Omelia nel Venerdì dell`Ottava di Pasqua (25 aprile 2014) Il cap. 21

Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni
XXIX Seminario di formazione sulla direzione spirituale
Palermo, 22-25 aprile 2014
Omelia nel
Venerdì dell’Ottava di Pasqua
(25 aprile 2014)
Il cap. 21 del quarto Vangelo costituisce un’appendice al testo che, proprio
negli ultimi versetti (30-31) del capitolo precedente, contiene la conclusione del
racconto. La pericope odierna narra la terza manifestazione del Risorto a un
gruppo dei suoi (sette) sul lago di Tiberiade, lontano da Gerusalemme. Il contesto è
in qualche modo sorprendente perché non ci si aspetterebbe che il piccolo gruppo
sia senza un’occupazione collegata con la missione apostolica. Essi hanno visto il
Signore risorto e lo hanno riconosciuto; eppure denunciano un vuoto esistenziale e
motivazionale che determina un’adesione pronta ed entusiastica all’intendimento
di Pietro di andare a pescare: “Veniamo anche noi con te”. Assistiamo a un balzo
all’indietro di anni e assai problematico: essi che avevano lasciato barche, reti e
ogni altra cosa per diventare pescatori di uomini, improvvisamente cedono alla
nostalgia del mare, della barca e dei pesci e tornano a immergersi in quella vita
semplice e collaudata che comportava fatiche e pesantezze, ma anche il venir meno
di tanti pensieri e il dissolversi di ansietà e contrarietà. La parola di Pietro: “Io vado
a pescare” appare come un grido liberatorio e nello stesso tempo lascia trasparire
il desiderio profondo di riappropriarsi della propria autodeterminazione e della
propria voglia di vivere. Tutto questo, però, stride drammaticamente con la parola
del Signore che essi non potevano aver dimenticato: “Nessuno che mette mano
all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62).
Il discostarsi dal progetto di Dio, preferendo un’alternativa più familiare e
rassicurante, non porta, però, risultati apprezzabili, perché comporta una fatica
lunga, estenuante e vana: “Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte
non presero nulla”. Mani vuote e bocca asciutta: esperienza assimilabile al
passaggio nel deserto ma senza una meta, aggravata dall’aridità del cuore e da una
sconfinata solitudine.
L’oscurità della notte, metafora dell’incredulità che aveva ottenebrato la
loro vista, avvolge il rientro desolante della barca verso la riva e nasconde alla loro
fede esitante il volto del Risorto. Neanche la tenerezza delle parole di Gesù (“piccoli
figli”) riesce a risvegliare in loro l’amore di un tempo e ad aprire i loro occhi.
Tuttavia, la consapevolezza del fallimento e lo scoramento per le reti vuote li rende
accoglienti all’invito di Gesù: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e
troverete”. L’inatteso mutamento della situazione non è seguito dal rapido
riconoscimento del Signore. Solo “il discepolo che Gesù amava” comprende e fa la
sua professione di fede davanti a Pietro. “È il Signore!”.
Quello che segue è un concitato succedersi di gesti e parole, accompagnato
da stupore e da imbarazzo, evidenti sintomi di una relazione entrata in crisi. Solo
Gesù riesce a ricomporre i frammenti di una sequela messa in discussione e lo fa
attraverso un’esperienza di condivisione, significata dai segni dei pesci, del fuoco e
del pane. Secondo qualche commentatore il pesce sulla brace rappresenta Cristo
nella passione: Cristo è il pane e il pesce offerto, egli è il cibo per tutti. “Ormai tutti i
discepoli presenti sulla riva sono consapevoli che il Signore è in mezzo a loro e
nessuno gli chiede: «Chi sei?». Dopo averli invitati a mangiare, Gesù si avvicina […]
e compie il gesto eucaristico («prese il pane e lo diede loro»). Così i discepoli sono
addirittura «incorporati al logos», formano un solo corpo con Gesù. Per questo
Gesù si astiene dal mangiare: egli è il vero cibo di cui il pane da lui offerto è segno!
Così «l’eucaristia celebra la relazione tra i discepoli e il Signore Gesù, l’Eucaristia fa
la comunità, la Chiesa, e la comunità fa l’Eucaristia» (Henri De Lubac)” (Enzo
Bianchi).
L’incontro con il mistero non è, tuttavia, indolore; infatti, la testimonianza e
il servizio hanno un prezzo, come ci ha ricordato la pagina del libro degli Atti.
La parola annunciata, ascoltata e accolta adesso si fa carne e sangue
nell’Eucaristia che celebriamo. Dall’Eucaristia del Figlio, celebrata in solitudine
sulla croce, scaturisce la nostra eucaristia di fratelli, partecipi della sua missione e
del suo frutto. E se la locuzione “il discepolo che Gesù amava” non identifica un
apostolo ma il modello di ogni discepolo, secondo una suggestiva interpretazione
esegetica, allora la sua professione di fede (“È il Signore!”) è il canto gioioso e
martiriale di ciascun fedele cristiano, chiamato ad accompagnare i giovani al
coraggio delle scelte, sullo stile del beato Pino Puglisi. Quei giovani,
suggestivamente definiti da Papa Francesco “viandanti della fede” (Evangelii
gaudium, n. 106), che “ci chiamano a risvegliare e accrescere la speranza, perché
portano in sé le nuove tendenze dell’umanità e ci aprono al futuro, in modo che
non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più
portatrici di vita nel mondo attuale” (Evangelii gaudium, n. 108).
Questa è peraltro la prospettiva programmatica plenaria offerta ancora da
Papa Francesco: “Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il
volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue
richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede
nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla
comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio,
nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza” (Evangelii
gaudium, n. 88).
 Domenico Mogavero
Vescovo di Mazara del Vallo