Il mondo contro se stesso - Fondazione Culturale Hermann Geiger

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IlIlmondo
sestesso
stesso
mondo contro
contro se
a cura di
Alessandro Schiavetti
Con il patrocinio di:
Regione Toscana
Comune di Cecina
Comune di Castellina Marittima
Catalogo realizzato in occasione della mostra
LA GRANDE GUERRA. IL MONDO CONTRO SE STESSO
Dal 14 marzo al 3 maggio 2015
Sala esposizioni, Fondazione Culturale Hermann Geiger
Piazza Guerrazzi 32, Cecina (LI)
Mostra e catalogo a cura di Alessandro Schiavetti
Testi in catalogo di:
Federico Gavazzi
Damiano Leonetti
Massimo Polimeni
Giulia Santi
Alessandra Scalvini
Alessandro Schiavetti
Editing testi: Daria Cavallini
Graphic Design e impaginazione: Fabrizio Pezzini
Fotografie: © SchPhoto
Immagini d’archivio:
Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera
Biblioteca Comunale Foresiana di Portoferraio
Collezione Famiglia Casarosa
Museo Civico del Risorgimento di Bologna
Ufficio Storico della Marina Militare
Mappe 3D e figurini delle uniformi: Enrico Ricciardi
Ufficio stampa: Spaini & Partners
Albo prestatori:
Francesco Alunno, Archivio Storico del Comune di Cecina, Associazione Modellismo e Storia – Dlf
Pontassieve, Giuliano Baratella, Federico Bardanzellu, Massimiliano Battini, Croce Rossa Italiana ‑ Comitato
Provinciale di Livorno, Luca Dello Sbarba, Luca Luperini, Giacomo Luppichini, Maria Luisa Manni Guanti,
Placido Narsetti, Luciana Narsetti Servolini, Marco Piermartini, Massimo Polimeni, Andrea Russo, Piero
Santi, Michela Sgarallino, Elda Valori, Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Pontedera, Dario
Viganò
In copertina:
Truppe d’assalto austriache, Piave, 27-3-1918
Museo Civico del Risorgimento di Bologna
Bandecchi & Vivaldi – Editore
ISBN 978-88-8341-608-8
Indice
4
IL MONDO CONTRO SE STESSO
5 Introduzione
8
La Grande Guerra
13
Cronologia
16
La guerra italo-austriaca
18
Strafexpedition – La battaglia degli Altipiani
20
La battaglia di Caporetto
22
La battaglia di Vittorio Veneto
24
LE UNIFORMI E LA GUERRA DEI GAS
25
Maschere antigas, elmetti, uniformi
44
LA TOSCANA NELLA GRANDE GUERRA
45
Le trincee della Toscana
50 Il bombardamento di Portoferraio
52
Il dirigibile U5
54
Ugo Narsetti e Cerbonesco Cerboneschi
55
Le lettere dei cecinesi
64
RICORDI DELLA GRANDE GUERRA
78
Numeri e schieramenti
79 Bibliografia scelta
4
Introduzione
Il primo conflitto mondiale del 1914-18 è
ricordato come «Grande Guerra». Le perdite
furono immense: più di nove milioni i militari
caduti, oltre venti milioni quelli feriti, quasi otto
milioni i dispersi e circa sette milioni le vittime
civili. Più del 50 per cento degli uomini impegnati nel conflitto furono fatti prigionieri, feriti
o uccisi. Il 60 per cento delle vittime aveva tra
i venti e i trent’anni. Fino alla Seconda guerra
mondiale, è stato il più grande conflitto armato
mai combattuto. Le ingenti perdite umane, la
distruzione e l’impatto mutilante con cui il conflitto si è abbattuto sulla nostra era sono senza
precedenti nella storia.
La forza impulsiva dell’umana violenza scatenò battaglie apocalittiche. Le circostanze tragiche dei combattimenti, unite allo stress emotivo
legato a un’illusione di cambiamento, causarono anche quelle che per la prima volta furono
definite «ferite psichiche». È la guerra di trincea
ad aver provocato i danni psicologici più gravi
nei soldati i quali, inermi sotto i bombardamenti, attendevano di morire o di restare mutilati.
L’abitudine a vivere in spazi angusti e nascosti
evitando di calpestare i cadaveri dei propri compagni dilaniati dalle bombe aveva trasformato
la morte in una componente costante e normale.
Le uniche consolazioni di ogni soldato erano
la religione e la carta su cui scrivere. La prima
era compagna di viaggio in un percorso di dolore e sofferenza. La seconda era l’unico modo
per sentirsi vicini alla famiglia; scrivere e ricevere lettere al fronte era il momento più atteso
della giornata, nei pochissimi attimi in cui non
si sparava o si scavava. Scrivere e leggere erano le uniche vie d’uscita dal dolore, dal fango,
dalle malattie, dagli spari. Basti pensare che nel
periodo della Grande Guerra furono scambiati
oltre trenta milioni di lettere. Anche le famiglie
erano in guerra. Con loro c’erano i figli, le mogli,
le madri e i padri, i fratelli e le sorelle; ogni per-
sona vicina al soldato combatteva insieme a lui
una «grande guerra» fatta di attese, di pianti, di
disperazione, di silenzi.
Le attività principali nella giornata tipo di un
soldato della Prima guerra mondiale erano scavare e sparare. Sparare per sopravvivere. Sparare per farcela. Sparare per ritornare. La guerra fu una tragedia collettiva, una sconfitta per
tutti, una dolente, infinita conta delle vittime
che ancora oggi non ha cifre certe. Pretendere
di applicare un arrogante criterio matematico al
bilancio di quella che è stata una catastrofe epocale sarebbe come infangare una volta di più
gli scarponi delle vittime dimenticate, di coloro
che sono spariti nel nulla, dei soldati che hanno
combattuto per degli ideali di nazione per poi
essere inghiottiti dai grandi numeri.
Le conseguenze furono forse ancora più tragiche; interi paesi e regioni andarono distrutti.
La mancanza di igiene e prevenzione, unita alla
scarsità dei farmaci, fu causa del proliferare della pandemia di influenza spagnola, la più grave nella storia dell’uomo. Una malattia che per
i medici era sconosciuta causò in poco tempo
la morte di più di trenta milioni di persone. Fu
un’ecatombe.
Con la mostra «La grande guerra. Il mondo
contro se stesso», nel centenario dell’entrata
in guerra dell’Italia, la Fondazione Culturale
Hermann Geiger ricorda con emozione quei
giovani soldati che un tempo chiamavamo «famiglia», ogni metro di terreno conquistato con
aspri combattimenti, le faticose vette delle Dolomiti, le infinite scalate al gelo, il pantano dell’Isonzo e del Piave, le vite di milioni di uomini,
sospese nell’immobilismo di fortini e trincee improvvisate, che con il loro eroismo hanno scritto
pagine di storia.
Alessandro Schiavetti
Direttore Artistico
Fondazione Culturale Hermann Geiger
5
Cannone da 149G
Cannone da 149G prolungato
Museo Civico del Risorgimento di Bologna
6
Soldati italiani in trincea con maschere contro i gas asfissianti
La posta in trincea
Museo Civico del Risorgimento di Bologna
7
La Grande Guerra
Il 28 giugno 1914 furono uccisi in un attentato a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote
dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, e la moglie. Gli attentatori erano nazionalisti serbi che
cospiravano per la costituzione di una grande nazione slava nei Balcani. La palese complicità della
Serbia convinse molti membri del governo di Vienna che una guerra contro Belgrado fosse inevitabile.
Il 28 luglio fu dichiarata guerra.
Un’operazione militare di questo tipo avrebbe potuto non produrre effetti catastrofici se non fosse
entrato in gioco il sistema di alleanze e trattati di mutua assistenza militare siglati dalle principali potenze europee negli anni precedenti il 1914. La Serbia godeva dell’appoggio dell’Impero russo, che si poneva sul piano internazionale come difensore dei popoli slavi ed era desideroso, a sua volta, di ampliare la
propria influenza nei Balcani; la Francia, alleata con la Russia, era al contempo scossa da forti sentimenti
revanscisti e antitedeschi e voleva riconquistare Alsazia e Lorena, perdute nel 1871 nella Guerra francoprussiana; l’Inghilterra avrebbe aiutato la Francia con l’obiettivo di arrestare la crescita militare, navale
ed economica della Germania. Fu il fallimento delle diplomazie e l’affermarsi degli interessi militari.
Il 1° agosto la Germania dichiarò guerra all’Impero russo, il 3 alla Francia e il 4 invase il neutrale Belgio.
A difesa di quest’ultimo e dell’alleato francese si mosse anche l’Inghilterra. L’Impero austroungarico
dichiarò a sua volta guerra a Russia, Francia e Gran Bretagna. Il Regno d’Italia, appellandosi alla natura
prevalentemente difensiva del trattato della Triplice Alleanza (che la vedeva ancora legata ad Austria e
Germania), dichiarò subito la propria neutralità. In ottobre anche l’Impero ottomano entrò nel conflitto
a fianco degli Imperi centrali.
L’alto comando tedesco mise in atto il piano Schlieffen che prevedeva una rapida offensiva verso la
Francia, attraverso il Belgio e il Lussemburgo. Il 20 agosto i tedeschi occuparono Bruxelles. L’esercito
francese, supportato sul fianco sinistro dalla British Expeditionary Force, iniziò a contrastare i tedeschi su
un ampio fronte: in quella che è conosciuta come battaglia delle Frontiere (14-24 agosto), i tedeschi
sconfissero la Quinta Armata francese a Charleroi, gli inglesi a Mons e i belgi a Namour, avanzando fino
a 40 chilometri da Parigi. La vittoria sembrava molto vicina, ma gli Alleati passarono al contrattacco e
nella prima battaglia della Marna (5-12 settembre) indussero il nemico a ripiegare fino all’Aisne. Il piano
Schlieffen era fallito. Entrambi gli schieramenti cercarono di guadagnare un vantaggio strategico aggirando il nemico da nord in quella che passerà alla storia come «corsa al mare»: in pochi giorni il fronte
si allungò dal confine svizzero alle coste del Belgio. Gli schieramenti cominciarono a trincerarsi nelle
posizioni raggiunte e la guerra di movimento si trasformò in guerra di trincea.
Diversamente, sul fronte orientale, l’armata tedesca riuscì subito a infliggere due importanti sconfitte
all’esercito russo a Tannenberg e in Masuria. Nel maggio del 1916 l’attacco tra Gorlice e Tarnów aprì
la strada per Varsavia e quasi tutta la Polonia e parte della Lituania passarono in poco tempo sotto il
controllo tedesco. Più a sud, in Galizia, la situazione divenne invece critica per l’esercito austroungarico
che resistette solo grazie al supporto dell’alleato. Uno dei motivi che spinsero l’Italia a entrare in guerra
a fianco dell’Intesa fu proprio la chiara difficoltà militare dell’Impero austriaco (23 maggio 1915).
Nel 1915 i francesi attaccarono ripetutamente nello Champagne e gli inglesi nell’Artois, senza ottenere risultati di rilievo. L’unica azione tedesca fu l’offensiva a Ypres del 22 aprile, dove per la prima volta
furono impiegati con efficacia i gas tossici. Nonostante l’uso di nuove e terribili armi (gas, lanciafiamme,
carri armati) e di numeri sempre crescenti di uomini e risorse, i limiti strutturali dell’attacco di fanteria
nella guerra di trincea e i ripetuti errori dei vari comandi trasformarono ogni battaglia in prolungati e
inutili massacri di uomini.
8
La stasi sul fronte occidentale determinò l’estensione del conflitto ad altre aree geografiche (Caucaso,
Medio Oriente, colonie dell’Africa, Dardanelli). Nei Balcani l’entrata in guerra della Bulgaria a fianco
della Triplice Alleanza e l’aiuto tedesco portarono l’esercito austroungarico a invadere la Serbia (6 ottobre 1915). Il salvataggio dell’esercito serbo costretto alla fuga verso il mare fu una delle operazioni più
importanti della Regia Marina Militare durante la Prima guerra mondiale.
Il 1916 fu l’anno delle grandi battaglie. Gli Alleati avevano pianificato tre grandi offensive contro
gli Imperi centrali: l’offensiva russa nella Prussia orientale, quella italiana sull’Isonzo e quella anglofrancese sulla Somme. Ma furono i tedeschi a muoversi per primi. Il 21 febbraio scatenarono l’attacco a
Verdun, sulla Mosa, con l’obiettivo di logorare l’esercito francese in un lungo scontro che si protrasse
fino all’autunno. Nella battaglia della Somme (1° luglio – 18 novembre), l’ampio fronte d’attacco, errori
tattici e l’inefficacia del bombardamento preparatorio impedirono un reale sfondamento, e anche qui
attacchi e contrattacchi si alternarono per mesi. Alla fine delle due battaglie i morti furono oltre 600 000.
Il 31 maggio 1916 ebbe luogo anche la battaglia navale più importante della guerra: la flotta tedesca si
scontrò con quella inglese nel tentativo di spezzare il predominio britannico sui mari e il blocco navale
che questa attuava ai danni della Germania. Lo scontro avvenne nelle acque dello Jutland e si concluse
con una parziale vittoria tedesca, ma senza che la supremazia navale inglese fosse scalfita.
Il 1917 fu un anno determinante. Tutti i comandi militari avevano chiesto da subito ai propri governi
misure eccezionali per sostenere lo sforzo bellico: conversione della produzione industriale, intervento
crescente dello stato nell’economia, sospensione dei diritti civili, ampio ricorso a tribunali militari. Gli
stati europei che nel 1914 erano entrati in guerra con entusiasmo e nella convinzione che il conflitto sarebbe stato breve adesso vedevano crescere il malcontento e l’opposizione interna al prolungarsi della
guerra; ci furono scioperi e proteste e negli eserciti aumentarono gli episodi di ammutinamento. Il primo a cedere fu il «fronte interno» russo. A seguito della Rivoluzione bolscevica, il 1° novembre la Russia
uscì di fatto dal conflitto e cominciò a intavolare le trattative per la pace separata di Brest-Litovsk.
Sempre nel 1917, il 6 aprile, dichiararono guerra alla Germania anche gli Stati Uniti, che fino a quel
momento erano rimasti neutrali nonostante gli incidenti causati dalla guerra sottomarina indiscriminata e la vicinanza alla causa dell’Intesa. L’enorme potenziale umano e industriale americano era
destinato a spezzare gli equilibri.
