Tesina di storia L’età dell’Imperialismo Che cos’è l’Imperialismo Fin dall’antichità gruppi di persone si spostavano per conquistare nuovi territori: le colonie. Le colonie possono essere: di popolamento o di sfruttamento. Quelle di popolamento venivano usate per essere abitate e quelle di sfruttamento venivano usate per sfruttare gli abitanti del territorio conquistato facendolo lavorare nelle piantagioni e nelle miniere. Fra il 1870 e il 1914 però colonizzare divenne una vera mania. Ogni nazione cercava di espandersi il più possibile creando un impero. Questo periodo venne chiamato imperialismo. L’imperialismo viene definito come la tendenza di uno Stato a praticare una politica di potenza per imporre i propri interessi economici e il proprio prestigio nei paesi più deboli. In più fra gli Stati nacque una vera e propria gara di espansione. Fin dall’inizio contribuirono alla formazione degli imperi coloniali anche portatori di una civiltà superiore. La più grande potenza imperialista d’Europa fu l’Inghilterra. Oltre l’Europa grandi potenze imperialiste furono il Giappone e gli Stati Uniti. Le principali cause della nascita dell’imperialismo sono tre: economiche, politiche e culturali. Economiche perché dopo la rivoluzione industriale crebbe l’importanza delle materie prime: petrolio, ferro, rame … I Paesi europei però erano poveri di materie prime mentre quelli asiatici e africani ne erano ricchi. Inoltre divenne importante per gli europei controllare il commercio di quanti più Paesi possibili, imponendo a essi i prodotti della propria industria. Politiche perché l’imperialismo rappresentò una forma esasperata di nazionalismo. L’amore per la propria nazione spinto all’eccesso portò a negare la libertà a tutte le altre. Le conquiste coloniali divennero perciò il simbolo di una nazione forte e prestigiosa. Culturali perché era diffusa l’opinione che l’uomo bianco dovesse dominare tutte le altre “razze”. Gli uomini dell’Imperialismo Durante l’Imperialismo però non tutti gli europei erano spinti dal desiderio di sottomettere gli altri popoli, specie se primitivi. In questo periodo nacque una specie di moda fra gli europei: quella delle esplorazioni geografiche. Chi partiva non erano solo i colonizzatori ma anche geografi, medici, missionari o semplicemente persone che partirono in cerca di fortuna. Fra i geografi ricordiamo il leggendario David Livingstone, colui che vide per primo le cascate Vittoria. Brazza l’italiano che aprì la via del Congo. Il giornalista Stanley partito coraggiosamente sulle tracce di Livingstone. Fra i missionari invece fu famoso il cardinale Guglielmo Massaia che esplorò l’Abissinia. In qualche circostanza i diversi ruoli si ritrovarono nella stessa persona:alcuni furono contemporaneamente geografi, medici e missionari. Le cause della nascita dell’Imperialismo L’Imperialismo è nato per diverse cause. Tre principalmente: cause economiche, cause politiche e cause culturali. Economiche perché lo straordinario sviluppo economico determinato dalla rivoluzione industriale fece crescere l’importanza delle materie prime come il petrolio, il ferro, il rame … I paesi europei però erano privi delle materie prime, mentre i paesi africani e asiatici ne erano ricchi. Per questo divenne importante per gi europei controllare il commercio di quanti più paesi possibili, imponendo a essi i prodotti della propria industria. Politiche perché l’Imperialismo rappresentò una forma esasperata di nazionalismo. L’amore per la propria nazione portò a negare la libertà a tutte le altre. Le conquiste coloniali divennero perciò il simbolo di una nazione forte, potente e prestigiosa. Culturali perché si era diffusa l’idea che l’uomo bianco dovesse dominare tutte le altre razze. Nei confronti poi di quei popoli che erano rimasti selvaggi il “compito” degli uomini bianchi era quello di portare loro la civiltà. Le conseguenze dell’Imperialismo L’Imperialismo portò molti vantaggi e ricchezze ai colonizzatori ma mise in