STORIA DELLA MUSICA
CORSO 2013
SCHEDE INTEGRATIVE
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SCHEDA 1
Il madrigale polifonico : Gesualdo e Monteverdi
Ai primi del XVI secolo la musica praticata negli ambienti ecclesiastici e negli ambienti
aristocratici europei pensata prevalentemente in termini di melodie sovrapposte, secondo
procedimenti sedimentati e sviluppati da almeno quattro secoli con i termini polifonia o
contrappunto; proprio per realizzare opere ben più complesse, a “strati”, la scrittura si era
andata modificando: dalla notazione neumatica (VIII – XI secolo)
in cui i segni grafici
(neumi) indicavano soltanto l’andamento ascendente o discendente delle melodie
senz’alcuna precisazione riguardo al ritmo, si passo gradatamente ad un sistema di
notazione che permetteva di precisare sia l’altezza esatta delle note attraverso l’suo del
tretragramma divenuto poi pentagramma (XII secolo ) sia attraverso la messa a punto di
una notazione mensurale (XII-XIV sec) che permetteva di indicare la durata delle note e che
prevedeva la distinzione fra modi perfecti (cioè ritmi ternari ) e modi imperfecti (cioè ritmi
binari).
Lo stile polifonico cinquecentesco si può ricondurre ad alcuni principi fondamentali. Uno dei
cambiamenti
più
vistosi
rispetto
all’epoca
medievale
consiste
nella
tendenza
all'equiparazione delle diverse voci del complesso polifonico: alla sovrapposizione
tipicamente medievale di melodie ben differenziate, individualmente caratterizzate e talora
dotate di un testo verbale diverso, si sostituisce gradualmente una compagine
tendenzialmente omogenea con forti caratteri di somiglianza fra le varie melodie. A tal fine si
fece sistematico l’uso della tecnica dell’imitazione, procedimento consistente appunto
dell’imitare con una diversa voce dell’ordito polifonico una melodia intonata poco prima da
un’altra voce.
Un altro principio chiaramente emergente riguarda i rapporti fra consonanza e
dissonanza. Nel Medioevo i musicisti distinsero chiaramente i due termini, ma li usarono
con grande libertà e varietà. A partire dal XV secolo il problema conobbe invece una
soluzione sistematica e semplice: quella del predominio della consonanza e della riduzione
della dissonanza a una sorta di «accidente» da trattare con precauzione
Accanto ai generi praticati da tempo in ambito liturgico – la messa
e il mottetto – il vero
fenomeno caratterizzante della cultura italiana cinque-seicentesca fu costituito dall’enorme
fortuna del madrigale.
Il termine cominciò ad essere utilizzato intorno al 1530 per indicare componimenti musicali
su testi poetici, concepiti per lo più a quattro voci e caratterizzati, sin dall'inizio, da una
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marcata volontà di tradurre in musica il significato delle parole. Nella sua forma-tipo il
madrigale può essere in effetti definito come una composizione polifonica su un testo poetico
relativamente breve (poteva essere ad esempio un sonetto): dal punto di vista formale la sua
è una struttura durchkomponiert, cioè “aperta” , non strofica e priva di riprese o ritornelli,
determinata in primis dal testo letterario che veniva musicato frase per frase ogni frase
avendo un suo senso compiuto dall'inizio alla fine. L'effetto doveva essere quello di una sorta
di “recitazione musicale” del testo poetico, massimamente fedele all'intonazione delle parole,
al loro ritmo, al loro carattere espressivo, ma doveva anche in un certo senso «amplificare»
quel testo, moltiplicarne le potenzialità letterarie implicite, se non altro perché il testo veniva
«recitato » da tutte le voci che partecipavano al canto. La continuità della recitazione era
assicurata dal fatto che, tranne per effetti particolari (ad esempio interruzioni o pause volute)
ogni frase veniva conclusa da una cadenza alla quale partecipavano solo alcune delle voci,
mentre le altre contemporaneamente iniziavano a intonare la frase successiva. Ne derivava
una sorta di forma a incastri a suture continue, che si concludeva solo alla fine della
«recitazione».
Nel sorgere di questo genere influì non poco il petrarchismo diffusissimo delle corti signorili
italiane soprattutto grazie a Pietro Bembo e alle sue Prose della volgar lingua (1525):
l’assunzione di Petrarca quale modello supremo della lirica portava con sé, oltre all’idea
dell’esperienza d’amore come vicenda di perfezionamento spirituale e passaggio obbligato
per cogliere il senso della bellezza e della bontà divina, la proposta di una poesia dotata di
specifiche qualità musicali.
Verso l’ultimo ventennio del secolo, il madrigale venne ad incarnare più di ogni altra forma, le
esigenze di sentimentalità e di espressione degli «affetti» che caratterizzavano il tardo
rinascimento: un suo tratto distintivo divennero procedimenti di fono-simbolismo denominati
“madrigalismi”,
che miravano proprio a tradurre in musicalmente il significato di certe
parole-chiave. I maggiori autori di madrigali in questo stile, affermatosi verso la fine del
Cinquecento, furono Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa e, nelle sue prime raccolte,
Claudio Monteverdi.
Il primo ventennio del Seicento vede prolungarsi la straordinaria fortuna di questo genere e il
suo accompagnare le tendenze del nuovo gusto, e le trasformazioni linguistiche: nascono
così madrigali a una, due o più voci con l’accompagnamento di strumenti ( il cosiddetto
“basso continuo”) i cui massimi esempi sono contenuti nelle ultime raccolte di Monteverdi, i
libri VII e VIII: lo stesso Monteverdi chiamò questi suoi madrigali concertati, cioè pensati
per voci e strumenti. Nell’Ottavo e ultimo libro monteverdiano troviamo esempio di un altro
sottogenere: quello del madrigale rappresentativo,
il cui testo prevede personaggi,
dialoghi e un’azione immaginaria che si snoda attraverso l’intreccio polifonico. Gli autori più
celebrati in questa ulteriore derivazione furono Orazio Vecchi e Adriano Banchieri.
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Anche quest’ultimo sottogenere, malgrado la sua tendenza verso il grottesco e il caricaturale,
rimaneva nell’alveo comune di fruizione che aveva caratterizzato tutta la produzione
madrigalistica fin dall’origine. Grazie alla sua complessità e alla sua continua sottile
aderenza al testo verbale, il madrigale infatti non era nato come musica da spettacolo, era
piuttosto un tipo di composizione che si addiceva ad ambienti aristocratici: eseguito da poche
persone che sedevano, «a tavolino», ognuno leggendo la propria parte sugli appositi libretti,
il madrigale veniva eseguito per il piacere di chi cantava e di pochi eletti ascoltatori. E, quasi
sempre i cantori erano più che professionisti della cappella, raffinati musicisti dilettanti che
abbondavano nelle corti ma esistevano anche al di fuori di quelle negli ambienti
del1'intellettualità borghese. Tant'è vero che non è infrequente trovare tracce di società
culturali o «accademie » i cui membri si univano proprio per il piacere di queste esecuzioni
musicali.
Tutto ciò spiega anche le fortune economiche dell'editoria che stampava quantità enormi di
testi madrigaleschi scritti dai maestri italiani. In effetti il repertorio madrigalistico del
Cinquecento e dei primi decenni del Seicento ci è stato tramandato quasi integralmente
nelle edizioni a stampa. Se in precedenza la musica polifonica era stata copiata e fatta
circolare attraverso eleganti e lussuosi
codici realizzati a mano per qualche illustre
personaggio, gran parte delle opere musicali cinquecentesche (soprattutto nella seconda
metà del secolo) furono diffuse attraverso la stampa e nella forma dei libri-parte, cioè tanti
fascicoli quante erano le parti vocali, comodamente utilizzabili dai singoli cantori e stampati
in piccole dimensioni.
Traccia 1
Carlo Gesualdo principe di Venosa ( Napoli, 1560-1613).
Sospirava il mio core, madrigale a 5 voci ( dal III libro, 1594)
Sospirava il mio core
per uscir di dolore
un sospir che dicea:
«L’anima spiro!».
Quando la donna mia
più d’un sospiro
anch’ella sospirò
che parea dire:
«Non morir, non morire!»
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Consumata fra Napoli e Ferrara, la vicenda artistica di Carlo Gesualdo principe di Venosa
(Napoli, 1560 -1613) fu segnata da un dramma familiare ( l’uccisione della moglie sorpresa in
flagrante adulterio), dalla frequentazione di Torquato Tasso e da un’indole inquieta e
tormentata che si tradusse nello stile visionario dei suoi sei libri di madrigali a cinque voci.
Sospirava il mio core, tratto dal terzo libro edito nel 1594, esemplifica il modo in cui a fine
Cinquecento il madrigale riesce ad incarnare le inquietudini, le nuove esigenze espressive di
un’epoca di crisi.
Il testo viene musicato frase per frase dall'inizio alla fine, senza riprese e senza ritornelli e la
musica tende a rendere ancora più accesa la temperatura affettiva le testo. Il brano si apre
con un evidente madrigalismo: una pausa che spezza la linea melodica iniziale (so spirava) e che traduce in termini sonori immediati l’incipit del testo. Le voci si “inseguono”
attraverso la tecnica dell’imitazione ritrovandosi in corrispondenza della parola “dolore”;
procedono quindi omoritmicamente (cioè tutte con lo stesso ritmo) in corrispondenza del
terzo verso (un sospir che dicea ), si separano nuovamente nel verso seguente, con cui si
chiude la prima sezione musicale che corrisponde alla fine del primo periodo sintattico del
testo. Nei tre versi seguenti le cinque voci si ricongiungono di nuovo, le loro linee marciano
con lo stesso ritmo, per poi ancora separarsi negli ultimi due versi, ripetuti con urti dissonanti
e con una linea ascensionale che culmina in corrispondenza del «non morir» con la nota più
acuta di tutto il brano, da cui viene una forte sottolineatura dell’esclamazione conclusiva.
La forma a incastri e suture continue si conclude alla fine della «recitazione» all’insegna di
una forte compenetrazione fra veste musicale e verso poetico, intesa sia come fedeltà alla
scansione della parola sia come esaltazione del significato verbale. Nella sfida
all’immaginazione sonora lanciata dal madrigale, nel suo proposito di illustrare a volte
letteralmente il senso e le immagini racchiusi nella parola, sembra di scorgere l’ebbrezza di
una musica che dà sfogo alla sua ansia di fondersi,
di essere parte inscindibile ed
essenziale della poesia e dell’arte del suo tempo» (Montecchi, 1998).
Traccia 2
Claudio Monteverdi (Cremona, 1560 - Venezia 1613).
Lamento della ninfa (testo di Ottavio Rinuccini)
dal VIII libro di Madrigali guerrieri e amorosi, 1638
Ninfa
Tre voci maschili
Non havea Febo ancora
recato al mondo il dí,
ch'una donzella fuora
del proprio albergo uscí.
Sul pallidetto volto
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scorgeasi il suo dolor,
spesso gli venia sciolto
un gran sospir dal cor.
Sí calpestando fiori
errava hor qua, hor là,
i suoi perduti amori
cosí piangendo va:
«Amor
dov’è, dov'è la fè
ch'el traditor giurò?»
.. dicea, il ciel
mirando, il piè fermo,
Miserella
«Fa' che ritorni il mio
amor com'ei pur fu,
o tu m'ancidi, ch'io
non mi tormenti più.»
«Non vo' più ch'ei sospiri
se non lontan da me,
no, no che i martiri
più non darammi affè.
Perché di lui mi struggo,
tutt'orgoglioso sta,
che si, che si se'l fuggo
ancor mi pregherà?
Se ciglio ha più sereno
colei, che'l mio non è,
già non rinchiude in seno,
Amor, sí bella fè.
Né mai sí dolci baci
da quella bocca havrai,
ne più soavi, ah taci,
taci, che troppo il sa.»
Miserella, ah più no, no,
tanto gel soffrir non può.
Ah, miserella
Miserella ah più no, no
tanto gel soffrir non può
Miserella
Miserella ah più no, no
tanto gel soffrir non può
Miserella
Sí tra sdegnosi pianti
spargea le voci al ciel;
cosí ne' cori amanti
mesce amor fiamma e gel.
Il Lamento della Ninfa appartiene ormai alla fase crepuscolare del madrigale, e la sua
forma costituisce un archetipo della scena-lamento utilizzata nei melodrammi seicenteschi. Il
madrigale d’altronde come genere era ormai avviato negli anni trenta del Seicento verso un
irresistibile declino: l’Ottavo libro è in effetti l’ultimo fatto stampare da Monteverdi in un’epoca
in cui egli era maestro di cappella della Basilica di San Marco a Venezia, pochi anni prima di
comporre i suoi melodrammi per i teatri della Serenissima. L’intonazione del testo di Ottavio
Rinuccini, dà luogo ad un madrigale concertato (voci più strumenti)
sorretto da un
accompagnamento strumentale su un basso ostinato, tecnica che deriva dalla musica per
danza. Ma si tratta al tempo stesso di un madrigale rappresentativo, non più pensato per
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dei fruitori che sono anche esecutori, ma per un pubblico che assiste all’esecuzione ma non
vi prende parte. Per questo nella partitura Monteverdi fece precedere il testo da precise
indicazioni esecutive:
Modo di rappresentare il presente canto. Le tre parti che cantano fuori del pianto de la ninfa si
sono così separatamente poste [sono infatti stampate a parte ] perché si cantano al ritmo de la mano.
Le altre tre parti che vanno commiserando in debole voce la Ninfa si sono poste in partitura, acciò
seguitano il pianto di essa, qual va cantato a tempo del affetto del animo, e non a quello de la mano».
Le istruzioni volute da Monteverdi rimandano ad un atteggiamento già richiesto in altre
opere precedenti : il compositore voleva insomma che non si seguisse la rigida scansione
della battuta ma l'interiore «tempo del affetto del animo».
«Di questa banale canzonetta Monteverdi fece una scena canora di respiro tragico. L'idea
(geniale) fu quella di estrapolare dal testo strofico rinucciniano il discorso diretto (in prima
persona) della Ninfa dal discorso indiretto (in terza persona), di trattare l'uno come un lungo,
lamentoso monologo (che ignora le leggi strofiche) affidato al soprano, l'altro come un
«coro» di tre voci maschili che sullo sfondo di un ideale palcoscenico sonoro, commiserano
con interiezioni compassionevoli la disperazione della Ninfa abbandonata. [...] Un basso
ostinato di un passacaglio (schema melodico-armonico fisso, quattro note discendenti LaSol-Fa-Mi), si ripete impassibile per 34 volte: contro questo sfondo rigido, spoglio,
rudimentale, il canto sinuoso, erratico, smarrito della Ninfa urta, collide, confrica, provoca
dissonanze e durezze. […] L’efficacia del lamento della Ninfa fu enorme e immediata.
Pubblicato un anno dopo l’apertura dei primi teatri d’opera a Venezia, esso fu la
sorgente di decine di arie-lamento teatrali su basso continuo» . (Bianconi 1982)
Si noteranno anche qui, come in Gesualdo, alcuni evidenti madrigalismi che però hanno
luogo solo nella parte polifonica, cioè quella delle tre voci maschili: nella seconda strofa la
frase «scorgeasi il suo dolor» viene resa da un aspro urto dissonante e il successivo «gran
sospir» è reso da una pausa inserita fra le due parole; nella quarta strofa invece la frase
«errava or qua or là» si traduce in voluto “sparpagliamento” delle tre voci maschili.
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SCHEDA 2
Il melodramma ai suoi albori: L’Orfeo di Claudio Monteverdi
Il melodramma è una composizione teatrale in versi che, anziché essere semplicemente
recitata, viene interamente cantata dagli attori-cantanti con l’accompagnamento di strumenti:
come dice il suo nome, è appunto un dramma cantato ( dal greco melos “canto” e drama
“azione”), in ciò distinto da ogni altra forma di teatro con musica sviluppatasi nella civiltà
occidentale.
Poiché si avvale di scenografie, e spesso, di azioni coreografiche, il
melodramma può essere considerato una delle manifestazioni artistiche più complesse
elaborate dalla cultura italiana. Frutto della collaborazione di un poeta che scrive il libretto,
cioè il testo in versi della vicenda da rappresentare, e di un musicista, che riveste le parole
di musica, esso è una creazione tipicamente italiana. Come forma teatrale e come genere
letterario, infatti, il melodramma nacque in Italia alla fine del XVI secolo, e tra il Seicento e il
Settecento conquistò strati sempre più vasti di pubblico.
Il primo melodramma a noi interamente pervenuto è l'Euridice, con musiche di Jacopo Peri e
testo di Ottavio Rinuccini, rappresentato — per iniziativa e spese del ricco mecenate Jacopo
Corsi — il 6 ottobre 1600 a Palazzo Pitti a Firenze, in occasione delle nozze di Enrico IV di
Francia con Maria de’ Medici.
Contrariamente a quanto è stato spesso sostenuto in passato, il genere da cui nacque
questa nuova forma artistica non fu la tragedia ma il dramma pastorale ( con i suoi modelli
eletti costituiti dall’ Aminta
di Tasso e dal Pastor fido
di Guarini) che al quel tempo
riscuoteva larghissimo successo e la cui ambientazione arcadica sembrava pienamente
consona. Se i sottotitoli più utilizzati per le opere rappresentate nei primi decenni del
Seicento sono «favola pastorale» o «favola boschereccia», i soggetti sono prevalentemente
mitologici, ricavati in massima parte dalle Metamorfosi di Ovidio. Il difetto principale della
nuova forma teatrale era la sua mancanza di naturalezza, e i soggetti pastorali
giustificavano l’infrazione delle leggi della verosimiglianza, perché a divinità mitiche come
Orfeo, Dafne, Flora poteva accordarsi l’idea di dialogare cantando: «la lontananza, spaziale
o temporale o ideale, tempera l’inverosimiglianza del recitare cantando, anzi conferisce
all’eloquenza di codesti personaggi una tanto maggior nobiltà e magnificenza» (Bianconi,
1982)
Lo stile di canto che caratterizzò le esperienze fiorentine viene di solito designato
col
termine di “recitar cantando”: si tratta di una sorta di declamazione musicale che non
aveva ovviamente nulla a che fare con la musica greca, ma che aveva piuttosto legami con il
tipo di melodia che caratterizzava il madrigale di quell’epoca. Si trattava insomma di un
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canto che tendeva a “imitare” le inflessioni della recitazione, stilizzando musicalmente gli
accenti e le durate delle sillabe, la direzione ascendente o discendente dell’intonazione e,
nell’emissione vocale, il dosaggio dell’intensità e del timbro. Questo modo di cantare, che
prese presto il nome di stile recitativo, veniva accompagnato da strumenti
come
clavicembalo, organo, liuto o chitarrone, viola da gamba o violone con la tecnica del
basso continuo (v. più avanti)
La vocalità declamatoria dello stile recitativo veniva ritenuta la più efficace per esprimere gli
“affetti” del testo poetico; per realizzare l’obiettivo di una melodia che «pigliasse forma di
cosa mezzana» tra il parlare e il cantare il recitativo veniva sempre intonato sul ritmo libero
dei versi sciolti. Nei primi melodrammi però il “recitar cantando” veniva di tanto in tanto
interrotto da un certo numero di pezzi chiamati arie: si tratta di un tipo di canto che adattava
le parole ad un metro musicale regolare con pulsazioni isocrone, uno stile vocale lineare,
quasi sempre strofico, derivato dalla vocalità semplice delle villanelle o anche da forme di
danza, e per il quale si impiegavano testi poetici strofici. Questi pezzi venivano impiegati per
dare maggior spicco a certe situazioni sceniche,
effusioni particolarmente patetiche o
gioiose dei personaggi, prologhi, cori.
In questa prima fase della storia del melodramma un capitolo importante si svolse alla corte
dei Gonzaga di Mantova, strettamente legata da rapporti diplomatici a quella fiorentina: qui
nacque il melodramma più significativo di quel tempo, L’Orfeo, opera di colui che può ben
dirsi il maggior compositore italiano del Seicento, Claudio Monteverdi
(1567–1643).
Rappresentato per la prima volta nel Palazzo Ducale di Mantova nel febbraio del 1607,
L’Orfeo
si ricollegava alle vicine esperienze fiorentine: l’autore del libretto Alessandro
Striggio fu sicuramente a Firenze in quel fatidico 1600 e si ispirò evidentemente allo stile di
Rinuccini. Il soggetto scelto fu d’altronde lo stesso delle prime rappresentazioni fiorentine: la
storia di Orfeo, figlio di Apollo che con il suo canto riesce a commuovere gli dei infernali a
farsi restituire la sua amata Euridice era considerata quanto di più appropriato per illustrare
la potenza della nuova forma di spettacolo. L’Orfeo di Striggio-Monteverdi però, rispetto ai
precedenti
realizzati a Firenze, superava lo stadio teorico-sperimentale, offrendo per la
prima volta la concreta rappresentazione musicale di situazioni drammatiche, attraverso la
varietas delle forme e delle risorse: recitativi, arie (alcune di grande virtuosismo vocale),
cori, “sinfonie” strumentali, episodi di danza, capaci di rendere differenziata ed efficace la
rappresentazione scenica. Inoltre, per la prima volta nella storia dell’opera, Monteverdi indicò
nella partitura a stampa gli strumenti da impiegarsi. L’organico rispondeva a precisi criteri
drammaturgici: le scene pastorali connotate dalle sonorità giulive dei flauti e flautini, le scene
infernali dai timbri cupi dei tromboni, viole da gamba, organo, i balli dai violini.
E’ da rilevare inoltre che L’Orfeo condivide con altre edizioni a stampa dei primi del Seicento
dal punto di vista grafico alcune novità fondamentali. Prima di tutto le varie voci non sono più
scritte separatamente, ma organizzate, oggi diremmo, in partitura, cioè disposte l’una
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sull’altra. Durante tutto il corso del XVI secolo la musica vocale veniva stampata a parti
separate: se ad esempio si doveva pubblicare un madrigale a 5 voci, le cinque parti che lo
costituivano venivano scritte in cinque libretti diversi, uno per ciascun cantore, a ogni cantore
eseguiva la sua parte senza avere sott'occhio le parti degli altri. Questa prassi indica qual
era, secondo il pensiero musicale dell'epoca, il modo di esecuzione ideale: polifonia pura
affidata a sole voci. In realtà ciò corrisponde solo parzialmente alla pratica effettiva. Di fatto
gli strumenti venivano costantemente usati nella musica cinquecentesca, e non unicamente
da soli, ma anche assai spesso mischiati alle voci, come dimostrano i documenti musicali,
letterari e iconografici (pitture o disegni).
Quando verso la fine del secolo si fecero i primi esperimenti di stile recitativo, esplicitamente
e polemicamente antipolifonici, l’uso di sostenere il canto con strumenti d'accompagnamento
divenne, in un certo senso, necessario, ma si inscrisse in una tradizione ormai lungamente
sperimentata. Un’ulteriore novità caratterizza da questo punto di vista le partiture del primo
Seicento: il basso continuo. Una pratica che fu inaugurata dalla pubblicazione (1602) dei
Cento concerti ecclesiastici con il basso continuo per sonar nell'organo, di Lodovico Grossi
da Viadana. Nella tradizione sacra esisteva in effetti da tempo l'uso di accompagnare le voci
con l'organo durante il rito ma l’espressione «basso continuo» proposta da Viadana ebbe
fortuna e rimase a indicare una prassi che per un secolo e mezzo caratterizzo tutta la musica
europea, vocale, strumentale, sacra o profana. Le parti degli strumenti che accompagnavano
(strumenti in grado di suonare accordi come clavicembalo, organo, liuto o chitarrone, e
strumenti dalla tessitura grave come viola da gamba o violone)
non venivano scritte
integralmente, ma venivano indicate in modo semplificato, ossia con la sola parte melodica
del basso, nel presupposto che i suonatori sapessero aggiungere da sé gli accordi necessari
per sostenere la voce. A questo sistema grafico, che presuppone l'esistenza di una pratica
improvvisativa già diffusa, alcuni testi aggiungevano un ulteriore artificio tecnico: l'indicazione
abbreviata dell'accordo mediante numeri che dovevano facilitare l'improvvisazione e
obbligare i diversi esecutori alla scelta di uno stesso accordo (basso numerato). Una prassi
che sussiste nell’odierna musica leggera, dove ci si limita spesso a scrivere in lettere sopra o
sotto la melodia la nota che costituisce il basso fondamentale e con un numero il tipo di
accordo che l’armonizzazione richiede (ad esempio «Sol 7»
indicherà l’accordo di sol
maggiore con l’aggiunta di una settima) . Nell’esempio seguente riferito al brano dell’Orfeo
di Monteverdi di parla più avanti, la parte del basso continuo è quella indicata con la freccia:
si noteranno i numeri 3 e 4 apposti sull’ultima nota del rigo ad indicare appunto un accordo di
terza seguito da un accordo di quarta.
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Traccia 3 a-b
Claudio Monteverdi ( Cremona 1567-Venezia 1643)
L’Orfeo (1607)
Favola mitologica che riprende il mito di Orfeo, figlio di Apollo e della musa Calliope, che divenne espertissimo
nell’arte del canto e nell’uso della lira. Orfeo sta per sposare Euridice e i pastori e le ninfe scendono dai monti per
celebrare l’evento con canti e balli. Ma queste manifestazioni di gioia sono interrotte da un annuncio funesto:
Euridice è morta, morsa da un serpente. Orfeo allora decide di scendere negli inferi e di commuovere le divinità
infernali per far tornare in vita Euridice. Plutone si lascia convincere e consente che Euridice sia rilasciata ad
Orfeo a condizione che questi la conduca fuori degli inferi senza guardarla. Con un canto di ringraziamento Orfeo
si incammina verso il mondo dei vivi seguito dalla sua sposa; ma ben presto è assalito dal dubbio che Euridice
non lo segua e quando sente un rumore misterioso , non può più vincere i suoi timori e si volta. A questo punto
i due amanti vengono separati, e mentre Euridice scompare nelle tenebre, Orfeo viene misteriosamente spinto
verso la luce. Nell’ultimo atto Orfeo vaga per i boschi piangendo la perdita della sua amata, ma Apollo discende
dal cielo ed invita il figlio ad ascendere con lui al cielo: qui non solo potrà ammirare di nuovo le sembianze di
Euridice ma potrà godere “diletto e pace”.
ATTO II Schema metrico : quattro quartine di ottonari ABBA CDDC EFFE GHHG
ORFEO
1
Vi ricorda o boschi ombrosi
De’ miei lunghi aspri tormenti
Quando i sassi ai miei lamenti
2
Rispondean fatti pietosi
Dite, allor non vi sembrai
Più d’ogni altro sconsolato ?
Or fortuna ha stil cangiato
3
Et ha volto in festa i guai
Vissi già mesto e dolente
Or gioisco, e quegli affanni
Che sofferti ho per tant’anni
4
Fan più caro il ben presente.
Sol per te bella Euridice,
Benedico il mio tormento;
5
Dopo il duol vie più contento,
1
Vi ricorda o bosch’ombrosi : vi ricordate, boschi ombrosi
Quando i sassi …fatti pietosi : quando persino i sassi, presi da pietà, facevano eco ai miei lamenti
3
Or fortuna … ha volto in festa i guai : adesso la fortuna ha cambiato corso e ha tramutato le pene in gioia
4
Or gioisco…il ben presente : ora gioisco, e quei tormenti che ho sofferto per tanti anni rendono più preziosa la felicità del
presente
2
11
Dopo il mal vieppiù felice
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Poco dopo giunge una messaggera che dà a Orfeo il triste annuncio: Euridice è morta
Schema metrico: settenari e endecasillabi sciolti
MESSAGGIERA
1
Pastor, lasciate il canto, Ch’ogni nostra allegrezza in doglia è volta
ORFEO
D’onde vieni ? ove vai? Ninfa, che porti ?