Il 21 marzo 1918 cominciò l’offensiva del Kaiser, l’ultima grande avanzata tedesca. Grazie a nuove
tecniche d’assalto e a un maggiore coordinamento negli attacchi, il fronte sulla Somme venne travolto. Si
era finalmente ritornati alla guerra di movimento e i tedeschi si spinsero di nuovo fino alla Marna, arrivando a pochi chilometri da Parigi. Tuttavia, il potenziale offensivo tedesco, sul piano sia del morale che
dei mezzi, era ormai esaurito. L’arrivo delle divisioni americane determinò un’incolmabile superiorità
di mezzi e uomini per le potenze dell’Intesa. Nelle controffensive sulla Marna (18 luglio – 4 agosto), ad
Amiens e a Saint-Mihiel, l’esercito alleato avanzò rapidamente. Rivoluzioni di stampo bolscevico scoppiavano intanto a Vienna, Budapest e Berlino e l’Impero austroungarico si dissolse sotto le spinte delle
diverse componenti nazionali. Il 2 ottobre divamparono in Germania le prime rivolte e l’11 l’esercito
tedesco si ritirava su tutto il fronte, subendo nuove sconfitte; alcuni reparti cominciarono ad arrendersi.
La Germania chiese l’armistizio e l’11 novembre i delegati tedeschi a Compiègne firmarono la resa, accettando le gravose condizioni imposte dagli Alleati.
La guerra era finita. Tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920 i paesi vincitori si riunirono nella conferenza di pace di Parigi, che stabilì il nuovo assetto dell’Europa.
9
La batteria 149 in azione a Pietra Tagliata il 17 giugno 1915
Soldati all’interno di una galleria
Ulisse Bernacchi Del Monte, Collezione Famiglia Casarosa
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Traino con trattrice piattaforma obice 280 in Val Dogna
Traino di un obice da 305 sul monte Slenza
Ulisse Bernacchi Del Monte, Collezione Famiglia Casarosa
11
Crocerossine
Ricovero in prima linea sul Carso e Trincea sul fronte dell’Isonzo l’8 settembre 1917
Museo Civico del Risorgimento di Bologna
12
Cronologia
1882
20 maggio A Vienna si stipula l’atto difensivo tra Impero tedesco, Impero austroungarico (già legati dalla Duplice Alleanza dal 1879) e Regno d’Italia, dando
vita alla Triplice Alleanza.
1907
31 agosto Con l’accordo tra Impero britannico e Impero russo si stringe il sistema di
alleanze che li unisce alla Terza repubblica francese nella Triplice Intesa.
1914
28 giugno A Sarajevo, in un attentato organizzato dai nazionalisti serbi, muore l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe.
23 luglio L’Austria presenta una nota al governo serbo, ma Belgrado respinge l’ultimatum.
28 luglio L’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.
1° agosto La Germania dichiara guerra alla Russia. Una folla entusiasta invade le
piazze della Germania. Tra i manifestanti si riconosce anche un giovane Adolf
Hitler.
3 agosto La Germania dichiara guerra anche alla Francia. Il Regno d’Italia dichiara
la sua neutralità.
4 agosto La Germania invade il Belgio neutrale. L’Inghilterra, dopo l’invio di un
ultimatum, entra in guerra poco prima di mezzanotte.
5 agosto L’Impero austroungarico dichiara guerra alla Russia.
11-12 agosto La Francia e la Gran Bretagna dichiarano guerra all’Austria-Ungheria.
14-24 agosto I tedeschi sconfiggono la Quinta Armata francese a Charleroi.
20 agosto I tedeschi occupano Bruxelles.
23 agosto La British Expeditionary Force affronta i tedeschi a Mons. Il Giappone
dichiara guerra alla Germania.
26-30 agosto L’esercito tedesco sconfigge i russi a Tannenberg. Nel frattempo la Germania arriva a quasi 40 km da Parigi, da cui fugge oltre un milione di abitanti.
5-12 settembre Prima battaglia della Marna: le truppe francesi e inglesi costringono
i tedeschi a ripiegare, ritirandosi di quasi cento chilometri.
24-25 dicembre Incredibilmente, durante il primo Natale della Grande Guerra non si
combatte. In molte zone e fronti di guerra i soldati fraternizzano. Alcuni cacciano
insieme, altri giocano una partita di pallone in squadre miste
13
1915
18 marzo – 8 gennaio Spedizione anglo-francese a Gallipoli. La battaglia, che inizialmente si era pensato sarebbe stata breve, diviene invece lunghissima e sfiancante
con brevissimi avanzamenti su entrambi i lati.
22 aprile – 25 maggio Battaglia di Ypres. I tedeschi, desiderosi di arrivare il prima
possibile alla Manica e al Mare del Nord, impiegano per la prima volta i gas
tossici.
26 aprile L’Italia e i paesi della Triplice Intesa firmano il Patto di Londra con cui
l’Italia si impegna a scendere in guerra, entro un mese, contro gli Imperi centrali
in cambio di importanti compensi territoriali.
1° maggio – 30 settembre Offensiva tra Gorlice e Tarnów: quasi tutta la Polonia russa e parte della Lituania passano sotto il controllo tedesco.
23 maggio Il Regno d’Italia dichiara guerra all’Impero austroungarico.
6 ottobre Invasione della Serbia da parte dell’esercito austroungarico.
1916
21 febbraio – 19 dicembre Battaglia di Verdun. È una delle battaglie più violente e
sanguinose combattute sul fronte occidentale.
15 maggio – 27 giugno Battaglia degli Altipiani: gli italiani resistono alla Strafexpedition
austriaca, un’offensiva punitiva dell’Austria-Ungheria contro l’Italia, colpevole di
aver tradito la Triplice Alleanza.
31 maggio Battaglia dello Jutland tra la flotta tedesca e quella inglese. La flotta tedesca
si rifugia in porto, ma gli inglesi subiscono enormi perdite.
4 giugno – 20 settembre Offensiva Brusilov. I russi sfondano il fronte austriaco in
Galizia ma vengono fermati dall’esercito tedesco.
23 giugno – 7 luglio Prima battaglia dell’Isonzo. Si hanno numerosissime perdite da
entrambi i lati, senza importanti progressi.
1° luglio – 18 novembre Le truppe anglo-francesi si scontrano con quelle tedesche
nella battaglia della Somme. È una lunga e violenta battaglia di logoramento.
6-17 agosto La Sesta battaglia dell’Isonzo si conclude con la conquista di Gorizia.
1917
1° febbraio La Germania formalizza la cosiddetta «guerra sottomarina indiscriminata».
6 aprile Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania.
17-31 agosto Undicesima battaglia dell’Isonzo e occupazione dell’altopiano della
Bainsizza.
24 ottobre – 12 novembre Battaglia di Caporetto e ritirata italiana sul Piave. Lo scontro è tuttora considerato la più grande disfatta nella storia dell’esercito italiano.
7-8 novembre Rivoluzione d’Ottobre e uscita della Russia dal conflitto.
14
1918
21 marzo – 5 agosto La Germania organizza l’offensiva di Primavera, detta anche
offensiva del Kaiser.
27 maggio – 6 agosto Nella Seconda battaglia della Marna, dopo una prima avanzata tedesca che minaccia Parigi, la controffensiva degli Alleati termina con una
vittoria.
10 giugno Il capitano di corvetta Luigi Rizzo, al comando di un Mas, affonda la corazzata austriaca Jzent Istvan al largo dell’isola di Premuda.
15-22 giugno Seconda battaglia del Piave: l’Italia contrasta l’ultima grande offensiva
austroungarica.
8 agosto – 11 novembre Durante l’offensiva dei Cento giorni, gli Alleati riportano
importanti vittorie nella battaglia di Amiens, nella Seconda battaglia della Somme
e in quella di Cambrai–San Quintino.
24 ottobre – 4 novembre La battaglia di Vittorio Veneto è l’ultimo scontro armato
tra Italia e Austria-Ungheria nel corso della Prima guerra mondiale. Si conclude
con la vittoria italiana.
3 novembre L’armistizio di Villa Giusti viene siglato tra l’Impero austroungarico e
il Regno d’Italia.
11 novembre In un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne, l’Impero
tedesco firma la resa.
1919
18 gennaio – 21 gennaio 1920 I paesi vincitori si riuniscono nella Conferenza di Pace
di Parigi per redigere i vari trattati di pace (il più famoso è quello di Versailles)
con gli Imperi centrali sconfitti.
15
La guerra italo-austriaca
Allo scoppio del conflitto il Regno d’Italia era ancora formalmente legato agli Imperi centrali dal
trattato della Triplice alleanza, stipulato nella sua prima forma il 20 maggio 1882. La natura difensiva
del trattato e la mancata consultazione sulla dichiarazione di guerra del 28 luglio 1914, durante la
quale si sarebbero dovuti discutere eventuali compensi territoriali, furono i pretesti che indussero
l’Italia a dichiarare la propria neutralità. Erano inoltre evidenti sia l’impreparazione militare del Regio Esercito sia l’impossibilità di sostenere uno scontro nel Mediterraneo contro Francia e Inghilterra.
Dopo un periodo scandito da trattative segrete negoziate dal capo del governo Antonio Salandra e
dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, il 26 aprile 1915 fu firmato il Patto di Londra che, tenendo
all’oscuro il Parlamento a maggioranza neutralista, schierava di fatto l’Italia dalla parte della Triplice
Intesa. All’Italia si promettevano il completamento dell’unità nazionale con l’annessione di Trentino,
Sudtirolo, Venezia Giulia e Dalmazia esclusa Fiume, e l’espansione imperialista in alcuni territori di
Albania, Turchia e Africa orientale, oltre al diritto di mantenere la Libia e il Dodecaneso, occupati
negli anni precedenti. La volontà dell’Italia di partecipare ai conflitti inter-imperialisti rappresentava
un tentativo di affermare il proprio ruolo di grande potenza mediterranea, spinta dalle forze conservatrici e nazionaliste legate a grandi interessi industriali e militari.
L’Italia dichiarò guerra all’Austria nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1915. La strategia iniziale
elaborata dal generale Luigi Cadorna – succeduto come capo di Stato Maggiore del Regio Esercito
ad Alberto Pollio, morto subito prima dell’inizio del conflitto – prevedeva una guerra rapida che
avrebbe dovuto sorprendere il nemico con potenti attacchi frontali al fine di conquistare in breve
tempo Gorizia e Trieste per poi lanciarsi nell’ambizioso obiettivo di raggiungere Vienna. Tuttavia, le
notizie errate fornite dal controspionaggio riguardo alla reale entità delle truppe asburgiche dislocate
ai confini, la scarsità di equipaggiamenti e i ritardi nella preparazione dell’esercito fecero rimandare
di troppo l’attacco e permisero ai nemici di organizzare la difesa, vanificando così l’effetto sorpresa
del piano iniziale. Gli eserciti si trincerarono lungo il corso del fiume Isonzo e sull’arco alpino orientale, stabilizzando i fronti in una lunga guerra di logoramento nella quale gli austriaci detenevano in
genere le posizioni più alte e difficili da attaccare. La strategia degli attacchi frontali contava infatti
molto sulla potenza di fuoco, ma non teneva conto del potere difensivo degli eserciti e della morfologia dei campi di battaglia, per cui piccoli spostamenti del fronte potevano essere ottenuti soltanto
con grande dispendio di vite umane. Gli assalti delle prime linee, volti a sfondare le difese nemiche
e a occuparne le posizioni, venivano spesso incalzati dalle retrovie per evitare defezioni: i fanti, nelle
pause del fuoco amico, cercavano di avanzare in salita o in spoglie pianure per tagliare il filo spinato
dei reticolati nemici, bersagliati dall’artiglieria contraria che mieteva vittime senza sosta. Anche se
l’attacco riusciva, la linea del fronte si spostava di poche centinaia di metri, fino all’assalto successivo.
Al Regno d’Italia veniva chiesto un grande sforzo collettivo: i distretti di reclutamento dislocati
nelle varie città riunivano in brigate eterogenee giovani provenienti da tutta la penisola che spesso
non si intendevano reciprocamente a causa dei dialetti troppo diversi e che impararono al fronte a
conoscersi; molti combattevano in luoghi e per la liberazione di città di cui non avevano mai neanche
sentito parlare. Le industrie cercarono di far fronte alle necessità del conflitto convertendo la loro
produzione in materiale bellico; gli stabilimenti costieri, a rischio di attacco da parte dei sommergibili tedeschi, erano pattugliati dalle flotte degli aeroscali e idroscali dislocati in particolar modo
sul versante tirrenico. Leggi apposite impedivano alla popolazione di manifestare pubblicamente il
16
proprio dissenso alla guerra e spesso i partecipanti a scioperi, agitazioni e proteste furono giudicati
da tribunali militari.
Da giugno a dicembre 1915, il generale Cadorna ordinò quattro offensive sull’Isonzo, che però
non spezzarono la difesa nemica. Nell’aprile 1916 il feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf,
capo di Stato Maggiore dell’esercito austroungarico, avviò una campagna in Trentino passata alla
Storia come battaglia degli Altipiani o Strafexpedition, ossia «spedizione punitiva», allo scopo di vendicarsi dell’alleato traditore e allentare la pressione italiana sul fronte isontino. Dopo un formidabile
avanzamento iniziale, essa fallì per la difficoltà dell’artiglieria pesante di tenere dietro alla fanteria
nei terreni difficili in cui si combatteva e provocò una resistenza italiana che terminò il 27 giugno col
ripiegamento degli austriaci e seguita da un’immediata controffensiva. Il grande pericolo subìto fece
vacillare il governo Salandra, che fu sostituito da un esecutivo di unione nazionale presieduto da
Paolo Boselli. Tra il giugno 1916 e il settembre 1917 furono combattute altre sette battaglie sul fiume
Isonzo, che tuttavia si discostarono di poco dalla logorante guerra di posizione: con la sesta offensiva, nell’agosto 1916, l’Italia aveva strappato Gorizia all’Austria, mentre l’undicesima, concertata
con le potenze alleate, fece registrare una penetrazione di 10 chilometri nella linea di difesa nemica
sull’altopiano della Bainsizza, al costo però di decine di migliaia di vite umane. La controffensiva
austro-tedesca – l’Italia aveva dichiarato guerra alla Germania nel 1916 – fu travolgente: il 24 ottobre
1917 le linee italiane furono sfondate a Caporetto. Il Regio Esercito, sfiancato dalla lunga guerra di
posizione, si abbandonò a una disordinata ritirata che permise al nemico di guadagnare l’accesso
alla Pianura Veneta. Il fronte fu fatto arretrare fino al Piave; un nuovo governo di unità nazionale
guidato da Vittorio Emanuele Orlando passò il comando militare da Luigi Cadorna ad Armando
Diaz. Un’armata anglo-francese fu inviata a sostegno dell’Italia e contribuì a imbastire linee di difesa arretrate, in caso di cedimento di quella del Piave. A febbraio 1918 l’esercito italiano poteva dirsi
ricostituito; a giugno, in quella che è ricordata come la battaglia del Solstizio, riuscì a fronteggiare i
pesanti attacchi sferrati dal nemico contemporaneamente sul fronte montano e su quello del Piave e
a indurlo alla ritirata. Il contrattacco italiano, volto a sconfiggere il nemico già logorato, fu lanciato
nella battaglia di Vittorio Veneto fra il 24 ottobre e il 4 novembre. Dopo un’iniziale valida resistenza,
le difese austroungariche crollarono. Per evitare la distruzione dell’esercito, il 29 ottobre l’imperatore
Carlo I chiese all’Italia un armistizio. La ritirata dell’esercito e le defezioni delle truppe ungheresi e
serbo-croate, nel contesto di un’insanabile crisi interna all’Impero minato da movimenti indipendentisti, permisero all’esercito italiano di avanzare rapidamente fino a occupare Trento e Trieste il
3 novembre 1918. Lo stesso giorno a Villa Giusti a Padova l’Impero austroungarico siglò con l’Italia
l’armistizio, che fissava la fine delle ostilità per il giorno successivo.
