, un compaesano di Narsetti, il capitano Cerbonesco Cerboneschi (II/209° Reggimento Fanteria), si distinse combattendo e fu ferito due volte, meritandosi per questo la medaglia d’Argento al valore militare. Tutti e tre i fratelli Cerboneschi si distinsero per il grande contributo alla causa italiana: le famiglie Cerboneschi e Narsetti si conoscevano molto bene essendo non solo compaesani ma anche vicini di residenza a Casale M.mo. Mentre sul fronte orientale si dispiegava l’offensiva Brusilov, che costrinse Conrad a spostare parte delle truppe dall’altopiano di Asiago al fronte russo, l’esercito italiano poteva portare avanti una controffensiva alla quale Narsetti (Brigata Milano – 159° Reggimento Fanteria) partecipò attivamente, passando giorni di trincea e di sofferenza sul monte Zebio. Successivamente Narsetti fu trasferito sul fronte isontino e, promosso tenente nel febbraio 1917, il 1° novembre fu spostato al 38° Reggimento Fanteria Mobilitato con il quale visse l’epopea del Grappa e del Piave. Nel luglio 1918, ferito, lasciò il fronte e fu decorato con la medaglia di Bronzo al valore militare. Lampada ad acetilene, macchina fotografica Kodak, penna stilografica, diario manoscritto, proiettile e fotografia di Ugo Narsetti Collezione Placido Narsetti, Luciana Narsetti Servolini 54 Le lettere dei cecinesi Fondo aggregato all’Archivio Storico del Comune di Cecina «Lettere dal fronte 1915-18» Amerigo Capanna 4-12-1917 Cara Isola Appena che ho ricevuto la tua tanto da me desiderata vengo subito a risponderti tanto per dirti godo buona salute come pure sento è di te Mario con Marino e tutte le famiglie nostre. Più sono nel sentire che i tuoi e i miei fratelli anno scritto tutti questo mi ha fatto ristare contentissimo ripensare a quello che è nato in quei posti. Credi Isola non mi sfuggi mai dalla mente come pure il nostro tenero sangue. Io come già ti avevo detto che il giorno venti-otto andavo a riposo ma come ti dico si dovevo andarci ma lo vedi come fanno questi vigliacchi spudorati prometono certe cose e poi non mantengono e cosi è nato a me. Ora vengo a dirti cosa sono buoni di farti. Senti la posizione non era tanto cattiva, ma sai siamo sempre esposti al pericolo ci hanno levato e ci hanno portato dove bussano di piu dalla parte di monte-fiore che è altio 31-50 metri ora ti lasso considerare se la bottega di Tremeria funziona Più ti dico che domenica notte ci siamo portati sul posto di combattimento e credi questi superiori non sanno proprio di nulla ci hanno fatto camminare tutta la notte e poi quando siamo giunti al giorno si sono accorti che ci avevano fatto sbagliare strada Ora ti lasso considerare senza mai dormire poi anche mangiare lindomani. Più se tu hai voluto riposare un po’ alla meglio per via della neve e del gelo mi è toccato fare un buco come fanno queste tarpe e mi sono gettato li dove questi miseri versi te li mando. Inquanto ai soldi non mandare nulla perché non ho bisogno di niente. Anzi ti mando queste dieci Lire che io non so cosa fare cosi tu penserai quando mi occorreranno e se no fai come meglio credi. Se tu mi fai il pacco non ti scordare di mandarmi quella roba ossia qualche paio di Calzini ma io credo che non si possono fare ma in ogni modo aspetta sempre il mio ordine perché quà non ci starò tanto Godo sapere dei bambini che vanno molto volentieri alla scuola e ancora tu dici che non ti manca nulla. Ma solo io so cosa ti manca?.... Una cosa che io ti dico stai sempre contenta e di pensare che mai non succedi niente Saluta tanto Carolina mia Cugina e dirgli che io gli ho scritto. Baciami bimbini mia e tua famiglia Tanti saluti a Emilia suo marito e queste ragazzine tanti a tutto il Casamento e tu un miglione di baci con un forte stretta di mano tuo sempre Amerigo [appena ricevi questa fammi avvisata] 55 Amerigo Ferrari 27-9-1918 Mia cara Conzorte Appena giunto alla mia destinazione prendo la mia penna in mano e schrivo e ti mando queste mie uniche parole dove ti faccio sapere la mia ottima salute io sto bene come spero che sia di te mia adorata conzorte chredi che io o penato per tutta la strada o penzato alla mia conpangnia che miera finito il bene stare io o Pianto per tutta la strada mia cara quando sarà quel giorno che io Potro essere