MESSAGGIERA
A te ne vengo, Orfeo,
Messaggiera infelice,
Di caso più infelice e più funesto:
La tua bella Euridice…
ORFEO
Ohimè, che odo?
MESSAGGIERA
La tua diletta sposa è morta
ORFEO
Ohimé!
MESSAGGIERA
In un fiorito prato
Con l’altre sue compagne
2
Giva cogliendo fiori
Per farne una ghirlanda a le sue chiome
3
Quand’angue insidioso
Ch’era fra l’erbe ascoso
Le punse un pié con velenoso dente.
Ed ecco immantinente
4
Scolorirsi il bel viso e nei suoi lumi
5
Sparir que’ lampi, ond’ella al sol fea scorno
Allor noi tutte sbigottite e meste
Le fummo intorno, richiamar tentando
Gli spirti in lei smarriti
Con l’onda fresca e con possenti carmi,
Ma nulla valse, ahi lassa,
Ch’ella i languidi lumi alquanto aprendo
E te chiamando, Orfeo,
Dopo un grave sospiro
Spirò tra queste braccia; ed io rimasi
Piena il cor di pietade e di spavento
5
duol : dolore
Allegrezza in doglia è volta : la nostra allegria si è tramutata in dolore
2
Giva : andava
3
angue : serpente
4
lumi: occhi
5
Sparir que’ lampi, ond’ella al sol fea scorno : sparire quella luce
che era un’offesa al sole
1
12
Il posto che Monteverdi occupa nella storia del melodramma è di importanza capitale,
malgrado siano solo tre le opere appartenenti a questo genere che ci sono pervenute in
forma completa. L’esperienza che il compositore cremonese fece in precedenza sul terreno
del madrigale ( i cinque libri dati alla luce prima del 1605, altri tre fino al 1638), portò a
progressiva definizione l’idea un linguaggio musicale in grado non solo di dare efficace
espressione alle immagini verbali — conquista del madrigale già da lungo tempo — ma
anche di graduare discorsi ed “affetti” in situazioni più ampie e complesse.
Dopo l’enorme successo della “prima” mantovana, L’Orfeo fu ripreso in altre città italiane
attraverso varie rappresentazioni che ne decretarono la posizione di capolavoro capostipite
del nuovissimo genere.
Monteverdi in effetti era ben più conscio dei suoi colleghi fiorentini che lo spettatore, per
seguire un’azione teatrale, doveva cogliere con immediata chiarezza le caratteristiche
principali dei personaggi e delle situazioni: perciò dopo aver presentato l’ambiente pastorale
nel primo atto, All’inizio del secondo Atto introduce una grande aria di Orfeo su un testo
strofico, Vi ricorda o boschi ombrosi,
che ha la funzione di evidenziare i tratti fondamentali
del protagonista, cantore e mitico creatore della musica, appartenente al mondo pastorale.
Qui Orfeo canta la sua felicità ricordando i dolori e le lacrime del tempo in cui Euridice non
corrispondeva il suo amore. Su quattro quartine di ottonari a rima incrociata, la melodia si
ripete identica in ogni strofa, pur variando però le sue inflessioni espressive. Naturalmente in
questo pezzo “chiuso” il rapporto testo-musica è molto più generico
accade nei brani in stile recitativo. Emerge però
rispetto a quanto
il senso già moderno in cui vengono
impiegati gli strumenti dell’orchestra, sia in unione col canto, sia nei ritornelli che intervallano
le quattro strofe.
Il recitativo con cui poco dopo la Messaggera annuncia ad Orfeo la morte di Euridice
(“Pastor, lasciate il canto”) costituisce una delle scene più drammatiche dell’opera e contiene
un ampio ventaglio di effetti tipici attraverso i quali si mira a toccare la sensibilità emotiva lo
spettatore: dall’uso di pause nei momenti più commoventi (Orfeo: Ohimé!) ai contrasti di
ritmo tra parti con pronuncia veloce a cui seguono parti lente o viceversa ( Messaggera: Le
punse un pié con velenoso dente. Ed ecco immantinente...); dall’uso di linee melodiche
ascendenti, che raggiungono un culmine e poi ridiscendono (Messaggera: Ma nulla valse,
ahi lassa), ai bruschi mutamenti di profilo, (Orfeo: D’onde vieni? ove vai?) fino alle ripetizioni
che imitano il parlato di chi è preso da una grande scossa emotiva (Messaggera: E te
chiamando, Orfeo).
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SCHEDA 3
Lully e la tragédie lyrique
I temi della mitologica antica e il mondo fiabesco dell’epica rinascimentale costituiscono i
soggetti abituali delle tragédies Lyriques di Lully. Vi si celebrano
le virtù dell’amore
disinteressato, della fedeltà, del coraggio e della gloria, ideali cavallereschi proposti
all’ammirazione della nobiltà francese. I temi scelti da Lully e Quinault sono «altrettante
allegorie favolose di un sovrano divinizzato e idolatrato, di un nuovo Apollo che conduce una
politica europea aggressiva ed è acclamato in patria come il pacificatore del mondo, come
nuovo Pericle e Augusto. I prologhi sono espliciti al proposito. Decifrare nella trama delle
tragédies lyriques di Quinault e Lully le allusioni intenzionali e preterintenzionali alla vita di
corte di Versailles diventa un giuoco di società prediletto dall’aristocrazia e dagli intellettuali
di Parigi» ( Bianconi 1982)
Traccia 4
Jean-Baptiste Lully
Atys (1676)
Tragédie lyrique su libretto di Philippe Quinault
Prologue
Schema metrico: alessandrini, ottonari e senari ABABCB CDEDE
LE TEMPS
En vain j’ay respecté la célebre memoire
Des heros des siècles passes;
C’est en vain que leurs noms si fameux dans l’Histoire
Du sort des noms communs ont été dispenses:
Nous voyons un Heros dont la brillante gloire
Les a presque tous effaces
CHOIR DES HEURES
Ses justes loix, ses grands esploits
Rendront sa memoire éternelle;
Chaque jour, chaque istant
Ajoute encore à son nom éclatant
Une gloire nouvelle
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Nel caso di Atys, il cui libretto fu redatto da Quinault sulla base dell’episodio narrato nelle
Metamorfosi di Ovidio, si narrano le vicende dell’amore contrastato del pastore frigio Ati,
devoto alla dea Cibele alla quale ha fatto voto di castità, e di Sangaride, promessa sposa del
re.
Il prologo di Atys si svolge nel palazzo del Tempo. Il dio appare in mezzo alle dodici ore del
giorno e dalle dodici ore della notte e constata che la gloria di Luigi XIV supera quella degli
eroi del passato, mentre dal dea Flora esalta l’inverno perché la primavera porta le
campagne militari che allontanano il re.
La condotta melodica di questo brano mostra quanto sfumata sia, nella concezione di Lully,
la distinzione tra fra recitativo ed aria, o meglio, per dirla alla francese, fra récit e air.
Quest’ultima è melodicamente più rilevata ed in essa vi si trovano ripetizioni più o meno
frequenti dei versi più significativi. Nel caso qui proposto il trapasso fra récit e air è reso più
evidente nel passaggio di consegne tra la parte del Tempo – più statica e caratterizzata da
un ritmo irregolare misto di misure binarie e ternarie che dipendono dal tempo della dizione
dei versi ( soprattutto dei primi due ) — a quella del coro, in cui i versi vengono ripetuti varie
volte, l’andamento melodico appare più lineare e il ritmo è più regolare. Lo stile di canto però
in entrambi i casi è quasi esclusivamente sillabico, e non vi reperisce nessuna traccia dei
vocalizzi e delle diminuzioni in uso nel melodramma italiano del tempo.
Tutto il resto dell’opera d’altronde mostra chiaramente quanto al confronto con l’opera
italiana nella tragèdie lyrique di Lully fosse meno rilevante la funzione dei cantanti, ai quali
vengono affidate parti piuttosto brevi, prevalentemente di carattere recitativo; al contrario
numerosi sono gli ensembles e i cori, di grande varietà formale e timbrica.
Nell’opera vengono espunti tutti gli episodi secondari, trama e stile risultano molto omogenei
e l’intensità drammatica sembra crescere lentamente da un atto all’altro senza che vi sia
alcuna soluzione di continuità.
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SCHEDA 4
L’affrancamento della musica strumentale: Girolamo Frescobaldi
All’inizio del Seicento un notevole processo di trasformazione modificò lo strumentario
medievale, facendo salire alla ribalta strumenti come l’organo, il clavicembalo e il liuto,
strumenti polifonici, grazie ai quali la musica strumentale poteva riprodurre le tecniche in
uso
nella
musica
vocale
da
secoli.
Intanto
però
si
andarono
perfezionando
progressivamente gli strumenti ad arco da cui, sul finire del secolo, verranno sviluppi più
consoni alla nuova sensibilità monodica, con la nascita del violino.
L’organo, strumento liturgico per eccellenza già dal Trecento,
soprattutto nei paesi
nordici ampliò notevolmente le sue possibilità grazie all’introduzione di più tastiere e
all’estensione della pedaliera. Il clavicembalo, strumento diffuso nelle corti nobiliari
piccole e grandi, di forma simile a quella di un pianoforte ma con le corde pizzicate
anziché percosse, conobbe i maggiori centri di produzione in Italia e nelle Fiandre: gli
strumenti italiani erano lunghi e leggeri, caratterizzati da sonorità limpide e squillanti; gli
strumenti fiamminghi invece erano più pesanti e massicci con sonorità profonde nei
bassi. Derivazioni “domestiche” del clavicembalo erano il virginale, in uso soprattutto in
Inghilterra, e la spinetta. I liuti e le viole erano strumenti di comodo maneggio, dalle
sonorità chiare e delicate, che si adattavano bene per accompagnare le voci o per
adattarvi composizioni polifoniche vocali: nel Cinquecento ormai questi strumenti erano in
uso praticamente presso tutte le classi sociali in grado di fare della musica sia tra le
pareti domestiche sia in occasione di feste e banchetti.
Durante il Trecento e il Quattrocento gli strumenti furono largamente utilizzati in buona parte
del repertorio vocale delle cappelle, ma con modalità e organici su cui abbiamo solo notizie
molto approssimative. Anche dopo che la polifonia ebbe acquisito uno stile integralmente
vocalistico, l'esecuzione, soprattutto della musica profana ma anche di quella liturgica,
comportava abitualmente l'uso degli strumenti a supporto o in sostituzione delle voci, almeno
quelle più gravi per le quali non casualmente veniva sovente omessa l'indicazione delle parole
del testo. A confermare quanta parte la strumentalità svolgesse nella vita musicale di quei
tempi e come la stessa nozione di stile a cappella racchiuda in realtà molte incognite circa la
sua concreta realizzazione sono gli organici delle cappelle stesse, dove gli strumentisti sono
spesso più numerosi e meglio pagati dei cantori. Tuttavia prima del Quattrocento assai rari
furono i brani strumentali tramandati attraverso la scrittura, forse perché all'epoca quasi
nessuno si preoccupò di sprecare tempo e pergamene per un genere musicale plebeo e basato
su regole improvvisative che si tramandavano oralmente.
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Solo nel Cinquecento, per gli effetti concatenati della diffusione della stampa, del notevole
perfezionamento delle tecniche costruttive degli strumenti e del prestigio crescente di cui
godeva l'abilità esecutiva, la musica strumentale sia solistica sia di gruppo si affermò su
scala più vasta e in modi qualitativamente diversi, acquistando la dignità di genere artistico
autonomo, dotato di competenze, repertori e stili sempre più svincolati dalla musica vocale.
In effetti l'uso di strumenti o anche di musiche solo strumentali aveva sempre dovuto fare i
conti con un modello ideale predominante secondo il quale la musica delle classi colte
veniva primariamente immaginata per le voci. Che poi le voci di una polifonia potessero
essere anche affidate a strumenti era questione di pratica quotidiana o di opportunità
contingente; ma che esse venissero fondamentalmente pensate come «voci » nel senso di
voci umane, è altrettanto certo. Solo in occasione di danze o musiche di accompagnamento
per solennità rituali gli strumenti godevano di una funzione esplicita e di una indipendenza
dichiarata.
Ma in musiche strumentali «pure» occorreva una sorta di architettura astratta che le
organizzasse formalmente e ne giustificasse la forma. Queste “architetture” sonore
seguirono dunque inizialmente due grandi modelli preesistenti: quello della danza e quello
della polifonia vocale.
La grande abbondanza di fonti documentarie sulla pratica sociale del ballo e la relativa
scarsità di testi musicali scritti, sono indizi sicuri del fatto che le musiche per il ballo, di
diverso tipo a seconda dei vari ceti sociali, erano quasi sempre eseguite da complessi che le
imparavano per tradizione orale. La comparsa di stampe musicali contenenti danze
(particolarmente significative quelle pubblicate in Francia e nei Paesi Bassi dagli editori
Attaingnant, Susato, Phalèse) indica come a poco a poco la moda dell'esecuzione di tali
musiche si diffondesse anche tra le classi più elevate. Aldilà della rilevanza estetica che
gran parte di queste raccolte avevano, l’importanza storica della musica per danza
fra
Cinquecento e Seicento è enorme perché da essa dipende in buona misura la nuova
sensibilità che porta al passaggio dalla modalità alla tonalità.
«La corporea fisicità dei
movimenti coreografici genera per assimilazione una periodicità di movenze e gesti melodici,
ritmici, armonici: quella forza di gravitazione che istituisce nessi tonali rudimentali ma tenaci
tra i gradi basilari del tono (primo, quarto, quinto grado) ha una valenza accentuativa
irresistibile, che si ripercuote sulla fraseologia melodica». (Bianconi, 1982)
Nel Cinquecento le danze, anche quelle effettivamente ballate, venivano spesso collegate in
una successione che abbinava “bassa danza” e “alta danza”, cioè balli più statici e
“passeggiati” con balli più dinamici e “saltati”. Così era per le coppie pavana-gagliarda o
passamezzo-saltarello, rispettivamente in tempo binario e ternario. Se ne ha un esempio
nel Passemezzo e Salterello Giorgio, ( traccia 5) proveniente da una raccolta di danze
fatte copiare in Inghilterra dal conte di Arundel al suo ritorno dall’Italia nel 1560: si tratta di
balli eseguiti a Firenze durante le feste di Carnevale, con arrangiamenti che dimostrano uno
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stile estemporaneo e risalgono probabilmente al terzo decennio del secolo. Il titolo fa
riferimento ad una canzone popolare il cui motivo viene ripreso da entrambe le danze, col
loro ritmo caratteristico che rimanda, rispettivamente, al tipo della “bassa danza” (cioè una
danza più lenta e nella quale i piedi sono più vicini al terreno ) e all’“alta danza” ( una danza
in cui sono presenti i salti): al ritmo binario e al tempo moderato del passamezzo si affianca
il ritmo ternario e il tempo mosso del saltarello. In entrambi i casi troviamo un semplicissimo
frammento, una successione accordale che viene riproposta numerose volte con leggere
variazioni della linea melodica o con strumenti diversi. La strumentazione qui ricreata
liberamente dagli interpreti utilizza in mescolanze omogenee le principali famiglie di
strumenti utilizzate nel primo Cinquecento: a pizzico ( clavicembalo, spinetta, liuti, arpa), ad
arco ( viole), a fiato (flauti, cromorni e cornetti ) e a percussione (tamburi).
Connessa con la danza, è un'altra forma musicale importante: quella della variazione.
Anche qui siamo di fronte a una eredità parzialmente dovuta alla tradizione popolare, accolta
e sviluppata in ambito colto. Non solo le musiche per danza prevedevano, come s'è detto,
esecuzioni variate con aggiunte di tipo improvvisativo, ma spesso le stesse coppie pavanagagliarda e simili si basavano sul principio della variazione, quando presentavano un'unica
melodia che veniva eseguita prima in tempo binario e poi in tempo ternario, con gli opportuni
adattamenti. Senza parlare di balli come la passacaglia e la ciaccona , basati sulla
ripetizione quasi ossessiva di brevi schemi armonico-ritmici che si prestavano ad ogni sorta
di ornamentazioni. Schemi di questo tipo vennero incorporati nella tradizione colta in cui l'uso
di variazioni o partite (diferencias in spagnolo) si diffuse ampiamente. Se ne ha un esempio
magnifico già nelle Cento Partite sopra passacagli di Girolamo Frescobaldi ( traccia 6)
La pratica consueta della esecuzione su strumenti di polifonie vocali, fornì la base di un altro
percorso di sviluppo dei generi strumentali. Nella grande varietà di forme e generi, non
ancora ben distinti da convenzioni diffuse e denominazioni precise cominciarono a emergere
brani strumentali che traevano i propri statuti costitutivi proprio dalle forme vocali:
il
ricercare per strumenti a tastiera e soprattutto la canzona da sonar destinata «ad ogni
sorta di strumenti». Il primo di questi due generi tendeva ad organizzarsi sullo schema del
mottetto, strutturandosi per sezioni ciascuna introdotta da un ingresso delle voci in
imitazione;
la Canzone era di struttura analoga a quella del ricercare, ma di carattere
diverso perché non legato ad austeri esempi di polifonia sacra bensì al più disinvolto genere
profano della Chanson francese.
Un posto tutto particolare merita poi il genere musicale della toccata, che fra tutti i
menzionati è quello che più si allontana dal modello della polifonia vocale e della danza,
trovando soluzioni espressamente suggerite dallo strumento, e per questo definibile come
un genere idiomatico. Inizialmente la toccata – la cui denominazione si riferisce all’idea di
“toccare”, e dunque “assaggiare” le sonorità di uno strumento - è indirizzata al liuto, al
cembalo o all’organo ed è costituita da una serie di accordi collegati fra loro da rapide
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figurazioni virtuosistiche, per lo più a scala. Verso la fine del Cinquecento soprattutto nei due
libri (1598-1600) dell'organista veneziano Claudio Merulo (1533 - 1609) la toccata acquista
ampie proporzioni e alterna episodi liberi e virtuosistici con altri polifonici di stile imitativo.
Nella prima metà del Seicento la musica per soli strumenti, forte della ricca esperienza
dell'epoca precedente, conosce un lungo e fecondo periodo di sperimentazione e
conclusione del quale si affermeranno in tutta Europa i solidi schemi formali della fuga, della
sonata, del concerto, della suite, e di altri generi che sanciranno definitivamente la
legittimazione della sua autonomia.
Tracce 7-8
GIROLAMO FRESCOBALDI, Toccata IX dal I libro di Toccate (1615)
Canzon francese dal Primo libro delle Canzoni (1628)
Nelle opere di Girolamo Frescobaldi, la musica strumentale dimostra già un notevole grado
di complessità con capolavori la cui fantasia inventiva supera quella di ogni altro e che
peraltro si applica ad un’ampia varietà di generi. L’influenza di Frescobaldi fu duratura e di
notevole portata, soprattutto nel campo della musica per tastiera: ai suoi esempi
si
ispirarono schiere di musicisti italiani e stranieri come Bernardo Pasquini, Jacob Froberger ,
Bach e Handel. Oltre ai due libri di Toccate (1615 e 1627), fantasie, ricercari, canzoni,
capricci, variazioni, si presentano nelle numerose raccolte per organo e cembalo pubblicate
dal compositore ferrarese, dal Primo libro delle Fantasie del 1608 alle Canzoni alla francese
uscite postume nel 1645: tutti generi ampiamente noti alla tradizione cinquecentesca, ma
tutti trattati con una capacità inventiva alla quale la musica del Cinquecento non era avvezza.
Soprattutto dal madrigalismo maturo di Monteverdi e di Gesualdo sembra venire a
Frescobaldi una sensibilità espressiva, un’estrema sottigliezza nella resa degli “affetti” che si
realizza mediante arditezze linguistiche e sofisticate tecniche contrappuntistiche.
Nelle maggiori opere di Frescobaldi la varietas, principio poetico fondamentale dell’estetica
barocca, si combina con una forte volontà discorsiva: la musica parla e canta al pari della
musica vocale, come mai forse era accaduto; gli “affetti” che essa agita sono generici ma
non meno intensi, configurando una vera “retorica” musicale. Nella prefazione alle Toccate
per tastiera Frescobaldi dichiara di averle concepite in modo che «siano copiose di passi
diversi et di affetti»; l’autore chiede che vengano eseguite con lo stesso atteggiamento «che
veggiamo usarsi nei madrigali moderni», cioè assecondando «i loro affetti, o senso delle
parole»; mutuando direttamente termini ed espressioni da quell'ambito madrigalistico e
vocalistico. In un brano come la Toccata IX del primo libro di Toccate assistiamo ad un
vero e proprio “discorso” musicale in cui possiamo senza fatica individuare
exordium,
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expositio, confirmatio¸ conclusio, parti della dispositio
secondo i principi della retorica
classica tramandati da Cicerone e Quintiliano. La toccata ha in effetti un incipit esitante e
introduttivo: è l’esordio di una conversazione fra più voci, rappresentate idealmente dai
diversi registri della tastiera. La conversazione verte su due brevi temi:quello che si ascolta
immediatamente nel registro acuto e la breve figura di tre note che viene subito dopo ripetuta
in imitazione fra le varie voci.
A questa sezione - l’expositio - segue un dialogo alquanto più concitato tra le voci
rappresentate dalle due mani nel quale la figura b) è ancora chiaramente percepibile
(confirmatio); il dialogo si fa sempre più intenso per poi placarsi in un’ulteriore sezione più
distesa e meditativa, destinata a far posto ad una parte conclusiva dove la dialettica cresce
in concitazione man mano che si va verso la fine del brano.
In questa come in altre composizioni di Frescobaldi la polifonia imitativa si alterna con
brillanti e fantasiosi passi virtuosistici in stile di toccata, con invenzioni melodiche memori
delle tradizioni di canto del madrigale e della monodia. La varietas agisce anche nelle
Canzoni da sonare dove Frescobaldi costruisce i suoi disegni formali alternando le varie
sezioni secondo criteri di analogia o di contrasto e utilizzando caso per caso il principio della
molteplicità dei termini oppure quello del monotematismo; ma i temi impiegati nel corso della
composizione vengono raramente ripetuti uguali: a ogni ripresa Frescobaldi tende a
elaborarli, a modificarli con continue e sottili varianti. Nelle Canzoni, destinate a vari
strumenti, l’alternanza di passi con ritmi contrastanti, declina in altro modo il principio
dell’ordine nella diversità, la barocca «concordia discors».
Qui l’articolazione è più netta che nelle Toccate, facendosi vera e propria divisione in sezioni,
scandite da una alternanza tra andamenti veloci e andamenti lenti, ritmi binari e ritmi ternari.
Questo principio, sviluppato gradualmente sarà destinato a diventare cardine di ogni struttura
di ampio respiro nel campo della musica destinata ai soli strumenti. Nella Prima Canzone
franzese tratta dal Primo libro delle Canzoni ad una, due, tre e quattro voci
(1628),
concepita per due parti - uno strumento melodico accompagnato dal basso continuo - la
divisione in sezioni segue una logica di alternanza tra andamenti veloci e andamenti lenti,
ritmi binari e ritmi ternari. Il discorso parte con una breve frase del basso che costituisce il
“tema” di una vera e propria conversazione fra le due voci: il motivo iniziale infatti viene
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variato e modificato ma resta sempre come nucleo di un dialogo basato sul principio
dell’imitazione. La scrittura non è virtuosistica, ma evidentemente dialogica “affettuosa” (nel
senso seicentesco di “espressione degli affetti”) improntata al principio fondamentale della
varietas, come si può facilmente constatare dallo schema a cui essa è riconducibile:
Sezione A ( tempo binario; breve motivo in imitazione tra basso continuo e flauto )
[00-0’26]
Sezione A ( Ripetizione con ornamentazioni improvvisate dagli esecutori)
[0’27- ’51]
Coda della sezione A
[ 0’52-1’13]
Sezione B ( tempo ternario; motivo simile a sezione A + coda in tempo più lento)
[1’14’- 1’36]
Sezione C ( Allegro; tempo binario; motivo in note ribattute )
[ 1’37-2’25 ]
Sezione D (tempo ternario; tempo binario accelerazione progressiva verso la fine )
[ 2’ 26 – fine]
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SCHEDA 5
Arcangelo Corelli: dalla Sonata al Concerto grosso
L’evoluzione della cultura strumentale italiana si accompagnò nel corso del Sei-Settecento
ad un’intensa espansione dell’opera dei maestri liutai bolognesi e lombardi che condusse al
perfezionamento definitivo degli strumenti ad arco destinati a soppiantare gli strumenti a
fiato, ed in particolare il flauto dritto, nelle preferenze del pubblico italiano. Nell’ambito di
questa famiglia strumentale il violino impose presto
la sua supremazia secondo un
processo parallelo a quello verificatosi nella musica vocale in cui le voci più alte ( soprani e
castrati ) avevano assunto il maggiore risalto. Nel secondo Settecento le sonorità strumentali
diventano così più costanti: mentre nelle composizioni del primo Seicento si usava
contrapporre strumenti ad arco e a fiato, a pizzico e a tastiera, spesso mischiati ella voce in
sontuosa varietà sonora, nelle convenzioni
settecentesche prevalgono nettamente gli
strumenti ad arco.
Gli archi – e il violino in particolare - furono in effetti i veri protagonisti, in questa fase della
storia, dei due generi principali che contraddistinguono l’ambiente italiano, cioè la Sonata e il
Concerto. Il termine “sonata” nel corso del XVI secolo veniva sovente impiegato per riferirsi
a una composizione affidata a strumenti, in opposizione al termine “cantata” che invece era
riferito a brani vocali. Nel corso del Seicento il termine venne precisandosi, sempre più
spesso usato per brani strumentali destinati a pochi strumenti, in ciò dunque diversi dai
“concerti” e dalle “sinfonie” destinati invece a gruppi più o meno ampi. Nella sua
organizzazione la Sonata prese le mosse dalla Canzone da sonar, che pur nello stato fluido
delle forme seicentesche, è rappresentata dal già citato esempio di Frescobaldi: un brano
strumentale vivace nelle sue idee melodiche, diviso in sezioni, capace di utilizzare
procedimenti imitativi ma anche ritmi di danza, abile nell'alternare temi o varianti tematiche.
Si tratta all’inizio di un modello comportamentale assai elastico, aperto a una grande quantità
di variabili formali e stilistiche. Ma verso la metà del secolo questa possibilità di scelte tende
a trovare una organizzazione più ordinata e compatta in coincidenza con la progressiva
sostituzione del termine “canzone», con il termine Sonata che sancisce ormai il distacco
dalle origini vocali. Il nuovo genere vedrà emergere alcune caratteristiche:
1) si distingue fra stile contrappuntistico e stile di danza, che determina la distinzione fra
sonata da chiesa e sonata da camera.