I rappresentanti dei paesi vincitori si riunirono nelle conferenze di pace di Parigi a partire dal
gennaio 1919; l’Italia, rispetto ai territori promessi nel Patto di Londra, non ottenne la Dalmazia
(tranne la città di Zara) né alcun possedimento in Turchia. La decisione era basata sul principio di autodeterminazione dei popoli enunciato dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson; questa
alimentò il mito dannunziano della «vittoria mutilata» e le rivendicazioni italiane sulla città di Fiume.
Nel conflitto avevano perso la vita più di 600 000 italiani e oltre 900 000 erano rimasti feriti, mutilati
o invalidi. A fronte di tante perdite, soprattutto coloro che avevano combattuto rimasero delusi dalle
disposizioni ratificate nei trattati e considerarono tradito lo sforzo della nazione.
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Strafexpedition – La battaglia degli Altipiani
(15 maggio - 27 giugno 1916)
Dopo la rapida quanto contenuta avanzata
dei primi giorni di guerra, la linea del fronte
in Trentino tra la Val Lagarina e la Valsugana
si era assestata a pochi chilometri da Rovereto, Lavarone e Levico. A partire dalla fine del
1915, il capo di
Stato Maggiore
austriaco Franz
Conrad
von
Hötzendorf intraprese la pianificazione di
una massiccia
operazione militare contro il
Regno d’Italia
che prevedeva
lo sfondamento delle linee in
Trentino e l’invasione della pianura veneta, con
possibilità di prendere alle spalle il grosso del
Regio Esercito schierato sull’Isonzo. L’attacco,
che se coronato da successo avrebbe consentito una rapida vittoria, voleva essere un modo
per vendicarsi nei confronti dell’ex alleato italiano per il tradimento della Triplice Alleanza.
Strafexpedition, termine con cui l’operazione è
passata alla storia, significa appunto «spedizione punitiva». Dopo aver cercato, invano,
l’appoggio militare tedesco per approntare le
16 divisioni ritenute necessarie per l’operazione, Conrad riuscì a convogliare in Trentino 14
divisioni raggruppate nell’Undicesima e nella
Terza Armata, forti nel complesso di 300 000
uomini e 1150 pezzi d’artiglieria. La linea del
fronte italiano, presidiata dalla Prima Armata,
era particolarmente esposta in caso di attacco
per la presenza di settori difficilmente difendibili e per il posizionamento dell’artiglieria
troppo vicina alle prime linee. Cadorna si rese
conto di questi problemi troppo tardi.
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La notte fra il 14 e il 15 maggio iniziò il bombardamento a tappeto delle prime linee. L’attacco si svolse su un fronte di 70 chilometri.
In Val Lagarina, l’VIII Corpo d’Armata austroungarico occupò Zugna Torta, Pozzacchio
e il Col Santo
costringendo le
truppe
italiane ad arretrare
fino a una linea
di resistenza sul
Coni Zugna, il
passo Buole e
il monte Pasubio. Il XX Corpo d’Armata si
scontrò con la
Divisione
35a
italiana ed entrò
nella Val d’Astico con il I Corpo d’Armata sulla sinistra.
Sull’altopiano dei Sette Comuni, il III Corpo d’Armata austroungarico riuscì a sfondare
il fronte e dopo aspri combattimenti, tra il 27
e 28 maggio occupò Arsiero, Asiago, che fu
completamente distrutta, e Gallio.
In Valsugana gli italiani furono respinti dal
XVII Corpo d’Armata austroungarico che arrivò fino a Ospedaletto. Con attacchi dalla Val
Posina e dall’altopiano di Asiago, gli austriaci
conquistarono anche il monte Cengio. Ai combattimenti del 29 sul monte Aralta, nei pressi
di Arsiero, partecipò il capitano Cerbonesco
Cerboneschi di Casale Marittimo (209° Fanteria), che fu insignito della Medaglia d’Argento
al valore militare per l’eroica resistenza opposta al nemico prima della ritirata.
A questo punto, grazie alla precisa pianificazione di Cadorna, la Prima Armata si riorganizzò. Negli stessi giorni, era stata costituita
in tutta fretta una Quinta Armata posizionata
tra Vicenza e Treviso a protezione della pianura. Nel frattempo, l’avanzata austroungarica
si fermò anche per mancanza di rifornimenti
alle prime linee, spintesi troppo in profondità,
e il 2 giugno scattò la controffensiva: l’azione
della Prima Armata prevedeva uno sfondamento al centro, sugli altipiani, ma ottenne
scarsi risultati. L’attacco russo del 4 giugno sul
fronte orientale e l’insistenza delle operazioni
italiane costrinsero però Conrad a ripiegare
(24 giugno) su una linea meglio difendibile
che passava sul monte Pasubio, il Cimone, il
monte Zebio e l’Ortigara, in alcuni tratti pochi
chilometri oltre il fronte del 14 maggio.
Anche se le perdite italiane furono superiori
a quelle austriache e la linea del fronte arretrò,
quella degli altipiani può essere considerata la
prima grande battaglia difensiva vinta dagli
italiani: nonostante gli errori strategici iniziali e l’inferiorità dell’artiglieria, la resistenza fu
tenace e determinante.
A partire dal 30 giugno, gli italiani tentarono una massiccia controffensiva che, il 24 luglio, portò alla conquista del Cimone e a pochi
altri risultati marginali. A questo contrattacco
partecipò anche il sottotenente Benedetto Ugo
Narsetti di Casale Marittimo (159° Fanteria)
che operava sulle pendici del monte Zebio.
Linea del fronte prima dell’offensiva
Linea del fronte dopo l’offensiva
Corpi d’Armata austriaci
Divisioni italiane
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La battaglia di Caporetto
(24 ottobre - 12 novembre 1917)
La battaglia di Caporetto rappresenta la più
grande sconfitta patita dall’Esercito italiano
durante la Prima guerra mondiale. Il comando italiano riteneva improbabile un’azione di
quelle proporzioni sul finire
di ottobre e pertanto sottovalutò
i molti segnali
dell’offensiva
nemica fino a pochi giorni dall’attacco. Fu allora
troppo tardi per
predisporre le
adeguate contromisure e riorganizzare il fronte
in chiave difensiva. L’offensiva austro-tedesca
fu sferrata contro il settore del fronte isontino,
fra Plezzo e Tolmino, che era presidiato dalla Seconda Armata (Luigi Capello). L’attacco
iniziò alle due del mattino del 24 ottobre 1919.
L’azione della Quattordicesima Armata (Von
Below), composta da cinque divisioni austriache e sette efficientissime divisioni tedesche, si
sviluppò secondo cinque direttrici d’azione.
La 3a e la 22a Divisione austroungarica attaccarono la 50a Divisione italiana sul monte
Rombon e nella conca di Plezzo (dove furono
impiegati anche gas tossici), costringendola ad
arretrare fino a Saga.
La 55a Divisione austroungarica attaccò la
43a divisione italiana e conquistò il monte Rosso. Sul monte Nero gli Italiani opposero invece
una lunga resistenza.
La 50a Divisione austroungarica attaccò
la 46a Divisione italiana e conquistò i monti
Sleme e Mrzli, per poi ridiscendere nella valle
dell’Isonzo.
La 12a Divisione germanica (Slesiana), dalla
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testa di ponte di Tolmino, sfondò e risalì l’Isonzo in direzione di Caporetto. Si ricongiunse alla 50a Divisione e occupò Caporetto. Da
qui si rimise in marcia verso sud, puntando
verso la valle del
Natisone.
La 200a Divisione germanica
e la 1a Divisione
austroungarica attaccarono
la 19a Divisione italiana con
obiettivo la dorsale che sovrasta
sulla destra la
valle dell’Isonzo.
Fu l’azione della
divisione Slesiana, non adeguatamente contrastata dal VII Corpo d’Armata italiano (Bongiovanni), che creò lo scollamento tra il XXVII (Badoglio) e il IV Corpo d’Armata (Cavaciocchi) e
che aggirò e indusse alla ritirata la 50a e la 43a
Divisione italiana, sulla difensiva ma ancora
saldamente attestate sulla linea di difesa a
oltranza, e quello che restava della 46a Divisione. Inspiegabilmente, i cannoni del XXVII
Corpo d’Armata rimasero inattivi perché privi di ordini.
L’idea iniziale di Cadorna di difendersi con
contrattacchi in loco e non con un’azione strategica di ampio respiro consumò quello che
rimaneva delle divisioni operanti in zona.
Il 25 ottobre caddero in mano nemica il
monte Rombon, il monte Nero e lo Stol, mentre truppe tedesche dell’Alpenkorps guidate
da Rommel avanzavano sul Kolovrat. Le tre
divisioni del XXVII Corpo d’Armata italiano,
ancora sulla Bainsizza, ricevettero l’ordine di
ritirarsi. Cadorna ordinò di stabilire una nuova
linea difensiva attorno a Montemaggiore, ma
ormai non c’era più tempo: l’esercito nemico
controllava già tutte le alture della valle dell’Isonzo e gli imbocchi della valle del Natisone e
Uccea, quindi la via per Cividale e Udine. La
sera del 26 ottobre cadde anche Montemaggiore, mentre le divisioni austroungariche erano
già in marcia per Udine e San Daniele.
Preso atto dell’impossibilità di una nuova
difesa, Cadorna ordinò a tutta la Seconda e
Terza Armata di ripiegare sul Tagliamento, ma
l’avanzata austro-tedesca si arresterà solo il 12
novembre sul Piave.
Linee trincerate austroungariche
Linee trincerate italiane
Divisioni austroungariche
Divisioni tedesche
Divisioni italiane
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la battaglia di Vittorio Veneto
(24 ottobre - 4 novembre 1918)
La vittoria italiana nella battaglia del Solstizio,
o seconda battaglia del Piave (15-22 giugno 1918),
aveva bloccato l’ultimo tentativo dell’esercito
austroungarico di vincere la guerra e l’Impero
era ormai sull’orlo del collasso. Anche sul fronte
occidentale le potenze dell’Intesa
stavano definitivamente prevalendo e si profilò
nel governo italiano la volontà di affrettare i
tempi per arrivare a una schiacciante vittoria sul
campo.
Sostenuto da
francesi e inglesi, il Regno d’Italia schierava
57 divisioni contro le 50 austriache.
L’offensiva italiana scattò il 24 ottobre con
l’attacco della Quarta Armata sul Grappa, presidiato dalle divisioni austriache del Gruppo
Belluno: il IX Corpo d’Armata attaccò sul Col
della Berretta e sul monte Asolone, il IV Corpo d’Armata sul monte Pertica e il Prassolan
e il XXX Corpo d’Armata sui monti Solaroli e
sul Valderoa. Gli attacchi, ripetuti anche nei
giorni successivi, ebbero scarsissimi risultati.
L’azione, tuttavia, aveva come obiettivo solo
quello di richiamare le forze austriache in
questo settore, mentre il grosso dell’offensiva
italiana sarebbe stato sferrato poche ore dopo
sul Piave, tra Pederobba e la Grave di Papadopoli, ad opera dell’Ottava Armata del generale
Caviglia, fiancheggiata dalla Dodicesima del
generale francese Graziani a sinistra e dalla
Decima del generale inglese Cavan a destra.
La piena del Piave ritardò però le operazioni
fino al giorno 26. Solo l’isola della Grave di
Papadopoli venne occupata dai battaglioni
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inglesi del XIV Corpo della Decima Armata.
Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre iniziarono
le operazioni per traghettare i primi reparti di
assalto oltre il fiume, che ancora scorreva vorticosamente. La Dodicesima Armata riuscì a far
passare a est di
Pederobba
alcune unità che
avanzarono verso Alano di Piave
e Valdobbiadene.
L’Ottava Armata riuscì a costituire solo una
testa di ponte di
fronte al Montello con alcuni
reparti del XXII
Corpo d’Armata (Vaccari). Approfittando della scarsa resistenza nemica, le truppe italiane
occuparono Mosnigo, Moriago e Sernaglia, e
arrivarono fino a Pieve di Soligo e Falzè, dove
però furono respinte dai reparti della Sesta
Armata austroungarica. Verso mezzogiorno
del 27, dall’isola della Grave di Papadopoli, la
Decima Armata attraversò il Piave e si diresse
a sud, verso Roncadelle, e a nord, verso Borgo
Malanotte. Il giorno seguente, anche il XVIII
Corpo d’Armata decise di oltrepassare il fiume
attraverso l’isola e di puntare a nord per sbloccare la situazione del XXII Corpo d’Armata a
Sernaglia, rimasto isolato. Sulla destra avanzava anche la Decima Armata, che occupò Tezza
di Piave e arrivò al fiume Monticano. L’esercito austriaco dava ormai segni di cedimento. Il
generale Borojević ordinò alla Quinta Armata,
che doveva fronteggiare la Terza Armata italiana sul basso corso del Piave, di ripiegare dietro
il Monticano. Cominciava la ritirata austriaca.