crisi i paesi colonizzati. Nel corso delle conquiste coloniali gli europei ricorsero in modo sistematico all’uso della violenza, con effetti aggravanti della superiorità tecnologica. Contro le nuove terribili armi in acciaio dei bianchi (fucili di precisione veloci da caricare, mitragliatrici, potenti cannoni), gli africani e gli asiatici potevano opporre solamente le loro vecchie armi in ferro, poco potenti, lente e imprecise. Alle frequenti, disperate ribellioni delle popolazioni indigene, i conquistatori rispondevano con orribili massacri. Conclusa l’occupazione, il territorio veniva presidiato da un numero limitato di coloni, che vi risiedevano temporaneamente per garantire il controllo politico ed economico. Soltanto in alcune colonie alle popolazioni locali si sovrappose una quantità consistente e permanente di bianchi. In ogni caso i paesi colonizzati vennero sottoposti a uno sfruttamento brutale, che non solo ebbe conseguenze immediate sugli abitanti che subivano maltrattamenti , ma distrusse anche sistemi economici instaurati da secoli, che rispecchiavano le esigenze locali. Non si avviò nemmeno un nuovo processo di sviluppo, in quanto i cambiamenti introdotti dai colonizzatori miravano soltanto a ottenere prodotti agricoli o materie prime destinate all’esportazione. In molte regioni venne imposto il sistema della monocultura che consiste nella coltivazione sullo stesso terreno di un solo tipo di pianta. La monocultura e spesso svantaggiosa perché impoverisce il terreno e, quando è assoluta, crea dipendenza da altri paesi per il rifornimento di tutti i beni alimentari. Accadeva così che alcune colonie, pur praticando un’economia prevalentemente agricola, dovessero importare dall’estero i generi alimentari necessari; inoltre bastava che il prezzo della monocultura calasse perché la loro economia subisse un grave danno. I lavoratori locali erano pagati con salari minimi o costretti al lavoro forzato; d’altra parte i colonizzatori non introdussero nuove tecnologie se non a proprio vantaggio. La divisione tra paesi sviluppati e paesi deboli si accentuò sino a costituire uno dei più gravi problemi del XX secolo. Altrettanto grave fu l’annientamento delle culture locali operato della colonizzazione: soprattutto nei territori le cui strutture politico-religiose erano poco organizzate, lo scontro con gli europei fu devastante, perché gli stili di vita tradizionali non ressero all’invasione di lingue, abitudini, costumi diversi. La spartizione dell’Africa L’Africa parve più vicina quando fu aperto il canale di Suez (1869), che metteva in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso: la sua gestione finì rapidamente nelle mani dell’Inghilterra, che poté così accrescere l’influenza che già esercitava sull’Egitto, dove aveva introdotto la coltivazione del cotone. Quando poi i francesi occuparono la Tunisia, gli inglesi risposero trasformando l’Egitto in un loro protettorato. Il protettorato è il rapporto tra due stati nel quale l’uno (il protettore) assume l’impegno verso l’altro di difenderne gli interessi, anche rappresentandolo a livello internazionale. In realtà lo stato protettore assume sullo stato protetto un controllo politico. Sulla carta geografica dell’Africa i rappresentanti delle diverse nazioni tracciarono linee ch stabilivano le rispettive aree di influenza: in sostanza questa decisione accelerò la conquista del continente, che in un decennio fu completamente sottomesso. La spartizione venne operata senza tenere in alcun conto le esigenze delle popolazioni locali: anzi, tribù rivali furono costrette dai nuovi confini a difficili convivenze, mentre gruppi omogenei venivano separati. Le regioni più ricche furono prese dall’Inghilterra e dalla Francia. La Germania e l’Italia, ultime arrivate, dovettero accontentarsi delle terre rimaste. Tra le potenze europee intente ad occupare colonie scoppiavano spesso violente tensioni, quasi sempre risolte per vie diplomatiche. Un conflitto armato vide