Birchio
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Quesito:
Monica Gori di Montevarchi ci chiede il significato e l'etimologia della voce birchio che
conosce usata nel Valdarno Superiore per indicare 'chi è figlio di genitori sconosciuti'.
Birchio
La voce birchio ha avuto e tuttora conserva una posizione controversa nella lessicografia di
lingua: risulta attestata in alcuni dizionari sincronici attuali (GRADIT, DISC e successivamente
Sabatini-Coletti fino all'ultima edizione, Devoto-Oli a partire dal 1967 fino al 2008) come voce
toscana col valore di 'trovatello (che vive in un ambiente contadino)'. Non compare invece
nelle molte edizioni dello ZINGARELLI né nel Palazzi Folena (F. Palazzi, G.F. Folena,
Dizionario della lingua italiana, 1992), per rimanere nell'ambito dei dizionari di impronta
toscanista. La datazione di ingresso in lingua varia dal 1865 (GRADIT) al 1957 (DISC/
Sabatini-Coletti e ultime edizioni del Devoto-Oli). Per quel che riguarda la lessicografia
ottocentesca il lemma birchio si trova nel Dizionario della lingua italiana del Tommaseo (18611879), che già gli riservava il simbolo indicante la decadenza dall'uso: "Birchio e Birchia nel
Valdarno Bastardo e Bastarda"; non lo registrano invece altri dizionari della seconda metà del
secolo che si rifanno al patrimonio lessicale toscano: non il Vocabolario italiano della lingua
parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, né il Supplimento a' vocabolarj italiani di
Giovanni Gherardini e neanche il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di
Firenze, il cosiddetto Giorgini-Broglio.
Eppure la voce circolava fra coloro che si occupavano di lingua toscana sul finire dell'800:
compare in una raccolta di Pirro Giacchi, Voci, Modi di dire, Proverbi, etimologie di Toscana,
pubblicata ne Il Borghini (anno primo, 1863, pp. 249-253) con il commento: "Si adopera in
tutto il senese, e serve a denotare un bastardo, o meglio un esposto, un trovatello, un figlio di
orfanotrofio. Ha il femminile Birchia" (p. 251). Pochi anni prima (1856) veniva pubblicato a
Firenze il volume Canti popolari toscani, [...], raccolti e annotati da Giuseppe Tigri: nella nota
esplicativa di Tigri alla stanza 46 del poemetto rusticale Le disgrazie della Mea - i cui primi
quattro versi recitano "Po' non ne feci più che stiedi un pezzo: / Bell'è che anco il mi' uom
m'ava inzurlito. / Ba', Mea, ba', ti vuo' donare un vezzo / Se tu fa un antro burchio al tu'
marito" - si legge: "[...] Burchio, o birchio, intendi figliuolo. Cosi chiamano in montagna un
bambino preso allo Spedale degl'Innocenti" (p. 392). Ritroviamo poi il termine nel dialogo dal
titolo Un po' di tutto che Giacomo Gargiolli pubblicò in appendice a L'arte della seta in
Firenze, trattato del secolo XV da lui edito nel 1868; il dialogo vuol essere una sorta di
integrazione non priva di polemica nei confronti del "chiarissimo professor Rigutini" il quale
aveva "da poco tempo fa [1864] pubblicato le sue giunte al Vocabolario dell'uso toscano [di
Pietro Fanfani, 1863], registrando voci e maniere di dire senesi, aretine, pistoiesi e di
valdichiana, senza però metterle a confronto delle fiorentine". In esso Gargiolli conta di
"supplire a cotesta mancanza, tenendo a riscontro le nostre [voci]" (p. 244), facendo proporre
ai diversi interlocutori le corrispondenti fiorentine alle singole voci delle Giunte del Rigutini;
così a p. 261: "Francesco [legge dal Rigutini] Spedalino. Nel senese è il gettatello, tolto dallo
Spedale. Beppe [controbatte] Noi innocentino, e in campagna birchio". Il termine viene poi
ripreso nell'Indice di voci e modi notevoli pubblicato in coda, dove si legge birchio "Nelle
campagne fiorentine dicesi così dell'innocentino o trovatello".
Da queste testimonianze, oltre a una certa vitalità della voce ancora nel secolo XIX
(contrariamente a quanto registrato nel Tommaseo), si può dedurre la sua appartenenza a un
ambito rurale e anche, almeno parrebbe, una diffusione piuttosto estesa sul territorio
regionale; estesa o discorde: si adopera "nel Valdarno" (superiore? inferiore?) dice il
Tommaseo, e "in tutto il senese" scrive Giacchi; eppure è proprio allo spedalino in uso "nel
senese" che Gargiolli contrappone il birchio delle "campagne fiorentine". Per Tigri poi la voce
è quella usata "in montagna" e sarà quella pistoiese, visto che l'autore del poemetto
commentato, Jacopo Lori (1722-1776), nacque a San Marcello e visse da parroco al Montale
Pistoiese, e che lo stesso Tigri (che introduce birchio in alternativa al burchio del testo) era
pistoiese. Pistoiese era anche Policarpo Petrocchi che attesta birchio nella parte "fuori
dall'uso" del suo Nòvo dizionario universale della lingua italiana (1902 2a. ed., la prima è del
1891) e che lo glossa come "lucchese".