Il tempo in miglioramento e la minore efficacia dei cannoni austriaci consentirono infine
il rapido attraversamento del Piave a tutta
l’Ottava Armata. Il XXII Corpo affondò in
direzione Pieve di Soligo-Refrontolo, l’VIII
da Nervesa risalì verso Susegana-Manzana,
il XVIII, duramente contrastato, avanzò su
Conegliano e il fiume Monticano; la Decima
Armata superò anche il Monticano e la Sesta
Armata austriaca, per evitare l’accerchiamento, ripiegò dietro il Livenza; scoperto sul
fianco, anche il Gruppo Belluno cominciò a
ritirarsi. Borojević ordinò l’evacuazione del
Veneto.
Alle tre del pomeriggio del 30 ottobre, le
truppe del XX Reparto d’Assalto entrarono in
Vittorio Veneto e alla sera raggiunsero il fiume
CdA austroungarici
CdA italiani
CdA italo-francese
CdA anglo-italiani
Quarta Armata
(Giardino)
IX CdA De Bono
VI CdA Lombardi
XXX CdA Montanari
Livenza. La Terza Armata (Duca d’Aosta) attraversò il Piave e puntò verso il Tagliamento. La Dodicesima avanzava verso Feltre e
minacciò di aggirare il Grappa, costringendo
anche il Gruppo Belluno alla definitiva ritirata; la Quarta Armata, dopo giorni di inutili
attacchi, poteva finalmente avanzare. Anche la
Sesta procedeva sull’altopiano di Asiago e la
Settima entrò in Trentino attraverso i passi dello Stelvio, del Gavia e del Tonale. Gli italiani
marciavano veloci verso est. Il 3 novembre, il
cacciatorpediniere Audace attraccò nel porto di
Trieste, che diventò così italiana. Il 4 novembre
dalle ore 15 entrò in vigore l’armistizio di Villa
Giusti che pose fine alla guerra.
Ottava Armata
(Caviglia)
VIII CdA Asclepia-Grazioli
XVIII CdA Basso
XXII CdA Vaccari
XXVII CdA Di Giorgio
Decima Armata
(Cavan)
XI CdA Paolini
XIV CdA Babington
Dodicesima Armata
(Graziani)
I CdA Etna
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Maschere antigas, elmetti, uniformi
di Massimo Polimeni
La guerra chimica. Le maschere antigas
«Ovunque gente che fuggiva. Territoriali, zuavi, artiglieri, tiratori scelti correvano come pazzi in
tutte le direzioni, buttando i fucili, stravolti, gettando o cercando di sbottonarsi il pastrano, col colletto della camicia aperto, implorando acqua a gran voce, sputando sangue. Qualcuno si rotolava
per terra facendo sforzi disperati per respirare. Non erano dei soldati che scappavano, ma poveri
esseri umani divenuti improvvisamente folli». È la tragica testimonianza con la quale il generale
francese Henri Mordacq descrive il primo massiccio attacco a gas sferrato dai tedeschi contro le
linee francesi a Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915, data che segna la nascita della guerra chimica moderna. In realtà, nell’ottobre 1914, i francesi avevano impiegato proiettili carichi di gas lacrimogeno
contro le linee tedesche, fornendo così al nemico la giustificazione per una rappresaglia terrificante
che costerà la vita a cinquemila soldati alleati nel breve volgere di pochi minuti. La nube di gas al
cloro e fosgene che investe le trincee francesi coglie i soldati del tutto impreparati e senza dispositivi
di difesa adeguati. Le maschere modello M, realizzate come semplici tamponi imbevuti di sostanze
neutralizzanti (soda) e distribuite alle truppe all’inizio del conflitto, non riescono a trattenere i gas
asfissianti e gli alti comandi sono costretti a correre immediatamente ai ripari realizzando nuovi dispositivi di difesa passiva contro gli aggressivi chimici utilizzati dal nemico (maschere T, TN, M2).
Di pari passo, l’utilizzo dei gas velenosi si allarga a tutti i contendenti, ognuno dei quali cerca
di spezzare a proprio vantaggio l’equilibrio che la guerra di posizione e la trincea hanno imposto
alle inadeguate strategie tattiche messe in atto dai due schieramenti. Nuove micidiali sostanze vengono prodotte in tutta fretta dall’industria chimica, posta ora al servizio della guerra. Sono ancora
i tedeschi a sperimentare e utilizzare – sempre nella regione di Ypres – una nuova sostanza corrosiva e vescicante che, fra l’altro, ha la caratteristica di permanere per giorni sul terreno. L’attacco
sferrato contro le linee alleate ha effetti spaventosi e i gas sprigionati dalle bombe tedesche provocano istantaneamente vesciche, piaghe e ulcere sulla pelle, attraversando i tessuti delle uniformi.
Moltissimi soldati perdono la vista in pochi minuti; la maggior parte delle vittime muore tra spasmi
indicibili perché i vapori velenosi entrati nel circolo sanguigno attraverso le vie respiratorie e la
pelle distruggono i tessuti e le mucose. Questione di attimi, e tremila soldati rimangono fulminati
sul terreno. È così che passa alla storia uno strumento di morte fra i più micidiali. Dal nome della
località belga del suo primo utilizzo, prenderà tristemente il nome di «iprite».
Sul fronte italiano la guerra chimica viene applicata con la stessa, metodica crudeltà. Il primo
episodio contro le linee italiane avviene per mano degli austroungarici all’alba del 29 giugno 1916.
Alle 5:30 circa, vengono attivate tremila bombole di cloro e fosgene e il vento trasporta rapidamente
il gas nelle trincee del monte San Michele, presidiate dai soldati delle divisioni 21a e 22a dell’XI Corpo d’Armata che ancora dormono nei camminamenti e nelle baracche, avvolti nelle loro coperte.
L’allarme lanciato dalle sentinelle è inefficace, così come le rudimentali maschere a imbuto Ciamician-Pesci in dotazione ai nostri soldati. Queste, costituite da semplici strati di garza imbevuti di
una soluzione acquosa di carbonato di sodio e potassio, sono in grado di contrastare parzialmente i
vapori di cloro, ma nulla possono contro i terribili effetti del fosgene, gas velenosissimo con effetti
letali e ritardati anche se assunto in piccolissime dosi. La nube tossica investe in pieno le trincee italiane neutralizzando quasi settemila uomini delle Brigate Regina e Pisa. Duemila uomini passano
istantaneamente dal sonno alla morte e i pochi sopravvissuti agonizzanti vengono finiti a colpi di
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mazze ferrate dai militari ungheresi del Reggimento Honved che, dispersa la nube, hanno invaso
le trincee e procedono di soldato in soldato compiendo un massacro sistematico. Gli effetti dei gas
sono immediati: molti uomini vengono ritrovati seduti o sdraiati, con le armi e gli equipaggiamenti
intatti, senza aver avuto il tempo di indossare la maschera perché la morte è sopraggiunta fulminea. All’indomani di questi primi attacchi si cerca affannosamente di dotare l’esercito di nuovi
dispositivi, in grado di proteggere adeguatamente le vie respiratorie. Viene adottata inizialmente
la maschera francese modello M2, realizzata con ben quaranta strati di garza imbevuti di glicerina,
solfato di nichelio, urotropina e carbonato di sodio. Successivamente si passa alla maschera italiana
polivalente modello Z, costituita da sessanta strati di garza con occhiali di celluloide incorporati e
ricoperta da un rettangolo di tela gommata che protegge il tampone sottostante dalla pioggia ed
evita l’evaporazione dei reagenti chimici. Tale maschera si rivelerà tuttavia inefficace contro gli
aggressivi chimici più potenti e verrà finalmente e tardivamente sostituita – nel 1918 – dallo «Small
Box Respirator» inglese. Realizzato con un facciale in tela cerata assicurato al capo mediante dei
tiranti, munito di una valvola a farfalla per espellere l’aria espirata e di un filtro con sostanze assorbenti collegato alla maschera mediante un tubo corrugato e contenuto in una sacca di tela assicurata sul petto, è un dispositivo di impostazione finalmente moderna ed efficace, in dotazione ai
soldati inglesi già dal 1916 (i tedeschi, sempre nello stesso anno, ne adottano un modello simile, con
il filtro fissato direttamente al facciale). Gli attacchi a gas continuano incessantemente per tutta la
durata della guerra, mietendo migliaia e migliaia di vittime da ambo le parti. La notte del 24 ottobre
1917, fra Tolmino e la conca di Plezzo, gli austriaci aprono il fuoco sulle linee italiane con proiettili
caricati di difenilcloroarsina, un gas estremamente tossico in grado di attraversare qualunque maschera. La nebbia letale che avvolge i soldati della Brigata Friuli ne uccide seicento all’istante. Altri
attacchi all’iprite saranno sferrati all’inizio di novembre del 1917 sull’altopiano di Asiago e nella
battaglia del Solstizio del giugno 1918 sul fronte del Piave, quando l’Impero asburgico tenterà lo
sforzo supremo e ultimo contro l’Italia. Dopo l’armistizio, i soldati italiani troveranno nei depositi
austriaci oltre due milioni di proiettili a gas pronti per essere utilizzati contro le nostre truppe.
L’elmetto nella Grande Guerra
Gli eserciti che allo scoppio della Grande Guerra si affrontarono sui campi di battaglia europei
non erano ancora dotati di un’idonea protezione per il capo, a fronte di una vecchia concezione
tattica di sapore ottocentesco che non aveva ancora fatto i conti con i terribili effetti della «guerra
di posizione». I soldati francesi, inglesi, italiani e austriaci andarono quindi in battaglia indossando
képi o pesanti berretti di panno; solo i tedeschi mantennero inizialmente il Pickelhaube, il tradizionale casco chiodato in cuoio bollito che offriva al soldato una protezione comunque modesta. Già
dai primi mesi di guerra emerse dunque la necessità di proteggere la testa dei soldati che combattevano nelle trincee dalle schegge metalliche, di roccia e dai detriti prodotti dai colpi d’artiglieria
oltre che dall’azione dei colpi di fucile, sparati sovente da brevissima distanza (in molti casi, le
posizioni erano separate da poche centinaia di metri di terreno scoperto). Iniziò dunque nelle varie
intendenze uno studio mirato a realizzare un casco metallico standard che potesse equipaggiare
tutti i soldati impegnati nelle prime linee del fronte.
La Francia fu la prima nazione ad adottare un elmetto, destinato poi a passare alla storia come
simbolo stesso della Grande Guerra: l’elmetto Adrian. Ideato dall’intendente generale Adrian, l’elmo omonimo era costruito in acciaio dello spessore di 0,7 mm e provvisto di un’imbottitura in pelle
che poggiava su un lamierino ondulato per favorirne l’aerazione e il molleggio. I primi modelli del
«Casque Adrian 1915», distribuiti a partire dal settembre di quell’anno, erano composti da quattro
pezzi (calotta, visiera, paranuca e crestina) montati insieme e provvisti frontalmente di un fregio
metallico che indicava la specialità (Fanteria, Artiglieria, Genio ecc.). I colori degli elmi furono
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inizialmente il bleu horizon e il gris artillerie. Questo elmo dalle linee gradevoli e raccolte fu molto
apprezzato dalle truppe, pur risultando qualitativamente inferiore ai modelli prodotti nello stesso
periodo dai tedeschi. L’elmo Adrian fu utilizzato dagli eserciti di diverse nazioni e prodotto in
circa venti milioni di esemplari. Alla fine della guerra, ad ogni soldato che vi aveva preso parte, fu
consegnato un elmetto sulla cui visiera veniva applicata una placchetta ricordo in ottone a forma di
mezzaluna con inciso il nome del militare e l’iscrizione «1914-1918 – Soldat de la Grande Guerre».
A partire dal 1915 l’Italia avviò alcuni esperimenti che portarono alla realizzazione dell’elmo
da trincea Farina (dal nome del suo ideatore). Si trattava di un elmo di concezione medievale che,
associato a una corazza pettorale, era destinato alle vedette e ai reparti incaricati di aprire varchi
nei reticolati avversari e che, scomodo e inadeguato, non aveva i requisiti per divenire una dotazione standard per tutto l’esercito. Prodotto in due modelli (alto e basso) formati da cinque fogli di
acciaio antiproiettile, l’elmo Farina era munito di una cuffia di cotone grezzo imbottita di crine e
presentava all’interno dei cuscinetti di caucciù per ammortizzare il peso che, a seconda delle taglie,
poteva andare dai 2,6 ai 2,8 kg. Al fine di dotare in breve tempo tutte le truppe al fronte di un elmo
protettivo, si decise quindi di ricorrere a forniture di elmetti francesi Adrian. Utilizzati inizialmente
nei colori originari, in seguito furono prodotti in Italia su licenza e tinti in grigioverde. Nel 1916
venne introdotto un nuovo modello di elmetto che ricalcava la forma del precedente, ma era stampato nell’acciaio in un unico pezzo al quale venivano poi applicati il crestino e l’imbottitura. Fino
alla fine della guerra le nostre truppe utilizzarono entrambi i modelli, spesso dotati di una foderina
mimetica in tela grigioverde recante frontalmente il fregio del corpo di appartenenza.
Nel 1916 la Germania introdusse lo «Stahlhelm 16», un elmo destinato a sostituire i tradizionali
e obsoleti caschi chiodati e che rispondeva pienamente e con efficacia alle esigenze della guerra di
trincea. Realizzato in acciaio al nichel-cromo dello spessore di 1 mm, presentava una calotta con
ampie falde che coprivano la nuca e le orecchie, risalendo poi frontalmente all’altezza degli occhi
a formare una sorta di visiera. L’elmo proteggeva egregiamente la testa del soldato e per quelli comandati ai turni di vedetta prevedeva l’utilizzo di una corazzetta frontale aggiuntiva che andava
ad agganciarsi agli aeratori laterali. L’imbottitura era costituita da tre cuscinetti di pelle riempiti
di crine, mentre un sottogola in cuoio assicurava l’elmo alla testa. Questo stesso modello di elmo,
con piccole modifiche al sistema di aggancio del sottogola, venne prodotto in Austria e distribuito
a tutte le truppe dell’Impero asburgico impegnate sul fronte italiano.