senpre al tuo fianco senza poterti piu lasare questo e stato un cattivo viaggio perme e stato troppo straziante sul fiore della Gioventu mianno troncato la mia giovineza ora che potevo godere un minuto di bene e in vece devo provarllo di sospiri questo minuto come posso resistire a questi poveri quori che cianno di visi cosi giovine? ma speriamo che tutto firrà senno quà si vamale mia cara Giuseppina appena che ai preso la mia colla tua fotografia mandane uno amme e una al tuo fratello Tonino e poi dirgli alla tua madre che gli schrivi a Tonino che lui non riceve posta aricevuto solo quelle 3 che io glio schritto io e lui dice che quando io gli schrivo lui le riceve dunque schrivergli ancora te al tuo fratello perche se lui mi dice che non gli schrivete io ti farò una lettera propio come ti meriti dunque te gli devi schrivere spesso una volta la settimana ma gari non ne schrivi amme ma allui schrivergli che lui a bisongno di confortarllo come un fanciullo dunque cisiamo capiti io ti lacio i miei piu cari baci tuo conzorte perlla vita Amerigo Ferrari Ricevi un vagone di baci e uno di abracci Bruna Carissima Quando so partito non lò potuta salutare allora giunto al mio posto gli in vio i più cari saluti a lei e alla Sua famiglia mi dico suo amico Amerigo Ferrari ________________ Perdoni se la di sturbo Attendo una Pronta Risposta 21° Fanteria 8° conpangnia Z di G Perdoni Mirimandi il suo Nome e congnome lo Perduto Saluti atutti 56 Dante Bigazzi 24-5-1917 Carissimi Genitori Questa mattina con tanto piacere ho ricevuto la vostra lettera e sento che siate dispiacenti molto, io ve ne sono nel cuore perchè avere un figlio e averlo in pericolo credo che sia un grande pensiero. Cari Genitori per questa volta son rimasto salvo ma credete che è stato un miracolo che sia sempre vivo, proprio Iddio mà voluto salvare ma credete che nel mentre grandinava i proiettili di ogni sorta mi raccomandavo al signore e a santa Barbera che mi liberasse dai proiettili mortali e credete in tutto il tempo di questo grande pericolo stavo pregando il signore che mi salvasse e non so come o fatto a rimaner salvo da questo inferno di proiettili che cadevano come quando grandina. Tanta spiegazione non ve la faccio, io per il momento sono fiero e salvo e speriamo in quel dio che mi perseguiti e mi ricondurra in braccio a voi. Cara madre fate bene a andare in Collemezzano e fare quello che avete detto, proviamo anche a far cosi che un anima potrebbe proteggermi e salvarmi la vita più vi dico che quassù ho trovato Torre dello Zucchelli e ci siamo abbracciati e baciati come fossemo stati due fratelli e che fosse stato qualche anno che non ci si fosse veduti. Credete che trovando quì un amico che è tanto che non si è veduto sembra di vedere la nostra famiglia. Insomma ci vuol pazzienza e coraggio più che sia possibile e speriamo che la benedetta fortuna mi assista, per il momento son sano e salvo e prego ogni momento il Signore Cari genitori fate coraggio speriamo in una prossima pace. Altro non ho da dirvi che salutarvi e baciarvi affte vostro affmo figlio Dante B. Il vaglia non l’o ancora ricevuto ma non fa nulla perchè quì i soldi non costano altro nulla costa più una bevuta di acqua che cento lire. Cari miei salutate tutti gli amici per questa volta e chi domanda di me. Contraccambio i saluti di Ada e sua famiglia saluti a Massima Tonino e tutta la famiglia più salutate Riccardo se è sempre a casa. Addio e coraggio, Dante B. 57 Primo Del Ghianda Zona di Guerra, 19-10-1916 Carissimo Amico con premura rispondo subito alla tua cartolina dove mi ha dato un grosso dispiacere di dovere tornare sopra alla sventura del nostro caro Vittorio, piu dolore ancora mi sento dovendoti dire che il povero nostro amico morì senza fare nessuna parola, sarebbe stato anche per noi stessi una grossa consolazione avendogli sentito pronunciare una sola parola. Ma devo dirti che non fece nessuna sclamazione. Lui si trovava costi seduto con diversi amici con un docile pensiero e cosi tranquillo mai non averebbe creduto un fatto simile. Devi sapere che un momento prima mi ci trovavo ancora io che gli scrissi una lettera alla sua moglie, dopo mi dilontanai per andare a pigliare una borraccia d’aqua e lui stava mangiando un boccone di pane, non