2) si impone sempre più stabilmente l’uso della cosiddetta Sonata a tre, destinata a tre
“parti” costituite da due violini e un basso continuo; dunque l’organico poteva contare anche
quattro o cinque strumenti data l’elasticità della realizzazione del basso continuo ;
3) emergono infine due tipi principali di contrasto: quello fra andamento lento (adagio) e
andamento veloce (allegro) che
dà luogo ad un’alternanza regolare di parti ormai
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nettamente definite, come atti di una pièce teatrale, quelli che si chiameranno da allora in poi
movimenti o tempi
La Sonata costituì il terreno su cui venne germogliando un ulteriore genere, quello del
Concerto, soprattutto in relazione ad alcuni aspetti formali tipici: la strutturazione in più
tempi, la diversa caratterizzazione degli adagi e degli allegri, l'utilizzazione di modelli di
derivazione contrappuntistica e di danza. Il termine — che oggi viene comunemente usato
per indicare l’esibizione pubblica di cantanti, strumentisti, orchestre ecc. — deriva dalla sua
etimologia latina l’idea di “andare d’accordo” : si dice «andare di concerto» quando c’è
appunto un’intesa. Inizialmente – nel Cinquecento — questa parola venne usata per brani
intonati insieme da voci e strumenti. Poi nel corso del Seicento il termine venne a definire
una composizione puramente strumentale affidata a un complesso relativamente ampio,
nella quale ciascuna parte veniva eseguita da più strumentisti
Al processo di formazione dello stile del concerto contribuiscono centri musicali diversi, per
lo più situati nel Nord Italia.
Dopo i decenni di sperimentazione e di assestamento, a fine secolo dalla scuola bolognese
si staccò con forza un compositore destinato ad acquisire un’enorme fama presso i
contemporanei: Arcangelo Corelli le cui opere portarono a compimento in maniera
esemplare linee di tendenza comuni ai compositori dell'epoca. Tale esemplarità è dovuta a
ragioni diverse: anzitutto egli, caso abbastanza singolare in quegli anni, non si dedicò forse
mai ai generi allora predominanti della musica vocale; in secondo luogo egli costruì il suo
linguaggio sulla base di un'accorta sintesi di esperienze diverse; infine non è da
sottovalutare, nel quadro della «rappresentatività» corelliana, la stretta dimestichezza del
musicista con la nobiltà e 1'intellettualità romana: con la regina Cristina di Svezia,
brillantissima mecenate e promotrice di cenacoli culturali, con i cardinali musicofili Benedetto
Pamphili e Pietro Ottoboni, con gli ambienti letterari dell’ Accademia dell'Arcadia attraverso i
quali si stava imponendo in quegli anni un gusto razionalistico per l'ordine e la compostezza
stilistica, in evidente reazione alla esuberanza barocca.
Su generi musicali rappresentativi di linee di tendenza diffuse, la Sonata e il Concerto, si
applica il carattere di fondo dello stile corelliano che è il risultato di un'ormai secolare
elaborazione di tre grandi modelli di architettura sonora: la polifonia vocale, la musica da
ballo e il canto solistico. Il primo modello imprime alle sonate e ai concerti tardo-seicenteschi
l’impronta dello stile imitativo che emerge particolarmente in certe parti della composizione
(ad esempio agli inizi dei tempi allegri, soprattutto nei generi da chiesa) e attraverso il quale
Corelli avvia un processo di semplificazione e purificazione della scrittura polifonica
cinquecentesca; il secondo modello caratterizza esplicitamente alcuni dei tempi delle sonate
e dei concerti che portano titoli di movimenti di danza, e - più in generale - conferisce alle
composizioni brillantezza, vivacità e piacevolezza; il terzo modello innerva lo stile corelliano
di specifici caratteri di espressività: la vocalità del melodramma, della cantata, dell'oratorio,
23
concepiva infatti la melodia come uno strumento di potenziamento delle emozioni implicite
nella parola, secondo i principi della « teoria degli affetti ». Anche la musica strumentale (in
particolar modo gli adagi, ma non solo) era impregnata di moduli melodici di derivazione
vocale: progressioni, sincopi, dissonanze, pause, ampi salti, drammatizzavano il linguaggio
conferendogli spesso una soma di implicita gestualità.
Un tratto particolarmente caratteristico dello stile di sonata e di concerto così come viene
realizzato da Corelli (e che sancisce la sua fama) è costituito dalla semplice ma ormai
chiarissima organizzazione della tonalità che viene affermata attraverso il gioco imitativo
proteso al raggiungimento di punti tonali certi, la ripercussione ravvicinata di accordi di
tonica, le progressioni armoniche ( ripetizione in senso ascendente o discendente di
piccole frasi ), la razionale distinzione dei piani tonali, organizzati per lo più sul bilanciamento
fra la tonalità d'impianto, su cui sono costruiti gli episodi iniziali e finali del movimento, e la
tonalità della dominante, che compare di solito verso la metà del brano. Nelle composizioni
in modo minore l'alternanza avviene più spesso fra la tonalità minore e la sua relativa
maggiore. Altre tonalità secondarie possono essere toccate, ma i pilastri fondamentali,
all'epoca di Corelli, sono ormai sempre chiaramente fissati. All'interno di questo semplice
itinerario tonale si inseriscono i vari episodi, ciascuno delimitato da una cadenza. Il gioco dei
temi gode di una certa fluidità e libertà: ad esempio, negli allegri la proposta melodica iniziale
viene subito ripresa in imitazione dalle varie voci; da questa idea di partenza, o da certi suoi
tratti, scaturiscono altre idee secondarie che anch'esse vengono riprese ed elaborate e
costituiscono materiale per gli episodi che via via si susseguono nel brano.
Corelli, attivissimo ai suoi tempi come compositore e violinista, fu prudentissimo nel
pubblicare le sue opere, che correggeva, limava e selezionava con attenzione prima di dare
alle stampe. Il risultato di questa scrupolosa cura fu costituito dalle sole sei raccolte, che
costituiscono tutto il corpus corelliano, ciascuna composta di 12 brani e definita da un
numero d’opera progressivo (secondo l’uso invalso nel secondo Seicento che sarebbe
rimasto in vigore nella musica strumentale fino al primo Novecento: le prime quattro (16811694) contengono Sonate a tre, «da chiesa» (opera I e opera III, connotate da uno stile più
contrappuntistico e da movimenti più solenni) e da camera (opera II e opera IV, connotate da
uno stile tendenzialmente omofonico e da movimenti di danza ). L'opera V contiene Sonate
per violino solo e basso continuo (sei da chiesa e sei da camera) pubblicate nel 1700.
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Tracce 9-10
Arcangelo Corelli, Sonata a tre op. III n.2 : Grave-Allegro
Sonata op.V n. 9 in la maggiore : Giga
Nella terza raccolta data alle stampe da Corelli nel 1689, vengono riunite dodici Sonate da
chiesa che presentano ad un massimo grado di esemplarità le caratteristiche di un genere
del quale Corelli fu considerato in seguito il maestro per eccellenza. La seconda Sonata è
articolata in quattro movimenti, secondo una successione tipica dello “stile da chiesa”: Grave
– Allegro –Adagio – Allegro. Il Grave iniziale ha funzione introduttiva, un exordium intenso e
meditativo, dall’incedere lento con pause profonde e significative, nel quale le tre parti
sembrano graduare la pulsazione sonora ( minime al primo violino, semiminime al secondo
violino, crome al basso continuo). Secondo la prassi della sonata da chiesa il movimento
seguente è il più complesso della composizione. L’eredità della “canzone da sonar”
polifonica qui è massimamente percepibile. Le tre parti sono perfettamente equiparate e
danno luogo ad un tessuto dialogico reso omogeneo dai rimandi ai nuclei tematici. All’inizio
le tre parti espongono il tema entrando sfalsate, una dopo l’altra e ricorrendo alla tecnica
dell’imitazione (il secondo violino risponde per moto contrario); tutto il gioco dialogico del
brano è intessuto intorno a quanto propone il primo violino nelle prime tre misure: una breve
sigla melodico-ritmica che rimbalza più volte fra le tre parti, trasposta e variata.
Il secondo esempio qui proposto è tratto invece dall’opera Quinta. «Il primo gennaio 1700,
all’alba di un nuovo secolo, vedono la luce in Roma delle sonate che porranno la pietra
tombale su quello stile che molto più tardi sarà definito”barocco”: Arcangelo Corelli (…)
pubblica con una splendida e curatissima incisione in rame 12 sonate «a violino e violone o
cimbalo» in cui la ricerca di essenzialità e senso delle proporzioni illustrano come meglio non
si potrebbe i nuovi ideali estetici legati alla nascente Accademia dell’Arcadia. Rifuggendo
dalle stravaganti asimmetrie, dalle bizzarrie e dai facili effetti a sorpresa che sovente si
manifestavano nelle sonate a solo degli autori del XVII secolo, il musicista romagnolo riesce
a proporre all’Europa un nuovo modello formale puro, equilibrato, ricco di distillata sostanza
musicale» (Gatti 2004).
Nell’opera quinta Corelli si serve delle stesse tecniche e degli medesimi stilemi utilizzati
nelle precedenti raccolte di Sonate a tre. Anche qui compare una distinzione fra stile “da
chiesa” rappresentato dalle prime sei Sonate e “stile da camera” rappresentato dalle Sonate
VI-XII; in queste ultime trovano spazio danze precedute da “Preludi” iniziali. Si tratta di danze
che, naturalmente, sono lontanissime dalla pratica del ballo e che sono intese come «arie
dal movimento regolato», cioè pretesti per la costruzione di forme musicali quadrate.
25
La giga, come tutte le danze della raccolta, si articola in due sezioni ripetute secondo lo
schema AA/BB; tale articolazione lascia emergere in modo evidente un’organizzazione della
tonalità di apollinea limpidezza: nella prima sezione il discorso segue una direttrice che dalla
tonalità della tonica (LA) arriva alla tonalità della dominante (MI); nella seconda sezione
dalla tonalità della
dominante si ritorna alla tonalità della tonica, un ritorno che viene
sottolineato dalla ripresa quasi identica dell’incipit. Ritroviamo qui sviluppati
i principi
strutturali già individuati nella Canzone franzese di Frescobaldi : l’idea di fondo è quella di un
dialogo fra le “voci” del violino e del basso continuo, costruito su un semplice motivo di base.
Ma rispetto all’esempio frescobaldiano in questo elegante movimento di danza domina una
esemplare chiarezza discorsiva, una limpidezza e un gusto per le simmetrie che ci fa
rammentare l’appartenenza di Corelli all’Arcadia. La chiarezza viene raggiunta attraverso il
nitido gioco imitativo tra le due parti, la ripercussione ravvicinata delle note e degli accordi di
tonica (cerchiata in rosso) e di dominante ( cerchiata in blu), .
Altro tratto tipico della scrittura di Corelli, che diverrà tipico di tutta quest’epoca è l’uso delle
progressioni. Una tecnica comunissima che consiste nella ripetizione di un brevissimo
frammento melodico, detto “modello” ripetuto su un grado della scala ascendente o
discendente. Pur nella sua brevità la giga è attraversata da molte progressioni; ne troviamo
un esempio semplice poco più avanti quando il violino presenta una figurazione che si
ripete per cinque volte sul basso che parte dalla tonica (la) e scende di grado fino al do.
A principi simili si rifanno anche i Concert grossi raccolti nell’’opera VI (stampata postuma nel
1714 e che rappresenterebbe la tardiva selezione di brani di epoche precedenti nati in
occasioni disparate).
Rispetto alle Sonate, i Concerti corelliani appaiono più ampi e
complessi, con movimenti maggiormente articolati: questa differenza si spiega soprattutto in
26
base alla dialettica tra il gruppo del Concertino ( costituito da due violini e violoncello ) e il
gruppo del Concerto grosso ( che comprende un organico più ampio e indefinito ), gioco di
ispessimenti e alleggerimenti, di “pieni” e di “vuoti” che sviluppa magistralmente il principio
dialogico delle Sonate, fino a diventare per i posteri uno dei tratti “esemplari” della raccolta
corelliana. ( traccia 11)
27
SCHEDA 6
Concerto e Sonata nell’Italia settecentesca
Nel solco corelliano si collocò l’opera di Antonio Vivaldi che in incarnò i caratteri tipici
dello “stile italiano” — chiarezza discorsiva, semplicità strutturale, immediatezza melodica
— con grande inventiva.
Operista prolifico, autore di musica vocale sacra e profana,
Antonio Vivaldi si è visto assegnare dalla storia il ruolo, non del tutto esatto, di “inventore”
del concerto solistico, genere che si affiancò al concerto grosso, per poi sostituirlo intorno
alla metà del Settecento. Nonostante questo genere offra solo un'immagine parziale della
sua opera e del suo armamentario stilistico, esso ha monopolizzato l'attenzione del pubblico
e degli studiosi; dal punto di vista storico questa preminenza quasi assoluta è giustificata
almeno in parte dal fatto che negli altri generi il suo apporto ai gusti dell'epoca fu di gran
lunga minore.
Ordinato sacerdote nel 1703, Vivaldi fu presto dispensato dal celebrare messa per le
sue cattive condizioni di salute; entrò allora come insegnante di violino nel Ospedale della
Pietà dove rimase fino al 1740. Era questo uno dei quattro istituti veneziani dove, a
somiglianza dei conservatori napoletani, trovavano assistenza gratuita orfani, illegittimi e
malati. In quel conservatorio, esclusivamente femminile, era famosa l’attività musicale delle
«putte», che si esibivano le domeniche e i giorni festivi, nascoste alla vista del pubblico da
una fitta grata: per esse Vivaldi compose la maggior parte delle sue musiche sacre, delle
sue cantate e soprattutto dei suoi concerti, ai quali fu più legata la sua fama. Il catalogo dei
concerti vivaldiani conta circa 500 numeri, quasi la metà dei quali per violino solo; soltanto
84 furono pubblicati vivente l’autore in raccolte edite ad Amsterdam,
le più diffuse e
conosciute raccolte furono l’Estro armonico op.3, pubblicata nel 1711 e Il cimento
dell’armonia e dell’invenzione op.8, edita nel 1725. Dunque poco più dell’'80% dei concerti
di Vivaldi rimasero manoscritti; la fama del compositore però venne, oltre che dalle stampe
olandesi, proprio dai concerti tenuti con cadenza settimanale all'Ospedale della Pietà che
attraevano spesso un pubblico internazionale ( occorre ricordare che Venezia era una delle
mete d’obbligo del Grand Tour )
Lo schema architettonico del concerto vivaldiano è pressoché fisso: solo tre movimenti,
secondo la successione tempo veloce - tempo lento - tempo veloce, che si svolgono
mediamente nel breve arco di una decina di minuti. Il tempo lento – affidato al solista
spesso col solo supporto del basso continuo – si ispira alla tenera cantabilità di un'aria; i
tempi veloci invece adottano ed elaborano quella forma «a ritornello» già riscontrabile in
Torelli e Albinoni. Affidato al «tutti» il ritornello è la riproposizione intera o parziale dell'idea
esposta in apertura, lungo un percorso che tocca tonalità diverse per ritornare infine a
quella di partenza. Quattro, cinque o più ritornelli incorniciano saldamente i brillanti episodi
del solista spalleggiato dal basso continuo o da interventi degli archi, in un dualismo che
28
viene sottolineato affidando al «solo» una materia melodica autonoma rispetto al «tutti»: una
struttura chiara, semplice, immediatamente percepibile.
La struttura dunque semplifica ulteriormente il modello corelliano ed entro questo solido
contenitore, capace di ospitare varianti pressoché inesauribili, Vivaldi costruisce il suo stile
più conosciuto. In primo piano c'è quell'incedere ritmico così caratteristico e trascinante, la
cui scansione quasi inesorabile esalta un tratto che era già tipico e rinomato della musica
italiana. Ma Vivaldi punta soprattutto sul protagonismo del solista, cui sono affidate
figurazioni melodiche ricche di una fantasia e bizzarria talvolta imprevedibili, passaggi dal
virtuosismo funambolico dove ricorrono tutte le risorse disponibili della tecnica violinistica di
allora. Sul piano della costruzione musicale lo stile di Vivaldi utilizza, semplificandolo, il
linguaggio corelliano con moduli ricorrenti – progressioni, iterazioni ostinate, armonie
statiche, omofonia, unisoni – che contribuiscono a rendere inconfondibile il suo profilo e
sono visibilmente indirizzati al fine primario dell'immediatezza discorsiva ed espressiva.
Bisogna poi sottolineare uno spiccato gusto per la ricerca timbrica e l’invenzione di sonorità
nuove, con accenti, ribattuti, tremoli, effetti vuoto-pieno, dinamiche accentuate.
Tracce 12 a–b
Antonio Vivaldi, Concerto op.8 n.4 “L’inverno”
I, Allegro non molto, II, Largo
Semplicità e chiarezza formale, grande inventiva melodica, marcato gusto per la ricerca
timbrica, invenzione di sonorità nuove: le doti che rendono celebre Vivaldi in Europa si
manifestano in pieno nella sua opera ottava
intitolata Il cimento dell’armonia e
dell’invenzione: una raccolta che si apre con i quattro Concerti delle Stagioni, preceduti da
sonetti esplicativi, probabilmente redatti dallo stesso Vivaldi, in cui lettere in maiuscolo
segnalano gli effetti o gli eventi
che la musica riproduce.
Qui la materia sonora è
organizzata secondo la struttura tipica che si è descritta — con i movimenti veloci ancorati
alla regolare alternanza di ritornelli orchestrali e di episodi solistici e i movimenti lenti basati
sullo schema dell’aria — ma in essa agiscono in modo determinante i criteri descrittivi che
conducono Vivaldi ad una libertà espressiva inaudita, proprio attraverso la ricostruzione di
atmosfere naturalistiche e di effetti bizzarri e coloriti.
Ad esempio nel movimento centrale del concerto n. 4, l’Inverno, la descrizione della
pioggia porta ad un’organizzazione sonora a tre strati: il canto disteso del solista, gli arpeggi
pizzicati dei violini
che rimandano all’immagine della pioggia che batte sui tetti e le
figurazioni nervose dei bassi che rimandano al crepitio del fuoco. Nel primo movimento
invece la descrizione dell’ambiente viene realizzata con semplici ma efficaci “gesti” musicali”:
gli accenti marcati dati dai trilli nel primo “tutti” rendono l’”agghiacciato tremar”; rapide
figurazioni del violino introducono “l’orrido vento”; quindi il ritornello successivo con le sue
29
note ribattute in velocità dà il senso del “correr battendo i piedi”; un’ulteriore invenzione
timbrica consistente nel rapidissimo “tremolo” affidato all’ultimo episodio solistico ha il ruolo
di rappresentare il verso “e pel soverchio gel battere i denti”.
Concerto op.8 (“Il cimento dell’armonia e dell’invenzione”) n.4 “L’inverno”
( Le lettere si riferiscono al Sonetto riprodotto nella pagina seguente )
I, Allegro non molto
Ritornello (Tutti)
“Orrido vento” ( Episodio solistico: veloci arpeggi)
Ritornello A ( Tutti)
“Correr battendo i piedi” ( Tutti – solo : note ribattute)
“Venti” ( Episodio solistico)
Ritornello ( Tutti)
“Batter li denti” ( Episodio solistico: tremolo )
Ritornello ( Tutti)
II Largo
“La pioggia”.
1) solista: canto disteso
2) violini: arpeggi pizzicati ( pioggia che batte sui tetti)
3) bassi: figurazioni ribattute veloci ( crepitio del fuoco)
A
B
C
D
[00]
[0’36]
[0’57]
[1’10]
[1’45]
[2’00]
[2’29]
[2’57]
E
30
31
SCHEDA 7
Lo “stile francese”:
la musica per clavicembalo di François Couperin
Innumerevoli specie di danze e successioni di danze si praticarono in tutta Europa nel corso
del Cinquecento. Le sequenze di due danze determinarono gradualmente l’abitudine di
raggruppare i balli in una successione più ampia detta Suite (che in francese significa
appunto «successione»). Le danze più utilizzate erano : l’Allemanda, in tempo moderato e
ritmo binario; la Corrente di movimento vivace e ritmo ternario; la Sarabanda, danza lenta
di origine spagnola, in ritmo ternario; il Minuetto, danza elegante in ritmo ternario; la Giga,
danza rapida di origine inglese, spesso posizionata alla fine della Suite.
La diffusione di
questo genere si sviluppa nel corso del Seicento lungo una direttrice nella quale il rapporto
con la danza non esiste ormai quasi più e si può parlare ormai di “danze non danzate”.
'
L atteggiamento consueto del virtuoso strumentale che adibisce i modelli metrici, armonici e melodici
delle musiche da ballo ad un uso esclusivamente sonoro e cameristico (e non coreico) inclina
volentieri verso l'elaborazione artificiosa, la dissimulazione sottile del modello, la sua sublimazione nel
giuoco delle figure e dei passaggi idiomatici: il musicista si impossessa della musica da ballo e,
riproducendola sul suo strumento, tende a denaturarla, a farne il mero oggetto d'un trattamento
esecutivo e compositivo al quale consegna l'interesse artistico del brano; complicandola o
raffinandola, egli ne attutisce la fisionomia originaria. Il processo è spinto all'estremo nelle suites di
danze dei cembalisti francesi di fine secolo, ma a metà secolo le suites d'un allievo di Frescobaldi,
Johann Jacob Froberger, ne prefigurano l'ordito dipanato in arpeggi diffusi: il movimento di danza è
stilizzato in un gesto melodico e sonoro soffuso ed evocativo, immagine remota della corporea
mobilità di danze come l'allemanda, la corrente, la sarabanda, la giga, che a metà Seicento hanno
dimesso ormai da almeno un paio di generazioni ogni comportamento danzereccio (Bianconi 1979 )
Fu in Francia che queste “danze non danzate” divennero presto una componente essenziale
della musica strumentale destinata al consumo aristocratico e borghese. Anche in questo
caso l’impronta di Luigi XIV, si impresse direttamente e indirettamente anche sul piano della
musica strumentale; la marcata predilezione del “Re sole” per la danza produsse l’effetto di
catalizzare l’interesse e la fantasia dei compositori per questo genere di musica
estendendone notevolmente l’uso e la portata. diede forme e caratteri nuovi alla musica per
danza. Danze già conosciute ma poco usate come l’Allemande,
la Gavotte e la Gigue
divennero di gran moda, altre danze come la Corrente, la Sarabande, la Bourrée cambiarono
i propri connotati “francesizzandosi” per merito principalmente di Lulli al quale spettò anche
l’invenzione di una nuova forma, destinata ad un successo secolare, come il Minuetto.
In Francia un altro aspetto importante riguardava l'eredità della musica per liuto e il suo
innesto nella nuova produzione per clavicembalo. Fino all'epoca di Luigi XIII il liuto godette
del favore indiscusso della nobiltà francese che si dilettava non solo di ascoltarlo, ma di
usarlo essa stessa come suo strumento di diletto domestico. Ma dalla seconda metà del
Seicento il liuto venne a poco a poco soppiantato dal clavicembalo in questa funzione di
strumento familiare. Si trattava di due strumenti molto diversi nella forma e nella tecnica
32
d'esecuzione, ma di suono non dissimile. Il repertorio delle Suites di danze, così amato dai
liutisti del XVII secolo, poteva bene adattarsi alla possibilità del nuovo strumento e trarre
nuovo alimento dalle sue più ampie possibilità foniche. Tra i primi autori francesi di suites per
clavicembalo il più noto fu Jacques Champion de Chambonnières: nelle sue musiche
abbondavano i segni di abbellimento ( trilli di vario tipo, mordenti, gruppetti ) e gli effetti del
cosiddetto style brisé (stile spezzato), espressione che denotava una scrittura tipica del
repertorio liutistico francese caratterizzata da figurazioni arpeggiate e da note in successione
rapida.
Tracce 13- 14
François Couperin,
La favorite
La superbe ou la Forqueray
La figura maggiore in questo percorso fu però quella di François Couperin ( 1668-1733) ,
detto “le Grand” per distinguerlo dallo zio omonimo e dagli altri numerosi musicisti della sua
famiglia. La sua produzione, emblematica della cultura francese, si incentrò soprattutto nelle
opere destinate al clavicembalo: per questo strumento — in Francia ormai arrivato al suo
massimo grado di potenzialità e perfezionamento tecnico — Couperin scrisse ventisette
Suites, da lui denominate Ordres, riunite in quattro libri che pubblicò dal 1713 al 1730.
Nell’opera dei clavicembalisti francesi precedenti la suite si era definita come una struttura
alquanto elastica nella quale al nucleo formato generalmente dalla successione allemanda,
corrente, sarabanda e giga, si potevano aggiungere altre danze come gavotta, minuetto,
ciaccona, passacaglia e rigaudon.
Couperin prese le mosse da questa tradizione: ciascun Ordre comprendeva più brani, in
forma di danza talvolta dotato d'un titolo riferito al carattere della composizione. Il carattere
popolare delle danze venne il più delle volte completamente trasfigurato in una gravità
malinconica, un incedere elegante ed aristocratico in cui l’unica traccia del carattere
originario si rinviene nel modulo ritmico ripetuto o variato con un’infinità di variazioni eleganti,
ricche di quegli abbellimenti (agrements) che caratterizzavano il gusto francese. Sottratti in
parte all’improvvisazione degli esecutori,
trilli, mordenti, appoggiature, gruppetti ed altri
elementi decorativi, notati attraverso una serie di segni convenzionali, avevano conosciuto
un’ enorme applicazione nell’opera dei clavicembalisti francesi perché attraverso di loro lo
strumento, incapace di prolungare la durata dei suoni e di variarne l’intensità, era messo in
grado di tenere le note e di sottolineare momenti espressivi particolarmente importanti. Si
veda per esempio già nel primo libro (terzo ordre) il brano intitolato La favorite, una
“ciaccona”, danza di probabile origine messicana in ritmo ¾, diffusasi in Spagna alla fine del
Cinquecento, che richiamava nella figurazione e nel ritmo, la sensualità delle danze creole.
33
Costruita secondo lo schema formale del Rondeau
- con un refrain che ricorre e dei
couplets che vi si alternano - la pièce di Couperin ha un carattere nobile e malinconico, in
cui resta del carattere originario il modulo armonico-ritmico del basso discendente ripetuto
ossessivamente.
Nella produzione più matura di Couperin i riferimenti espliciti alle danze divennero meno
frequenti e prevalse sempre più decisamente la “descrizione” e il ‘ritratto’ (anche se alla base
della maggior parte dei brani rimanevano, occulte, forme di danza stilizzate). In ciò si può
vedere il chiaro riflesso delle teorie estetiche di Nicolas Boileau e di Jean Baptiste Dubos,
che nel quadro di una concezione dell’arte come imitazione della natura, portavano a
considerare la musica strumentale come “pittura sonora”, imitazione degli stati d’animo, ma
anche dei fenomeni naturali e finanche capace di “ritrarre” caratteri e personaggi.