Il Regno Unito dotò le proprie truppe del «Brodie MkI», l’elmo a forma di catino rovesciato
ideato dall’ingegnere John Leopold Brodie nel 1915 e destinato a divenire – insieme all’Adrian e
alle sue versioni successive – uno degli elmi più diffusi al mondo. Era realizzato con acciaio dello
spessore di 0,9 mm e la sua forma larga e piatta rispondeva adeguatamente alle esigenze della
guerra di trincea, proteggendo la testa e il collo del soldato dalle schegge e dai detriti che dopo ogni
esplosione piovevano sui ripari. La calotta era completata da una cuffia regolabile con alla sommità
un cuscinetto di cotone assorbente e da un sottogola in cuoio. Più di sette milioni di questi elmi vennero prodotti dal 1915 alla fine del 1918 ed esportati in diverse nazioni. Gli Stati Uniti, all’entrata in
guerra, acquistarono dall’Inghilterra 400 000 di questi elmi con cui equipaggiare i loro contingenti e
successivamente, nel 1917, ne realizzarono una versione quasi identica prodotta in 2700 esemplari.
Le uniformi
Già dall’inizio del Novecento, gli stati maggiori degli eserciti europei avevano cominciato a interessarsi a diversi progetti con l’intento di dotare i loro uomini di nuove uniformi, più pratiche e
funzionali di quelle che avevano equipaggiato le truppe fino alla fine del secolo precedente. Grazie
all’impiego delle nuove munizioni che non producevano fumo, si poteva cominciare a pensare di
rendere le unità meno visibili sul campo. Si avviò pertanto un lento processo teso a eliminare dalle
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uniformi tutti quegli elementi ornamentali e appariscenti che mal si coniugavano con le nuove
esigenze tattiche, mentre gradualmente si faceva strada il concetto di «mimetismo», in parte già
sperimentato nelle recenti guerre coloniali. Soprattutto l’Inghilterra e la Germania avevano infatti
dotato le loro truppe di adeguate uniformi color kaki, abbandonando i tradizionali colori (ad esempio il rosso) che in una guerra moderna rischiavano di fare di ogni soldato un comodo bersaglio per
il nemico. Vennero quindi studiate e adottate nuove uniformi monocolore, le cui tinte si armonizzavano con lo sfondo del campo di battaglia e con i colori della terra e della vegetazione.
L’Italia condusse fin dal 1905 esperimenti finalizzati all’ammodernamento delle dotazioni militari in materia di uniformi e nel 1906 equipaggiò quaranta Alpini del Battaglione Morbegno (il cosiddetto «Plotone Grigio») con una nuova tenuta sperimentale il cui colore si discostava finalmente
dal «turchino scuro» delle uniformi umbertine. Dopo vari studi e prove comparative sul campo,
venne infine approvata e adottata nel 1909 una nuova uniforme standard per tutto l’esercito, realizzata in panno di lana di colore grigioverde. La giubba per Armi a Piedi della nuova uniforme
da truppa presentava una bottoniera coperta, spallini «a salsicciotto» e colletto in piedi sul quale
venivano posizionate le mostrine reggimentali. Era completata da pantaloni e fasce mollettiere in
panno dello stesso colore, dagli scarponcini da truppa modello 1912, da un pesante pastrano e da
una funzionale mantellina che proteggeva il soldato dalle intemperie. Anche le buffetterie, già in
cuoio naturale, vennero tinte in grigioverde, colore che accompagnerà il Regio Esercito per oltre
trent’anni. Il «fantaccino» italiano della Grande Guerra visse, combatté e morì in trincea indossando questa semplice divisa. Anche le uniformi degli ufficiali si adeguarono a questa nuova esigenza
di sobrietà e vennero dapprima confezionate in cordellino nella nuova tonalità di colore, poi nello
stesso panno utilizzato per le uniformi della truppa. Precise disposizioni imponevano agli ufficiali
– specie quelli al comando di unità di prima linea – di uniformarsi alle tenute dei sottoposti, al fine
di non esporsi al riconoscimento e al fuoco dei cecchini nemici che tendevano a eliminare tutti gli
ufficiali per creare scompiglio e confusione nei reparti. L’uniforme degli ufficiali – quando indossavano lo stesso modello previsto per la truppa – era costituita da una giubba con tasche applicate o
a taglio, controspalline semifisse, pantaloni a sbuffo, stivali o molto più spesso stivaletti, calzettoni
e fasce mollettiere. Cinturoni, fondine e bandoliere erano in cuoio grigioverde.
L’Austria si dotò nel 1910 di un’uniforme color grigio cenere, hechtgrau, munita di ampie tasche
e di un berretto da campo dal disegno pratico e moderno. Era prodotta in panno di lana di buona
qualità e composta di una giubba a collo chiuso e dritto (Stehkragen) e di un berretto (Kappe) dello
stesso panno e colore, alla cui sommità della cupola era fissata una coccarda metallica con le cifre
imperiali. Ai piedi si portavano scarponi di cuoio chiodati e fasce mollettiere. Completavano l’uniforme da campo un cappotto (Mantel) di panno di uguale colore e lo zaino in pelle di vitello a cui
si agganciavano il cinturone e gli spallacci che, a loro volta, sostenevano quattro giberne in cuoio
per le munizioni, la baionetta e la vanghetta da fanteria. In questo modo, tutto l’insieme zainocinturone poteva essere agevolmente sfilato e indossato. Nel 1915 fu prodotta una nuova giubba da
campo, di colore grigioverde chiaro, con colletto rivoltato anziché dritto. A parte questo dettaglio,
la foggia dell’uniforme restò pressoché invariata per tutta la guerra.
La Francia entrò nella Grande Guerra (1914) equipaggiando i propri soldati con un’inadeguata
uniforme composta da giubba blu scuro, képi e pantaloni rossi, identica a quella indossata nel 1870
durante la guerra franco-prussiana, tenuta che l’anno successivo l’intendenza si sarebbe affrettata
a sostituire con la famosa uniforme in panno bleu horizon che accompagnerà il «poilu» per tutto il
conflitto. Il taglio della nuova uniforme era semplice e funzionale, con giubba a colletto rovesciato,
pantaloni, scarponcini chiodati e fasce mollettiere, oltre a un comodo pastrano dello stesso colore
le cui estremità potevano essere ripiegate e fissate sul retro per non ostacolare i movimenti delle
gambe. Giberne, cinturone e spallacci erano in cuoio naturale o tinto di nero.
28
La Germania adottò nel 1910 un’uniforme di colore grigio chiaro con tonalità di verde, denominato feldgrau, che mantenne per tutta la guerra. La giubba aveva bottoniera scoperta, colletto rivoltato e due tasche inferiori con patte applicate; i pantaloni erano infilati in comodi stivali di cuoio.
Completava la tenuta un pesante pastrano in panno. Cinturone, spallacci e giberne erano in cuoio
naturale.
L’Inghilterra mantenne per le proprie truppe il tradizionale colore kaki già sperimentato nelle
campagne d’Africa realizzando comode uniformi in pesante panno, con pantaloni e fasce mollettiere. Il colore scelto per i soldati di Sua Maestà si adattava perfettamente agli sfondi fangosi dei teatri
operativi in cui le truppe si trovavano a combattere, mentre la razionalità dei dettagli eliminava le
vistose differenze tra truppa e ufficiali che tante perdite avevano causato in quest’ultima categoria.
L’unico elemento distintivo tra ufficiali e truppa era costituito dall’equipaggiamento individuale.
Mentre i soldati erano dotati del webbing equipment, o web, realizzato in robusta canapa ritorta, che
comprendeva dieci giberne, zaino, portabaionetta e portautensili, tascapane e portaborraccia, gli
ufficiali indossavano il cinturone di cuoio, destinato a sorreggere, insieme a una giberna per le
munizioni, la pesante rivoltella Webley d’ordinanza. Solo le truppe scozzesi non vollero inizialmente rinunciare ai propri segni distintivi – il kilt e i copricapo tradizionali come il glengarry – ma
dopo i primi mesi di guerra il computo delle perdite impose agli orgogliosi scozzesi di celare il
coloratissimo kilt e lo sporran sotto un grembiule di tela kaki e di sostituire i tradizionali calzettoni
a scacchi bianchi e rossi con calze o mollettiere kaki. Anche gli Stati Uniti dotarono il proprio corpo
di spedizione al comando del generale John Pershing di uniformi unificate di panno kaki, composte
da giubba a quattro tasche, pantaloni al polpaccio, ghette e buffetteria in canapa kaki. Elemento
caratteristico dei soldati americani era l’immancabile campaign hat, il tradizionale copricapo a falde
larghe in feltro.
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1
2
3
4
1. Tenente generale italiano di Corpo d’Armata
2. Sergente italiano, I Reparto d’Assalto
3. Fante italiano, Brigata Campania
4. Geniere italiano, Compagnia della Morte
5. Fante tedesco
6. Caporale austriaco
7. Fante francese
8. Fante russo
9. Fante inglese
10. Sergente US Marines
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5
6
8
7
9
10
31
Soldato di fanteria 1916, Prussia
Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento
Collezioni Francesco Alunno, Giuliano Baratella, Andrea Russo
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Sottufficiale dei Landesschützen 1916, Austria
Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento
Collezione Luca Dello Sbarba
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Alpino del 2° Reggimento 1915, Italia
Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento
Collezioni Francesco Alunno, Massimiliano Battini,
Luca Dello Sbarba
34
Soldato di Fanteria («poilu»)
Cacciatore a piedi del 5° Reggimento 1916, Francia
Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento
Collezione Massimiliano Battini
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Caporale della 3a Divisione di Fanteria «La Marne» 1918
Stati Uniti d’America
Nei riquadri: dettagli dell’equipaggiamento
Collezioni Francesco Alunno, Massimiliano Battini
36
Elmo Farina modello basso
Collezione Francesco Alunno
Elmo Farina modello alto
Collezione Giuliano Baratella
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Dall’alto in senso orario:
Elmo Pickelhaube mod. 1895 da Fanteria, Prussia
Elmo Pickelhaube mod. 1895 da Artiglieria, Prussia
Elmo mod. 1918 a falde tagliate con schema mimetico geometrico, Germania
Collezione Giuliano Baratella
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Dall’alto in senso orario:
Elmo Brodie mod. 1916 Mark I, Regno Unito
Collezione Giuliano Baratella
Elmo mod. 1917 del 332° Reggimento di Fanteria, 83a Divisione, Stati Uniti d’America
Elmo Adrian mod. 1915, Serbia
Collezione Piero Santi
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Elmo Adrian mod. 1915, Belgio
Collezione Giuliano Baratella
Da sinistra in senso orario:
Elmo Adrian mod. 1915, Russia
Elmo Adrian mod. 1915 con fregio Cacciatori, Francia
Elmo mod. 1918 con corazzetta, Austria-Ungheria
Elmo Adrian mod. 1915, Cecoslovacchia
Collezione Giuliano Baratella
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In alto:
Maschera antigas polivalente a protezione unica, Italia e Maschera antigas mod. 1916, Austria
Collezione Luca Dello Sbarba
In basso:
Maschera antigas mod. 1917, Regno Unito
Collezione Massimiliano Battini
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4
1. Baionetta austriaca mod. 1895 da sottufficiale di Polizia, con fodero
2. Baionetta austriaca mod. 1890 da Cavalleria EA. IX, con fodero
3. Baionetta austriaca mod. 1895 Steyr FGGY, con fodero
4. Baionetta tedesca mod. 1898/05 Mauser Anker-Werke, con fodero
Collezione Dario Viganò
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9
5. Baionetta italiana mod. 1870 Vetterli da Fanteria molla lunga, Torre Annunziata, con fodero
6. Baionetta italiana mod. 1891 Carcano da Fanteria, con fodero
7. Baionetta italiana mod. 1870/16 Vetterli molla corta, FT (Torino), con fodero
8. Baionetta italiana mod. 1891 Carcano Truppe Speciali (Brescia), con fodero
9. Baionetta italiana mod. 1917 «ersatz» (di ripiego) per fucile mod. 1891, con fodero
Collezione Dario Viganò
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Le trincee della Toscana
di Damiano Leonetti
Leggendo la storia della Grande Guerra, saremmo indotti a pensare che abbia riguardato solo una
zona ben precisa del nostro Paese, dove ancora oggi sono visibili le tracce e le ferite lasciate da circa
quaranta mesi di combattimenti. Vengono in mente il Carso e le sue doline, le Dolomiti con le postazioni in quota, il Piave o il monte Grappa. Quell’immane conflitto coinvolse però un territorio molto
più ampio, fra cui la Toscana con le sue zone costiere. Le celebrazioni del centenario dell’entrata in
guerra dell’Italia offrono anche l’occasione per riportare alla luce circostanze ed episodi per lo più
sconosciuti a cui la nostra regione ha fatto da sfondo.
23 maggio 1916, la Grande Guerra arriva all’Elba
Era l’alba del 23 maggio 1916 quando il sommergibile tedesco U-39 battente bandiera austroungarica (la Germania non era ancora ufficialmente in guerra con l’Italia) emerse di fronte a Portoferraio
e iniziò a bombardare gli altiforni dell’importante stabilimento siderurgico locale e la flottiglia dei
carbonieri attraccata ai pontili di discarica. La sorpresa fu generale. L’episodio venne riportato con
tutti i dettagli nel supplemento del «Popolano», bisettimanale di Portoferraio diretto all’epoca dal
noto giornalista elbano Sandro Foresi, uscito appena due ore dopo il fatto. In epoca successiva (1938),
lo stesso Foresi completò la ricostruzione dell’attacco subito dalla città di Portoferraio in un altro
supplemento del «Popolano» in cui diede conto anche della versione nemica.
Erano le 5,26 al nostro orologio, le 6,30 a quello del nemico. [...] Il pensiero è corso rapido a qualche incursione aerea, o a qualche esercitazione delle numerose artiglierie che difendono Portoferraio.
Ma al primo colpo un altro, a breve distanza, è seguito, rombando sulla nostra Darsena, a fiore delle case
che coronano la Calata.
Portoferraio aveva il suo battesimo di fuoco!
Quasi nascosto da una leggera nebbia violacea che velava la spiaggia di Bagnaia un sottomarino, emerso
in quelle prossimità dalle tranquille acque del mare, sparava contro il piroscafo Teresa Accame ancorato al
ponte di scarico degli Alti Forni e contro le ciminiere degli stessi Alti Forni1.
Le sue dimensioni non erano così notevoli come è potuto a taluno sembrare. Persone venute da Bagnaia
ce lo hanno descritto della lunghezza di circa 70 metri.
Aveva a prua schierato parte dell’equipaggio, e vomitava da un pezzo da 77 la sua rabbia contro il nostro maggiore opificio industriale.
Aveva issato bandiera Austriaca.