invece fronteggiarsi in Sudafrica inglesi e boeri. La guerra (1889-1902) fu vinta dagli inglesi che, inglobati i territori boeri in un’unica colonia, l’Unione Sudafricana, presero a sfruttarne sistematicamente le immense ricchezze minerarie e a praticare una politica di segregazione razziale nei confronti dei neri. L’India Britannica Già da tempo alcun potenze europee possedevano nel continente asiatico basi commerciali, ma nel corso dell’Ottocento esse intensificarono la oro presenza allo scopo di acquisire nuovi territori: l’Olanda consolidò il suo dominio in Indonesia come, come la Francia in Indocina, mentre la Russia conquistava la Siberia. Diversa la storia dell’Inghilterra. Nel seicento la Compagnia inglese delle Indie Orientali aveva fissato in India alcuni scali, su cui esercitava anche un potere militare e amministrativo. Nella seconda metà del Settecento la Compagnia diede inizio alla graduale conquista dell’intera penisola indiana, che fu completata nel 1858, nonostante la resistenza delle popolazioni locali. L’India passò poi alla diretta dipendenza della corona inglese e la regina Vittoria fu proclamata imperatrice. Per proteggere quella che venne definita “la perla dell’Impero” gli inglesi occuparono anche la Malesia e la Birmania, e crearono a Nord uno stato protettivo, l’Afghanistan. I dominatori trasformarono radicalmente l’economia indiana con effetti negativi per la maggior parte della popolazione. Gli indiani erano contadini e artigiani: i primi furono costretti a estirpare le piante alimentari per coltivare prodotti da esportazione come: il cotone, il tè, la juta e l’oppio. La juta è una pianta tessile usata soprattutto per i sacchi. L’oppio è una sostanza che si ottiene dai semi di uno speciale tipo di papavero: viene usato come medicinale e, in quantità elevate come droga. Gli artigiani invece dovettero abbandonare la loro attività perché i manufatti locali non reggevano la concorrenza con quelli a basso costo importati dagli inglesi. La dominazione inglese però ebbe anche effetti positivi: furono per esempio vietate pratiche particolarmente crudeli come l’obbligo per le vedove di farsi bruciare su rogo del marito defunto e la soppressione delle femmine neonate. Inoltre gli inglesi introdussero un’amministrazione efficiente cui gradualmente vennero ammessi gli indiani; crearono un moderno sistema di comunicazioni (ferrovie, strade, poste); impiantarono sistemi di irrigazione per estendere le aree coltivabili. Soprattutto fondarono scuole e università sul modello europeo, che formarono una nuova classe di tecnici e professionisti molto preparati: proprio fra loro sorsero le prime aspirazioni alla liberazione del dominio inglese. La fine del “Celeste Impero” L’immensa Cina per le sue stesse dimensioni non poteva essere oggetto di una conquista territoriale: fu invece vittima di una conquista commerciale. Da secoli il “Celeste Impero” viveva chiuso nel suo isolamento, legato a tradizioni antichissime, quasi inaccessibile agli Occidentali. Dominato dalla dinastia Manciù, che aveva delegato alla mastodontica burocrazia dei mandarini, dovuta alle continue ribellioni dei contadini, sottoposti ad una tassazione sempre più pesante. I mandarini erano potenti funzionari, provenienti per lo più dalla nobiltà terriera, custodi delle tradizioni: si possono paragonare ai signori feudali dell’Occidente medievale. Alla sovrappopolazione si aggiungeva la scarsità di cibo, causata dal fatto che le tecniche agricole erano arretrate e le terre coltivabili insufficienti. Della fragilità della Cina approfittarono per primi gli inglesi, che nel porto di Canton (l’unico aperto agli occidentali) acquistavano tè, porcellane e seta, ma non riuscivano a vendere i loro prodotti, cui i cinesi non erano interessati. Già da tempo gli inglesi introducevano in Cina clandestinamente l’oppio che producevano in India: intensificandone la diffusione a basso prezzo, essi danneggiarono in modo molto grave la salute dei cinesi e