In
Couperin – che si rivolgeva dichiaratamente ad un pubblico dal «gusto squisito» - i titoli
straordinariamente vari, hanno fondamentalmente connotazioni descrittive, riferendosi a
persone,
caratteri,
sentimenti,
paesaggistici, elementi burleschi.
amour
animali,
argomenti
allegorici
e
mitologici,
soggetti
Se in alcuni brani come Les ondes, Le Rossignol en
troviamo la rappresentazione onomatopeica e naturalistica, in altri pezzi Couperin
portava a livelli di estrema raffinatezza l'arte del ritratto psicologico e della descrizione per
cenni e per allusioni, già presente nella musica liutistica precedente. La predisposizione al
ritratto interiore, all'osservazione psicologica dei moti più intimi aveva già attratto
l'attenzione di alcuni raffinati scrittori francesi come La Bruyère negli gli ultimi anni del
regno di Luigi XIV che avevano trasformato la “grandeur” in ripiegamento melanconico
sotto l'influenza della favorita del re, l'austera Madame de Maintenon
Quella di Couperin è un’arte sottile e raffinatissima, di impatto non immediato; un’arte
che tocca regioni nascoste, cerca di cogliere il pensiero interiore, aspira non tanto alla
descrizione quanto all'evocazione. Quest’'interpretazione è suggerita dallo stesso
Couperin quando dichiara nella prefazione che «i titoli rispondono ad idee che ho avuto;
mi si dispenserà dal renderle esplicite». Molti brani sono considerati delle specie di
ritratti psicologici e moltissimi titoli sono semplicemente caratteri o stati d'animo: è il caso
della Superbe ou La Forqueray. Si tratta in realtà di un’Allemande posta in apertura
del diciassettesimo Ordre, costruita secondo la tipica struttura tonale bipartita, AABB,
dove la prima parte segue un percorso dalla tonica do minore alla dominante SOL , e la
seconda parte segue un percorso inverso. Il titolo si riferisce ad un carattere (la superbia)
ma anche ad un personaggio noto nell’ambiente musicale parigino, Jean-Baptiste
Forqueray, celebre violista da gamba, noto appunto per il suo carattere superbo, e
“ritratto” attraverso un tratto caratteristico: la tessitura bassa, che rimanda appunto alla
viola da gamba, con una linea del basso grave, pesante che ha il suo terreno d’azione
nella zona più estrema del clavicembalo, e nei profili melodico-armonici tormentati, ricchi
di abbellimenti, che conferiscono profondità alle due linee.
34
SCHEDA 8
Händel e l’opera seria nel primo Settecento
La cosiddetta “opera seria” era nei primi decenni del Settcento il genere di spettacolo
largamente preferito dall’aristocrazia e dalla borghesia cittadina di gran parte d’Europa. Le
vicende che vi si raccontavano riguardavano per lo piu protagonisti eroici e altolocati,
dell’antichità; re, regine, cortigiani, condottieri, usurpatori, spesso personaggi storici, a volte
mitologici, a volte anche biblici; amori infelici, tradimenti, riconoscimenti, travestimenti,
vittorie, e sconfitte ne costituivano il nucleo essenziale. La grande varietà di situazioni non
deve tuttavia trarre in inganno sulla effettiva varietà dello spettacolo. Infatti gli intrecci erano
nella sostanza standardizzati: l'amore rappresentava la forza motrice di tutti gli eventi e il
dovere morale - soprattutto raffigurato negli obblighi regali del buono e giusto governo dello
stato - era una forza altrettanto importante ma spesso incompatibile con il legame amoroso;
il lieto fine, in cui gli intrecci venivano risolti con buona pace di tutti, era d'obbligo e doveva
includere anche un insegnamento morale, un esempio di virtù che conferisse allo spettacolo
una dignità etica e politica.
Nei teatri impresariali i costi erano molto spesso più alti degli incassi, per cui gli impresari
s'ingegnavano come potevano per cercare di coprire i frequenti deficit; non si
accontentavano di organizzare feste, balli, lotterie o altri giochi d'azzardo, ma cercavano
d'indurre o di costringere gli stessi autori a collaborare alla riduzione dei costi, a volte
lesinando sulle loro paghe. Il peso finanziario maggiore era costituito, infatti, dai cantanti che
erano ormai diventati la maggior attrazione per il pubblico medio; perciò i direttori di teatro
premevano su musicisti e librettisti affinché diminuissero il numero dei personaggi, che dopo
il 1720-30 si fissò attorno ai sei-sette. La voce di soprano era la preferita e le parti da affidare
a soprani erano perciò in genere più numerose che quelle di contralto o di tenore o di basso.
Ciò aveva favorito l'abitudine a far interpretare anche le parti maschili da soprani o contralti e
soprattutto dai castrati, che continuarono ad essere per tutto il Settecento i prediletti dal
pubblico, nonostante le numerose voci che si levarono nella seconda metà dal secolo, contro
questa barbara usanza. L'esistenza di bambini evirati prima della pubertà per sfruttare le loro
particolari doti vocali e per conservarne il timbro dolce a acuto risale ancora al Cinquecento
quando venivano usati in particolare nella Cappella papale. Tuttavia fu solo nel Settecento
che il fenomeno dei castrati assunse un'importanza determinante nell'opera: essi divennero
spesso grandi divi ammiratissimi dal pubblico. Alcuni di essi assursero a fama internazionale
come Carlo Broschi detto Farinelli, il più celebre; ma l'elenco anche solo dei più rinomati
sarebbe assai lungo: Bernacchi, Carestini, Caffarelli, Gizziello, Guadagni e molti altri si
disputarono la celebrità puntando chi al più spericolato virtuosismo, chi al sentimentalismo e
comunque offrendo un contributo fondamentale alla creazione di quel particolare fenomeno
35
che fu il belcantismo, uno stile di canto che privilegiava sopra ogni altra cosa il virtuosismo,
inteso non solo nella capacità di cantare figurazioni rapide, di aggiungere diminuzioni e
ornamenti alle linee vocali, ma anche nella qualità di emissione vocale che mirava ad
ottenere suoni morbidi, omogenei nel passaggio dalle zone gravi alle acute.
Tanto il dramma per musica quanto la commedia in musica basavano lo svolgimento della
vicenda sul medesimo meccanismo: l’alternanza ormai regolare di recitativi e arie. Queste
due forme rappresentano le polarità dominanti della drammaturgia del melodramma
settecentesco: nel recitativo ci sono i dialoghi che conducono avanti l'azione e assumono la
funzione di fornire le necessarie informazioni all'uditorio; ad esso si alternano stasi
dell'azione, le arie, dove il cantante può fare sfoggio del suo virtuosismo. Questa distinzione
fra azione in dialogo, momento “dinamico” dove la vicenda procede, e riflessione o
espressione di stati d’animo, “momento statico” in cui il cantante ha spazio per il
virtuosismo, si riflette nell'organizzazione verbale e nella struttura dei versi dei libretti. Le
parti d'azione sono in recitativo, più breve di quello del primo Seicento, organizzato sempre
in versi sciolti, non rimati, con alternanza di settenari ed endecasillabi: qui i personaggi, soli
o in gruppo, descrivono e ragionano di ciò che accade o è accaduto. Due sono i tipi di
recitativo, quello secco e quello accompagnato: nel primo caso la recitazione è piu rapida,
sostenuta appena da pochi accordi del clavicembalo; nel secondo piu estesa o ariosa e
quindi alla voce si uniscono più strumenti.
Terminato il dialogo, un personaggio si separa dal gruppo, portandosi nella zona del
proscenio ( parte anteriore del palcoscenico); qui egli interpreta, riflette, analizza in termini
puramente musicali tutto ciò che concerne la situazione: può esserci un momento di
confusione, che genera spesso le cosiddette "arie di paragone", può esserci il momento
della gelosia ("aria di gelosia"), o la disperazione per l'abbandono in carcere ("aria con
catene") o l’ira rabbiosa (“aria di furore”), e tanti altri “affetti”. L ' aria non è però
l’individuale, precisa
espressione di un sentimento del personaggio; al contrario
essa offre una raffigurazione astratta, generale e impersonale, che il cantante
rappresenta musicalmente, ma non vive con immedesimazione.
La struttura poetica archetipica dell'aria prevede due strofe, per lo più di quattro
versi (non mancano però sestine ed altre eccezioni); i metri più frequenti sono il
settenario e l ' ottonario, meno frequenti, seppur non rari, il quinario e il senario, più
raro il decasillabo, rarissimo il novenario. Un melodramma del primo Settecento
poteva prevedere anche più di cinquanta arie, che venivano distribuite ai
personaggi in funzione della loro importanza ma spesso anche in funzione della
fama del cantante ( e non di rado i compositori erano costretti ad aggiungere delle
arie per le richieste dei cantanti desiderosi di maggiore “visibilità”): la vicenda in
effetti doveva soprattutto permettere al musicista di inserire un certo numero di arie nei
36
punti strategicamente piu adatti, e queste venivano appunto distribuite fra i vari interpreti a
seconda della loro importanza e fra i vari tipi di emozioni o sentimenti che esse dovevano
raffigurare.
All’inizio del Settecento i librettisti erano attenti a conciliare le arie con le entrate e le uscite
dei personaggi. Il loro movimento, che nel secolo precedente era alquanto casuale, doveva
essere regolato dalla cosiddetta liaison des scènes, derivata dalle convenzioni del teatro
classico francese di Racine e Molière: la successione degli episodi era organizzata in modo
tale che scene consecutive (ricordiamo che il cambiamento di scena, intesa come unità
minima della sequenza teatrale, era determinato appunto dall’entrata o dall’uscita di uno e
più personaggi)
avessero sempre almeno un
interrompeva solo con la mutazione di scena,
personaggio in comune. La liaison
si
ossia con il cmabiamento del quadro
scenico che avveniva a vista, senza che calasse il sipario. Ben presto la collocazione
dell'aria fu spostata alla fine dell'episodio narrato, cioè dopo i dialoghi in stile recitativo, per
far sì che il cantante, ricevuta la sua dose d'applausi, uscisse di scena e permettesse il
cambio dei personaggi presenti.
Intorno al 1730 la grande maggioranza delle arie operistiche italiane erano ormai arie col
da capo, secondo una forma che godeva di grande favore sia presso i cantanti sia presso il
pubblico. La loro struttura era abbastanza semplice ma non perciò meno efficace: le prime
due parti si adattavano a due strofe poetiche, ben distinte musicalmente da una
modulazione ( dominante e o relativa maggiore/minore); dopo la seconda parte veniva
ripetuta la prima (era appunto questo il da capo) e qui il cantante si esibiva con
infiorettature, improvvisazioni, colorature e cadenze virtuosistiche che variavano il brano; dal
da capo dipendeva in buona parte il successo dell'aria perche in essa il cantante aveva
pieno agio di mostrare la sua bravura, il suo estro e la sua abilità.
Il pubblico settecentesco ammirava soprattutto il cantante e le sue doti vocali e non
ricercava la capacità di realizzare scenicamente un personaggio e questo portò ad un
enorme sviluppo del virtuosismo vocale. Per la sua struttura il melodramma settecentesco
era dunque una sorta di meccanismo narrativo astratto in cui la consistenza dell'intreccio e
del dramma veniva sostanzialmente sacrificata al fascino irresistibile della musica, e le voci
dei castrati giocavano probabilmente un ruolo primario in questa fascinazione: esse ci
vengono descritte da cronisti dell'epoca come dolcissime, penetranti, flessibili, agili ma
certamente non corrispondevano al timbro naturale della voce umana e dunque erano forse
capaci di quel particolare senso di straniamento e di irrealtà che la struttura stessa dello
spettacolo a sua volta favoriva.
Traccia 15 a-b
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Georg Friedrich Händel
Giulio Cesare in Egitto (1724)
(Libretto: Nicola Francesco Haym )
I atto, Scena III
Dopo aver battuto Pompeo a Farsalo, in Grecia, Cesare lo insegue in Egitto. Qui viene accolto da una folla
esultante. Cornelia, la moglie di Pompeo, e suo figlio Sesto vengono ad implorare la sua clemenza. Cesare si
appresta a perdonare il suo nemico quando giunge Achilla, generale di Tolomeo, che gli fa portare la testa
decapitata di Pompeo.
( Recitativo)
ACHILLA
La reggia Tolomeo t’offre in albergo
Eccelso eroe, per tuo riposo, e in
dono
Quanto può dare un tributario trono
CESARE
Ciò che di Tolomeo
Offre l’alma regal, Cesare aggrada
ACHILLA
Acciò l’Italia ad adorarti impari
In pegno d’amistade e di sua fede
Questa del gran Pompeo superba testa
Di base al regal trono offre al tuo piede
( Uno degli Egizi svela il bacile,
sopra il quale sta il capo tronco di
Pompeo)
CESARE
Giulio che miri ?
ACHILLA
(Questa è Cornelia ?
Oh, che beltà, che volto!)
SESTO
Padre! Pompeo!
Mia genitrice! Oh Dio !
CESARE
Per dar urna sublime
Al suo cenere illustre
Serbato sia sì nobil teschio
ACHILLA
Oh dei !
CESARE
E tu involati, parti! Al tuo signore
Di’ che l’opre de’ regi
Sian di bene o di mal,
son sempre esempio
SESTO
Oh Dio che veggio?
SESTO
Che non è re, chi è re fellon, chi è un
empio
CORNELIA
Ahi lassa ! Consorte! Mio tesoro!
ACHILLA
Cesare, frena l’ire…
CURIO
Grand’ardir!
CESARE
Vanne! Verrò alla reggia
pria che oggi il sole a tramontar si
veggia
CORNELIA
Tolomeo barbaro traditor!
Io manco, io moro
( Sviene)
CESARE
Curio, su, porgi aita
A Cornelia che langue
(piange)
CURIO
Che scorgo? Oh stelle !
Il mio bel sole esangue ?
( Aria )
CESARE
Empio dirò, tu sei:
togliti agli occhi miei,
sei tutto crudeltà.
Non è di re quel cor,
che donasi al rigor
che in sen non ha pietà.
Quinta opera destinata alla Royal Academy, Giulio Cesare è emblematica del periodo di
maggior fulgore sulle scene londinesi della produzione di Haendel.
La prima
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rappresentazione al King’s Theatre — che ebbe come protagonisti alcuni autentici divi del
tempo come il soprano Francesca Cuzzoni nei panni di Cleopatra, il Senesino nei panni di
Cesare, il contralto
Anastasia Robinson in quelli di Cornelia — fu accompagnata da
un’accoglienza trionfale che si perpetuò anche negli anni seguenti (riprese si ebbero nel
1725, 1730, 1732). Un simile eclatante successo si spiega anche con la natura del libretto
che Nicola Haym, collaboratore abituale di Haendel, ricavò abilmente riutilizzando un testo
precedente di Giovanni
Francesco Bussani: la storia d’amore fra due tra i più famosi
personaggi della storia antica,
intrecciata agli intrighi di potere che coinvolgono altri
personaggi realmente esistiti come Pompeo e Tolomeo, aveva un’enorme capacità di
attrazione sul pubblico dell’epoca. Händel inoltre riuscì a dare sbalzo eccezionale ai
personaggi principali: Cesare appare ora meditativo, ora combattivo, ora appassionato; la
figura di Cleopatra — che inizialmente vuol servirsi di Cesare contro Tolomeo ma poi se ne
innamora e diventa alla fine regina d’Egitto al suo fianco — viene dipinta attraverso un
grande ventaglio di arie che ne seguono l’evoluzione. Anche le altre figure presenti
nell’opera hanno una fisionomia fortemente caratterizzata.
La scena terza del primo atto illustra bene la distinzione fra il recitativo, momento
“dinamico” dove la vicenda procede, e l’aria, “momento statico” cui invece è affidata l’
espressione degli stati d’animo, conseguenti agli avvenimenti. La prima parte della scena
presenta infatti un recitativo secco, organizzato in versi sciolti, di varia misura ma con
prevalenza di settenari ed endecasillabi: qui i personaggi assistono e in diverso modo
reagiscono ad
un avvenimento sconvolgente come l’esposizione del capo mozzato di
Pompeo, che Tolomeo ha fatto assassinare per ingraziarsi Cesare. Come nel Seicento il
ritmo, l’intensità e le curve lineari della musica sono variabili, irregolari, e seguono
l’espressione della recitazione.
Al termine del dialogo un solo personaggio avanza sulla scena, Cesare, la cui reazione di
rabbia nei confronti di Tolomeo e del suo generale Achilla si esprime in due terzine di
settenari e attraverso una tipica “aria di furore”. La struttura è quella tipica dell’aria col da
capo: la prima strofa è in do minore e presenta una linea vocale molto mossa, che riprende
più volte i versi del testo con uno stile di canto virtuosistico, prevalentemente vocalizzato,
che richiede dal cantante una notevole agilità; nella seconda strofa , sulla stessa impronta
motivica, si realizza una subitanea modulazione alla relativa maggiore Mi bemolle che,
nello sviluppo, termina con una cadenza sull’accordo di Re ( dominante della dominante di
do minore ), un momento di forte tensione armonica, sottolineato dal silenzio dell’orchestra,
dove il compositore lascia il cantante del tutto solo dandogli la libertà di improvvisare
figurazioni e vocalizzi a suo piacere. Dopo questa seconda parte viene ripetuta la prima, e
qui nel “da capo” l’interprete (un soprano che sostituisce l’originario castrato ) segue
l’usanza del tempo di Händel inserendo diminuzioni e ornamenti che variano la linea
vocale.
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SCHEDA 9
La musica nella cultura luterana: Johann Sebastian Bach
Nella cultura luterana la musica aveva un'importanza primaria: Lutero infatti aveva
voluto creare i presupposti perché si sviluppasse un canto religioso comunitario, sentito
come qualcosa di proprio e non di imposto dall’alto. Il gregoriano e il canto polifonico
furono sostituiti da nuovo materiale tratto da varie fonti, per lo più di carattere popolare.
I canti della liturgia, o corali
raccolti dallo stesso Lutero, che poi provvide a scrivere
anche nuovi testi, erano infatti “travestimenti” di canzoni popolari profane, semplici e
facilmente memorizzabili. Nella prefazione alla sua raccolta di canti
Lutero aveva
espresso la sua fiducia nel potere educativo ed intrisecamente religioso del canto:
questa apertura nei confronti della musica determinò l’impulso caratteristico dei paesi
protestanti verso l’educazione musicale e verso la pratica del canto corale fin dalla più
tenera età. Nelle chiese cattoliche la musica era altrettanto presente, ma aveva
funzioni liturgiche e seguiva tradizioni stilistiche diverse, se non altro perché non era
legata al canto dei corali.
La musica tedesca del periodo tardo-barocco al contrario di quella francese, che era
fortemente unitaria, si sviluppa sulla base di modelli diversi: così si parla ad esempio di
uno stile nord-tedesco legato alla conservazione del gusto tradizionale per la
complessità polifonica e all'elaborazione del corale luterano ( rappresentante maggiore
ne era a fine Seicento Dietrich Buxtehude ) e di uno stile delle zone meridionali molto
più sensibile alle innovazioni importate dall'Italia ( rappresentato invece da Johann
Pachelbel ). Forse proprio a causa di queste carenze sul piano dell'autoidentificazione
nazionale i musicisti tedeschi erano assai più aperti di tutti gli altri musicisti europei
alle differenze di scrittura, e assai più capaci di assimilare le novità che venivano
dall'estero. Non a caso negli ultimi decenni del Seicento essi elaborarono la teoria dei
tre stili, quello italiano, quello francese e quello tedesco. Alla diffusione dello stile
italiano contribuirono fin dagli inizi del secolo sia alcuni eminenti compositori tedeschi
che vennero numerosi a studiare in Italia (da Schutz che frequentò Giovanni Gabrieli e
Monteverdi, a Froberger che fu allievo di Frescobaldi, a Muffat che fu alla scuola di
Corelli) sia i musicisti italiani che furono molto apprezzati (e ben pagati) in alcune corti
tedesche. Nella seconda metà del Seicento la fama delle musiche che si eseguivano a
Versailles spinse molti principi tedeschi a mandare i loro musicisti nella capitale
francese a studiare presso Lully. Lo stesso Muffat fu a Parigi dopo essere stato a
Roma.
La peculiare situazione della cultura musicale tedesca costituisce una base
fondamentale per comprendere il senso complessivo dell’opera di Johann Sebastian
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Bach Le capacità di sintesi e di assimilazione che il musicista dimostrò in tutta la sua
carriera, e che non vennero mai meno neppure negli anni della maturità quando la sua
maestria compositiva non aveva certo bisogno di stimoli e suggerimenti, avevano radici
significative nella sua stessa concezione della musica. Si trattava di una concezione
personale che però aveva antecedenti nell'ambiente culturale. Da un lato infatti la
musica, nella tradizione luterana, è dono di Dio e strumento specifico della lode di Dio,
e non solo la musica scritta appositamente per il culto, bensì anche la musica del
mondo, quella non dedicata alle funzioni liturgiche. In secondo luogo la musica non è
una pratica mutevole, obbediente alle trasformazioni imposte dai gusti di ogni epoca,
ma è una dottrina, un’Ars nel senso antico del termine, cioè un sapere immutabile del
quale il musico ha il compito d'impadronirsi. Su questi due pilastri della concezione di
musica che l'epoca gli tramandava, Bach costruì il fondamento della sua esistenza
professionale e più ancora della sua stessa esistenza di uomo. Della sapienza
compositiva facevano parte a buon diritto non solo gli strumenti tecnici (regole come
quella dell'armonia o del contrappunto, principi formali come quelli della fuga o del
concerto e via dicendo) ma anche gli strumenti espressivi codificati dalla « teoria degli
affetti». Copiose tracce di ricorsi al valore simbolico di particolari procedimenti musicali
sono diffuse in tutte le opere di Bach, particolarmente in quelle che mettono in musica
un testo verbale, ma anche in altre, come certi corali per organo, in cui il testo verbale
è solo implicito.
Inseguendo dunque il supremo ideale di una musica concepita come scienza Bach si
allontanava gradualmente dalle tendenze che nella prima metà del secolo XVIII si
venivano diffondendo in tutta Europa. L'eleganza, lo spirito critico, il «buon gusto», la
moda, il piacere del bel canto, che a poco a poco vennero accettati come elementi di
novità e modernità nella società colta dell'epoca, erano valori assai lontani dalle
austere premesse morali di cui la sua musica si sostanziava. Ciò spiega l'isolamento in
cui egli cominciò gradualmente a trovarsi, la fama relativamente scarsa di cui godette
in vita, i giudizi che il suo ex allievo Johann Adolf Scheibe scriveva su di lui negli anni
Trenta accusandolo di ampollosità, di artificiosità, di innaturalezza, e infine l'oblio in cui
le sue opere caddero per più di cinquant'anni.
Traccia 17
Johann Sebastian Bach
Concerto brandeburghese n.4 : III movimento, Presto
Lo stile italiano domina nelle composizioni orchestrali, fra le quali il gruppo più noto di
quel periodo è costituito dai sei Concerti brandeburghesi, così definiti nel secolo
scorso dal musicologo Philip Spitta, perché Bach li dedicò nel 1721 «a sua altezza
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reale Christian Ludwig margravio del Brandeburgo ». In realtà il titolo usato da Bach è
semplicemente Six concerts avec plusieurs instruments. In essi dunque Bach usa la
parola “concerto” e usa i principi del concerto diffusi dai musicisti italiani (articolazione
in tre movimenti secondo la successione veloce-lento-veloce, gioco di soli-tutti,
principio dialogico, scrittura idiomatica per gli strumenti ) ma tratta questi principi con la
grandissima inventiva, in una sorta di illustrazione panoramica delle diverse prassi
barocche del concertare, che vengono sintetizzate in forme nuove e personali. Così in
alcuni casi il gruppo dei soli ( il “concertino” secondo l’uso italiano) è arricchito da una
timbrica fastosamente policroma basata su un uso degli strumenti a fiato di gusto e
consuetudine tedesca (Concerti 1 e 4); in altri casi dal concertino emerge uno
strumento solo a cui sono affidati ampi interventi virtuosistici che rendono dubbia la
distinzione fra concerto grosso e concerto solistico (Concerti 2 e 5); altrove l'orchestra
è divisa in tre o più gruppi contrapposti che richiamano l'antica prassi policorale
(Concerti 3 e 6). In ogni caso le combinazioni e gli intrecci strumentali, così come il
continuo lavoro polifonico, sono assai più ricchi che non nella tradizione del concerto
all'italiana.
Il Quarto dei Sei Concerti Brandeburghesi, , per esempio, prevede un organico che
alla massa del ripieno contrappone un concertino di tre strumenti diversi dalla norma
corelliana: un violino solista e una coppia di flauti dritti. Il modo in cui Bach struttura il
dialogo fra l’orchestra e questo piccolo gruppo — all’interno del quale il violino ha un
ruolo di leader con ampie digressioni indipendenti, mentre ai flauti spetta un compito
più concertante — è sintomatico del suo modo di rielaborare il modello italiano del
concerto, che perde qui la sua caratteristica “semplicità” per assumere una forma ben
più complessa rispetto agli standard dell’epoca.
L’ultimo movimento è particolarmente emblematico giacché invece del consueto
Allegro del modello italiano, abbiamo una struttura di fuga con il soggetto che, all’inizio,
viene intonato progressivamente dalle diverse parti dell’organico: iniziano le viole,
seguite dai violini secondi e primi, poi ancora dal basso e infine dai due flauti. Dalle
cellule di questo breve motivo si sviluppa tutto il brano. In questo si può vedere uno
degli aspetti più avveniristici dell’arte di Bach: la rigorosa coerenza della composizione,
scaturente da un’idea sviluppata in tutte le sue potenzialità, rimarrà il tratto identitario
della tradizione tedesca, destinata con i grandi rappresentanti del classicismo
viennese, a diventare il vero fulcro della musica dell’Ottocento.
Il gioco contrappuntistico, rigoroso e coinvolgente, nel Quarto concerto alterna sezioni
di “tutti” e sezioni solistiche in modo più libero ed elaborato che nei modelli italiani: gli
interventi del ripieno non sono mai dei veri e propri “ritornelli” alla maniera vivaldiana
perché ogni volta il tema viene presentato in modo diverso; d’altro canto le tre parti
solistiche si combinano in modi sempre nuovi: all’inizio i due flauti si rinviano il tema
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mentre il violino si limita ad accompagnarli, ma a metà movimento i due strumenti a
fiato finiscono per cedere il passo ad un libero sfogo del violino solista che, pur
accompagnato dal tema affidato alla sezione del ripieno, si produce in una cadenza
virtuosistica.
Traccia 18
Johann Sebastian Bach
Preludio e fuga n. 2 dal “Clavicembalo ben temperato”, Libro I
Al periodo di Köthen appartengono anche testi che Bach iniziò a comporre per
l'istruzione dei suoi figli e della nuova moglie. Nasce così una serie di opere che
continuerà anche negli anni seguenti, pensate in forma di esempio didattico, e capaci
di manifestare al massimo grado quell'idea «oggettiva» dei sistema delle norme
musicali che era tipica del pensiero di Bach. Per il figlio Wilhelm Friedman nacque un
Clavier-Büchlein (si potrebbe tradurre, “Libretto di musiche per strumento a tastiera”)
iniziato nel 1720 che conteneva una cinquantina di pezzi suoi e altri di altri autori. Lo
scopo non era solo quello di raccogliere pezzi per lo studio del clavicembalo, ma anche
di fornire modelli ed esercizi per la composizione. Ma la raccolta di gran lunga più
ambiziosa e importante è quella intitolata Das Wohltemperierte Clavier, (1722) la cui
traduzione italiana comune è Il clavicembalo ben temperato, dove in realtà il
clavicembalo dovrebbe essere sostituito dal più generico «tastiera»: una sorta di
“trattato” sul temperamento equabile che è anche, contemporaneamente, una
esemplificazione delle possibilità formali dei generi del preludio e della fuga.