I colpi sparati dal sottomarino furono poco più di venti. L’artiglieria, piazzata in vari punti a difesa della rada di Portoferraio e dello stabilimento, rispose con il lancio di alcuni proiettili. Verso le 10,
dopo qualche altra cannonata, il sottomarino scomparve sott’acqua sottraendosi ai tiri delle batterie.
Complessivamente, i danni furono limitati, ma le schegge delle granate raggiunsero diverse persone colpendo a morte due inconsapevoli marinai. Altri proiettili caddero in città, ferendo alcune
persone fra le quali due donne. Dalla direzione dello stabilimento siderurgico si ebbe una descrizione dettagliata di quanto subito dall’opificio.
La versione austriaca su quanto accadde la mattina del 23 maggio e il giorno precedente arrivò
nelle mani del direttore Foresi per quella che lui definì «una fortunata combinazione» già nel cor1
Le parti in corsivo furono censurate e poi riscritte a matita sul supplemento del giornale dallo stesso direttore Foresi.
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so degli anni Trenta. Un suo amico illustre, del quale non rese noto il nome, gli fece pervenire il
rapporto-diario del tenente di vascello austriaco Gastone Vio, imbarcato sul sommergibile U-39 che
bombardò Portoferraio. Ecco alcuni stralci di quello che Foresi definì «il rapporto del nemico»:
[…] Noi speravamo che, in conseguenza del bombardamento, i nostri prigionieri avrebbero tentato di
fuggire verso di noi coi battelli2. […] Disgraziatamente l’avvenimento rimase solo nella nostra speranza.
[…] Alle 7,30 emergiamo e intraprendiamo l’inseguimento di un vapore che dirigesi verso il passo fra
l’Elba e l’Isola di Palmaiola antistante. Il piroscafo non si ferma ai nostri colpi d’avviso, ma aumenta la
velocità. […] Dalla costa dell’Elba si dirige verso di noi a tutta forza un piccolo vapore. Noi supponiamo
un naviglio di sorveglianza costiera. Ci immergiamo e lanciamo un siluro al piroscafo. […] Noi emergiamo e passiamo rasente di poppa al grande vapore. Esso è il piroscafo italiano Washington 2819 T.
in pieno carico, apparentemente carico-misto. Per accelerarne l’affondamento vogliamo ancora tirargli
qualche colpo alla linea d’acqua. Ma non è necessario, perché esso è già in procinto d’affondare.
L’attacco pare collegato anche alla vicenda personale del tenente Stefano Wollemann, protagonista di un volo sul cielo di Bari il 17 luglio 1915 durante il quale lanciò bombe sulla popolazione
«assassinandone sei innocenti e ferendone eroicamente molti altri». Caduto in mare all’altezza di
Barletta, venne catturato insieme a un altro ufficiale austriaco. I due prigionieri furono trasferiti a Potenza e successivamente, per maggiore sicurezza, all’Elba, dove arrivarono il 22 agosto 1915 «accolti»
da una gran folla incuriosita. Wollemann venne alloggiato sotto stretta sorveglianza alla caserma
De Laugier di Portoferraio nella sala di disciplina dei sottufficiali. Definito «nemico nell’anima e nel
fegato», neppure in quella situazione rinunciò a rivolgere minacce alla popolazione. Ciò nonostante,
«il cuoricino tenero di noi latini» – per dirla con Sandro Foresi – permise il suo trasferimento in un
locale più comodo, dove poté godere di un trattamento di favore e di maggiori libertà. Successivamente, in modo per certi versi ancora inspiegabile, fu trasferito a Bibbiena, nel Casentino, da dove riuscì a fuggire nel marzo del 1916. La notizia della fuga suscitò nella popolazione di Portoferraio sentimenti di rabbia e di preoccupazione. Sicuramente il tenente Wollemann avrebbe dato informazioni
preziose al Comando Superiore e il tenente di vascello Vio ne avrebbe fatto tesoro. Resta il mistero
di come fossero stati informati anticipatamente del bombardamento del 23 mattina i prigionieri, che
lo accolsero con «voci alte e fioche e suon di man con elle». Rimarrà il dubbio della presenza di spie
all’interno della prigione.
Le nostre artiglierie risposero all’attacco con grave ritardo, ma bastarono pochi colpi dal cannone
della Batteria Falcone perché il sommergibile si allontanasse inabissandosi con rapidità. Non mancò
la reazione della popolazione. Scrisse Foresi:
Portoferraio ha dimostrato di essere pari per nobiltà di sentimenti, per saldezza di cuore alle città consorelle che hanno provato l’ira del nostro secolare nemico. Non un atto, non una voce che tradisse il
più lieve senso di paura. La nostra popolazione ha scagliato in faccia al nemico tutta la potenza del suo
spirito forte; e un solo, un unico grido ha risposto alle cannonate nemiche: «Viva l’Italia Viva l’Elba».
La censura autorizzò l’uscita del supplemento del «Popolano» solo dopo «estenuanti trattative».
Si pensò che la vendita del giornale potesse «incitare la popolazione ad essere calma e fiera nel pericolo», così si disse. Le bozze furono visionate dalle autorità civili e militari prima del via ufficiale
alla pubblicazione. Il giornale andò a ruba. In un’ora ne furono vendute ben seimila copie nella sola
città di Portoferraio, che contava diecimila abitanti. Nonostante i tagli preventivi, inspiegabilmente, il giorno successivo un commissario di Pubblica Sicurezza si recò in redazione per procedere al
sequestro del foglio. Ma ormai era troppo tardi: si dovette accontentare di portar via le venti copie
conservate per l’archivio del giornale, compiendo così solo un gesto simbolico.
2
I prigionieri si trovavano nella Palazzina dei Mulini di Portoferraio, che aveva già ospitato Napoleone.
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L’attacco sarebbe rimasto nella memoria della popolazione elbana anche per il gesto d’eroismo
compiuto dall’avvocato Giuseppe Tonietti e dalla moglie Luisa Monti. Il sottomarino era emerso
a circa 400 metri dalla loro villa di Punta Pina quando iniziò a lanciare proiettili contro la città. Fu
allora che il Tonietti, con l’aiuto della coraggiosa moglie, si mise a sparare ripetuti colpi di carabina.
L’atto di «patriottica rivendicazione degli audaci coniugi Tonietti» valse loro la Medaglia d’Argento al valore. Nell’inchiesta condotta dal generale Ibba Piras per conto del ministero della Guerra
si legge:
L’avv. Giuseppe Tonietti, nato a Buenos Aires da genitori elbani, ed ora residente con la propria moglie
a Punta Pina, visto il sommergibile emergere ed iniziare il tiro in vicinanza della sua casa, impugnò la
propria carabina (una carabina a ripetizione tipo Vinchester con caricatori a pallottola) e con essa fece
fuoco contro il sommergibile affacciandosi ad una finestra del piano superiore della propria abitazione,
avendo a fianco la consorte signora Luisa Monti, la quale lo accompagnò, anche quando egli ritenne
opportuno allontanarsi dalla casa per continuare il fuoco stando appostato dietro un cespuglio.
[…] Ritengo entrambi i coniugi meritevoli della medaglia d’argento al valor militare per avere l’avv.
Tonietti, con alto sentimento patriottico e con sprezzo del pericolo gravissimo che correva, fatto fuoco
a palla contro un sommergibile nemico che attaccava la propria città a brevissima distanza dalla costa;
e per avere la signora Tonietti, di lui consorte, con nobile slancio femminile e con raro coraggio, pari
all’affetto pel marito, assistito questo, con grave pericolo della propria vita, durante la generosa azione
che egli stava compiendo.
Retorica a parte, il gesto del Tonietti è sicuramente significativo del suo carattere e del suo animo irredentista, in linea con la sua storia personale e con quella della sua famiglia. Nato nel 1862 a
Buenos Aires, dove il padre era fuggito perché ricercato come cospiratore dal governo Granducale
di Toscana, appena giovinetto Giuseppe fu inviato in Italia a compiere gli studi. Conseguì la laurea
in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa dopo aver frequentato, a Prato, il rinomato Collegio
Cicognini dove si trovò a essere compagno di classe e di camerata di Gabriele d’Annunzio. Il precettore del Cicognini Enrico Lotti definì l’allievo Tonietti «incorreggibile per i suoi costumi cattivi, e
per quanto m’adoperi con ammonizioni e castighi non ottengo di metterlo nella via buona e civile,
essendo di un carattere pessimo». Altrettanto negativo il giudizio dato su di lui da d’Annunzio: «una
specie di maligno canchero nato nell’isola d’Elba da un armatore arricchito nell’Argentina». Fervente
sostenitore delle dottrine mazziniane, il Tonietti tenne numerose conferenze a Pisa e a Livorno nel
corso degli studi universitari e fu più volte arrestato. Sposatosi con Luisa Monti dopo un breve rientro a Buenos Aires, si stabilì con la moglie all’Elba, nella villa di Punta Pina.
L’attacco del sommergibile austro-tedesco agli Alti Forni di Portoferraio non fu certo casuale. Nei
primi anni del Novecento, l’Italia aveva intensificato gli sforzi per ridurre la propria dipendenza
dalle potenze straniere in materia di armamenti. L’industria siderurgica assumeva così un ruolo strategico di fondamentale importanza, e con essa le miniere di ferro elbane. Nel 1899 veniva costituita
a Genova la società Elba. Fu deciso di costruire l’impianto siderurgico a Portoferraio – l’area scelta
fu quella delle antiche saline granducali – sia per la vicinanza alle zone estrattive sia per l’ottima e
sicura rada di Portoferraio. Nel periodo precedente la Grande Guerra si intensificò il contrasto di
interessi economici con la Germania, ben rappresentati in Italia dalla Banca Commerciale, proprio
attorno alla produzione dell’acciaio. Nell’estate del 1914, con l’Italia in ufficiale neutralità, lo scontro
in atto con la potenza alleata è raccontato in un articolo del «Corriere di Livorno», giornale interventista pubblicato in una città dove, per la presenza dei Cantieri Orlando, si sentiva particolarmente la
rivalità economica con la Germania. L’articolo, intitolato Boicottiamo i Tedeschi!, recitava
[…] boicottare l’Austria e la Germania non è soltanto una prelibata soddisfazione per i nostri animi
italiani e neutrali; ma è anche un’immediata necessità imposta dalla vita economica del nostro paese.
Così chi boicotta un tedesco unisce l’utile al dilettevole, ciò che non è poco davvero!
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La città di Portoferraio venne decorata da S. M. Vittorio Emanuele III con la Croce al Merito di
guerra per le «serene virtù del suo popolo», onorificenza consegnata alla città il 27 novembre 1922
dal generale Ravazza.
Dirigibili contro U-Boot
Quello contro Portoferraio fu solo uno dei tanti attacchi portati dai temuti U-Boot tedeschi nel
Mediterraneo. Nel 1917, i 28 sommergibili in azione nel nostro mare affondarono ben 94 navi mercantili alleate.
I tedeschi sapevano bene che la loro condotta avrebbe portato in guerra anche gli Stati Uniti, come
in effetti avvenne nell’aprile del 1917. Tuttavia le truppe americane sarebbero arrivate sui campi di
battaglia solo un anno dopo, e la Germania pensava che nel frattempo avrebbe portato la Gran Bretagna alla resa. Non fu così. Dal mese di maggio del 1917 gli inglesi assicurarono, con successo, una
scorta navale (navi da guerra mimetizzate) e aerea (mediante l’uso di dirigibili) ai propri convogli
mercantili. Qualcosa di molto simile accadde anche nel mar Tirreno ed è in questo contesto che si
inquadra l’arrivo all’aeroscalo di Pontedera del dirigibile Usuelli 5 (U5) al quale venne assegnato il
servizio di pattugliamento antisommergibile del tratto di mare compreso tra Punta Ala, l’isola d’Elba
e la Corsica dando allo scalo pontederese un ruolo ben diverso da quello che aveva indotto la Regia
Marina alla sua realizzazione. All’epoca, infatti, facendo ancora parte della Triplice Alleanza con la
Germania e l’Austria-Ungheria, l’Italia aveva la necessità di proteggere da una potenziale minaccia
francese le navi e i convogli che transitavano nel Tirreno e nel Mar Ligure. Furono così realizzate
lungo le coste numerose stazioni di scalo sia per dirigibili sia per idrovolanti. Pontedera sembrò
l’ubicazione migliore per coprire il tratto di mare fra i porti di Livorno e La Spezia. La cittadina era
infatti servita dalla «Leopolda», la ferrovia che dal 1844 collegava Livorno con Firenze via Pisa e la
stessa Pontedera, le condizioni aerologiche della zona erano giudicate buone, la posizione era baricentrica rispetto al tratto di mare da sorvegliare e, non trovandosi direttamente sulla costa, godeva
di un’adeguata protezione contro eventuali attacchi provenienti da unità navali.
I progetti dell’aeroscalo pontederese iniziarono nel marzo del 1914. Per il timore che i fili sospesi
della vicina stazione radiotelegrafica di Coltano nei pressi di Pisa potessero interferire con i dirigibili in scalo a Pontedera, lo Stato Maggiore della Regia Marina interpellò la Direzione Generale di
Artiglieria ed Armamenti e, ottenute le debite rassicurazioni, avviò la procedura per la realizzazione
dell’aeroscalo. Il Comune mise a disposizione le aree per circa 33 ettari complessivi. Il progetto, completamente definito alla fine di giugno del 1914, prevedeva: un hangar di 110 m di lunghezza e 33
m di larghezza per un’altezza libera di 32,3 m; tettoie per deposito di tubi per l’idrogeno; officina e
magazzino; palazzina per l’alloggio di 6 ufficiali; caserma per 100 uomini di truppa e 12 sottufficiali;
uffici per il Comando e la Direzione dell’aeroscalo; corpo di guardia e sale di punizione; rimessa per
automobili; piattaforma per la manovra dei dirigibili. I lavori, affidati alle Officine di Savigliano,
terminarono nel gennaio del 1916.
Dall’ottobre del 1917, all’epoca dello sfondamento di Caporetto, lo scalo assunse un ruolo attivo
nel conflitto. Da marzo, l’U5 venne affiancato nel suo servizio da altri due dirigibili (M9 e PVO).
