Massoneria e società GIUSTIZIA ED EQUITA` * Gaetano Fiorentino

Massoneria e società
GIUSTIZIA ED EQUITA’ *
Gaetano Fiorentino
Attraverso il pensiero aristotelico, pitagorico, giuridico, tomistico e filosofico
moderno il concetto di Giustizia si modifica e si evolve insieme a quello di
equità. I precetti muratori degli "Antichi Doveri".
La parola giustizia discende etimologicamente dal sostantivo latino justitia,
che a sua volta deriva dall'aggettivo justus. Designa, in generale, l’ordine dei
rapporti umani, conforme alla natura stessa dell'uomo ed alle sue innate
esigenze. Indica altresì il complesso delle norme e dei principi che regolano
le relazioni sociali stabilendo ciò che spetta a ciascuno e dà denominazione
alla virtù di chi a quel complesso dl norme e di principi uniformi
costantemente la propria condotta.
Risale ad Aristotele la distinzione tra giustizia commutativa, volta a
regolare i rapporti tra i singoli, e giustizia distributiva, intesa a regolare i
rapporti tra i cittadini ed il corpo sociale al quale essi appartengono. Fu
invece delineato dai primi Pitagorici il concerto di giustizia punitiva, per il
quale a ciascuna azione deve equivalere una reazione giuridica adeguata. E’
interessante osservare che quest'ultimo orientamento filosofico fu dai
Pitagorici simboleggiato suggestivamente nella regola di formazione dei
quadrati (ossia nella moltiplicazione di un numero per se stesso); essi
asserirono che «giusto è l’antipeponthos: quel criterio di commisurazione cioè - che nel poema di Dante ci è noto come contrappasso.
I concetti (di armonia e di uguaglianza che Pitagora intravide nella
giustizia naturale furono meglio determinati da Platone e da Aristotele.
Platone considerò che la giustizia è armonia tanto tra le diverse facoltà
dell'anima quanto tra i diversi ceti sociali: e così essa - da un canto - frena
opportunamente gli impulsi all'errore inducendo ad operare con rettitudine,
come - d'altronde - attribuisce a ciascun cittadino quanto gli spetta per
classe di appartenenza; esigenza fondamentale della giustizia è che ognuno
adempia il proprio compito. Aristotele insegnò che la giustizia, ispirata dalla
virtù, deve mirare a posizioni che non tendano né al difetto né all'eccesso,
ma si collochino sulla medietà. Il V libro dell'Etica Nicomachea contrappone
la giustizia all'ingiustizia e precisa che la giustizia generale non è una virtù
particolare, ma è una virtù intera che trae il suo contenuto dalle altre virtù.
Il concetto aristotelico di medietà è quindi applicabile soltanto alla giustizia
particolare: non riguarda tendenze soggettive, ma prende in considerazione
tanto il «troppo» e il «troppo poco» nell'assegnazione degli onori e dei beni
pubblici quanto le misure delle contropartite nello scambio dei beni privati.
Per Aristotele, non si deve dare a tutti ugualmente; si deve dare a ciascuno
quanto gli compete.
* Hiram, Rivista bimestrale del Grande Oriente d’Italia, febbraio 1980 - n°1.
Collegata per alcuni versi alla teoria pitagorica e per altri a quella platonica,
la trattazione aristotelica della giustizia rimane fondamentale per i
successivi sviluppi dottrinali sull'argomento. Di particolare importanza è la
già accennata formulazione del concerto di giustizia commutativa, mirante
alla misurazione di cose ed azioni secondo il loro valore obiettivo.
Relativamente agli scambi, il pensiero di Aristotele indica la necessita di
livellare rigorosamente ed onestamente prestazioni e controprestazioni; e la
giustizia commutativa, in questo caso, è detta anche - e più esattamente giustizia sinallagmatica, perché sinallagma è il termine tecnico specifico che
designa l'obbligazione reciproca.
Occorre però notare che il grande filosofo greco riferì il medesimo concetto
anche ai rapporti che scaturiscono da delitto, perché richiedono un
pareggiamento tra delitto e pena. Un altro aspetto particolare della giustizia
commutativa e pertanto quello della giustizia pareggiatrice.
Alcuni studiosi ritengono che Aristotele abbia qualificato come specie
distinta la giustizia amministrata in sede giudiziaria, cosicché nella dottrina
aristotelica che stiamo considerando sarebbe delineata una tripartizione
anziché - come più comunemente si ammette - una bipartizione. Le
osservazioni svolte da Aristotele sull’attività dei giudici sembrano,
interpretare l'opera di questi come rivolta a realizzare un conguaglio,
allorché non sia stato raggiunto preventivamente un accordo tra le parti; e
così anche la funzione giudiziaria si configura con un aspetto che può farla
rientrare nell'ampio concerto di giustizia pareggiatrice.