Das Wohltemperierte Clavier è una raccolta composta da 24 preludi e fughe ordinati
per tonalità progressive ( n.1 in Do maggiore, n.2 in do minore, n.3 in do diesis
maggiore, n.4 in do diesis minore, n. 5 in Re maggiore , ecc.). L’impianto della raccolta
è dunque concepito come una dimostrazione scientifica della possibilità di comporre in
24 diverse tonalità una volta che la tastiera venga accordata col sistema temperato,
basato sulla divisione dell'ottava in 12 semitoni uguali. La validità del sistema era stata
teoricamente studiata dal fisico Werkmeister nella seconda metà del Seicento ed era
stata poi sperimentata da alcuni musicisti tedeschi dei primi vent'anni del Settecento
con brani composti in tonalità inusitate che si dimostrarono perfettamente accettabili
per 1'orecchio. Ma la raccolta di Bach è la prima che possieda un carattere
compiutamente sistematico. La «scientificità » del suo assunto non si riferisce tuttavia
solo all'accordatura del clavicembalo, bensì anche alla grande varietà di possibilità
formali che l'opera intende esemplificare per la «gioventù musicale ansiosa di
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apprendere». L’esempio del Preludio e Fuga n.2 in do minore giova ad illustrare
solo i tratti più generali che caratterizzano i brani della raccolta.
Il preludio,
sviluppatosi nel corso del Cinquecento,
prima come sinonimo della
toccata, poi come brano introduttivo per strumento solo, viene in effetti utilizzato da
Bach in un ampia gamma di declinazioni: stilizzazioni di danze, arie e ariosi, invenzioni
polifoniche, brani in forma di concerto o di sonata bipartita, o in forma di studi per il
movimento continuo delle dita. Quest’ultimo è appunto il caso del Preludio
qui
registrato, una sorta di “moto perpetuo” che impegna sullo stesso piano entrambe le
mani. La fuga, genere di origine trecentesca, toccò forse il suo apogeo nell’opera di
Bach che ne fece il terreno privilegiato della ricerca contrappuntistica. Si tratta di un
brano strumentale, basato su due brevi idee tematiche dette soggetto e
controsoggetto. All’inizio di una fuga si assiste all’ingresso delle varie voci ( a
seconda dei casi due, tre, quattro ) in successione l’una dopo l’altra e ciascuna di
queste voci presenta il soggetto, al quale si intreccia il controsoggetto che viene
intonato dalla voce che ha esposto il soggetto contemporaneamente all’imitazione di
questo da parte della voce subentrante.
L’esposizione della fuga qui registrata si
presenta schematicamente così
Soprano
Contralto
Tenore
Soggetto
Soggetto
Controsoggetto
Controsoggetto
Soggetto
Questa parte iniziale detta esposizione, viene poi seguita da uno svolgimento, nel
quale si dà spazio ad episodi costruiti sugli elementi costitutivi del soggetto e del
controsoggetto ( divertimenti), e a una riesposizione di questi ultimi in tonalità della
tonica. Anche nella fuga, quindi, la forma del discorso musicale prende vita da cellule
molto piccole, predisposte per combinarsi ed intrecciarsi, secondo le tecniche
contrappuntistiche padroneggiate da Bach come forse nessun altro compositore della
storia.
Traccia 19
Johann Sebastian Bach
“So ist mein Jesus” dalla “Passione secondo Matteo”
All’epoca di Bach, nella Settimana Santa le chiese di Lipsia solevano intonare le
narrazioni della passione di Cristo utilizzando appunto questo genere ai fini di una
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celebrazione ricca e solenne: le autorità ecclesiastiche permisero che nel pomeriggio
del giorno del venerdì santo in una delle principali chiese di Lipsia (a turno in quella di
S. Tommaso e di S. Nicola) venisse perciò eseguita una grande "Passione" di Cristo
con orchestra, solisti e coro in cui il testo evangelico veniva cantato in stile recitativo
ma era ampliato e commentato da altre parti musicali assai ricche. L'inserimento della
Passione nella liturgia del venerdì santo veniva forse vissuto dal popolo di Lipsia come
una sorta di spettacolo commovente, tuttavia il contesto nel quale l'esecuzione era
inserita era rigorosamente rituale.
Le due passioni rimaste fra le cinque che pare che Bach abbia composto, quella
Secondo san Matteo e quella Secondo san Giovanni, mettono in musica direttamente il
testo del vangelo interpolandolo con commenti basati su corali luterani o su arie e cori
con testo libero. Le superstiti passioni bachiane rappresentano, nella loro
monumentalità e nella loro intensa drammaticità, il culmine dell'arte sacra di Bach,
della sua potenza comunicativa; non è certo un caso che sia stato proprio il recupero
mendelssohniano della Passione secondo san Matteo a dare un fondamentale
impulso alla Bach-Renaissance in epoca romantica.
In quest’opera il testo del vangelo viene interpolato con brani di Christian Friedrich
Picander e musicato con una ampio ventaglio di forme che intrecciano le dimensioni
temporali del passato e del presente:
1)
recitativi secchi prevedono la presenza dell'evangelista cui si aggiungono gli
altri personaggi principali del racconto (Gesù, Pietro, ecc.) che del testo
riflettono ogni minima suggestione figurativa;
2)
arie di intenso patetismo che fungono da commento spirituale dei fedeli o di
personaggi del Vangelo;
3)
cori che danno voce alle masse popolari o a personaggi collettivi presenti nel
racconto evangelico;
4)
corali, preghiere dei fedeli basate su melodie luterane modificate e arricchite,
fungono da pilastri portanti dell’edificio.
Gli episodi corali e orchestrali di ampio respiro fanno delle passioni bachiane
grandiosi affreschi sonori di dimensioni michelangiolesche. Rispetto alla Passione
secondo san Giovanni nella Passione secondo Matteo, il carattere spettacolare è
ulteriormente accresciuto dall’impiego di due orchestre e due cori, dal ricorso a
strutture drammatico-musicali fortemente suggestive come per esempio “l’aureola”
data da un sottofondo degli archi che accompagna sempre gli interventi di Gesù
Cristo. Bach compose la Passione secondo Matteo per le celebrazioni del 1727. Il
testo è diviso in due parti: alla fine della prima parte si colloca l'episodio del bacio
di Giuda e della cattura di Cristo. A questa narrazione succede il commento qui
registrato, affidato a due cantanti e al coro.
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(Soprano e contralto):
So ist mein Jesus nun gefangen.
(Soprano e contralto):
Così, Gesù adesso é fatto prigioniero!
(Coro II )
Laßt ihn, haltet, bindet nicht!
( Coro II)
Lasciatelo, fermatevi, non lo legate!
(Soprano e contralto )
Mond und Licht
Ist vor Schmerzen untergangen,
Weil mein Jesus ist gefangen.
( Soprano e contralto)
La luna e il sole
sono tramontati,
perché il mio Gesù é prigioniero.
(Coro II) :
Laßt ihn, haltet, bindet nicht!
( Coro II):
Lasciatelo, fermatevi, non lo legate!
( Soprano e Contralto)
Sie führen ihn, er ist gebunden.
(Soprano e contralto):
Lo portano via, é legato!
(Cori I e II):
Sind Blitze, sind Donner in Wolken
verschwunden?
Eröffne den feurigen Abgrund, o Hölle,
Zertrümmre, verderbe, verschlinge,
zerschelle mit plötzlicher Wut
den falschen Verräter, das mördrische
Blut!
(Cori I e II ):
I fulmini e i tuoni sono forse scomparsi
tra le nubi?
O inferno, apri il tuo infuocato abisso!
Annienta, distruggi, inghiotti, rompi con
improvvisa violenza il falso traditore, il
sangue omicida!
In questo brano la continuità quasi impassibile delle pulsazioni ritmiche contrasta con la
drammaticità degli eventi, come se la loro immensa portata storica e teologica richiedesse una
sorta di oggettività espressiva e non fosse compatibile con gesti troppo umani. Il canto delle
due soliste continua imperterrito anche quando il coro interviene con le sue invocazioni.
L'unico stacco ritmico deciso si ha solo con l'ultimo intervento del coro. Anche questo secondo
episodio è caratterizzato da pulsazioni regolari, ma qui si tratta di un inesorabile ritmo veloce
e martellato, che non dà tregua: è la pronuncia terribile delle maledizioni contro Giuda.
Soprano e contralto iniziano in imitazione: la prima voce annuncia la cattura di Gesù, e la
seconda ribadisce e potenzia il pietoso annuncio. La melodia del soprano (e di rincalzo quella
del contralto) è un esempio caratteristico di quelle "melodie lunghe" che Bach amava,
intendendosi per "lunga" una melodia che resta in sospensione per molte unità di tempo e non
conclude se non dopo un percorso la cui fine viene lungamente attesa. In questo caso la
sospensione è legata al melisma sulla parola "gefangen" (preso).
Il verso successivo, invece, è cantato in omoritmia dalle due voci che scandiscono il
momento del dolore ("ist vor Schmerzen") scendendo passo passo, con una "figura" musicale
chiamata "appoggiatura"(le due note discendenti su ognuna delle quattro sillabe) che per la
retorica degli affetti dell'epoca simboleggiavano appunto il pianto o il dolore.
In tutto l'episodio i suoni sono organizzati in tre strati sovrapposti che si mescolano
continuamente: quello dei due flauti (che inizialmente anticipano il tema delle due voci), quello
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dei due strumenti ad arco (violino e viola) e quello delle due voci. Il loro continuo e impassibile
intreccio è interrotto tre volte dalla violenta invocazione del coro.
Nell'episodio successivo gli interventi in imitazione delle quattro voci tendono a creare
progressivamente un magma sonoro sempre più fitto nel momento in cui vengono invocati i
fulmini e i tuoni. Successivamente, fino alla fine , tutte le voci pronunciano le parole insieme,
in omoritmia, per scandire con il massimo di rabbia la maledizione a Giuda.
Tanto la parte delle due voci soliste è pietosa e tenera, quanto quella del coro è tremendamente aggressiva. La dolcezza del brano solistico è dovuta anche alla leggerezza
dell'insieme che, come si può facilmente notare, è tutta nel registro alto perché, cosa del tutto
inconsueta, non è accompagnato dal basso continuo (probabilmente per rendere più aereo il
suono delle due voci femminili). Il basso invece accompagna l'ultima parte del coro con note
oscure e velocissime che contribuiscono a creare la sua atmosfera furiosa. ( Baroni, 2004 )
Pur non avendo mai scritto musica teatrale, dunque Bach, riusciva pienamente a recuperare
fino in fondo il senso originario del binomio musica-parola, producendo risultati emozionanti e
coinvolgenti, di qualità musicale altissima, sulla base della retorica degli affetti, che proprio in
Germania era stata sistematizzata da teorici come Kirchner e Mattheson.
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SCHEDA 10
Lo stile classico e la forma-sonata
Stile galante e stile sentimentale sono però solo due volti, i più evidenti, di una realtà musicale in
trasformazione sotto molti profili,
in cui a poco a poco emergono quelle tendenze che la
musicologia otto-novecentesca avrebbe definito poi come “stile classico”. Tendenze che
cominciano a fondersi e a emergere in alcune composizioni di Haydn degli anni sessanta e poi a
diffondersi su vasta scala alla fine del decennio seguente sull’onda del successo dello stesso
Haydn e del più giovane Mozart. Haydn, Mozart e poi Beethoven sarebbero stati presto individuati
come i campioni di quello che si sarebbe definito classicismo viennese, perché tutti e tre, pur non
essendo viennesi di nascita, avevano eletto la capitale austriaca come loro sede. In effetti per una
settantina d'anni, cioè dal periodo della prima maturità di Haydn e della nascita di Mozart fino a
quello della morte di Beethoven a di Schubert (rispettivamente 1827 e 1828) Vienna fu uno dei
centri europei più fecondi di attività e di iniziative, più ricchi di straordinari talenti creativi. Il
riformismo dell’imperatore Giuseppe II (1765-1790), la vita concertistica ricca e la fiorente editoria
musicale, le grandi tradizioni già in atto fin dal Seicento, la solidità della sua scuola, la favorevole
posizione di punto di mediazione fra la civiltà musicale italiana e quella tedesca, la presenza di
personaggi prestigiosi come Pietro Metastasio, la vivacità del suo mondo intellettuale costituiscono
il retroterra privilegiato di questa fioritura di talenti.
Il processo di acquisizione di Haydn, Mozart e Beethoven come essenza stessa del Classicismo
musicale fu naturalmente postumo; tale acquisizione
dovuta alla storiografia ottocentesca si
riferisce – assai più che alle specifiche tendenze letterarie e pittoriche del Neoclassicismo
settecentesco — alla natura stessa dell'idea di classicità, ossia a un concetto che migra lungo la
storia dell'arte e della cultura e che sta al di sopra di ogni circoscrizione stilistica o cronologica. In
questo senso, “Classicismo musicale” ha assunto, per così dire, il significato di grembo, di
momento d'origine della modernità musicale, assumendo contorni più precisi man mano ci si è
distanziati da esso. Il traslato — insieme metonimia e sineddoche — per cui «musica classica» è
diventata, nel linguaggio corrente, l'espressione usata per indicare l'insieme della tradizione colta
della musica occidentale, è la migliore testimonianza del carattere paradigmatico assunto da
questa breve e fondamentale epoca della storia musicale europea.
Lo “stile classico” ha le sue fondamenta in uno stabilizzarsi di procedure e formule ereditate dalla
musica del passato che, giunte a maturazione, vengono esplorate nelle loro molteplici implicazioni
poetiche ed espressive. Stilisticamente e storicamente si tratta di un momento di grande permeabilità, dove lo sguardo aperto sul passato si connette nei maggiori compositori a una naturale
disponibilità verso il futuro. E, insomma, un punto di equilibrio nella storia musicale dell'Europa
moderna — un equilibrio instabile, tanto più miracoloso in quanto posto in concomitanza con una
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profonda trasformazione del mondo e del pensiero. Circostanza, questa, che si aggiunge alle altre
già ricordate, nel motivare l'attribuzione del titolo di «epoca del Classicismo», il più ambito per
qualunque età della storia delle arti, a questo momento della storia musicale.
Accanto alle questioni di ordine culturale, l'età musicale classica presenta una trasformazione di
segno più profondo, che avviene al livello più interno del linguaggio e dell'organizzazione
compositiva, in stretta connessione col ridisegnarsi della mappa dei generi e degli stili musicali.
Le linee portanti di tale trasformazione possono riassumersi in alcuni punti:
1) Innalzamento gerarchico della musica strumentale, portata ad una dignità artistica pari o
superiore rispetto a quella vocale
2) Abbandono della prassi del basso continuo
3) Ridefinizione e stabilizzazione dei generi strumentali
4) Elaborazione del principio architettonico della “forma-sonata”
Per quanto riguarda il primo punto, occorre dire che con Haydn, Mozart e soprattutto, Beethoven il
linguaggio musicale trova motivazioni e significati in se stesso, svincolandosi da ogni residuo legame
con la parola. Questo processo viene realizzandosi senza alcuna formulazione teorica, è frutto
esclusivo del lavoro compositivo; non riceve insomma nessun contributo esterno dalla cultura
letteraria o filosofica come avviene invece per il melodramma.
La maggior dignità assunta dalla composizione strumentale porta con sé anche il superamento e l’
abbandono della prassi del basso continuo. La tendenza inarrestabile alla definizione di testi
musicali sempre più compiuti in se stessi e sempre meno lasciati all’integrazione creativa
dell’esecutore, conduce a scrivere per esteso tutte le parti, anche quelle del basso ( solo del teatro
musicale la pratica del basso continuo sopravviverà fino al primo decennio dell’Ottocento ).
Il
concetto di “testo” musicale, cioè di discorso compiuto, coerente, coeso, porterà d’altronde con sé
anche un’idea di unicità, di originalità che porterà ad una più consapevole definizione di opere dotate
di caratteri specifici, più ampie ed elaborate nelle proprie dimensioni.
Ecco dunque definirsi un nomenclatura che rimarrà in vigore per quasi due secoli con generi
delimitanti aree ben perimetrate dell’arte musicale:
1) la Sinfonia, composizione in più movimenti per un’orchestra abbastanza ampia, erede del
Concerto di gruppo e della Sinfonia d’opera scarlattina;
2) il Concerto solistico, composizione con uno strumento protagonista ( di rado anche due )
posto in dialogo con un’orchestra;
3)
il Quartetto per archi, dove due violini, una viola e un violoncello dialogano ad armi pari;
4) il Trio per pianoforte, violino e violoncello, nato dalla metamorfosi della sonata a tre
tardo-barocca;
50
5) la Sonata per uno o due strumenti.
Tutte queste forme strumentali vennero articolandosi stabilmente in tre (sonata e concerto) o
quattro movimenti (sinfonia, quartetto), secondo la successione tipica Allegro-Adagio-Minuetto
(eventuale) – Allegro. Fin dal periodo trascorso a Eisendstadt
Haydn portò ad una sintesi
straordinaria le svariate tendenze della cultura musicale del suo tempo dando fisionomia stabile a
generi nei quali si sarebbe incanalata la produzione cameristica e orchestrale fino ancora alla metà
del Novecento. Quartetti, Sinfonie, Sonate, Trii furono nelle mani di Haydn vennero plasmandosi
sulla base di un criterio architettonico che prevedeva:
•
Primo movimento, (Allegro) come pezzo più complesso e impegnativo: struttura
detta “forma sonata” , di solito bitematica ( cioè con due temi o gruppi tematici) e
tripartita;
•
Secondo movimento, lento ( Adagio/ Andante) : in genere basato sulla struttura
dell’aria ( ABA) ancorato alla forza trainante di uno o due motivi cantabili ed
espressivi, eventualmente ripetuti con variazioni;
•
Terzo ( eventuale) movimento: Minuetto ( da Beethoven in poi “Scherzo”): forma di
danza, in tempo ternario a forma ABA , dove la sezione B è detta “Trio”, e può
avere un andamento meno mosso
•
Quarto movimento, (Allegro): o in forma-sonata o, più spesso, in forma di Rondò,
(ABACADA ecc.), forma già incontrata in Couperin, che riprendeva la forma “a
ritornello” dei concerti vivaldiani.
Questa successione rispondeva ad un preciso obiettivo comunicativo ponendo il brano di maggior
impegno fruitivo all’inizio e via via stemperando la complessità nel corso degli altri due o tre
movimenti.
Il tardo Settecento dunque rappresentò in questo senso il traguardo di un secolare processo di
definizione e trasformazione delle forme strumentali, progressivamente precisate nella
destinazione strumentale e nella loro nomenclatura, come si può vedere nello schema della pagina
seguente.
51
Evoluzione delle principali forme di musica strumentale dal XVI al XVIII secolo
1500
1550
1650
Toccata
Preludio
Ricercare
Fuga
1700
1750
1800
(Madrigale polifonico)
( Chanson polifonica )
Sonata per clavicembalo
Sonata solistica
Canzone da sonar
Sonata per pianoforte
Sonata per due strumenti
Sonata a tre
Trio / Quartetto / Quintetto
Concerto grosso Concerto solistico
Concerto (pianoforte e orchestra)
Concerto di gruppo
Sinfonia
Sinfonia d’Opera
Danze
Coppie di danze
Suite
Divertimento
Serenata
1
Il temporaneo assestamento di stilemi che caratterizza la fine del Settecento discende dall'ormai
universale adozione dei principi teorici dell'armonia tonale sviluppatisi nel corso del secolo.
L'effetto forse più consistente di questa relativa solidità di impianto, sta nella scoperta e nella
messa in atto delle enormi potenzialità espressive e costruttive racchiuse in un meccanismo
armonico basilare quale il bipolarismo fra tonica e dominante, ossia il rapporto particolarmente forte
e privilegiato fra il I e il V grado della scala tonale. Grazie agli sviluppi dell'armonia, questa polarità si
rivela essere un vero e proprio generatore di tensione armonica di cui l'arte del comporre è ora
pienamente padrona, sfruttandola e valorizzandola con tecniche sempre più raffinate. Questo asse
preferenziale non è certo una novità, esso infatti rappresenta l'evoluzione dell'antica simmetria
bipartita propria della suite e della sonata da camera. Una formula che, mutuando un andamento a
volte già rintracciabile nelle danze rinascimentali, presentava non di rado, anche nell'ambito di
un'armonia modale, una prima sezione svolgentesi dal I al V grado e una seconda sezione con
percorso inverso, dal V al I grado. La crescente ricchezza delle risorse armoniche e l’ampliamento
dei percorsi modulanti reso possibile dall'adozione del sistema temperato, condussero nel corso
del Settecento all’aumento della complessità di questa sintassi costruttiva che, proprio grazie alla
potenziata capacità di accumulare e generare tensione divenne comune alla quasi totalità dei
generi dell'epoca. In particolare, il trattamento del rapporto tonica-dominante rappresenta la
struttura portante dello stilema musicale forse più significativo di quel periodo: la «forma sonata».
Più che uno specifico modello formale, la «forma sonata» rappresentò un codice non scritto ma
largamente diffuso di organizzazione sintattica. Il suo successo si fondava su una sostanza
armonica e strutturale particolarmente ricca e plasmabile e quindi idonea a quell'allargamento del
ventaglio espressivo verso cui il gusto del tempo mirava concordemente.
La valorizzazione del contrasto fra le due aree tonali principali ebbe il suo strumento essenziale in
quello che fu forse il vero protagonista dello stile classico: il tema. L'individuazione e l'elaborazione
sempre più accurata e articolata di temi musicali dal profilo netto e inconfondibile, la loro
accresciuta caratura emotiva e psicologica, tale da farli assimilare quasi ai personaggi di un
dramma puramente strumentale, conferì alla tecnica di sviluppo e di elaborazione tematica un
rilievo inedito sia sotto il profilo costruttivo, sia nel senso di un potenziamento espressivo. La metamorfosi, la liricizzazione o la drammatizzazione della sostanza tematica furono gli strumenti coi
quali il tragitto armonico di avvicinamento e di allontanamento dalle tonalità della tonica e della
dominante divenne una sorta di avventura pensata quasi in termini di metafora teatrale o letteraria.
Il contrasto, la tensione fra le due tonalità principali poteva identificarsi, come spesso accadde, in
altrettanti temi dal carattere ben differenziato. Altre volte, invece, la presenza delle idee tematiche
poteva rispondere a criteri diversi, condurre a un maggiore o minore affollamento di temi, oppure
conservarsi fedele a un'idea unitaria (caratteristica che fu molto ammirata in Haydn). Di norma –
nonostante l'«allegro di sonata» continuasse a presentarsi per lo più in una veste formale bipartita,
52
la vocazione espressiva di questa materia armonico-tematica prese a focalizzarsi sull'esordio
modulante della seconda sezione, aumentandone il peso e dilatandolo fino a fargli assumere la
fisionomia di un episodio centrale - lo «sviluppo» - racchiuso fra due episodi simmetrici posti in
apertura - «esposizione» - e in conclusione - «ripresa».
Nei primi decenni dell'Ottocento – quando l'elaborazione tematica si presentava ormai come il
fulcro della nuova tecnica compositiva – si cominciò a interpretare questa struttura bipartita, al cui
interno era cresciuto un nuova sezione, in termini di architettura tripartita. La definizione più tipica
della Forma-sonata, tramandata dai trattati scolastici si configurò in questo modo:
SCHEMA BASE DELLA FORMA-SONATA
INTRODUZIONE ( eventuale)
ESPOSIZIONE
Primo Tema o gruppo tematico
Secondo tema o gruppo tematico
SVILUPPO
Elaborazione di materiale dell’Esposizione
RIPRESA
Primo Tema o gruppo tematico
Secondo tema o gruppo tematico
Tonalità della Tonica
Tonalità della Dominante
Tonalità diverse
Tonalità della Tonica
Tonalità della Tonica
CODA
Ripetizione o elaborazione dei due temi
Tonalità della Tonica
53
SCHEDA 11
Haydn e la Sinfonia classica
Il genere della sinfonia ebbe i suoi prodromi nella pratica di eseguire brani strumentali all’inizio dei
melodrammi. Tali brani – denominati stabilmente già da Alessandro Scarlatti «Sinfonie» - avevano
erano composti di tre tempi ( veloce – lento – veloce ). A inizio Settecento in Italia la sinfonia
cominciò a diffondersi anche come genere autonomo, di musica strumentale “da camera”. Verso la
metà del Settecento in Germania – soprattutto a Mannheim e a Berlino – il genere della sinfonia
assunse nuovo spessore, spesso contemplando oltre ai tre movimenti del modello italiano un
quarto brano in forma di minuetto collocato in terza posizione.
Le 104 sinfonie haydiniane contribuirono in modo decisivo, nella loro evoluzione, alla
determinazione della struttura del genere ma anche alla definizione dell’orchestra moderna. Nella
reggia di Eisendstad, Haydn faceva eseguire i suoi lavori in una sala di circa 150 mq, con un’
orchestra di circa venti elementi. A Londra, con una sala più grande, l’orchestra per la quale
furono concepite le ultimi dodici sinfonie contemplava dai 35 ai 60 membri. L’aumento del numero
dei componenti si accompagnò ad una trasformazione della struttura dell’orchestra che condusse
alla determinazione di un corpo formato da venti-venticinque strumenti ad arco (violini, viole,
violoncelli, contrabbassi ) più i legni, talvolta disposti a coppie ( flauti, oboi, clarinetti, fagotti),
ottoni ( corni, trombe, tromboni) e percussioni (timpani).
In precedenza ( ed ancora nelle prime sinfonie scritte ad Eisendstadt ) ai fiati era
di solito
assegnata la funzione di “raddoppio” degli archi, nell sue opere più mature invece agli strumenti a
fiato Haydn, seguito e poi superato in questo aspetto da Mozart, richiede una partecipazione
costante al discorso con parti melodiche sempre più importanti.
Parallelamente all’allargamento dell’organico, l’evoluzione del pensiero di Haydn nel campo della
Sinfonia muove da un’impostazione iniziale ancora ibrida, con elementi del concerto derivati dai
modelli vivaldiani ( parti solistiche ancora rilevate, passaggi in progressione ), per giungere alla
fisionomia già ben precisata delle Sinfonie degli anni Settanta, nelle quali non ricorrono più passi
solistici e la sintassi della forma-sonata appare ben individuata. Anche le proporzioni vennero
facendosi progressivamente più ampie, di fronte ad un pubblico che dalla dimensione elitaria ed
aristocratica si stava cominciando a spostare verso la dimensione borghese rappresentata dalle
associazioni concertistiche parigine e londinesi.
54
Traccia 20
Franz Joseph Haydn
Sinfonia n.101 in re maggiore “The Clock” (1794): I movimento
Il modo in cui Haydn utilizza il principio costruttivo della “forma-sonata” trova un esempio evidente
nel movimento di apertura della Sinfonia n.101 “The clock” la cui struttura è così schematizzabile
( i numeri tra parentesi quadre fanno riferimento al cd ) :
Adagio - Introduzione (prefigurazione dei temi A e B )
[00]
Presto - Esposizione: primo gruppo tematico (A) - tonalità della tonica (RE magg)
[2’17]
Esposizione: secondo gruppo tematico (B) – tonalità della dominante (LA magg)
[3’03]
Ripetizione integrale dall’Esposizione
[3’42]
Sviluppo : elementi tematici di A e B – tonalità della dominante (LA magg)
[5’04]
55
Ripresa: primo gruppo tematico (A) con variazioni – ritorno a tonalità della tonica (RE magg.) [6’25]
Ripresa: secondo gruppo tematico (B) con variazioni – tonalità della tonica (RE magg.)