appena che mi fui mosso di li arrivo una nostra granata scoppiando di dietro pochi metri in modo una scheggia lo venne a colpire lui con altri compagni. Caro Amico non credere che fosse stata una grossa ferita la sua ma però il dove lo prese lo ridusse mortale fu colpito in una tempia. Non ho altro che dirti solo che lasciò noi tutti suoi amici in un profondo dolore, compreso tutta la comp’. dovettero piangierlo perche e un era un bravo soldato per tutti e poi tutti Caro Amico mi domandi del Pisaneschi lui si trova qui al mio fianco mentre che scrivo e si trovava presente al fatto mentre il Cecchi mori il giorno stesso di Vittorio colpito da una pallottola austriaca Non avendo altro che dire solo serro la lettera con dolore ma però ti prego farti coraggio speriamo sempre in bene. Ricevi saluti e Baci da me come Pisaneschi amici saluti dal tuo fratello Pietro tuoi amici Ghianda Pisaneschi [Siamo in Riposo] 58 Vittorio Ceppatelli 16-7-1916 Cara Zeneta Con questa mia lettera vengo a farti sapere le mie notizie, il quale ti posso assicurare il mio buon stato di salute, come spero sia di te e tutti di Famiglia. Ieri mattina mentre tornavamo da fare una piccola passeggiata, al mio ritorno, ebbi la sorpresa di trovare mio Fratello Alfonso che mi attendeva, non ti poi fare un’idea quale consolazione provarono, tanto uno come l’altro nel vedersi il quale si abbracciarono e si baciarono, dopo io chiesi il permesso al mio Capitano il quale mi concesse di star fuori fino alla sera, così sortirono insieme e andammo in un paesetto dove passammo un’ora insieme a mangiare qualche cosa, quando fu verso sera andammo insieme alla stazione, dove li pure facemmo una piccola merenda e dopo per me si avvicinava l’ora di ritornare al convalescienziario e cosi di nuovo si abbracciarono e baciarono e tutti e due commossi si lasciammo, vi posso assicurare che anche lui gode ottima salute. Sarete bene rimasti soddisfatti il quale volevi sapere per bene il motivo perchè io mi trovavo in codesto convalescienziario, che io vi ho spiegato per bene nella mia precedente lettera, perciò vi raccommando che state tranquilli perchè io ora mi trovo bene. Mi farete sapere se avete ricevuta la lettera il quale vi dicevo che ero rimasto ferito da una scheggia di granata alla schiena, che non era cosa di grave, e che ero già guarito, e più ti dicevo che mi trovo qui causa del gas. asfissiante che gettarono quei maledetti austriaci la mattina del 29, ma pure di questo non era cosa di grave, mi sembra che mi sia bene spiegato, perciò state contenti e tranquilli, augurandoci che Iddio conceda presto il giorno della pace tanto desiderata, così torna la tranquillità in tutto il mondo, e tutti possiamo far ritorno nelle nostre Famiglie Del mio amico Del Ghianda io non ho saputo più nulla perciò, scrissi al Bellucci ma non ho avuto risposta, vorrei sapere se lui scrive a casa, ma se lui non scrivesse non fate sapere nulla che io vi ho mandato a dire che non so sue notizie. Ricevi i più cari ed affettuosi saluti da me e da mio Fratello te e tutti di Famiglia e chi domanda di me Tuo Consorte Vittorio A rivederci presto. Addio 59 «La Domenica del Corriere», 30 maggio – 6 giugno 1915, con tavola originale disegnata da Achille Beltrami Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera 60 «La Domenica del Corriere», 6-13 giugno 1915, con tavola originale disegnata da Achille Beltrami Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera 61 «La Domenica del Corriere», 21-28 novembre 1915, con tavola originale disegnata da Achille Beltrami Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera 62 «La Domenica del Corriere», 2-9 aprile 1916, con tavola originale disegnata da Achille Beltrami Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera 63 64 In alto: Lanterna di tela cerata da truppa In basso: Pistola a rotazione mod. 1889 da ufficiali (a sinistra), da truppa (a destra), cal. 10,35 mm Regia Fabbrica d’Armi di Brescia Collezione Marco Piermartini 65 Fregi, Prima guerra mondiale Collezione Andrea Russo 66 Moschetto italiano Carcano mod. 1891 da Cavalleria Collezione Francesco Alunno Moschetto austriaco Steyr Stutzen mod. 1895 Collezione Andrea Russo Fucile italiano Carcano mod. 1891 Collezione Francesco Alunno