Era questa la dotazione dell’aeroscalo al 2 maggio 1918, quando alle tre del pomeriggio giunsero al
comandante, maggiore Stabarin, due telegrammi, uno dal capostazione di Castellina Marittima e
uno dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che lo informavano della tragedia appena
accaduta: « […] essersi verso le 13,15 il Dirigibile U5 incendiato e caduto nella tenuta di Valdiperga
presso la Stazione Ferroviaria di Castellina Marittima». I cinque componenti dell’equipaggio (comandante tenente Federico Fenu, tenente Enrico Magistris, tenente Luigi Carta, sottocapo Michele
Rosato radiotelegrafista della Marina, caporale Tommaso Perrone motorista) morirono tutti schiacciati dai motori dell’aeronave. Messosi subito in viaggio, seguito da un camion con soldati e attrezzi,
il comandante trovò al suo arrivo i corpi già estratti dai rottami dell’aeronave e ricomposti nelle
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vicinanze. Seguì la fase del riconoscimento da parte del pretore e la stesura di un verbale con la descrizione degli oggetti trovati addosso agli avieri morti. Esaminando i resti del dirigibile, Stabarin
cominciò a farsi un’idea delle cause dell’incidente:
[…] dalla interrogazione dei testimoni e dall’esame dei resti si dedusse essere la caduta dell’aeronave
dovuta a un’improvvisa fuoruscita dell’idrogeno dall’involucro [in quanto] nessuna traccia d’incendio
si riscontrò ad eccezione di una bruciatura sulla coscia sinistra nei pantaloni di tela del Sottocapo Rosato
[…].
La Commissione d’inchiesta nominata dallo Stato Maggiore della Regia Marina – ne fece parte
come esperto di meccanica anche Umberto Nobile – imputò la caduta del dirigibile a un cedimento
strutturale dovuto alla lacerazione dell’involucro a seguito del distacco del serbatoio d’acqua di poppa o a particolari condizioni atmosferiche. Celestino Usuelli, titolare della ditta costruttrice, impugnò
le conclusioni della perizia. Ne scaturì una lunga polemica che portò al definitivo abbandono della
costruzione degli Usuelli, compresa la serie dei «semirigidi» della quale l’U5 (anno 1917, lunghezza
totale 55 m, cubatura 4.000 m3 circa) fu l’ultimo realizzato.
Nell’immediato primo dopoguerra lo scalo pontederese venne destinato ad altro uso. Iniziarono
«escursioni a scopo turistico di beneficenza» il cui ricavato veniva devoluto a favore delle famiglie
dei caduti della città. Con 100 lire si poteva scegliere fra tre itinerari diversi nei cieli della Toscana. In
due ore, per esempio, si poteva partire da Pontedera, sorvolare Lucca, Pisa, Livorno e rientrare allo
scalo. Per assistere alle partenze e agli arrivi dell’aeronave si pagavano 5 lire.
A ricordo del vecchio aeroscalo rimangono a Pontedera poche cose: la via Hangar e la via dell’Aeroporto; un breve tratto di ferrovia; l’elica del dirigibile U5 malamente conservata nel Cimitero della
Misericordia cittadino, appesa a una parete lungo un corridoio di passaggio, senza nessuna protezione, tra passanti per lo più inconsapevoli. Le due lapidi sottostanti, una probabilmente dell’epoca
e una più recente (con un errore nel nome del comandante), ricordano l’incidente dell’aeronave e la
storia dei poveri corpi degli avieri recentemente traslati (23 gennaio 1993) da Pontedera a Livorno
presso il Cimitero Militare «La Cigna». C’è ancora lo storico Ristorante «Aeroscalo» di proprietà
della famiglia Marianelli. Posto sulla vecchia via Provinciale Pisana in angolo con via dello Spedale,
a due passi dalla posizione attuale, poteva considerarsi la locanda degli avieri e dei dirigibilisti; gli
stessi a realizzare in Valdiperga, nel settembre del 1918, un monumento che, insieme a una lapide
all’entrata del palazzo comunale di Castellina Marittima, rende onore ancora oggi all’equipaggio
dell’U5.
Cecina e la memoria della guerra
Con la parata di Parigi del 14 luglio 1919, i francesi resero omaggio al cenotafio dell’Arco di
Trionfo. Nelle cerimonie, così si disse, «i morti rubavano ai sopravvissuti il loro giorno di gloria».
L’11 novembre 1920, nel secondo anniversario della vittoria delle nazioni dell’Intesa, Parigi e Londra
dettero sepoltura al Milite Ignoto. In Italia questo avvenne il 4 novembre del 1921 con la cerimonia
all’Altare della Patria a Roma. Da quel momento, in ogni paese, s’intitolarono vie e si realizzarono
parchi della rimembranza e monumenti in onore dei caduti.
Il 21 ottobre 1923 anche Cecina ebbe il suo monumento ai caduti. Dello stesso periodo fu la
realizzazione del viale della Rimembranza, che portava direttamente all’ingresso principale del cimitero, ai cui lati furono piantati tanti cipressi quanti i soldati caduti. I loro nomi vennero scritti su
targhette in legno poste accanto a ogni pianta. Simboli e luoghi dimenticati a partire dal secondo
dopoguerra. Oggi quel viale non è più nemmeno l’entrata principale del cimitero; le targhette sono
scomparse. Quei poveri soldati, però, non sono stati dimenticati così in fretta da tutti: per tanti anni
un’anziana signora è stata vista deporre mazzi di fiori vicino al primo cipresso del viale.
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il bombardamento di Portoferraio
All’alba del 23 maggio 1916 avvenne uno
dei pochi episodi bellici che coinvolse la popolazione civile della Toscana. Il sommergibile U-39 battente bandiera austriaca entrò
nella baia di Portoferraio ed emerse, quasi
nascosto nella nebbia mattutina, nelle acque
davanti la spiaggia di Bagnaia. Da qui, alle
ore 5:26, esplose una ventina di colpi di cannone (61 secondo la ricostruzione austriaca)
in direzione degli altiforni dello stabilimento
siderurgico e verso il piroscafo Teresa Accame, ancorato all’antistante pontile di scarico:
i primi colpi sorvolarono lo stabilimento ed
esplosero nella retrostante collina di Albereto; dodici colpi andarono a segno provocando
alcuni limitati danni alle ciminiere; il Teresa
Accame fu danneggiato; una piccola imbarcazione da carico, la Mistico Maria – Porto di
50
Salvezza fu affondata. Le esplosioni causarono la morte di due marinai e il ferimento di
alcuni abitanti, tra cui due donne. L’azione del
sommergibile fu interrotta dopo pochi minuti
dal fuoco di un cannone del vicino Forte Stella
che costrinse l’U-39 all’immersione.Poco dopo
il fatto, come gesto di sfida per l’attacco subito,
le case di Portoferraio esposero i tricolori alle
finestre. L’attacco fu ricostruito in dettaglio
sul Supplemento al n. 60 del «Popolano», storico giornale elbano diretto da Sandro Foresi e
uscito, censurato, poche ore dopo il fatto. Rimase nella memoria della popolazione elbana
il gesto eroico dell’avvocato Giuseppe Tonietti
che dalla sua villa a Punta Pina, 400 metri alle
spalle del punto di emersione dell’U-39, aprì
prontamente il fuoco con la sua carabina Winchester contro i marinai austriaci sulla tolda.
Supplemento al n. 60 del «Popolano» del 23 maggio 1916
Biblioteca Comunale Foresiana di Portoferraio
Nella pagina precedente:
Sommergibile tedesco U-39 battente bandiera austroungarica
51
il dirigibile U5
A partire dall’ottobre 1917 la flotta dell’aeroscalo di Pontedera svolse un fondamentale
ruolo nel pattugliamento del tratto di mare
compreso tra Orbetello e La Spezia allo scopo
di contrastare gli attacchi ai siti produttivi costieri e ai mercantili da parte dei temibili sommergibili tedeschi U-Boot.
La dirigibilistica italiana era tuttavia ancora agli inizi e gli aerostati costruiti fino ad allora erano molto instabili. Il 2 maggio 1918 il
dirigibile U5 (dove U è l’iniziale del costruttore
Elica del dirigibile U5 caduto a Castellina Marittima il 2 maggio 1918
Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Pontedera
52
Usuelli e 5 il numero dell’aeronave), di ritorno
a Pontedera dopo un giro di perlustrazione tra
Punta Ala, l’isola d’Elba e la Corsica, precipitò
a Castellina Marittima (PI) nella tenuta Valdiperga di proprietà dei conti Davico a causa
di un cedimento strutturale causato dal forte vento. Nell’incidente persero la vita il comandante, tenente Federico Fenu, e i quattro
membri dell’equipaggio. Sul luogo del disastro è presente ancora oggi un cippo a memoria dell’evento.
Dirigibile U5 all’aeroscalo di Pontedera, 1917-18
Ufficio Storico della Marina Militare
53
Ugo Narsetti e Cerbonesco Cerboneschi
Tra il maggio e il giugno del 1916 il Regio Esercito Italiano si trovò a fronteggiare l’avanzata austroungarica sull’altopiano di Asiago. L’offensiva, voluta dal feldmaresciallo Conrad von
Hötzendorf e conosciuta come Strafexpedition («spedizione punitiva»), fu alla fine fermata.
Fu durante questo momento decisivo che il sottotenente Benedetto Ugo Narsetti (classe 1895),
toscano di Casale Marittimo, prese parte alla resistenza con grande coraggio e patriottismo. Nell’attacco nemico del 29 maggio 1916 sui Monti Aralta e Priaforà, un compaesano di Narsetti, il capitano
Cerbonesco Cerboneschi (II/209° Reggimento Fanteria), si distinse combattendo e fu ferito due
volte, meritandosi per questo la medaglia d’Argento al valore militare. Tutti e tre i fratelli Cerboneschi si distinsero per il grande contributo alla causa italiana: le famiglie Cerboneschi e Narsetti si
conoscevano molto bene essendo non solo compaesani ma anche vicini di residenza a Casale M.mo.
Mentre sul fronte orientale si dispiegava l’offensiva Brusilov, che costrinse Conrad a spostare
parte delle truppe dall’altopiano di Asiago al fronte russo, l’esercito italiano poteva portare avanti
una controffensiva alla quale Narsetti (Brigata Milano – 159° Reggimento Fanteria) partecipò attivamente, passando giorni di trincea e di sofferenza sul monte Zebio. Successivamente Narsetti fu
trasferito sul fronte isontino e, promosso tenente nel febbraio 1917, il 1° novembre fu spostato al 38°
Reggimento Fanteria Mobilitato con il quale visse l’epopea del Grappa e del Piave. Nel luglio 1918,
ferito, lasciò il fronte e fu decorato con la medaglia di Bronzo al valore militare.
Lampada ad acetilene, macchina fotografica Kodak, penna stilografica, diario manoscritto, proiettile e fotografia di Ugo
Narsetti Collezione Placido Narsetti, Luciana Narsetti Servolini
54
Le lettere dei cecinesi
Fondo aggregato all’Archivio Storico del Comune di Cecina «Lettere dal fronte 1915-18»
Amerigo Capanna
4-12-1917
Cara Isola
Appena che ho ricevuto la tua tanto da me desiderata vengo subito a risponderti tanto per dirti godo
buona salute come pure sento è di te Mario con Marino e tutte le famiglie nostre. Più sono nel sentire
che i tuoi e i miei fratelli anno scritto tutti questo mi ha fatto ristare contentissimo ripensare a quello
che è nato in quei posti. Credi Isola non mi sfuggi mai dalla mente come pure il nostro tenero sangue.
Io come già ti avevo detto che il giorno venti-otto andavo a riposo ma come ti dico si dovevo andarci
ma lo vedi come fanno questi vigliacchi spudorati prometono certe cose e poi non mantengono e cosi
è nato a me. Ora vengo a dirti cosa sono buoni di farti. Senti la posizione non era tanto cattiva, ma sai
siamo sempre esposti al pericolo ci hanno levato e ci hanno portato dove bussano di piu dalla parte
di monte-fiore che è altio 31-50 metri ora ti lasso considerare se la bottega di Tremeria funziona Più
ti dico che domenica notte ci siamo portati sul posto di combattimento e credi questi superiori non
sanno proprio di nulla ci hanno fatto camminare tutta la notte e poi quando siamo giunti al giorno
si sono accorti che ci avevano fatto sbagliare strada Ora ti lasso considerare senza mai dormire poi
anche mangiare lindomani. Più se tu hai voluto riposare un po’ alla meglio per via della neve e del
gelo mi è toccato fare un buco come fanno queste tarpe e mi sono gettato li dove questi miseri versi
te li mando. Inquanto ai soldi non mandare nulla perché non ho bisogno di niente. Anzi ti mando
queste dieci Lire che io non so cosa fare cosi tu penserai quando mi occorreranno e se no fai come
meglio credi. Se tu mi fai il pacco non ti scordare di mandarmi quella roba ossia qualche paio di
Calzini ma io credo che non si possono fare ma in ogni modo aspetta sempre il mio ordine perché
quà non ci starò tanto
Godo sapere dei bambini che vanno molto volentieri alla scuola e ancora tu dici che non ti manca
nulla. Ma solo io so cosa ti manca?....
Una cosa che io ti dico stai sempre contenta e di pensare che mai non succedi niente Saluta tanto
Carolina mia Cugina e dirgli che io gli ho scritto. Baciami bimbini mia e tua famiglia Tanti saluti a
Emilia suo marito e queste ragazzine tanti a tutto il Casamento e tu un miglione di baci con un forte
stretta di mano tuo sempre
Amerigo
[appena ricevi questa fammi avvisata]
55
Amerigo Ferrari
27-9-1918
Mia cara
Conzorte
Appena giunto alla mia destinazione prendo la mia penna in mano e schrivo e ti mando queste mie uniche
parole dove ti faccio sapere la mia ottima salute io sto bene come spero che sia di te mia adorata conzorte
chredi che io o penato per tutta la strada o penzato alla mia conpangnia che miera finito il bene stare io o
Pianto per tutta la strada mia cara quando sarà quel giorno che io Potro essere senpre al tuo fianco senza
poterti piu lasare questo e stato un cattivo viaggio perme e stato troppo straziante sul fiore della
Gioventu
mianno troncato la mia giovineza ora che potevo godere un minuto di bene e in vece devo provarllo di
sospiri questo minuto come posso resistire a questi poveri quori che cianno di visi cosi giovine?
ma speriamo che tutto firrà senno quà si vamale mia cara Giuseppina appena che ai preso la mia colla tua
fotografia mandane uno amme e una al tuo fratello Tonino e poi dirgli alla tua madre che gli schrivi a Tonino
che lui non riceve posta aricevuto solo quelle 3 che io glio schritto io e lui dice che quando io gli schrivo lui
le riceve dunque schrivergli ancora te al tuo fratello perche se lui mi dice che non gli schrivete io ti farò una
lettera propio come ti meriti dunque te gli devi schrivere spesso una volta la settimana ma gari non ne schrivi
amme ma allui schrivergli che lui a bisongno di confortarllo come un fanciullo dunque cisiamo capiti io ti
lacio i miei piu cari baci tuo conzorte perlla vita
Amerigo Ferrari
Ricevi un vagone di baci e uno di abracci
Bruna
Carissima
Quando so partito non lò potuta salutare allora giunto al mio posto gli in vio i più cari saluti a lei e alla Sua
famiglia mi dico suo amico Amerigo Ferrari
________________
Perdoni se la di sturbo
Attendo una Pronta Risposta
21° Fanteria 8° conpangnia Z di G
Perdoni Mirimandi il suo Nome e congnome lo Perduto Saluti atutti
56
Dante Bigazzi
24-5-1917
Carissimi Genitori
Questa mattina con tanto piacere ho ricevuto la vostra lettera e sento che siate dispiacenti molto, io ve ne sono
nel cuore perchè avere un figlio e averlo in pericolo credo che sia un grande pensiero.