[6’51]
Coda: ultima ricomparsa del tema A
L’introduzione in minore crea un’atmosfera di tensione, preannunciando un primo tempo basato su
idee eroiche: è in realtà un effetto di suspence tipico di Haydn che si diverte a sorprendere
l’ascoltatore con un tradimento della sua attesa . Con un improvviso cambiamento di rotta compare
invece una frase saltellante, gaia e vivace che dà inizio ad un movimento estremamente coerente
ed equilibrato organizzato secondo il principio della forma-sonata, le cui tre sezioni, esposizione,
sviluppo, ripresa hanno qui quasi esattamente la stessa estensione.
Attraverso questo tipo di organizzazione del materiale, la composizione assume un'entità globale
in cui elementi melodici, ritmici, armonici, di timbro, di tessitura, d'intensità, di peso sonoro
convivono insieme fino a creare un'unità individuale, una sorta di «personalità» sonora che si
impone per le sue caratteristiche inconfondibili; ciò avviene anche grazie alla cosiddetta
elaborazione motivico-tematica, cioè il lavoro attraverso cui un tema viene elaborato,
trasformato, sviscerato nelle sue possibili implicite conseguenze. E’ questa una tecnica di cui
Haydn si dimostra maestro e che è evidente in questa Sinfonia presa in esame; tutto il materiale
del movimento è presente infatti in embrione nelle battute iniziali dove gli archi espongono una
semplicissima successione scalare ascendente seguita da un movimento discendente che si
avvolge su sé stesso; si tratta in sostanza dei nuclei dei due temi principali A) e B ) che nella prima
parte vengono “presentati” in quella che si definisce esposizione e che ( come di norma ) dalla
tonica procede verso la dominante La tecnica eleborativa si evidenzia in pieno nella parte centrale
della composizione che prende il nome di sviluppo. Qui i due temi principali vengono rielaborati,
intrecciati, fino ad apparire chiaramente come due rami di un unico tronco su uno sfondo armonico
caratterizzato da modulazioni e da una direzione che conduce sull’accordo di dominante: è il
momento traumatico delle incertezze, delle tensioni, della perdita di stabilità, che viene superato
nella sezione seguente in cui i gruppi tematici ricompaiono nella loro forma originaria, entrambi
nella tonalità della tonica: si tratta della ripresa che acquista funzioni di stabilità raggiunta e di
approdo conclusivo.
56
SCHEDA 12
Il musicista del mondo nuovo: Beethoven
Beethoven è il compositore che segna il passaggio da un’era all’altra nella storia della musica. E’ il
primo grande musicista che ha alle spalle la Rivoluzione francese di cui condivide gli ideali di
fratellanza, libertà e giustizia; è il primo grande musicista del tutto libero da vincoli feudali, al quale
riesce ciò che non era riuscito a Mozart: vivere della propria arte; è il primo grande musicistaintellettuale che ha una solida cultura classica ma che conosce bene anche Kant, Goethe,
Rousseau, Schiller; è il primo musicista-vate, per il quale la musica, considerata in cima a tutte le
attività umane, deve indicare agli uomini un ideale di felicità da raggiungere.
«A prima vista, il carattere di Beethoven ha molti tratti da Sturm und Drang, con abissi di
depressione, intemperanza emotiva, stravaganze, sbalzi di umore ( Goethe affermò : «Egli è
purtroppo una personalità assolutamente sfrenata»). Si ritrovano in lui di volta in volta molte
costanti della sua generazione: l'attrazione-repulsione per Napoleone Bonaparte (come Kleist,
Grillparzer, Hegel), la smania dell'eguaglianza giuridica con l'aristocrazia, l'amore intellettuale
per l'Inghilterra, patria della democrazia e della libertà (in confronto all'Austria di Metternich), la
passione per il mondo classico, la fiducia nel miglioramento dell'umanità». (Pestelli 1979 ).
Nell’insieme l’opera di Beethoven presenta un aspetto generale meno consistente di quella di
Mozart e Haydn con tre grandi blocchi di lavori: 32 Sonate per pianoforte, 9 Sinfonie e 16 Quartetti
per archi. La drastica riduzione delle opere trova una spiegazione nella condizione sociale del
musicista: svincolata dall’occasione immediata e dal “servizio” per un mecenate, ogni creazione
nasce da una sua propria motivazione. Netta vi è la preminenza dello strumentale sul vocale con un
solo lavoro teatrale, Fidelio. Il processo creativo del musicista può dividersi in tre periodi, seguendo
una ripartizione avanzata già dalla storiografia ottocentesca ( von Lenz, 1852):
1) primo periodo (fino al 1803) che comprende le opere giovanili ancora parzialmente legate ai
modelli settecenteschi sui quali Beethoven si era formato;
2) secondo periodo (1804-1815 ) che comprende tutte le opere della maturità molte delle quali
destinate a tramandare ai posteri l’immagine di un Beethoven “eroico”;
3) terzo periodo (1815-27) a cui appartengono gli ultimi sei quartetti, le ultime cinque sonate, la
Nona sinfonia, la Missa solemnis: lavori spesso con tratti avveniristici e perciò poco capiti dal
pubblico dell’epoca .
Questa distinzione risponde sostanzialmente al vero anche se naturalmente ha il difetto di essere
troppo schematica rispetto ai mutamenti stilistici che avvennero in maniera più complessa.
Fra le composizioni del «primo periodo» scritte nell'ultimo decennio del Settecento, si annovera
una notevole quantità di lavori fra cui i sei quartetti dell'opera 18, la Prima sinfonia, i primi tre
Concerti per pianoforte a orchestra e le prime quattro Sonate per violino e pianoforte. Ma sono
soprattutto le Sonate per pianoforte (le prime 15 di 32) ad assumere il ruolo trainante. Proprio
57
come pianista Beethoven si era imposto a Vienna fin dal suo arrivo nel 1792 : il suo modo di
suonare e di improvvisare in pubblico apparvero sconvolgenti e gli permisero rapidamente di
imporsi all’attenzione anche come compositore. Bisogna ricordare che la Sonata non era genere
da concerto pubblico ( Beethoven per. esempio non eseguì mai sue Sonate) ma che la sua
diffusione viaggiava attraverso l’enorme espansione in atto del mercato editoriale destinato al
consumo privato di musica pianistica. In questo genere Beethoven diede prova di mantenere
ferme alcune delle caratteristiche dello stile classico: la frase periodica e articolata, la formasonata intesa come azione drammatica per mezzo della tensione fra la tonica e la dominante, (
con un rispetto assoluto della regola principe secondo cui tutto ciò che si è sentito nella dominante
deve ritornare alla tonica nel corso della Ripresa ) ; architetture con il punto culminante al centro;
struttura e tipologia dei movimenti. Beethoven sembrava in certi casi voler fondere la tecnica di
Haydn di espansione del discorso da piccoli nuclei con l’abilità mozartiana nel padroneggiare i
rapporti tonali e i temi secondari.
Ma nelle prime composizioni emerge anche lo stile inconfondibile che distingue le opere di
Beethoven da quelle di tutti i contemporanei. Anzitutto si tratta della qualità dell'invenzione
tematica, che si fonda sulla tendenza a trascurare quei residui di maniera elegante, di tornitura
sottile, di gusto di corte, che ancora erano presenti in alcune delle opere di Haydn e di Mozart. In
Beethoven il gesto si fa più imperioso a in certi casi assume addirittura tratti di rudezza plebea. In
ogni caso i temi tendono a concentrare la loro energia in poche mosse essenziali.
Lo schema costruttivo è quello classico della forma-sonata, ma le contrapposizioni tendono a
emergere con maggiore chiarezza e in qualche caso a delineare contrasti fra un primo tema di
carattere più affermativo e un secondo tema di natura più sognante, mentre la stessa concisione
tematica tende per sua natura a caricare di nuovi significati gli episodi di raccordo a soprattutto
quelli di sviluppo. A loro volta alcuni adagi si distinguono per una singolare densità a forza
meditativa. Le novità di queste proposte stilistiche furono immediatamente notate dal pubblico a
dalla critica dell'epoca che in qualche caso le accusarono di «stranezza», in altri casi le trovarono
invece cosi affascinanti a significative da trasformarle in mode, come accadde ad esempio alla
Sonata per pianoforte in do minore op. 13 “Patetica” che, subito dopo la sua pubblicazione
avvenuta nel 1799, fu più volte sottoposta ad arrangiamenti e imitazioni.
La fantasia e l’attenzione di Beethoven furono fortemente attratte in quegli anni dagli avvenimenti
francesi e dalle idee rivoluzionarie: egli divenne così in musica il rappresentante della borghesia
emergente, nella sua titanica impresa di trasformare l’assetto politico dell’Europa sottraendo il
monopolio del potere alle classi aristocratiche. La società colta di lingua tedesca aveva
partecipato idealmente alle vicende della rivoluzione che si svolgeva in Francia e ancor più da
vicino aveva vissuto le imprese napoleoniche, se non altro perché Napoleone aveva invaso e
sottomesso l 'Impero austriaco. Napoleone tuttavia, era di fatto il grande diffusore delle idee
58
rivoluzionarie in Europa, e nei paesi da lui sottomessi i sostenitori delle nuove idee lo
accoglievano trionfalmente. La borghesia emergente, nella sua titanica impresa di trasformare
l ' assetto politico dell' Europa sottraendo il monopolio del potere alle classi aristocratiche, nutrì
spesso la sua fantasia di immagini combattive ed eroiche, che si ispiravano talvolta ai grandi
esempi della romanità e che Napoleone evidentemente sollecitava. Certi aspetti dell' arte di
quegli anni sono caratterizzati appunto da queste immagini eroiche antiche, soprattutto nei
generi artistici più alti e solenni: nella tragedia, ad esempio, nella scultura e nella pittura
celebrativa, o anche nell'Opera.
Forse il maggiore tributo agli ideali eroici dell’epoca fu la Sinfonia n.3”Eroica”
del 1804,
inizialmente dedicata a Napoleone (dedica cancellata quando quest’ultimo si incoronò imperatore
dei francesi) , con la quale Beethoven creò un modello di “Sinfonia grande” caratterizzata dalla
gestualità enfatica, dalle proporzioni colossali ( quasi un’ora di musica), modello che rimase
ambitissimo per tutto il secolo.
L’ascoltatore è investito da una imponente massa sonora,
dall’ampiezza dell'apparato orchestrale, con un discorso che è caratterizzato dalla partecipazione di
tutti gli strumenti. Ma non solo per questo la Terza Sinfonia incarna pienamente le proprietà dello
stile sinfonico. Il suo stile "grande" si riconnette evidentemente con le teorie tardo settecentesche
del sublime ( Hölderlin, Klopstock).
.
Tracce 22 a-c
Ludwig van Beethoven
Quinta Sinfonia op. 67
I movimento, Allegro – III movimento- IV Movimento
Il modello di “Sinfonia grande” costituito da Beethoven con “l”Eroica” raggiunse il suo momento
paradigmatico con la Quinta sinfonia op.67 (1807) in cui la monumentalità si fonda sulla
coesistenza di semplicità e di enfasi, col suo racconto che dalle movenze drammatiche
dell’inizio
sfocia nel messaggio ottimistico del movimento finale. Il carattere di queste
composizioni è evidentemente legato agli entusiasmi delle nuove generazioni, all' avvento
della società post-aristocratica: e infatti queste Sinfonie furono considerate dai musicisti
tedeschi successivi come modelli dai quali non si poteva prescindere
Il motivo di apertura pone alla base dell’edificio la raffigurazione di una lotta, tesa a vincere il
caos e a raggiungere un trionfo finale nel nome della ragione. Ciò avviene non solo nel primo
movimento, attraverso la drammaturgia tipica della forma-sonata ( con lo scontro tra i due temi
e le due zone tonali, destinato a risolversi nella parte finale del movimento ) ma in un’idea
complessiva che lega tutti i movimenti tra di loro. Così come accade in molte altre opere
59
beethoveniane di questo periodo, i quattro movimenti vengono già dall'inizio concepiti come una
sorta di racconto unico suddiviso in fasi strettamente legate fra loro da relazioni interne
chiaramente evidenti. Qui l’esaltazione della lotta e del contrasto incarnano in modo inaudito
l’idea che questa sia la condizione del miglioramento dell’umanità, con un reticolo di riferimenti
di impronta illuministica che ha il suo perno in Rousseau ( il superamento della prova come
valore eminentemente
educativo). Tutto questo modifica radicalmente le convenzioni della
forma e le stesse funzioni della musica strumentale: Beethoven tende irresistibilmente a farla
«parlare», a trasformarla in testimonianza personale e perciò stesso a trasformare il pubblico
nel destinatario di un messaggio che va ben al di là di quel diletto collettivo a cui di solito esso
era abituato a partecipare.
Il terzo movimento inizia con una introduzione misteriosa, con suoni profondi, cupi, sussurrati,
che sembrano uscire da una primordiale oscurità. A questa introduzione si contrappone poco
dopo un tema chiaro e ben definito. Il tema è composto di quattro note che hanno esattamente
la stessa cellula ritmica del ben più famoso tema del primo tempo: per intenderci il ritmo "ta-tata-tàa" con accento sulla quarta nota. In questo caso, però, le quattro note, diversamente dal
primo tempo, hanno tutte la stessa altezza. Dunque il terzo movimento inizia alludendo alle
atmosfere tragiche del primo movimento, ma la sua funzione si preciserà a poco a poco come
totalmente diversa. Le idee che all'inizio hanno un peso musicale determinante sono due e sono
contrapposte fra loro: la melodia presentata nella introduzione e il tema a quattro note appena
citato. Tutta la prima parte del brano è costruita sulla alternanza di questi due motivi di diverso
carattere. Il tema a quattro note è esposto a piena orchestra con una sonorità imponente in cui
emergono spesso i suoni degli ottoni, e il suo ritmo è scandito con accenti forti e regolari: il tutto
sembra quasi voler evocare una sorta di marcia, anche se di marcia non si tratta perché la
scansione metrica interna è ternaria e non binaria; non è marcia anche perché della marcia non
ha i consueti tratti baldanzosi. Si tratta però dell'evocazione di un movimento collettivo, di
lentezza austera e solenne. A sua volta il motivo dell'introduzione che ad esso si contrappone, e
che inizialmente emergeva dal silenzio con un ritmo incerto e con una melodia tortuosa, si rivela
a poco a poco capace di impreviste metamorfosi e ogni volta che si ripresenta non è mai uguale
a se stesso. La successione fra i due temi si ripete tre volte; così, nella sua interezza, la prima
parte si definisce chiaramente con uno schema come ab – ab - ab.
Nella tradizione settecentesca il terzo movimento di una sinfonia era un minuetto. Beethoven,
nella Terza Sinfonia aveva sostituito il minuetto con uno "Scherzo", cioè con una composizione
di tipo movimentato e fantastico. Nella Quinta il terzo tempo non è definito né minuetto né
scherzo; tuttavia di essi conserva la struttura formale standard, che prevede una prima parte,
(A) una seconda parte totalmente diversa (B) e una terza parte che ripete la prima (A’). La
funzione di seconda parte è assunta da un episodio molto diverso dal precedente, dove il tema è
basato su rapide pulsazioni e su un ritmo impetuoso e agitato sviluppato con imitazioni
60
polifoniche fra strumenti diversi, più volte concluse e riprese con energia sempre rinnovata.
L'austerità della parte prima non è smentita, perché il procedimento imitativo aveva, sulla base
della tradizione europea, un carattere “severo”, sacrale e rituale. C'è tuttavia da notare che man
mano che si avvia verso la fine, la sonorità dell'episodio diviene meno cupa, sia per il suono dei
legni (flauto, clarinetto, oboe) sia perché il registro si sposta. La terza parte inizia in modo
ambiguo: l’ascoltatore dell’epoca si aspettava che venisse presentata come una ripresa più o
meno identica della prima parte, e così sembra inizialmente accadere. Tuttavia a poco a poco
ci si rende conto che le melodie sono quelle già sentite, ma che gli strumenti che le presentano
sono totalmente diversi: in particolare gli archi suonano pizzicando le corde (anziché usando
l'arco) e gli ottoni sono sostituiti dai legni. Inoltre la tessitura sonora, che nella prima parte era
compatta e robusta, qui è diradata e lieve. Il senso non è più quello di una grave marcia;
piuttosto si tratta del ricordo di un episodio precedente che gradualmente si va disperdendo,
come se le intenzioni cupe che dominavano all'inizio, si allontanassero a poco a poco dalla
scena.
Alla fine l’episodio fluisce direttamente nell'ultimo tempo della sinfonia che inizia subito con un
andamento ottimistico in do maggiore. Sostenuto da un’orchestra ampliata il tema, superbo e
trionfale ha il potere di spazzare via ogni elemento oscuro attraverso la sua forza vulcanica.
Costruito in forma-sonata, questo movimento presenta dopo la Ripresa un’enorme coda che ha
la funzione di risolvere definitivamente tutta l’instabilità e l’inquietudine dei movimento
precedenti. Con il suo carattere di trionfale catarsi, di gesto liberatorio e vittorioso, il Finale
acquista il suo significato solo se viene connesso con i dubbi, con le oscurità che lo precedono
affermandosi dunque, non più come brano gradevole e relativamente “facile” della tradizione
settecentesca, ma come vero, decisivo esito della costruzione sinfonica. ( Baroni 2003)
Traccia 23
Ludwig van Beethoven
Sonata in Mi maggiore op.109: III movimento
Esemplare della libertà con cui l’ultimo Beethoven supera gli orizzonti delle forme
classiche, la Sonata in Mi maggiore op.109 del 1820, rivela «la ricerca di una nuova
razionalità strutturale e dialettica che viene risolta a favore di una geniale asimmetria di
sorprendente
novità»
(Carli
Ballola
1977):
due
movimenti
iniziali,
brevi,
e
61
straordinariamente concisi e la grande espansione del terzo movimento, un tema con
variazioni su cui è spostato il baricentro. Nel primo movimento
agisce una sorta di
distillazione delle procedure classiche: nelle prime otto battute abbiamo il primo tema, il
ponte e l’inizio del secondo tema; quest’ultimo appare come un organismo a sé stante e
completamente indipendente per tempo, ritmo e materiale tematico : una vera e propria
"immagine" musicale autonoma e strutturalmente integrata. La forma-sonata assume qui
una meravigliosa apparenza rapsodica, tutto il discorso suona come un'improvvisazione e
nulla più resta di quei gesti imperiosi e fulminei, che in poche note tracciavano il gioco di
forze.
Nell’ultimo movimento
la crisi del tema come protagonista-eroe si manifesta nella
frantumazione del profilo tematico, una melodia semplicissima
dall’andamento quasi
dimesso (otto battute dalla tonica alla dominante più otto battute dalla dominante alla
tonica). Nelle variazioni di Haydn e Mozart in genere era sempre riconoscibile tutto il tema;
per l’ultimo Beethoven invece l'unico elemento necessario è il nudo scheletro armonico e
melodico e nel corso delle variazioni vi è un progressivo isolamento dei differenti aspetti
del tema, quasi che Beethoven voglia chiarirli ad uno ad uno, non dando l'impressione di
decorare il tema ma di svelarne l’essenza. Nella prima variazione una incantevole melodia
sboccia sul nudo schema degli accordi; nella seconda Beethoven applica al tema le
figurazioni del I movimento; la terza, quarta e quinta “scavano” in profondità le implicazioni
contrappuntistiche prima che la sesta e ultima variazione conduca alla polverizzazione nel
materiale tematico attraverso la proliferazione
di parti intermedie,
che finiscono per
dissolversi in un doppio trillo sulla dominante da cui il tema riemerge con lievi ritocchi:
qualche raddoppio di ottava al grave basta per calare un'ombra crepuscolare su questo
struggente congedo.
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SCHEDA 13
Il pianoforte romantico
Non è certo un caso che i quattro maggiori esponenti della “generazione romantica” — Felix
Mendelssohn, Robert Schumann, Fréderic Chopin e Franz Liszt — furono tutti pianisti e
dedicarono al loro strumento buona parte della loro attenzione. Si è visto quale importanza il
pianoforte conquistò nella cultura borghese dell’Ottocento e quali trasformazioni lo portarono –
verso la metà del secolo – al suo massimo grado di efficienza e di potenza. Sia in sala da
concerto che nel mercato editoriale ( e dunque nell’esecuzione privata ) i musicisti romantici
spostarono il centro di gravità dalla Sonata ( prediletta da Mozart e Beethoven) ad una serie di
generi e sottogeneri accomunati dal fatto di essere di dimensioni ridotte, in un processo che
vedeva l’impostazione formale, che puntava sul disegno di fondo dei temi e sul loro sviluppo,
relegata in secondo piano rispetto alla suggestione immediata del motivo, alla tessitura, al
timbro, alla tecnica strumentale.
I 48 Lieder ohne worte (Lieder senza parole) , furono senza dubbio la raccolta di composizioni
pianistiche di maggior successo di Felix Mendelssohn: “fogli d’album” che per le loro piccole
dimensioni, la concisa e perfetta espressione, esplorano i problemi e le possibilità della
cantabilità pianistica, con soluzioni ingegnose e tecniche di volta in volta diverse. ( traccia
25) Tra le altre composizioni pianistiche del musicista amburghese bisogna ricordare anche i
sei Preludi e fughe che rimandano al recupero storico di Bach, diventato oggetto di culto, in
parte proprio grazie alla breve ma intensissima attività di Mendelssohn come direttore
d'orchestra, pianista e organizzatore nelle maggiori città tedesche (Berlino, Lipsia, Dusseldorf).
Più di Mendelssohn fu però la figura di Robert Schumann ad incarnare nel mondo musicale
tedesco le nuove tendenze romantiche. La categoria del « poetico» può servire ad accostare
alcuni aspetti essenziali del mondo di Schumann che fu per qualche tempo diviso tra la vocazione
musicale e quella di scrittore e che non nascose le matrici letterarie di molte sue opere, a
cominciare dai pianistici Papillons op. 2 (1829), che sono il suo primo capolavoro e rimandano ad
un capitolo dei Flehejahre, romanzo di Jean Paul Richter. Ma in Schumann non è mai in
discussione la vera e propria autonomia della musica, sebbene la sua opera sia fitta di rimandi ed
allusioni, di riferimenti che tuttavia non vogliono essere troppo vincolanti: solo apparentemente le
sue posizioni sulla natura « poetica » della musica possono riuscire vaghe o contraddittorie,
perché alla loro base c'è l'intuizione (tipicamente romantica, di una sorta di naturale contiguità e
continuità tra arti diverse, quasi di una affinità elettiva tra poesia e musica, e dunque della
possibilità di combinarle, di trasformare e prolungare l'una nell'altra senza tradirne l'intima natura.
A Jean Paul e a Ernst Theodor Hoffmann, ma anche a Tieck e Friedrich Schlegel — grandi
scrittori della letteratura romantica tedesca — la fantasia di Schumann fece più volte ricorso, e al
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loro mondo si riconducono spesso titoli, immagini poetiche, personaggi della sua musica o dei suoi
scritti critici: ad esempio l'invenzione del “Davidsbündler” (“Affiliati alla lega di Davide”), i membri
dell'ideale confraternita che con Schumann condivideva i programmi estetici e la lotta contro la
gretta meschinità e il gusto ottuso dei «Filistei». Nella prefazione alla raccolta dei suoi scritti (che
erano stati prevalentemente pubblicati sulla rivista «Neue Zeitschrift für Musik» da lui fondata a
Lipsia nel 1834) Schumann spiegava chi erano i personaggi immaginari che vi comparivano: «
Parve opportuno, per permettere ai differenti aspetti della concezione artistica di manifestarsi, di
creare dei caratteri artistici opposti, e fra essi Florestano ed Eusebio, che il Maestro Raro aveva il
compito di conciliare, erano i più ragguardevoli. La confraternita dei Davidsbündler si sviluppò
come un filo rosso attraverso tutta la rivista, legando Verità e poesia in modo umoristico ». Verità e
poesia (citazione da Goethe) si mescolavano perché della confraternita facevano parte idealmente
persone reali vicine a Schumann, come la moglie Clara Wieck — grande pianista che il
compositore sposò nel 1840 dopo aver superato (anche in tribunale) la tenace, durissima
opposizione del padre di lei, Friedrich, apprezzato didatta e maestro di pianoforte dello stesso
Schumann — e Mendelssohn. Suggestioni di Hoffmann e Jean Paul sono evidenti nell'idea di
Schumann di sdoppiarsi nelle personalità opposte e complementari di Florestano ed Eusebio: il
loro dualismo è al centro dei Davidsbundlertänze op. 6 (“Danze degli affiliati della lega di Davide”,
1837), 18 «pezzi caratteristici » (la danza è poeticamente intesa come emblema di un libero gioco
fantastico) firmati di volta in volta da Eusebio — malinconicamente introverso e incline alla lirica
tenerezza — o da Florestano — ardente, appassionato, pronto ad espressioni di lacerante dolore o
di estroso umorismo — o da entrambi. Il ciclo di pezzi «caratteristici» di diverse dimensioni,
legati da una rete di più o meno palesi relazioni interne, da rimandi segreti, e da una sapiente
organizzazione dei rapporti tonali e dei caratteri espressivi, predomina nella produzione pianistica
cui è dedicata in modo pressoché esclusivo la prima fase della attività di Schumann, nel decennio
1829-39, con i grandi esiti di: Davidsbundlertanze ( Danze della lega dei fratelli di Davide ) op.6,
Carnaval op.9, Phantasiestucke ( Pezzi fantastici) op.12, Kinderszenen ( Scene infantili ) op.15,
Kleisleriana op.16. Culmina in questi polittici la ricerca romantica di un’alternativa di vasto respiro
alla forma-sonata nella organizzazione ciclica, e in essa si trasfigura compiutamente, sotto il segno
di una prodigiosa varietà fantastica e di un linguaggio armonico e contrappuntistico originalissimo,
il diffuso repertorio di danze, pezzi da salotto, pagine brillanti dei pianisti virtuosi.
Il filone del pezzo breve era già stato inaugurato da Schubert e proseguito da Mendelssohn:
abbandonata l’architettura complessa tipica dello stile classico. Già Mendelssohn e Schubert si
erano concentrati sul concetto di "motivo", un’idea tematica fulminea, pregnante ed eloquente che
dava al pezzo appunto il suo “carattere” e all’invenzione timbrica su uno strumento che in quegli
anni stava subendo fondamentali modifiche. Per «caratteristico» Schumann, tuttavia, intende ciò
che è dotato di un proprio inconfondibile carattere e che perciò è premessa indispensabile della
«musica poetica»; quest’ultima è a sua volta una categoria fondamentale con cui il compositore
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intende una musica dotata di qualità romantiche, quindi una musica non comune, non
convenzionale, dotata di appunto di una fisionomia unica e inimitabile in quanto nata dalla più
oscura dimensione dello spirito e che perciò introduce in un mondo superiore”. Ne deriva un altro
concetto peculiarmente romantico ( già a suo tempo sbandierato da Fredrich Schlegel ), quello
dello spirito “combinatorio-profondo” consistente nell’amalgama di elementi musicali ed extramusicali.