Tra le obiezioni che sono state mosse alla teoria aristotelica, assume
particolare rilevanza quella formulata dal Del Vecchio, il quale ha osservato
che nella trattazione riguardata manca un adeguato riconoscimento della
dignità fondamentale della persona; è infatti vero - ad esempio - che
Aristotele pone a base dell'obbligatorietà dei contratti non la manifestazione
di volontà delle parti, liberamente espressa, ma il valore materiale delle cose.
C'e da riconoscere che il giurista è riuscito a cogliere in fallo il filosofo.
Il concetto aristotelico di giustizia distributiva fu rivestito di rigorosa forma
giuridica dai Romani, e così perfezionato fu poi conservato nelle
rielaborazioni della Patristica e della Scolastica. Per Cicerone, la giustizia è
la regola che attribuisce a ciascuno secondo la propria dignità: jus unicuique
tribuens pro dignitate cuiusque; Ulpiano lo definisce come la costante e
perpetua volontà di attribuire a ciascuno ciò che gli è dovuto: Justitia est
constans et perpetua voluntas jus suum cuique tribuendi. Sant'Ambrogio
dichiara che la giustizia non soltanto attribuisce a ciascuno il suo, ma
altresì non rivendica ciò che è d'altri e trascura I'utilità propria: justitia, quae
suum cuique tribuit. alienum non vindicat, utilitatem propriam negligit e
soggiunge che al di sopra della giustizia umana vi è quella divina: Soli Deo
suppetit in perpetuum per omnia possidere justitiam, qui pascit justos et injustos; San Gregorio Magno afferma senza esitazioni che la giustizia degli
uomini, confrontata con quella divina, è addirittura ingiustizia: Humana
justitia divinae justitiae comparata, injustitia est. San Tommaso identifica la
giustizia divina con la verità e riguarda la giustizia umana come la legge che
ordina I'attuazione di tutte le virtù per il bene comune,
Nell'età moderna, diritto e morale si sono rivolti a trattazioni separate; la
teologia e le indagini filosofico-giuridiche hanno seguito vie distinte; 1'etica,
pur avendo approfondito lo studio delle singole virtù, non ha più cercato di
accomunarle nel generico concetto di giustizia.
A cominciare da Bacone e da Cartesio, la nozione di giustizia è stata
derivata dalla ragione. Soltanto il Leibniz volle ancora assommare in una
visione unitaria tutti i precetti di perfezione etica, includendovi il vincolo di
subordinazione dell'uomo a Dio. La concezione empirica della giustizia trova
la sua espressione culminante in un saggio dello Hume, per il quale 1'uomo,
che non è né interamente egoista né interamente altruista, sarebbe stato
indotto, trovandosi nell'impossibilita di vivere tanto in eccessiva abbondanza
quanto in estrema penuria, ad istituire la proprietà privata e ad associarsi
con i propri simili; la necessità di norme di giustizia sarebbe stata poi
sentita per garantire 1'esistenza individuale nella vita comunitaria e non per
la loro conformità a superiori disegni o per la loro razionalità intrinseca.
I seguaci del diritto naturale della scuola del Grozio cercano di adattare il
razionalismo e l'empirismo alle esigenze della vita giuridica e politica. Essi
asserirono 1'esistenza di una giustizia naturale promanante dal
riconoscimento di tendenze e necessità della personalità emperica e
razionale dell'uomo; ed a quella contrapposero la giustizia civile, derivata da
un patto di rinuncia alla giustizia naturale, formulato per garantire un miglior godimento degli inviolabili diritti che all'uomo spettano per la sua
stessa essenza.
Nel pensiero di Kant, il concetto di giustizia accoglie elementi empirici e
razionali unificati dall'attività formale e sintetica della coscienza. Quello
della giustizia è un concetto tanto della ragion pura quanto della ragion
pratica e si identifica con l’idea della relazione tra esseri che devono
coesistere secondo una legge universale di ragione attuata coattivamente. La
giustizia si manifesta così, nella concezione kantiana, come esercizio di una
libertà in relazione alla quale I'uguaglianza è il limite oggettivo. L’idealismo
hegeliano asserisce che la giustizia, come lo spirito che la produce, non è,
ma diviene, risolvendo progressivamente in sé il suo contrario. La contrapposizione di una giustizia naturale ad una giustizia razionale si dissolve
in un sistema che afferma la razionalità del reale e configura la realtà come
pensiero oggettivato.
Per lo Spencer, infine, la giustizia è 1'«etica della vita sociale».
La Libera Muratoria non ha mai dato, della giustizia, una definizione sua
propria. Il concetto che ha di essa può però essere desunto dagli Antichi
doveri; e risulta puro, semplice, efficacissimo. Lo costituiscono prescrizioni
che, sparse qua e là in quella nostra regola, si riferiscono con indirizzo
univoco ad un'idea nitidamente delineata.