Cari Genitori per questa volta son rimasto salvo ma credete che è stato un miracolo che sia sempre vivo, proprio
Iddio mà voluto salvare ma credete che nel mentre grandinava i proiettili di ogni sorta mi raccomandavo al
signore e a santa Barbera che mi liberasse dai proiettili mortali e credete in tutto il tempo di questo grande
pericolo stavo pregando il signore che mi salvasse e non so come o fatto a rimaner salvo da questo inferno di
proiettili che cadevano come quando grandina. Tanta spiegazione non ve la faccio, io per il momento sono
fiero e salvo e speriamo in quel dio che mi perseguiti e mi ricondurra in braccio a voi. Cara madre fate bene
a andare in Collemezzano e fare quello che avete detto, proviamo anche a far cosi che un anima potrebbe
proteggermi e salvarmi la vita
più vi dico che quassù ho trovato Torre dello Zucchelli e ci siamo abbracciati e baciati come fossemo stati
due fratelli e che fosse stato qualche anno che non ci si fosse veduti. Credete che trovando quì un amico che
è tanto che non si è veduto sembra di vedere la nostra famiglia. Insomma ci vuol pazzienza e coraggio più
che sia possibile e speriamo che la benedetta fortuna mi assista, per il momento son sano e salvo e prego ogni
momento il Signore
Cari genitori fate coraggio speriamo in una prossima pace.
Altro non ho da dirvi che salutarvi e baciarvi affte vostro affmo figlio
Dante B.
Il vaglia non l’o ancora ricevuto ma non fa nulla perchè quì i soldi non costano altro nulla costa più una bevuta
di acqua che cento lire.
Cari miei salutate tutti gli amici per questa volta e chi domanda di me. Contraccambio i saluti di Ada e sua
famiglia saluti a Massima Tonino e tutta la famiglia più salutate Riccardo se è sempre a casa. Addio e coraggio,
Dante B.
57
Primo Del Ghianda
Zona di Guerra, 19-10-1916
Carissimo Amico
con premura rispondo subito alla tua cartolina dove mi ha dato un grosso dispiacere di dovere tornare sopra
alla sventura del nostro caro Vittorio, piu dolore ancora mi sento dovendoti dire che il povero nostro
amico morì senza fare nessuna parola, sarebbe stato anche per noi stessi una grossa consolazione avendogli
sentito pronunciare una sola parola. Ma devo dirti che non fece nessuna sclamazione. Lui si trovava costi
seduto con diversi amici con un docile pensiero e cosi tranquillo mai non averebbe creduto un fatto simile.
Devi sapere che un momento prima mi ci trovavo ancora io che gli scrissi una lettera alla sua moglie, dopo
mi dilontanai per andare a pigliare una borraccia d’aqua e lui stava mangiando un boccone di pane, non
appena che mi fui mosso di li arrivo una nostra granata scoppiando di dietro pochi metri in modo una
scheggia lo venne a colpire lui con altri compagni.
Caro Amico
non credere che fosse stata una grossa ferita la sua ma però il dove lo prese lo ridusse mortale fu colpito in
una tempia. Non ho altro che dirti solo che lasciò noi tutti suoi amici in un profondo dolore, compreso tutta
la comp’. dovettero piangierlo perche e un era un bravo soldato per tutti e poi tutti
Caro Amico mi domandi del Pisaneschi lui si trova qui al mio fianco mentre che scrivo e si trovava presente
al fatto mentre il Cecchi mori il giorno stesso di Vittorio colpito da una pallottola austriaca
Non avendo altro che dire solo serro la lettera con dolore ma però ti prego farti coraggio speriamo sempre
in bene. Ricevi saluti e Baci da me come Pisaneschi amici saluti dal tuo fratello Pietro tuoi amici Ghianda
Pisaneschi
[Siamo in Riposo]
58
Vittorio Ceppatelli
16-7-1916
Cara Zeneta
Con questa mia lettera vengo a farti sapere le mie notizie, il quale ti posso assicurare il mio buon stato di
salute, come spero sia di te e tutti di Famiglia. Ieri mattina mentre tornavamo da fare una piccola
passeggiata, al mio ritorno, ebbi la sorpresa di trovare mio Fratello Alfonso che mi attendeva, non ti poi fare
un’idea quale consolazione provarono, tanto uno come l’altro nel vedersi il quale si abbracciarono e si
baciarono, dopo io chiesi il permesso al mio Capitano il quale mi concesse di star fuori fino alla sera, così
sortirono insieme e andammo in un paesetto dove passammo un’ora insieme a mangiare qualche cosa,
quando fu verso sera andammo insieme alla stazione, dove li pure facemmo una piccola merenda e dopo
per me si avvicinava l’ora di ritornare al convalescienziario e cosi di nuovo si abbracciarono e baciarono e
tutti e due commossi si lasciammo, vi posso assicurare che anche lui gode ottima salute. Sarete bene rimasti
soddisfatti il quale volevi sapere per bene il motivo perchè io mi trovavo in codesto convalescienziario, che
io vi ho spiegato per bene nella mia precedente lettera, perciò vi raccommando che state tranquilli perchè io
ora mi trovo bene. Mi farete sapere se avete ricevuta la lettera il quale vi dicevo che ero rimasto ferito da una
scheggia di granata alla schiena, che non era cosa di grave, e che ero già guarito, e più ti dicevo che mi trovo
qui causa del gas. asfissiante che gettarono quei maledetti austriaci la mattina del 29, ma pure di questo non
era cosa di grave, mi sembra che mi sia bene spiegato, perciò state contenti e tranquilli, augurandoci che
Iddio conceda presto il giorno della pace tanto desiderata, così torna la tranquillità in tutto il mondo, e tutti
possiamo far ritorno nelle nostre Famiglie
Del mio amico Del Ghianda io non ho saputo più nulla perciò, scrissi al Bellucci ma non ho avuto risposta,
vorrei sapere se lui scrive a casa, ma se lui non scrivesse non fate sapere nulla che io vi ho mandato a dire
che non so sue notizie.
Ricevi i più cari ed affettuosi saluti da me e da mio Fratello te e tutti di Famiglia e chi domanda di me
Tuo Consorte
Vittorio
A rivederci presto. Addio
59
«La Domenica del Corriere», 30 maggio – 6 giugno 1915, con tavola originale
disegnata da Achille Beltrami
Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera
60
«La Domenica del Corriere», 6-13 giugno 1915, con tavola originale disegnata
da Achille Beltrami
Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera
61
«La Domenica del Corriere», 21-28 novembre 1915, con tavola originale
disegnata da Achille Beltrami
Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera
62
«La Domenica del Corriere», 2-9 aprile 1916, con tavola originale
disegnata da Achille Beltrami
Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera
63
64
In alto:
Lanterna di tela cerata da truppa
In basso:
Pistola a rotazione mod. 1889 da ufficiali (a sinistra), da truppa (a destra), cal. 10,35 mm
Regia Fabbrica d’Armi di Brescia
Collezione Marco Piermartini
65
Fregi, Prima guerra mondiale
Collezione Andrea Russo
66
Moschetto italiano Carcano mod. 1891 da Cavalleria
Collezione Francesco Alunno
Moschetto austriaco Steyr Stutzen mod. 1895
Collezione Andrea Russo
Fucile italiano Carcano mod. 1891
Collezione Francesco Alunno
Fucile tedesco Mauser mod. 1898
Collezione Francesco Alunno
Fucile americano M1917
Collezione Massimiliano Battini
67
Divisa da crocerossina
Collezione Luca Luperini
68
Zaino per armi a piedi con gavetta e vanghetta da Fanteria
Collezione Luca Dello Sbarba
In basso:
Vari modelli di pinze tagliafili
Collezioni Francesco Alunno, Luca Dello Sbarba
69
Martello pneumatico per escavazioni su roccia
Collezione Giuliano Baratella
Carburatore di aeroplano austriaco abbattuto nel 1918
Collezione Michela Sgarallino
70
Sella da Cavalleria con bisacce in tela
Collezione Giuliano Baratella
71
Corazza modello Corsi
Collezione Francesco Alunno
Nella pagina successiva:
Cofano scrittoio
Collezione Giuliano Baratella
72
73
Lanterne italiane e kit medici con medicazioni
Collezioni Francesco Alunno, Luca Dello Sbarba, Andrea Russo
In basso:
Borracce di varie nazioni
Collezioni Francesco Alunno, Giuliano Baratella, Massimiliano Battini, Luca Dello Sbarba, Andrea Russo
74
Tenente dei Cavalleggeri di Monferrato con elmo Adrian mod. 1916
Collezione Massimo Polimeni
75
Giornali di trincea, 1918-19
Collezione Giacomo Luppichini
Piastrine di riconoscimento
Collezioni Luca Dello Sbarba, Massimo Polimeni
76
Bersagliere ciclista con fiamme dei reparti Arditi, con elmo Adrian mod. 1915 e pugnale da Arditi
Collezioni Francesco Alunno, Giuliano Baratella, Luca Dello Sbarba, Dario Viganò
77
Numeri e schieramenti
Forze mobilitate
Caduti
Feriti
Prigionieri/dispersi
Italia
> 5 000 000
> 600 000
> 900 000
≈ 600 000
Alleati
> 41 000 000
> 5 000 000
> 12 000 000
> 4 000 000
Imperi centrali
> 22 000 000
> 3 000 000
> 8 000 000
> 3 000 000
Totale alleati e
Imperi centrali
> 60 000 000
> 9 000 000
> 21 000 000
> 7 000 000
Alleati
Regno
d’Italia
Stati Uniti
d’America
Regno di
Serbia
Impero
giapponese
Repubblica
di Francia e
colonie
Impero
russo
Regno di
Grecia
Regno del
Belgio
Regno Unito
e Dominions
Regno del
Montenegro
Regno di
Romania
Repubblica
di Cina
Impero
tedesco
Impero
ottomano
Regno di
Bulgaria
Imperi centrali
Impero
austroungarico
Numeri di vittime (tra morti, feriti e dispersi) sul fronte italiano:
Prima battaglia dell’Isonzo, 1915 Seconda battaglia dell’Isonzo, 1915
Terza battaglia dell’Isonzo, 1915
Quarta battaglia dell’Isonzo, 1915 Quinta battaglia dell’Isonzo, 1916 Strafexpedition, 1916
Sesta battaglia dell’Isonzo, 1916
Settima battaglia dell’Isonzo, 1916 Ottava battaglia dell’Isonzo, 1916 ≈ 15 000
> 40 000
> 65 000
≈ 50 000
≈ 2 000
> 75 000
> 50 000
≈ 20 000
≈ 20 000
Nona battaglia dell’Isonzo, 1916
Decima battaglia dell’Isonzo, 1917 Battaglia dell’Ortigara, 1917
Undicesima battaglia dell’Isonzo, 1917
Dodicesima battaglia dell’Isonzo, 1917
Battaglia d’arresto, 1917
Battaglia del Piave, 1918 Battaglia di Vittorio Veneto, 1918
≈ 35 000
≈ 140 000
> 20 000
≈ 165 000
≈ 160 000
> 40 000
≈ 90 000
> 30 000
Toscana:
Furono mobilitati tra i 450 e i 500 mila uomini (l’8% della popolazione nazionale). Di questi ne morirono più di 40 000.
I morti civili, causati sia direttamente dalle azioni belliche sia da cause collegate come malattie, malnutrizione e incidenti
vari, superarono i 7 milioni.
78
Bibliografia scelta
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2014: Lettere dal dirigibile U5, Caosfera Edizioni, Vicenza.
battaglini, giuseppe, 2001: saggio pubblicato in a. m. andreoli (a cura di), Il Comandante e l’Imperatore: D’Annunzio e il mito
di Napoleone, Novamusa Toscana, Portoferraio. Catalogo della mostra allestita presso il Museo Nazionale delle Residenze Napoleoniche dell’isola d’Elba dal 28 aprile al 30 settembre.
caterino, aldo, 2014: La Prima Guerra Mondiale. Una grande storia collettiva, Il Portolano, Genova.
comune di cecina (a cura di), 1981: Lettere di soldati di Cecina caduti nella prima guerra mondiale, Comune di Cecina, Cecina.
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— 1916b: «Il Popolano», 28 maggio.
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— 2007: Invito a pranzo con il 159° fanteria. Il diario del sottotenente Narsetti a Monte Zebio (giugno-luglio 1916), in «Aquile in
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— 2009: Una commemorazione con qualche... dimenticanza, ivi, n. 17, pp. 96-103.
— 2011: L’aeroscalo di Pontedera, dal dirigibile alla Vespa, ivi, n. 19, pp. 109-15.
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mordacq, jean-jules henri, 1933: Drame de l’Yser: la surprise des gaz (avril 1915), Éditions des Portiques, Paris.
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aa.vv.,
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troso, mario, La battaglia di Caporetto, in «Arte Ricerca», http://www.artericerca.com.
Si ringraziano:
Franco Ballone, Paolo Bisi, Anna Braccini, Bruno Casarosa, Fanfara dei Bersaglieri di Cecina, Tiziana Gianfaldoni, Beatrice
Gori, Simona Granchi, Renato Lemmi, Stefano Lumini, Lamberto Picchi, Nicoletta Porciani, Otello Sangiorgi, Andrea
Servolini, Simone Ticciati, Francesca Tramma.
79
Stampato dalla tipografia
Bandecchi & Vivaldi
Marzo 2015
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