Nella straordinaria fioritura pianistica iniziale il ciclo di «pezzi caratteristici» non è l'unico problema
formale affrontato. Gli Studi sinfonici op. 13 (1834-37) sono in forma di variazioni su un tema e
costituiscono uno dei testi fondamentali nella storia della variazione ottocentesca: sono «sinfonici »
per il carattere della scrittura pianistica, «strumentata» con ricchezza orchestrale. Schumann si
accostò con esiti originali anche alle forme sonatistiche, con le tre Sonate e soprattutto con la
Fantasia op.17 pubblicata nel 1839 con dedica a Franz Liszt e con una citazione da Friedrich
Schlegel come motto. È tipica del pensiero di Schumann la rete di relazioni interne che caratterizza
quest’ampia composizione con intreccio di allusioni anticipazioni, rimandi (ad esempio la citazione
di un frammento dell'ultimo Lied di All'amata lontana di Beethoven, che appare alla fine, svela
affinità con entrambi i temi principali).
Tracce 26-27
Robert Schumann
Carnaval op.9 : n. 5. Eusebius; n.6 Florestan
La poetica musicale di Schumann è pienamente delineata nel
Carnaval op.9 (1835), il cui
sottotitolo, «scènes mignonnes sur quatre notes», allude ad un nucleo motivico di quattro note che
funge da spunto generatore per il ciclo di 21 brevi pezzi. Le note corrispondono alle lettere musicali
A S C H, che lette di seguito danno il nome del villaggio natale della donna allora da lui amata,
Ernestine von Fricken, che egli poi lasciò per legarsi a Clara Wieck, lettere che sono presenti anche
nel cognome del compositore.
Hoffmanniana è l'idea di porre sotto il segno del carnevale —
situazione privilegiata che fa scoprire verità più profonde di quelle consentite dall'ottica quotidiana —
la fantasmagoria dei brevi pezzi, l'agile trapassare della fantasia da una immagine all'altra nella
rapida sfilata di maschere e ritratti, fine al loro riunirsi nello slancio della conclusiva Marcia dei
Davidsbundler contro i Filistei, in cui la sfida alle convenzioni è rappresentata prima di tutto dal ritmo
ternario, impossibile in una marcia.
Tutti i personaggi di questo carnevale (tranne i pezzi intitolati a Paganini e Chopin ) vengono
caratterizzati con il ricorso alle quattro note che, in tre diverse combinazioni,
formano come
nucleo subliminale del ciclo, visualizzato, al centro con il titolo “Sfingi” e con la prescrizione
«queste note non si suonano».
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Anche i due diversi volti che Schumann amava attribuire a sé stesso nei suoi scritti critici, sono
presenti nel polittico ecco dunque al numero 5, Eusebius, personaggio malinconico, introverso,
incline alla tenerezza, e al numero 6 Florestan, ardente, appassionato, “estremo” nel dolore e
nella gioia
In un pezzo come Florestan , ( 38) Schumann concepisce una forma di autocitazione (un
frammento iniziale dei Papillons op.2 ) che ha qualcosa di assolutamente inaudito. Rivoluzionaria
non è la citazione in sé ma il modo in cui appare che la fa percepire come un vero e proprio
ricordo; la breve sigla melodica infatti è isolata con un cambiamento di suono e tempo e appare
un’intrusa anche a chi non la conosce, attraverso due apparizioni: la prima affiora in pianissimo, e
fugacemente, come un ricordo imperfetto proveniente da lontano; la seconda apparizione è più
chiara ma in breve il la figura di Papillons viene come incorporata nel resto del brano e il ricordo è
completamente assimilato al presente. (Rosen 1995) Questo istante è emblematico della
concezione schumanniana del tempo: non più evolutiva e lineare ma ciclica e iterativa, con una
reminiscenza che altera la regolare successione del prima e del dopo.
All'inizio degli anni Trenta del XIX secolo, Parigi divenne il centro del pianismo internazionale, con
una legione di campioni della tastiera che si chiamavano Kalkbrenner, Herz, Hiller, Alkan, Pixis,
Chopin, Liszt, e con competizioni che richiamavano colleghi dall'estero, come Thalberg, d'abitudine
residente a Vienna. I termini agonistici appena impiegati non sono da intendersi in senso
puramente metaforico, in quanto il pubblico medio, come già per le grandi ugole che si
producevano all'Opéra, stimolato da questa moltitudine di virtuosi, seguiva con passione
agonistica le loro esecuzioni, facendo poi confronti e classifiche. E i pianisti come veri e propri
“atleti”, si tenevano in costante allenamento con tecniche ed esercizi che sviluppavano una
sbalorditiva agilità, impiegata poi nelle variazioni e nelle parafrasi su motivi celebri in cui il virtuoso
poteva esibire tutta la propria bravura quale improvvisatore e commentatore, decorando e
sviluppando quegli stessi temi che godevano di una vasta popolarità presso il pubblico del teatro
d'opera. A questi atleti, che mettevano a dura prova la resistenza di corde e tastiere, case
produttrici di pianoforti come Érard e Pleyel, fornivano strumenti perfezionati che, mediante
l'impiego di principi costruttivi di recente invenzione come quello del doppio scappamento (che
permetteva ai tasti di colpire la corda più rapidamente ) rendevano possibile la pratica di tecniche
esecutive nuove ed un rinforzo del volume sonoro rispetto agli strumenti del passato; sicché i
concerti pianistici potevano ora tenersi in sale più vaste e capienti e la performance ne
guadagnava in spettacolarità.
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Tracce 27-28
Franz Liszt
Studio trascendentale n.8, “Caccia selvaggia” –
Années de pèlerinage – II année , n.1 Sposalizio
Le esibizioni parigine di Niccolò Paganini rappresentarono un ulteriore stimolo all'esercizio del
virtuosismo, creando nell’ambiente pianistico un fortissimo spirito di emulazione incrementato dalla
consapevolezza che i pianisti avevano delle straordinarie qualità sonore e meccaniche del loro
strumento. Primo fra tutti fu l’ungherese Franz Liszt che, stabilitosi a Parigi nel 1823, ebbe dal
virtuosismo di Paganini la rivelazione di un nuovo mondo da esplorare: attraverso Paganini, Liszt
arrivò in breve alla folgorante scoperta che il virtuosismo poteva non limitarsi ad essere uno sterile
esercizio esibizionistico, ma poteva diventare una delle vie maestre della "rivoluzione romantica"
con l’invenzione di una tecnica pianistica di cui non esisteva la minima traccia fino a quel
momento. Un terreno di ricerca fondamentale in tal senso fu costituito dagli Studi di esecuzione
trascendentale (1837-38), di cui un esempio è il n. 8 intitolato Wilde Jagd, cioè “Caccia
selvaggia”, ( traccia 27) : il virtuosismo violinistico di Paganini viene infatti portato da Liszt sul
pianoforte ad una dimensione “trascendentale”, cioè capace di investire la materia sonora di un
tale getto di violenza fantastica da trascenderne i limiti. Nell’esempio in questione il volume sonoro
parossistico ottenuto con le ottave martellate, si abbina ad una continua oscillazione fra il registro
grave e quello acuto che si traduce per il pianista in una serie di salti tanto rischiosi quanto
spettacolari e la tastiera viene sollecitata in tutta la sua estensione; nella parte centrale poi
l’ingresso di un tema più cantabile si abbina ad una difficoltà di ordine ritmico in quanto
si
sovrappongono un ritmo ternario alla mano destra su un ritmo binario alla mano sinistra. Dunque
si tratta di un virtuosismo che, se nella dimensione più esteriore e spettacolare significa appunto
atletismo ed esibizionismo, in quella più schiettamente musicale significa invece sperimentalismo
sonoro, violenza operata nei confronti dello strumento per ampliarne illimitatamente le possibilità
foniche ed espressive, per carpirne i segreti più nascosti. Sicché, se da un lato la carriera
pianistica di Liszt appartiene alla storia del costume in quanto anticipa quel fenomeno cosi
caratteristico dei nostri tempi che è il coinvolgimento delirante di un pubblico (l'adorazione ed il
fanatismo di uno stuolo di fans che seguono il loro idolo e cercano di impossessarsi di qualche sua
reliquia ) nell'ambito della storia dell'arte esecutiva apre un capitolo nuovo in quanto Liszt riusciva
ad infondere alle opere musicali una carica comunicativa particolare: riusciva a trasformare la
musica in autentico linguaggio, in gesto fonico, mediante una mimica ed una gestualità che non
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sortiva solamente esiti spettacolari, ma con la partecipazione di tutto il corpo all'esecuzione,
creava una straordinaria varietà di tocco.
Da qui poi la capacità di trasporre sulla tastiera, attraverso il genere della trascrizione o parafrasi,
le sonorità e la volumetria sonora di un'intera orchestra come le minime sfumature espressive di
una melodia vocale; l'intensa attività di trascrizione di opere sinfoniche e teatrali del passato
prossimo (le sinfonie di Beethoven e le opere di Mozart) e del presente (memorabile quella della
Fantastica di Berlioz), di Lieder di Schubert, la cui esecuzione in concerto, in un'epoca in cui la
diffusione della musica era molto più lenta ed occasionale di oggi, svolgeva tra l'altro un'importante
funzione di divulgazione culturale; tanto più che Liszt, anche in questo distinguendosi dai colleghi,
inserì presto nel proprio repertorio composizioni per tastiera di maestri del passato più o meno
prossimo, da Haendel, Bach a Scarlatti a Weber, Beethoven fino ai suoi contemporanei,
inaugurando quel tipo di concerto storico che, con le dovute modifiche a trasformazioni, è ancora
in auge oggi, con il nome di recital: un concerto il cui protagonista unico è appunto il pianista che
si esibisce suonando a memoria programmi interi, spesso anche molto lunghi.
Le Années de pèlerinage, (Anni di pellegrinaggio) sono un’importantissima raccolta pianistica di
Franz Liszt comprendente ventisei pezzi divisi in tre quaderni, composti in un arco di tempo che
abbraccia circa quarant’anni: una specie di diario musicale che accoglie programmaticamente le
suggestioni di letture, di vedute panoramiche o di opere d’arte, trasponendole nelle sonorità
inaudite del suo prodigioso virtuosismo pianistico.
Il “pellegrinaggio” del titolo si riferisce in larga parte ai viaggi compiuti da Liszt fra il 1835 e il 1839
in Svizzera e in Italia, in compagnia della contessa Marie D’Agoult (nata de Flavigny). Dall’unione
fra Liszt e la contessa nacquero tre figli. Marie de Flavigny proveniente da una famiglia
dell’aristocrazia legittimista, era andata in sposa nel 1827 al conte Charles D’Agoult dal quale
aveva avuto due figlie. Colta, raffinata, indipendente, Marie aveva trovato sulla sua strada nel
1833 un Liszt ventiduenne già pianista di enorme successo, appena uscito da una crisi spirituale
che dopo averlo portato a pensare seriamente di prendere i voti, lo aveva condotto ad aderire al
socialismo umanitario tinto di riflessi religiosi di Saint-Simon e dell’abate Lamennais. La relazione
clandestina spinse i due a “fuggire” in Svizzera e dare inizio ai “pellegrinaggi” di Liszt.
Lo Sposalizio è riferito allo Sposalizio della vergine, di Raffaello Sanzio, olio su tavola del 1504.
La celebre tavola di Raffaello viene vista da Liszt e Marie D’Agoult nella Pinacoteca di Brera a
Milano nel settembre 1837. Il ricordo della celebre tavola si accompagna alla lettura fatta durante i
mesi trascorsi in Italia delle Vite di Vasari e della biografia di Raffaello di Johann David Passavant
(prima monografia su Raffaello 1839). Il modo in cui Liszt “ interpreta” in un testo musicale il testo
pittorico è evocativo-allusivo e non banalmente descrittivo.
68
Il testo musicale è costruito su tre nuclei: 2 motivi (di breve estensione) e un tema (di estensione
più ampia ):
Motivo A : motivo iniziale “orizzontale” puramente melodico, lineare basato su una successione
pentatonica ( cioè su una scala di cinque suoni, al posto dei consueti sette)
Motivo B : “anticipato” nella seconda battuta e più chiaramente esposto più avanti : è invece
“verticale”, basato su accordi semplici, ma anche su una chiara successione di proposta (mano
destra) -risposta ( mano sinistra) .
Tema C : più lento appare in “pianissimo” con arpeggi e accordi la cui superficie disegna una linea
ascendente
L’inizio del “Pensieroso” è tutto in sonorità ridotta al minimo. “Dolce” e “dolcissimo” prescrive Liszt
in questa prima fase contrassegnata anche da pause e silenzi. Poi il volume aumenta e nella
parte centrale ecco che il motivo lineare A diventa l’accompagnamento del tema C.
Le analogie sottili fra il testo musicale e tavola di Raffaello sono le seguenti:
1) L’impianto motivico del pezzo è basato sulla compresenza di elementi “orizzontali” ( A , ma
anche la superficie di C ) e “verticali” ( B e C) così come avviene in Raffaello ( Tempio = asse
verticale della composizione; figure in primo piano = asse orizzontale )
2) Il tessuto generale è caratterizzato in più punti dalla divergenza di direzioni seguite dalle due
mani che dal centro della tastiera si allargano verso gli estremi. Liszt sembra voler riprodurre così
l’effetto di profondità dato dall’impianto prospettico del dipinto che conduce l’occhio dello spettatore
dal punto di fuga situato al centro del tempio attraverso le scansioni dettate dal ritmo degli
intercolumni fino al primo piano occupato dalle figure
3) L’aspetto simbolico dei motivi.
A) lineare, pentatonico allude simbolicamente alle campane di una chiesa, dunque al
Tempio raffigurato da Raffaello (c’è chi sostiene che qui Liszt volesse riprodurre le successioni
pentatoniche
in uso dai campanari delle chiese lombarde ). Il motivo A
dunque da un lato
rappresenta l’evocazione sonora del giorno solenne, dall’altro rimanda visivamente al tempio.
Il motivo B) con il suo schema proposta-risposta allude abbastanza esplicitamente alla domanda
di matrimonio.
Il tema C) semplice e intenso, è associato alla figura della Vergine Maria : è lo stesso Liszt a
fornire quest’elemento di identificazione attraverso una più tarda trascrizione del pezzo per voce e
organo nella quale la comparsa di questo tema corrisponde alle parole «Ave Maria». Secondo
Serge Gut questa “figura musicale” allude anche a Marie D’Agoult associata per alcuni suoi tratti
all’iconografia raffaellesca della Madonna.
Il modo in cui i tre nuclei vengono disposti nel tempo e nello spazio da Liszt suggerisce che la
prima parte del pezzo corrisponda alla “rappresentazione musicale” dei due piani principali del
dipinto, quello del Tempio ( A) e quello della scena in primo piano ( B e C ).
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Nello sviluppo del pezzo però i due piani vengono messi in relazione creando una “prospettiva
musicale”: A) diventa lo sfondo di C) così come il tempio diventa lo sfondo, ma anche il perno
prospettico della scena in primo piano
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Tracce 29-30
Nell'elenco dei grandi pianisti attivi nella capitale francese spicca anche un grande protagonista
del movimento romantico: Fryderyk Chopin, ma le sue doti esecutive erano di nature totalmente
diverse da quelle coltivate dagli “atleti della tastiera”. Doti che, in accordo con il proprio mondo
poetico e creativo, consistevano in un fraseggio mirabilmente sciolto e leggero e in un tocco
straordinariamente sensibile che gli permetteva di realizzare una gamma timbrica sfumatissima,
una tavolozza sonora con sottilissime gradazioni di mezze time. Come Liszt, era un emigrato ma
mentre il suo collega di origine ungherese aveva ricevuto la sua prima formazione nella Vienna
anni Venti, nel cuore dell'impero asburgico, aprendosi presto ad un disinvolto cosmopolitismo,
Chopin invece si formò a Varsavia, ricevendo una fortissima impronta dal clima ben più provinciale
ed etnicamente caratterizzato della capitale polacca, da sempre esposta alle mire espansionistiche
della Russia. In patria Chopin aveva iniziato una carriera esecutiva e compositiva nell'ambito dei
generi pianistici che andavano per la maggiore all'epoca: due Concerti per pianoforte e orchestra,
(con quest’ultima sullo sfondo ed il pianoforte che assume un ruolo di assoluto protagonismo),
variazioni su temi celebri, cimentandosi anche nella sonata e nella composizione cameristica.
Quando, dopo uno sfortunato soggiorno viennese, costretto dalle vicende politiche, fissò la
residenza a Parigi, la sua carriera di pianista e compositore subì una svolta brusca e radicale.
Anziché gettarsi nell'affollatissimo agone pianistico, in accordo con la propria personalità umana e
artistica, si inserì nel milieu dell'aristocrazia internazionale di censo e di sangue residente nella
capitale francese (fra cui quella polacca), sostentandosi principalmente con le lezioni private ed
esibendosi quasi esclusivamente in salotti frequentati dal fiore della cerchia intellettuale parigina.
Al riparo dai condizionamenti del gusto imperante poté cosi concentrarsi con esclusività e
continuità sulla ricerca attorno alle sonorità ed al linguaggio pianistico e sui generi che
canalizzavano la ricerca sul pezzo breve: Polacche e Mazurche, Notturni ed Improvvisi, Studi e
Preludi, Scherzi e Ballate. Generi o appartenenti alla sfera dell'intrattenimento salottiero, o
attraverso la stilizzazione di movenze o forme di danza (le Polacche, le Mazurche e i Valzer), o
della romanza sentimentale patetica e sognante (il Notturno), opere legate a quella più
propriamente didattica (come gli Studi e i Preludi).
La musica di Chopin ebbe legami evidenti con il mondo tardo-barocco e galante: la sua posizione
all’interno del movimento romantico è particolarissima trattandosi di
un’arte concentrata sulla
capacità espressiva, sulla grazia dell’ornamentazione, sulla sottile sensibilità che pervadono i
generi che il genio chopiniano riplasma ed eleva di rango sottraendoli alla loro dimensione di
intrattenimento borghese. Al fondo agisce una fortissima spinta all’astrazione che trova una prova
evidente nel rifiuto di utilizzare titoli allusivi per le sue opere ed è confermata peraltro dal fastidio
71
con cui Chopin reagiva al tentativo di spiegare la sua musica con motivazioni extra-musicali ( Di
Benedetto 1982)
Astrazione, stilizzazione, perfezionamento formale agiscono anche su quei generi “da salotto” ,
generi di intrattenimento borghese che ormai inflazionavano il mercato della musica pianistica
europea. Chopin ad esempio dedicò costanti attenzioni al genere della Mazurca: si trattava di da
danza popolare polacca, originaria della regione della Mezovia, in ritmo ternario con caratteristico
accento sul secondo tempo della battuta; essa era divenuta molto popolare alla fine del Settecento
come danza di sala leggera. Nelle mani di Chopin la mazurca, pur presentando ancora legami con
gli archetipi popolari (l’accento sul secondo tempo, l’uso di figurazioni melodiche tipiche, gli ostinati
ritmici ) si trasforma in brano introspettivo, con soluzioni armoniche ardite, e con squarci lirici
fulminei carichi di struggenti inflessioni nostalgiche (traccia 29).
Un analogo processo di affinamento formale e stilistico si individua nel Notturno. In questo caso
il punto di partenza era dato dai pezzi pianistici apparsi con questo titolo per opera del pianistacompositore irlandese John Field (1782-1837): si trattava di
brevi composizioni di carattere
melodico e sognante apparse negli anni dieci che ebbero immediato successo nell’Europa del
primo Ottocento, in quanto perfettamente calate nella dimensione della salonmusik. Oscillando fra
momenti di intima confessione e più aperti sfoghi lirici ispirati ad una cantabilità di ascendenza
vocale e operistica, spesso Chopin impiega nei suoi omonimi brani melodie “lunghe” sul modello
di quelle di Vincenzo Bellini, linee che sembrano rigenerarsi in spirali liriche inesauste, che a volte
si ripresentano con ornamentazioni fantasiose e altre volte tendono a ramificarsi in più voci,
creando una illusoria polifonia (traccia 30).
L'arte di Chopin, che suona spesso come esito naturale e spontaneo, quasi improvvisato,
nonostante egli fosse anche un grande improvvisatore, è frutto di un sofferto travaglio creativo, di
una costante ricerca di perfezione e di compiutezza formale. Sofisticatissime appaiono spesso le
soluzioni armoniche che conferiscono agli accordi una funzione timbrica creando una sfumatissima
gamma di risonanze e di atmosfere sonore, anticipando un lessico che la cultura europea farà suo
mezzo secolo dopo: celebre è l’esempio dell’accordo che chiude la misteriosa introduzione della
Prima Ballata, accordo inspiegabile per la teoria ottocentesca che spesso venne “corretto” in molte
delle prime edizioni di questo pezzo.
I due universi pianistici di Liszt e Chopin, cosi diversi ed anzi antitetici — il primo tutto proteso alla
ricerca di un linguaggio che traduca fedelmente in immagini sonore le sue fantasie poetiche e
quelle evocate dalla musica altrui, il secondo totalmente calato nella ricerca creativa assoluta,
avulsa da qualsiasi contenuto extramusicale esplicito
— non rappresentano solamente due
risposte diverse al tormento creativo di due artisti profondamente coinvolti nel clima culturale del
ventennio che precede la metà del secolo XIX; per vie di comunicazione anch'esse opposte
tracceranno due profondissimi solchi nella cultura musicale francese non solo ottocentesca, ma
anche novecentesca: basti pensare a Debussy e Ravel.
72
SCHEDA 14
Il poema sinfonico
La prima della Sinfonia fantastica a Parigi colpì profondamente la sensibilità di Liszt, il quale dopo
averne realizzato una magistrale trascrizione per pianoforte, suonata spesso nei suoi recitals,
riprese l’ideale della “musica a programma”
nelle composizioni orchestrali scritte dopo il suo
trasferimento a Weimar, chiudendo il periodo “nomade” della sua vita. Ora Liszt è l'alfiere del
nuovo vangelo artistico che cerca di trasformare Weimar in una nuova Atene della «musica
dell’avvenire»: innanzitutto promuovendo l'esecuzione delle opere e delle composizioni degli
esponenti di punta della tendenza «progressista» - Wagner e Berlioz in primis -, quindi dedicandosi
con intensità e continuità alla creazione dei suoi poemi sinfonici.
Negli anni di Weimar l’'arte musicale diventa esplicita e programmatica sublimazione poetico-sonora del vissuto, processo osmotico tra le emozioni estetiche e personali e le fantasie sonore. E’
nell'ambito orchestrale che Liszt concepisce i suoi progetti più ambiziosi, con una serie di 13
poemi sinfonici e due sinfonie programmatiche dedicate l'una al Faust di Goethe (FaustSymphonie) e l'altra alla Commedia dantesca (Dante-Symphonie,) che già gli aveva ispirato una
Fantasia quasi sonata per pianoforte (nel 1849) inserita nel secondo anno delle Années de
Pèlerinage dedicato all'Italia. Liszt coniò il termine Sinfonische Dichtung
(appunto “Poema
sinfonico” ) per designare una composizione orchestrale in un tempo solo che non rispetta le
forme classiche e che si basa su fonti extra musicali, in genere letterarie. L'invenzione di questo
genere era legata a tre esigenze fondamentali:
1) adottare il concetto classico di genere sinfonico senza ricalcare schemi formali tradizionali;
2) elevare la musica a programma da genere descrittivo a genere dai significati poetico-filosofici;
3) conciliare la gestualità espressiva, rapsodica delle sue composizioni pianistiche con la forma
“logica” della tradizione classica basata sull'elaborazione motivico-tematica.
In questo senso il poema sinfonico così come concepito da Liszt rappresentava un’evoluzione
della musica a programma che lo stesso Liszt aveva così descritto: «Nella cosiddetta musica
classica la ripresa e lo viluppo dei temi sono legati determinati da regole formali , considerate
irrefutabili (…) Nella musica a programma invece, ripetizioni, alternanze e variazioni, modulazioni
dei motivi sono condizionate da un’idea poetica».
Traccia 32
Franz Liszt
Mazeppa, poema sinfonico (1854): I parte
I poemi sinfonici listziani denotano la piena maturazione di quella concezione già operante nella
sua precedente fase compositiva per cui la creatività musicale si impregna fortemente di contenuti
poetici extramusicali, e d’altro lato mostrano l’esigenza di ampliare le dimensioni delle composizioni
73
mediante criteri diversi da quelli tradizionali: criteri che possono anche recuperare certi principi o
ricalcare certi schemi tradizionali come la forma-sonata, ma in un’ottica defunzionalizzata, in cui lo
schema poetico funge da guida narrativa, orientando l’itinerario espressivo lungo traiettorie
impreviste e imprevedibili. Questo sperimentalismo linguistico caratterizzerà anche la
tarda
stagione creativa lisztiana con una serie di brani pianistici che si svolgeranno su disegni quasi
atonali, con aspri urti dissonanti inaudite sovrapposizioni di accordi.
Mazeppa è il sesto poema sinfonico composto da Liszt. Alla sua base c’è un poema di Victor
Hugo ispirato alla storia di Ivan Mazepa nato nel 1644 a Kiev, paggio alla corte del re di Polonia. A
causa di una relazione con una nobildonna Mazeppa fu condannato e legato nudo al dorso di un
cavallo ucraino; il cavallo tornò in Ucraina e Mazepa semivivo fu raccolto e curato dai cosacchi di
cui più tardi divenne capo. Hugo nel suo poemetto contenuto nelle Horientales aveva fatto di
Mazeppa il simbolo dell'artista che, trascinato dal suo genio, attraverso la sofferenza diventa
poeta. (Il poemetto è preceduto come epigrafe da un verso del Mazeppa di
Byron
"Avanti!
Avanti!").
Il poema sinfonico di Liszt è diviso in due parti chiaramente separate: la cavalcata e il trionfo.
Nella prima parte viene descritta con vividi e crudi colori la cavalcata selvaggia; inizia con uno
scoppio, secco come una frustata, seguito dal movimento degli archi nel quale Liszt vuole dare il
senso della cavalcata mortale. Ma il movimento è solo un'introduzione che serve a preparare con
un grande crescendo di intensità il tema principale, il canto disperato e selvaggio di Mazeppa in re
minore. Come ha notato Carl Dahlhaus questa sezione del poema di Liszt è formalmente ambigua:
la tabella che segue mostra come il discorso sonoro possa essere schematizzato o come forma di
tema con variazioni o come Liedform ABA o come forma-sonata. «La forma musicale doveva
rimanere nell’ombra , secondo un dogma dell’estetica contenutistica condiviso anche da Wagner,
che lo spiegò proprio nel saggio sui poemi sinfonici di Liszt: la forma non doveva essere fine, ma
mezzo della realizzazione dell’«intenzione poetica» ( Dahlhaus 1970)
Liszt
Battute
tonalità
1-35
36-68
69-121
122-83
184-231
232-62
263-332
333-401
402
re
Si bem
Si re
V di re
re
re
Mazeppa - I parte : struttura formale
Schema 1
(tema con variazioni)
Introduzione
TEMA
Variazione 1
Variazione 2
Variazione 3
Variazione 4
Variazione 5
Variazione 6
Schema 2
( forma ABA )
Introduzione
A
Schema 3
Forma Sonata
Introduzione
Esposizione
B
Sviluppo
A
Ripresa
Coda
74
SCHEDA 15
Verdi e il melodramma italiano nel pieno Ottocento : La Traviata
Con
La traviata
che Verdi rinnova gli orizzonti tradizionali del melodramma con tecniche
drammaturgiche e musicali solo in parte tentate nel repertorio precedente; qui il dramma popolare
lascia il posto a un dramma borghese che si accosta come mai fino ad allora alla dimensione del
realismo quotidiano. Verdi si schiera a favore del libero amore, presentando in termini positivi il
personaggio di Violetta Valery a cui la morale corrente proibisce di vivere insieme all’uomo amato.