provocarono la reazione del governo. Nacque così la guerra dell’oppio (1839-1842), che rivelò tutta la debolezza militare della Cina, pesantemente sconfitta. Essa dovette cedere all’Inghilterra la città di Hong Kong e aprire al commercio inglese (compreso quello dell’oppio) altri quattro porti. Anche Stati Uniti e Francia pretesero le stesse condizioni favorevoli, mentre la Russia estendeva i suoi possedimenti. Poiché il potere imperiale si dimostrava sempre più debole, le rivolte interne si estesero sino a degenerare in guerra civile, con milioni di morti e terribili devastazioni. Ne approfitto il Giappone che dichiarò guerra: anche questo conflitto si concluse con la disfatta della Cina, che perse la Corea e l’isola di Formosa. Russia, Germania, Francia e Inghilterra, pur riconoscendo formalmente la sopravvivenza della Cina, la spartirono in zone di influenza, mentre gli Stati Uniti ottennero l’accesso a tutti i porti. All’interno del paese cresceva l’odio verso gli stranieri, che si concretò nella rivolta dei Boxers, una setta segreta, stroncata dell’intervento militare degli europei (1899-1900). Il contatto con la cultura occidentale aveva però determinato la nascita di un movimento che chiedeva la modernizzazione della Cina. Questo movimento trovò la sua guida in un medico che aveva studiato a Parigi, Sun Yat-sen, fondatore del Kuomintang (Partito nazionale popolare) con tre obiettivi: indipendenza, democrazia e giustizia sociale. In seguito a sommosse popolari, il governo imperiale cadde il 1° gennaio 1912 venne proclamata la Repubblica. Ben presto però le forze reazionarie si imposero nuovamente, consegnando il potere ai “signori della guerra”, governatori militari delle province, e facendo precipitare la Cina nell’anarchia e nella guerra civile. La modernizzazione del Giappone Le potenze imperialistiche tentarono di aggredire anche il Giappone, ma la reazione di quel paese fu del tutto diversa da quella della Cina e ne determinò la salvezza. Neppure l’impenetrabile Giappone aveva contatti con la civiltà occidentale: organizzato secondo schemi feudali, era un impero cappeggiato dal mikado, adorato come un dio, anche se il potere politico era esercitato dallo shogun, un dittatore militare la cui carica era ereditaria. A metà del XIX secolo la rigidezza di questo secolo incominciava a vacillare per la protesta dei gruppi sociali più avanzati e per le numerose rivolte dei contadini. La crisi fu accelerata dallo scontro con l’espansionismo delle grandi potenze industriali. Gli Americani, alla ricerca di nuovi mercati per i loro prodotti, con due navi forzarono un porto giapponese (1853). Il governo fu costretto a cedere, aprendo i porti anche alle altre potenze occidentali e dimostrando la propria debolezza. Il risentimento contro la penetrazione straniera, che si sommava all’odio tra classi sociali, provocò una lunga guerra civile, conclusa nel 1867 con la fine del potere feudale dello shogun e il recupero dell’autorità imperiale. Per evitare la sorte della Cina, il giovane imperatore Mitsuhito diede inizio all’era Meiji (illuminata) con una serie di riforme che si tradussero nella veloce modernizzazione del paese: • abolizione della divisione feudale della società in classi; • centralizzazioni delle strutture statali; • introduzione di un nuovo sistema fiscale, non più basato su tributi in natura; • creazione di un esercito moderno sulla base del servizio militare obbligatorio; • obbligatorietà della scuola elementare e potenziamento di quella superiore; • costruzione di linee ferroviarie, cantieri navali, stabilimenti siderurgici; • finanziamenti all’iniziativa privata. La modernizzazione agì soprattutto sul piano politico ed economico: per quanto riguarda la vita materiale, i Giapponesi rimasero fortemente legati alle loro tradizioni, che il secolare isolamento aveva rafforzato. In pochi anni il Giappone fu in grado non solo di difendersi dalle mire delle grandi potenze imperialistiche, ma di competere