Giustizia significa obbedienza alla legge morale, sudditanza pacifica nei
confronti del potere civile, apprezzamento del merito personale, impegno
onesto nello svolgimento del lavoro, rifiuto di trattare ciò che è inopportuno
o sconveniente, ossequio alle norme dell'Istituzione, cautela nelle parole e
nel portamento: «come tutti i veri Muratori hanno fatto dal principio del
mondo e faranno sino alla fine del tempo.
Chi volesse pervenire alla brevità della sintesi, potrebbe ripetere una
notissima asserzione di Hume: “Il fine della giustizia è di procurare la felicità
e la sicurezza conservando l'ordine nella società”.
Un grembiule di Maestro trovato in Inghilterra e risalente alla seconda meta del Settecento. La
disposizione dei simboli e degli utensili richiama i temi raffigurati nelle Tavole di Loggia.
La parola Equità discende etimologicamente dal sostantivo latino aequitas
e designa, in generate, l’appello alla giustizia qualora occorra mitigate la
rigidità della norma con la quale si esprime il diritto.
Summum jus, summa injuria, affermò Cicerone. Se le leggi dovessero essere
sempre applicate con criteri di ottusa inflessibilità, il diritto cesserebbe di
essere fonte di vera giustizia, perché anzi potrebbe determinare, in alcuni
casi, gravi iniquità di trattamento. La legge, per il carattere generale che la
contraddistingue, talvolta si rivela d'imperfetta o difficile applicazione ai casi
particolari. L'equità, ove occorra e sia lecito, interviene a giudicare non in
base alla legge ma in base a quella giustizia che la legge stessa è diretta a
realizzare. Come osservò Aristotele, ciò che è giusto è anche equo; l'equo è
superiore, non al giusto in sé, ma al giusto formulato in una legge che, in
conseguenza della sua universalità, è soggetta all'errore.
Non è possibile esporre, in una tavola di dimensioni necessariamente
limitate, il travagliato e vario sviluppo che la nozione dell'aequitas ebbe nel
diritto romano. Si tratta di un concetto che, per quanto essenziale. è rimasto
tra i più evanescenti, incerti e contraddittori che le fonti romane offrano.
Il Guarino ha osservato quanto sia improbabile che la prassi di giudicare
equo o iniquo 1'ordinamento vigente nell'antica Roma si sia affermata
proprio e direttamente nei riguardi dell'ordinamento stesso, cioè delle norme
che lo strutturavano; è probabile, invece, che tale prassi si sia affermata in
occasione di valutazioni di singole fattispecie concrete, di cui si rilevò la
iniquità malgrado la corrispondenza al diritto, o viceversa la equità,
malgrado la contrarietà all'ordinamento. Per convincersene. basti pensare al
profondo rispetto che i Romani ebbero sempre per il loro jus civile. E’ noto
che lo consideravano praticamente immutabile, sì che non era ammissibile
che esso fosse posto, sotto qualunque profilo, in discussione.
La più diffusa definizione dell'equità è quella che la designa come la
giustizia del caso singolo. L’enorme varietà delle circostanze che il diritto
deve regolare fa sì che esso le riguardi necessariamente per categorie;
l'equità mira ad evitare che, in ciascuna categoria, il caso particolare sia
riguardato nel genere anziché nella specie.
La più accettabile e completa delineazione dell'equità è, ancora oggi, quella
che si rileva dalla nozione dell'epieichéia data da Aristotele nel V libro
dell'Etica Nicomachea:
“Quando la legge parla in senso generale ma si riferisce a fatti particolari,
allora è bene integrate, ciò che è stato tralasciato dal legislatore per aver
parlato in senso assoluto, con ciò che lo stesso legislatore avrebbe detto se
fosse stato presente e con ciò che avrebbe prescritto se lo avesse preveduto
net particolare”.
Quì già si palesa, diremmo oggi, un riferimento a quei principi generali del
diritto dai quali non è mai lecito di allontanarsi senza intaccare i precetti
fondamentali della giustizia.
BIBLIOGRAFIA:
- Abbagnano, “Dizionario di filosofia”, Torino, 1964.
- Bellavista, “Il potere discrezionale del Giudice nell'applicazione della pena”,
Milano, 1939.
- Del Vecchio, Giustizia, in “Nuovissimo Digesto Italiano”, Vol. VII, Torino, 1968.
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- Farina, “Gli emblemi araldici della Libera Muratoria”, Roma, 1973.
- Fedele, “Le dottrine delle virtù morali e della giustizia da Aristotele a S. Tommaso”, Roma
1916.
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- Opocher, “Giustizia”(filosofia), in “in Enciclopedia del diritto”, Vol. XIX, Milano, 1970.
- Osilia, “L'equità nel diritto privato”, Roma, 1923.
- Porciatti, “Simbologia massonica” (Gradi Scozzesi), Roma. s.a
- Vecchione, “Equità” (il Giudizio di), in “Nuovissimo Digesto Italiano”, Vol. VI, Torino, 1968.