Quest’opera può essere assunta come termine di riferimento per evidenziare come le forme
musicali verdiane degli anni cinquanta accolgano ampiamente l'esperienza del melodramma
precedente rinnovandola tuttavia in alcuni aspetti essenziali. L'unità musicale non è ormai più data,
come nel vecchio teatro di tradizione settecentesca, dalla schematica successione di recitativi e
arie, ma non è neppure del tutto libera. La presenza di schemi formali precostituiti, di «numeri
chiusi» , è ancora viva in questo periodo e ancora pienamente funzionale alle attese del pubblico,
che amava costellare lo spettacolo degli applausi forniti a ciascun cantante alla fine del suo pezzo.
Le strutture musicali tendono in Verdi, dunque ad adattare le forme tradizionali alle esigenze del
teatro moderno. Cosi, ad esempio, il recitativo assume talora una continuità di linee melodiche e
un impegno espressivo che lo avvicina all'aria; e questa a sua volta può farsi meno compatta e
meno formalmente rigorosa cosi da aderire più prontamente alla concretezza delle situazioni
rappresentate
Tracce 33 a-b
Giuseppe Verdi
La Traviata ( libretto F.M. Piave) ( 1853)
Parigi, nella lussuosa casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi partecipano i
soliti mondani aristocratici, le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia nobiltà e moralità. È un tripudio di chiacchiere, di
risate e di musica. Durante la festa Violetta conosce Alfredo Germont: i due si innamorano e decidono di vivere
insieme, in una casa di campagna, lontani dalla confusione e dalla vita brillante della città. Mentre Alfredo è assente,
giunge suo padre, Giorgio Germont, il quale, nel corso di un drammatico colloquio con Violetta, le chiede di troncare la
sua relazione con il figlio poiché tale rapporto costituisce motivo di disonore per tutta la famiglia. Violetta, pur con
grande dolore, compie il sacrificio richiestole, abbandona Alfredo e torna a Parigi, dove riprende a frequentare
numerose feste e diviene l'amante del Barone Douphol. Anche Alfredo raggiunge Parigi e, proprio durante un
trattenimento in casa di comuni amici, incontra nuovamente Violetta e la insulta pubblicamente, gettandole ai piedi, in
segno di disprezzo, una borsa piena di denaro. Nel finale dell'opera, Violetta, malata di tubercolosi e senza speranza,
giace nel suo letto e invoca il ritorno e il perdono di Alfredo. Questi, al quale il padre ha rivelato nel frattempo il
sacrificio della giovane, accorre al capezzale di Violetta. I due ricordano i bei giorni felici trascorsi insieme e progettano
di lasciare Parigi per tornare alla serena vita in campagna Per un attimo Violetta sembra riprendersi; invece muore tra le
braccia dei suoi cari.
75
Atto I – Scena V - Finale
VIOLETTA
È strano! è strano! in core
Scolpiti ho quegli accenti!
Sarìa per me sventura un serio amore?
Che risolvi, o turbata anima mia?
Null'uomo ancora t'accendeva O gioia
Ch'io non conobbi, essere amata amando!
E sdegnarla poss'io
Per l'aride follie del viver mio?
Ah, fors'è lui che l'anima
Solinga ne' tumulti
Godea sovente pingere
De' suoi colori occulti!
Lui che modesto e vigile
All'egre soglie ascese,
E nuova febbre accese,
Destandomi all'amor.
A quell'amor ch'è palpito
Dell'universo intero,
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.
Resta concentrata un istante, poi dice
Follie! follie delirio vano è questo!
Povera donna, sola
Abbandonata in questo
Popoloso deserto
Che appellano Parigi,
Che spero or più?
Che far degg'io!
Gioire,
Di voluttà nei vortici perire.
Sempre libera degg'io
Folleggiar di gioia in gioia,
Vo' che scorra il viver mio
Pei sentieri del piacer,
Nasca il giorno, o il giorno muoia,
Sempre lieta ne' ritrovi
A diletti sempre nuovi
Dee volare il mio pensier.
Nella Traviata più stretto che mai si fa il rapporto fra la poetica del Realismo e le convenzioni del
Melodramma. Ciò avviene anche per l’adozione di un testo di freschissima stampa e per di più
ambientato nella contemporaneità:
novità davvero rivoluzionaria nell’opera seria italiana.
Il
soggetto dell’opera era tratto da La signora delle camelie che Alexandre Dumas aveva prima
scritto come romanzo (1848) e poi trasformato in dramma (1852 ), ispirandosi ad una storia
realmente accaduta. L’adozione del testo di Dumas e delle problematiche del “dramma borghese”
comportò però nelle mani di Verdi un cambiamento di prospettiva: in Dumas Margherita Gautier:
(questo il nome della protagonista) era insolente, disinvolta, spensierata e profondamente
malinconica; vizio e innocenza, purezza e lussuria erano intrecciate. Verdi separò ciò che Dumas
aveva mescolato e fece sparire questo groviglio di ambiguità : Violetta Valery è “traviata” , ha
perso la sua strada: la purezza interiore traspare nell’aria in «Ah, fors’è lui che l’anima» dove
l’amore per Alfredo appare come la possibile realizzazione dei suoi sogni infantili. «Dumas riscatta
Marguerite e al tempo stesso la condanna, segnata com’è dalla febbre di una sensualità attraente
ma negativa: invece, una volta ammesso che Violetta si è prostituita perché non ha saputo
sottrarsi alla corruzione della grande città, Verdi l’assolve senza pregiudizi.
E
questo eleva
Violetta a una statura mitica e fa di lei un perfetto personaggio dell’emarginazione» ( De Van
1994)
In altre parole Violetta vive per mestiere in un mondo di piacere che anima con la sua finta allegria
ma che le diventa estraneo perché è ossessionata dalla purezza perduta e lontana che la rende
76
intimamente innocente. Il conflitto principale messo in scena dalla Traviata è dunque quello di
Violetta con la società, della quale lei stessa è espressione.
In effetti la struttura generale
dell’opera rispecchia questo conflitto nel suo polarizzarsi tra due sfere: quella della festa e quello
della dimensione intima. La maggior parte del primo atto quale vede agitarsi la folla degli invitati
nell’appartamento di Violetta: il duetto fra protagonista e Alfredo è un enclave intimista circondato
da ogni parte. Il secondo Atto è rigorosamente diviso : la prima parte nella casa di campagna di
Violetta e Alfredo; la seconda parte nella casa di Flora dove ha luogo la scena del gioco e
dell’affronto di Alfredo a Violetta, L’ultimo atto infine è quasi interamente intimista e fa perno sulla
morte di Violetta nel suo appartamento dal quale si odono le voci allegre che festeggiamo il
carnevale.
L’aria finale di Violetta nel I atto ha in tal senso una valenza quasi simbolica: essa ha luogo in uno
spazio vuoto, dopo il congedo degli invitati e oscilla fra la prima parte, nella quale Violetta si
abbandona al suo sogno d’amore, facendo trapelare la sua vera natura e la seconda parte nella
quale ritorna al suo destino di cortigiana. Simbolo e cuore pulsante dell’opera è il motivo melodico
di corrispondente alla parte centrale dell’aria “Di quell’amor ch’è palpito : un motivo che ritorna
come reminiscenza in altri luoghi della Traviata .
Ma i connotati realistici rimangono dentro il codice formale melodrammatico: l’aria infatti rispetta
ancora sostanzialmente la tradizione con la sua bipartizione fra parte cantabile parte brillante
inframezzata dai recitativi. In sostanza Verdi riprende la “solita forma” rossiniana adattandola
perfettamente a quello che è il cuore drammaturgico dell’opera: la divisione della protagonista fra
l’impulso ad abbandonarsi all’amore puro e spontaneo per Alfredo
e la sua vita dissoluta di
cortigiana, “traviata” dalla società ipocrita e superficiale. Si riconosce il tempo d’attacco, nel
recitativo iniziale “E’ strano, è strano !” cui segue il cantabile, l’aria vera e propria “Ah, fors’è lui
che l’anima” , quindi il tempo di mezzo, una parte libera, interlocutoria, (“Follie, follie! ), e infine la
consueta cabaletta o stretta, culmine brillante, “Sempre libera degg’io”.
Verdi dunque riesce a forgiare la sua drammaturgia dentro quel complesso di convenzioni
condivise fra autori e pubblico in cui la variazione del noto era molto più importante della scoperta
dell’ignoto .
77
SCHEDA 16
Wagner e il dramma musicale: Tristan und Isolde
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano e Isotta venne in un primo momento proposto da
Wagner al teatro di Vienna, dove però fu respinto giudicandolo ineseguibile. Dovettero
trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta a
Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, col sostegno di Ludwig II. Alla base del libretto
c'è
un'antica saga medievale di probabile origine celtica. L'ispirazione diretta per la vicenda
Wagner la trasse dalla leggenda cortese di Tristano e Isotta diffusissima nella letteratura
medioevale, ma è probabile tuttavia che egli si sia ispirato alla tarda rielaborazione di
Gottfried von Strassburg del secolo XIII (la lesse nella lingua originale o nella versione
tedesca di H. Kurtz del 1844). Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi
completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo
schopenhaueriano.
Tracce 34-35
Richard Wagner
Tristano e Isotta (1857)
Atto II, Scena II – Atto III Finale
Atto I. La nave di Tristano sta conducendo Isotta, figlia dei reali d'Irlanda, in Cornovaglia dove andrà in sposa allo
zio dello stesso Tristano, re Marke. Tristano è riuscito nel suo intento uccidendo Morold, signore irlandese amato da
Isotta che pretendeva un tributo da re Marke. Isotta è agitata e racconta alla sua ancella Brangania che un giorno ella
aveva raccolto e curato un cavaliere ferito che diceva di chiamarsi Tantris; Isotta aveva riconosciuto in lui l'uccisore di
Morold, ma impietosita, invece di vendicarsi lo aveva curato con filtri magici tacendo a tutti il segreto. Ed ecco come
Tristano la ricompensava: prelevandola per concederla in sposa al vecchio Re di Cornovaglia! Isotta chiede quindi a
Brangania di portarle lo scrigno dove vi è un filtro di morte, che lei intende bere insieme a Tristano. Ma la morte non
arriva: Brangania ha sostituito il filtro di morte con un filtro d'amore. Isotta e Tristano si contemplano e poi si
abbracciano.
Atto II Nel giardino del castello di Re Marke, di notte. Approfittando della partita di caccia del Re e della corte,
Tristano e Isotta si incontrano con la complicità di Brangania; quest’ultima è titubante perché teme le insidie di Melot,
uomo di corte che si finge amico di Tristano e che in realtà ama segretamente Isotta. Dopo il segnale convenuto,
Tristano si precipita tra le braccia di Isotta ed insieme innalzano un inno alla notte, fida custode del loro amore. Alle
prime luci dell'alba, il grido di Brangania interrompe l'estasi. Kurwenald giunge trafelato ed invita Tristano a fuggire:
stanno arrivando Marke, Melot e altri cortigiani. Tristano apprende così che Melot aveva organizzato la partita di caccia
proprio per sorprendere gli amanti. Marke, è profondamente addolorato; Melot sguaina la spada e colpisce Tristano che,
senza aver neanche provato a difendersi, si accascia al suolo, ferito a morte.
Atto III Tristano si trova sulla spiaggia di Kareol in Bretagna, nelle vicinanze del suo castello: è ormai morente ed è
vegliato premurosamente da Kurwenald. Ad un tratto viene avvistata la nave che sta portando Isotta. Tristano, pur
morente, non resiste e barcolla per andare incontro ad Isotta. I due amanti si abbracciano e Tristano, pochi istanti dopo,
muore. Intanto sulla costa sono sbarcati da un'altra nave re Marke e Melot. Kurwenald si getta su Melot e lo uccide, ma
ferito a sua volta muore accanto a Tristano. Re Marke, sconvolto, racconta di aver appreso da Brangania la storia del
filtro d'amore e di essere venuto per perdonare e benedire gli amanti. Ma il suo arrivo è ormai tardivo: anche Isotta non
ascolta più nulla, desiderando solo “annegare nello spirante universo”. Come trasfigurata s'accascia e cade morta sul
corpo di Tristano.
78
ATTO II
BEIDE
O ew'ge Nacht,
süsse Nacht!
Hehr erhabne
Liebesnacht!
Wen du umfangen,
wem du gelacht,
wie wär' ohne Bangen
aus dir er je erwacht?
Nun banne das Bangen,
holder Tod,
sehnend verlangter
Liebestod!
In deinen Armen,
dir geweiht,
urheilig Erwarmen,
von Erwachens Not befreit!
Wie sie fassen,
wie sie lassen,
diese Wonne,
fern der Sonne,
fern der Tage
Trennungsklage
Ohne Wähnen
sanftes Sehnen;
ohne Bangen
süss Verlangen;
ohne Wehen
hehr Vergehen;
ohne Schmachten
hold Umnachten;
ohne Meiden,
ohne Scheiden,
traut allein,
ewig heim,
in ungemessnen Räumen
übersel'ges Träumen.
TRISTAN
Tristan du,
ich Isolde,
nicht mehr Tristan!
ISOLDE
Du Isolde,
Tristan ich,
nicht mehr Isolde!
BEIDE
Ohne Nennen,
ohne Trennen,
neu Erkennen,
neu Entbrennen;
endlos ewig,
ein-bewusst:
heiss erglühter Brust
höchste Liebeslust!
(Sie bleiben in verzückter Stellung)
A
A/ B
C
B
C
D
AMBEDUE
O notte eterna,
dolce notte!
Augusta, sublime
notte d'amore!
Colui che tu hai stretto,
colui al quale hai sorriso,
come senza timore
si sveglierebbe mai da te?
Bandisci dunque il timore,
o dolce morte,
o ardentemente invocata
morte d'amore!
Nelle tue braccia,
a te sacri,
[quale] ardore santo ed antico,
libero dall'angoscia del risveglio!
Come comprenderla,
come lasciarla,
questa voluttà,
lontana dal sole,
lontana dal giornaliero
dolore della separazione!
Senza illusione
mite aspirare;
senza timore
dolce desiderare;
senza dolore
alto disciogliersi;
senza languire,
grato annottare;
senza distacco,
senza separazione,
caramente soli,
ad un focolare eterno,
in interminati spazi,
sovrumano sognare:
TRISTANO
Tu Tristano,
io Isolda,
non più Tristano.
ISOLDA
Tu Isolda,
io Tristano,
non più Isolda!
AMBEDUE
Senza chiamarsi,
senza separarsi,
nuovo riconoscere,
nuovo ardere;
senza fine eternamente,
intimamente consci:
cuore ardente come la fiamma,
suprema voluttà d'amore!
(Rimangono in atto estatico)
79
ATTO III – Scena III e ultima
ISOLDE
Mild und leise
A
wie er lächelt,
wie das Auge
hold er öffnet, seht ihr's, Freunde?
Säh't ihr's nicht?
Immer lichter
wie er leuchtet,
sternumstrahlet
hoch sich hebt?
Seht ihr's nicht?
Wie das Herz ihm
mutig schwillt,
voll und hehr
im Busen ihm quillt?
Wie den Lippen,
B
wonnig mild,
süsser Atem
sanft entweht: Freunde! Seht!
Fühlt und seht ihr's nicht?
C
Hör ich nur
A
diese Weise,
die so wundervoll und leise
Wonne klagend,
B
alles sagend,
mild versöhnend
aus ihm tönend,
in mich dringet,
C
auf sich schwinget,
hold erhallend
um mich klinget?
Heller schallend,
D
mich umwallend,
sind es Wellen
sanfter Lüfte?
Sind es Wogen
wonniger Düfte?
Wie sie schwellen,
mich umrauschen,
soll ich atmen,
soll ich lauschen?
Soll ich schlürfen,
untertauchen?
Süss in Düften
mich verhauchen?
In dem wogenden Schwall,
in dem tönenden Schall,
in des Weltatems
wehendem All, ertrinken,
versinken…
unbewusst…
höchste Lust!
(Isolde sinkt, wie verklärt, in Brangänes Armen sanft auf
Tristans Leiche. Grosse Rührung und Entrücktheit, unter
den Umstehenden. Marke segnet die Leichen.
ISOLDA
Lieve, sommesso
come sorride,
come l'occhio
dolce egli apre,...
lo vedete amici?
Non lo vedete?
Sempre più limpido
come esso brilla,
e raggiante d'una luce stellare
si leva verso l'alto?
Non lo vedete?
Come il cuore a lui
baldanzosamente si gonfia,
e pieno e maestoso
nel petto gli sgorga?
Come alle labbra,
voluttuosamente miti,
un dolce respiro
lievemente sfugge:...
Amici! Vedete!
Non lo sentite, non lo vedete?
Odo io soltanto
questa melodia,
che così meravigliosa e sommessa,
voluttà lamentosa
tutto esprimente
dolce conciliante,
da lui risuonando
penetra in me,
e verso l'alto si libra
e dolce echeggiando
intorno a me risuona?
Queste armonie più chiare
che mi circondano,
sono forse onde
di miti aure?
Sono forse vortici
di voluttuosi vapori?
Come esse si gonfiano
e mi circondano del loro sussurro,
debbo io respirarle,
prestar loro ascolto?
A sorsi berle,
sommergermici?
Dolcemente in vapori
dissiparmi?
Nell'ondeggiante oceano
nell'armonia sonora,
del respiro del mondo
nell'alitante Tutto...
naufragare,
affondare...
inconsapevolmente...
suprema gioia!
(Isolda, come trasfigurata, cade tra le braccia di
Brangania, sul cadavere di Tristano. Grande commozione
e rapimento tra gli astanti. Re Marco benedice i cadaveri.
- Der Vorhang fällt langsam
La tela cala lentamente
C
80
Il dramma, ambientato in Cornovaglia e in Bretagna in epoca remota e non precisata,
ha fortissimi legami con
l’estetica romantica di Novalis ma anche
con la filosofia di
Schopenhauer. Thomas Mann, tra i più attenti “lettori” del Tristano affermò in
proposito che «per il suo culto della notte, per le invettive al giorno, il Tristano si rivela
opera romantica, profondamente legata al pensiero e al sentimento del romanticismo,
né avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è patria e regno di
ogni romanticismo». Un più recente studioso ha tuttavia affermato che «La lettura del
Mondo come volontà e rappresentazione fu la sollecitazione a stringere in un solo atto
creativo l ' universo della tradizione spirituale occidentale, delle suggestioni, delle
epoche mistiche, delle culture, delle idee religiose e filosofiche che Wagner nel punto
culminante della sua vita sentì, consapevolmente e inconsapevolmente, operare in sé.»
(Serpa)
Quel che è certo è che in quest'opera enorme rilievo viene dato all'idea, tipicamente
romantica, della passione amorosa irresistibilmente attratta dalle tenebre della notte e
della morte. In tal senso, il grande duetto d'amore dell'atto II è il momento supremo
dell'opera, non a caso collocato esattamente al centro del testo. Qui Tristano e Isotta si
proclamano "sacrati alla notte", e il loro momento “dell'illuminazione” si pone in contrasto
alla luce del giorno che invece porrà fine alla loro estasi amorosa, con l’irruzione di Melot
e del re. In tal senso questo duetto discende direttamente da un testo fondamentale del
Romanticismo come gli Inni alla notte di Novalis
Confrontando il duetto centrale del lunghissimo secondo Atto, nel corso del quale i due
amanti inneggiando alla notte, con il finale del I atto della Traviata di Verdi, quasi
contemporanea, apparirà chiaro che mentre il dramma musicale wagneriano scardina
completamente le strutture della sintassi operistica tradizionale, Verdi lavora dall’interno
piegando tali strutture alla sue esigenze di un teatro “moderno”.
La parte finale dei questo brano è intessuta attorno a quattro Leitmotive —
qui
evidenziati con lettere diverse — che la critica ha generalmente denominato:
motivo della morte ( A )
motivo della glorificazione d’amore ( B)
motivo del filtro magico (C )
motivo della felicità ( D )
La morte è, per i due protagonisti, l'unico vero appagamento ed insieme compimento del
loro amore: Tristan und Isolde è il poema dell’amore che si realizza solo con la negazione
della volontà di vivere: ecco dunque il motivo della morte intrecciarsi con quello dell’amore e
poi con quello della felicità e del filtro (appunto inizialmente pensato come filtro di morte e
invece diventato filtro d’amore ). Gli stessi motivi, in ordine diverso, ritornano nella scena
finale della morte di Isotta: stavolta il motivo della felicità, che dà luogo nel duetto ad una
crescita della tensione — procedente per ondate sempre più forti — bruscamente interrotta
81
dall’arrivo della corte, conclude dolcemente la sua linea, e nel momento in cui cala il sipario
l’oboe intona per l’ultima volta il motivo del filtro.
Tristan und Isolde è al tempo stesso una pietra miliare dal punto di vista delle tecniche
compositive: si afferma comunemente, puntando forse indebitamente sul solo aspetto del
linguaggio armonico-tonale, che il cromatismo del Tristano preannuncia la dissoluzione delle
secolari convenzioni di strutturazione del suono che va sotto il nome di sistema tonale e a
quest'opera capitale si usa fare riferimento per cercare le origini di tutti gli aspetti innovativi
della musica tardo ottocentesca.
82
SCHEDA 16
Brahms e la seconda fioritura della sinfonia
All’inizio degli anni Settanta Brahms scrisse all’amico Hermann Levi: «Non scriverò mai una
sinfonia, non avete idea di come si sentano le persone come noi udendo un tal gigante che
marcia alle nostre spalle». Il gigante di cui si parlava nella lettera era naturalmente
Beethoven, rispetto al quale il timore reverenziale fu superato non casualmente dopo
l’inaugurazione del Festspielhaus di Bayreuth nel 1876; solo allora in effetti Brahms trovò la
spinta decisiva, dopo vent’anni di incertezze, per terminare la sua Prima Sinfonia, come se
questa dovesse costituire una sua personale risposta agli ideali wagneriani. Fedele ai propri
convincimenti estetici - secondo cui era solo «l’illusione di una malintesa originalità l’idea di
procedere per proprio conto» rispetto alle forme del passato «edificate grazie all’impegno
millenario dei più eccelsi maestri» - Brahms si accostò alla Sinfonia rispettando
l’articolazione formale degli ineludibili riferimenti classici. Tuttavia il genere che in Beethoven
era inteso come un’allocuzione all’umanità, venne da lui condotto in una dimensione nella
quale la ricchezza dei dettagli e la profondità delle relazioni si ponevano come segni
dell’intenzione di rivolgersi ad una somma di “individui” piuttosto che a una “massa”.
Traccia 36 a-b
Johannes Brahms
Terza Sinfonia in Fa maggiore op.90 (1883) :
III movimento, Poco allegretto
La Sinfonia n.3 op.90 rappresenta, una caso emblematico del modo peculiare con cui
Brahms interpreta un genere considerato, ancora al suo tempo, sede privilegiata del
monumentale e del grandioso. Nell'analizzare la partitura, è inevitabile che ci si scontri con
il complesso problema del passato. Brahms viveva in un difficile periodo di transizione,
difficile in quanto la pesante eredità di Beethoven non poteva ancora essere considerata
col dovuto equilibrio: impensabile, d'altronde, comporre (soprattutto in ambito sinfonico)
senza aver fatto i conti con quella determinata realtà. Ogni compositore aveva reagito
secondo
la
propria
natura
o
il
proprio
credo:
chi
dissociandosi
dall'«assoluto
beethoveniano» e chi rafforzando l'aspetto poetico, chi esaltando la dimensione lirica, chi
approdando all'opera romantica.
Oppresso da una situazione satura di passione, polemiche ed incognite, Brahms aveva
superato lo scoglio di imbarazzanti eredità - vent'anni di attesa per la prima pagina
sinfonica - attraverso un tenace studio della storia e la messa a punto di un codice
83
indiscutibilmente personale. Il raffronto Beethoven-Brahms è particolarmente significativo se
si assume la terza Sinfonia come campione: l'universo che si affaccia in questa partiturasimbolo è caratterizzato dalla profonda attenzione al dettaglio, anche a costo di
penalizzare l'immediatezza nella comunicazione.
Si è osservato spesso che all’interno di questa partitura sembra compiersi una sorta di
simbolica metamorfosi dall’Allegro iniziale, la cui gestualità ha ancora qualcosa della
monumentalità “eroica” beethoveniana, fino al movimento conclusivo, contratto in una
dimensione sonora intimistica; perno di questo passaggio, sarebbe il Poco Allegretto, nelle
sue sembianze liriche e malinconiche, lontanissime dal vigore ritmico degli Scherzi
beethoveniani.
In realtà, guadando con maggiore attenzione all’insieme dell’opera, si coglie il dato di fondo
di una grande architettura la cui imponenza sembra essere paradossalmente il risultato di
una calibratissima opera di cesello. La struttura è infatti quasi interamente determinata da
un’idea centrale, quella che si annunzia all’inizio della Sinfonia come una sorta di “motto”
affidato a ottoni e legni:
84
un gesto semplice che riascoltiamo subito come basso della melodia iniziale e che si presta
a riapparire di continuo nel corso dell’opera sempre con funzioni diverse, ora come elemento
contrappuntistico, ora come motivo
di
transizione,
ora
come melodia
cantabile.
Dall’onnipresenza di questa cellula elementare la costruzione monumentale assume la sua
coerenza ma anche la sua notevole differenziazione interna. Si tratta di una “struttura
profonda” che può essere colta soltanto con un ascolto analitico, quello che il compositore si
attendeva da quella élite colta viennese che costituiva il suo orizzonte di riferimento ideale.
Proprio a questo si riferiva Theodor Adorno, osservando che «la sfera privata, come sostrato
dell’espressione, rimuove in Brahms quello che si potrebbe chiamare la sostanziale
disponibilità pubblica della musica».
Il confronto più eloquente rispetto ai precedenti beethoveniani può esser fatto guardando
al terzo movimento della Sinfonia, un Poco Allegretto, aperto da un tema celeberrimo,
presentato dai violoncelli e sostenuto dagli archi. Qui siamo lontanissimi dallo spirito dello
Scherzo beethoveniano: il brano è infatti caratterizzato dalle mezze tinte, dal fluido
concatenarsi delle idee in un movimento delicato, lirico, affettuoso e malinconico insieme.
La forma sembra tradizionale (A-B-A’), collegabile ancora alla tradizione del Minuetto e
dello Scherzo ma il senso è molto diverso. La prima parte è vistosamente melodica con
una seconda idea, ancor più lirica e struggente della prima, e che dunque non apporta
segni di contrasto; e così pure la seconda parte , un'altra oasi meditativa nello spirito della
danza lenta.
Questo Allegretto è ritenuto dalla critica la pagina più espansiva, più affabile, più
meritatamente nota di tutto il sinfonismo brahmsiano e può ben essere chiamato a
rappresentare il ripiegamento intimistico che stacca Brahms dalla monumentalità
beethoveniana.
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