con esse: vinta la guerra contro la Cina, dieci anni dopo attaccò la Russia per il possesso della Manciuria. Il conflitto russo-giapponese (1904-1905) si concluse con la schiacciante vittoria del Giappone, che si assicurò il dominio della Manciuria e il protettorato sulla Corea, provocando da parte russa l’accesa volontà di rivalersi. Per la prima volta un grande paese europeo veniva sconfitto da una nazione extraeuropea: una nuova potenza entrava sulla scena politica mondiale. Gli Stati Uniti a fine Ottocento Alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti si verificò un salissero in vetta alla classifica dei paesi più industrializzati del mondo. Il fortunato intreccio tra lo sfruttamento dei giacimenti e l’uso dei minerali nell’industria, tra lo sviluppo della scienza e le sue applicazioni tecnologiche, determinò un’eccezionale concentrazione di ricchezza. A ciò contribuì anche l’enorme successo di produzione agricola, dovuto all’introduzione sia di efficaci innovazioni tecniche, sia di moderni macchinari. I contadini però non si arricchirono: anzi, ai milionari che incominciavano a costituire una delle leggende americane, si contrapponevano le masse di contadini e operai poveri, le cui associazioni sindacali, nonostante le lotte, non riuscivano a incidere sulla politica sociale del governo. Lo slancio economico produsse una conseguenza inevitabile: l’espansione degli USA all’estero sul piano territoriale e su quello economico. I grandi gruppi industriali e finanziari incominciarono a premere sul governo perché il paese uscisse dal suo tradizionale isolamento ala ricerca di nuovi, grandi mercati. La politica aggressiva degli USA La politica espansionistica degli USA aveva due direttrici: il Pacifico e l’America centro-meridionale. Già con il Giappone, gli americani avevano avviato una strategia di controllo sul Pacifico che consolidarono imponendo i loro protettorato sulle isole Hawaii. Quindi conquistarono le Filippine , strappandole alla Spagna con una breve guerra vittoriosa, che permise loro di ottenere anche il protettorato su Cuba, altra colonia spagnola. Nell’America latina fu messo in pratica un principio enunciato dal presidente degli Stati Uniti Monroe durante la lotta per l’indipendenza delle colonie spagnole: “L’America agli americani”, con cui intendeva affermare che gli USA non avrebbero tollerato nessun intervento di potenze europee nel continente americano. Mezzo secolo dopo, la formula fu volutamente fraintesa dal presidente Roosevelt, che sosteneva il diritto degli USA a intervenire in qualunque parte del continente. Su questa base, approfittando dell’instabilità politica, dell’arretratezza economica e della debolezza militare degli stati centro-americani, il governo statunitense non stentò a imporre la propria egemonia, attraverso forti investimenti e pesanti interventi politici e militari. La repubblica di Panama, per esempio, cedette agli USA il controllo della zona del Canale in cambio dell’aiuto per rendersi indipendente dalla Colombia. Gli Stati Uniti miravano soprattutto al Messico, dove erano stati scoperti giacimenti di petrolio: qui faticarono a soppiantare il predominio economico dell’Inghilterra, e quando scoppiò la rivoluzione contro Diaz (1910) sostennero di volta in volta i ribelli o il governo, a secondo della propria convenienza. Alla fine dell’Ottocento, gli americani conclusero definitivamente la conquista dell’Ovest, che era stata rallentata dalle cosiddette “guerre indiane”. La prima (1866-1868) fu scatenata dal governo statunitense subito dopo la guerra di Secessione con il falso pretesto che i Pellerossa avevano appoggiato i Sudisti. Le successive furono scandita dai massacri operati dai bianchi, che solo così riuscirono ad annientare le tribù indiane: l’ultima ad arrendersi fu quella degli Apache, guidati dal leggendario eroe Geronimo. Chiusi nelle riserve o incarcerati, non furono pochi i Pellirosse che reagirono con il suicidio alla perdita delle libertà.