Fucile tedesco Mauser mod. 1898 Collezione Francesco Alunno Fucile americano M1917 Collezione Massimiliano Battini 67 Divisa da crocerossina Collezione Luca Luperini 68 Zaino per armi a piedi con gavetta e vanghetta da Fanteria Collezione Luca Dello Sbarba In basso: Vari modelli di pinze tagliafili Collezioni Francesco Alunno, Luca Dello Sbarba 69 Martello pneumatico per escavazioni su roccia Collezione Giuliano Baratella Carburatore di aeroplano austriaco abbattuto nel 1918 Collezione Michela Sgarallino 70 Sella da Cavalleria con bisacce in tela Collezione Giuliano Baratella 71 Corazza modello Corsi Collezione Francesco Alunno Nella pagina successiva: Cofano scrittoio Collezione Giuliano Baratella 72 73 Lanterne italiane e kit medici con medicazioni Collezioni Francesco Alunno, Luca Dello Sbarba, Andrea Russo In basso: Borracce di varie nazioni Collezioni Francesco Alunno, Giuliano Baratella, Massimiliano Battini, Luca Dello Sbarba, Andrea Russo 74 Tenente dei Cavalleggeri di Monferrato con elmo Adrian mod. 1916 Collezione Massimo Polimeni 75 Giornali di trincea, 1918-19 Collezione Giacomo Luppichini Piastrine di riconoscimento Collezioni Luca Dello Sbarba, Massimo Polimeni 76 Bersagliere ciclista con fiamme dei reparti Arditi, con elmo Adrian mod. 1915 e pugnale da Arditi Collezioni Francesco Alunno, Giuliano Baratella, Luca Dello Sbarba, Dario Viganò 77 Numeri e schieramenti Forze mobilitate Caduti Feriti Prigionieri/dispersi Italia > 5 000 000 > 600 000 > 900 000 ≈ 600 000 Alleati > 41 000 000 > 5 000 000 > 12 000 000 > 4 000 000 Imperi centrali > 22 000 000 > 3 000 000 > 8 000 000 > 3 000 000 Totale alleati e Imperi centrali > 60 000 000 > 9 000 000 > 21 000 000 > 7 000 000 Alleati Regno d’Italia Stati Uniti d’America Regno di Serbia Impero giapponese Repubblica di Francia e colonie Impero russo Regno di Grecia Regno del Belgio Regno Unito e Dominions Regno del Montenegro Regno di Romania Repubblica di Cina Impero tedesco Impero ottomano Regno di Bulgaria Imperi centrali Impero austroungarico Numeri di vittime (tra morti, feriti e dispersi) sul fronte italiano: Prima battaglia dell’Isonzo, 1915 Seconda battaglia dell’Isonzo, 1915 Terza battaglia dell’Isonzo, 1915 Quarta battaglia dell’Isonzo, 1915 Quinta battaglia dell’Isonzo, 1916 Strafexpedition, 1916 Sesta battaglia dell’Isonzo, 1916 Settima battaglia dell’Isonzo, 1916 Ottava battaglia dell’Isonzo, 1916 ≈ 15 000 > 40 000 > 65 000 ≈ 50 000 ≈ 2 000 > 75 000 > 50 000 ≈ 20 000 ≈ 20 000 Nona battaglia dell’Isonzo, 1916 Decima battaglia dell’Isonzo, 1917 Battaglia dell’Ortigara, 1917 Undicesima battaglia dell’Isonzo, 1917 Dodicesima battaglia dell’Isonzo, 1917 Battaglia d’arresto, 1917 Battaglia del Piave, 1918 Battaglia di Vittorio Veneto, 1918 ≈ 35 000 ≈ 140 000 > 20 000 ≈ 165 000 ≈ 160 000 > 40 000 ≈ 90 000 > 30 000 Toscana: Furono mobilitati tra i 450 e i 500 mila uomini (l’8% della popolazione nazionale). Di questi ne morirono più di 40 000. I morti civili, causati sia direttamente dalle azioni belliche sia da cause collegate come malattie, malnutrizione e incidenti vari, superarono i 7 milioni. 78 Bibliografia scelta 1970: Storia Illustrata, XIV, n. 151, Arnoldo Mondadori Editore, Milano. 2014: Lettere dal dirigibile U5, Caosfera Edizioni, Vicenza. battaglini, giuseppe, 2001: saggio pubblicato in a. m. andreoli (a cura di), Il Comandante e l’Imperatore: D’Annunzio e il mito di Napoleone, Novamusa Toscana, Portoferraio. Catalogo della mostra allestita presso il Museo Nazionale delle Residenze Napoleoniche dell’isola d’Elba dal 28 aprile al 30 settembre. caterino, aldo, 2014: La Prima Guerra Mondiale. 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Quadro strategico e sviluppo delle operazioni, in «ANA Genova – Gruppo Quarto dei Mille», https://alpinigenovaquarto.wordpress.com. troso, mario, La battaglia di Caporetto, in «Arte Ricerca», http://www.artericerca.com. Si ringraziano: Franco Ballone, Paolo Bisi, Anna Braccini, Bruno Casarosa, Fanfara dei Bersaglieri di Cecina, Tiziana Gianfaldoni, Beatrice Gori, Simona Granchi, Renato Lemmi, Stefano Lumini, Lamberto Picchi, Nicoletta Porciani, Otello Sangiorgi, Andrea Servolini, Simone Ticciati, Francesca Tramma. 79 Stampato dalla tipografia Bandecchi & Vivaldi Marzo 2015