Non tutte queste localizzazioni trovano riscontro nei vocabolari dialettali coevi: non c'è traccia
del termine nel Vocabolario dell'uso toscano del Fanfani (1863), né nei vari repertori
ottocenteschi di voci fiorentine e nemmeno nel Saggio di uno studio sopra i parlari vernacoli
della Toscana di Gherardo Nerucci (1865) che in realtà tratta della montagna pistoiese; né lo
si trova nel Vocabolario lucchese di Idelfonso Nieri (1901); a questo proposito è bene
precisare che la glossa "lucchese" scompare dalle edizioni successive del dizionario del
Petrocchi.
La letteratura sembra ignorare la voce, con qualche rarissima eccezione di ambito toscano: in
una lettera datata Pieve Santo Stefano, 18 giugno 1908, (Carteggio vol. I, 1903-1908, dal
"Leonardo" a "La voce", a cura di Mario Richter, Roma 1991) Giovanni Papini scrive ad
Ardengo Soffici: "E m'è arrivato anche il dizionario [è il Nòvo dizionario del Petrocchi], ch'è
buono davvero. È a due piani: sopra c'è la lingua d'uso e sotto quella antica o speciale o
contadinesca. È ricchissimo - ci ho trovato anche molte di quelle parole che adopran qua e
perfino il tuo birchio!" (lettera 195, p.252). Ardengo Soffici, nato a Rignano sull'Arno, usa
effettivamente la voce in L'uva e la croce (1951): "Al tempo di cui parlo sedeva e lavorava di
calzolaio anche un giovanotto che Manzetto, essendo senza figlioli, aveva preso al Bigallo
[all'epoca sede di un orfanotrofio] per farsene un garzone, e che, a causa di quella sua
provenienza, era detto il Birchio, nome che nel Valdarno si dà appunto ai trovatelli" (p.141
Opere, vol. 7, parte 1, edizione Vallecchi). Il fiorentino Aldo Palazzeschi titola Carburo e
Birchio una delle sue novelle pubblicata nella raccolta Il Palio dei buffi del 1937, nella quale
scrive: "Birchio invece, so bene quel che vuol dire: nella valle dell'Arno si chiaman birchi i
bastardi, figli di genitori ignoti, venuti fuori dai brefotrofi o raccattati e cresciuti in mezzo agli
altri non si sa come, con simpatia mista a dispregio, o dileggio più precisamente; vera la
simpatia, formale il dileggio, retorico senz'altro; prestandosi fino dai primi anni a tutte le
faccende, e pronti ad acciuffare dalla vita furbescamente l'infinita varietà delle sue battute" (p.
109 sg., in Tutte le novelle, "I Meridiani", 1975). E più sotto apprendiamo dalla voce dello
stesso Birchio che egli è "senza babbo" e "da quando [lo] hanno preso dallo stituto, [aveva]
dieci anni, [lo hanno] tenuto sempre nella stalla" (per avere un'idea ancor più precisa di quale
vita conducessero i birchi basta leggere la novella). L'attestazione di Palazzeschi è l'unica
citata dal GDLI che riporta il lemma senza notazioni col valore 'figlio di ignoti, bastardo'.
Benché la voce sia presente, come abbiamo visto, in alcuni dizionari di lingua (probabilmente
sulla scorta prima del Tommaseo e poi dell'uso di Palazzeschi e Soffici) non può certo essere
ritenuta appartenente all'italiano standard, e neanche, crediamo, all'italiano regionale toscano.
Infatti all'interno della regione il termine ha un'area piuttosto limitata anche a prescindere dal
significato assunto. Gabriella Giacomelli nel suo Aree lessicali toscane (in "La ricerca
dialettale" 7, 1975, pp. 115-152) aveva individuato per birchio due significati diversi
corrispondenti a due circoscritte aree di diffusione: il termine vale infatti secondo la studiosa
«"guercio" nella Toscana meridionale, "trovatello" nel Casentino e nel Valdarno Superiore» (p.
117). Giacomelli si basava su dati raccolti nell'ambito della ricerca da lei diretta per l'Atlante
Lessicale Toscano (ALT) allora agli inizi; quella ricerca è ormai conclusa da tempo e dal 2006
i risultati sono disponibili anche in rete come ALT-Web: i dati completi confermano
sostanzialmente quanto detto da Giacomelli e aggiungono un ampliamento della diffusione
per il valore 'strabico' (o anche 'miope', 'che guarda di traverso' o simili) lungo la tutta la
Valdichiana e in area pisana settentrionale e meridionale. Inoltre ALT-Web fornisce per il
termine gli ulteriori valori 'avaro' in area lucchese (che sarà però da considerare incrocio con
pirchio a sua volta riferibile al pantoscano tirchio), 'maschio della pecora' nel Chianti fiorentino
e 'puledro dell'asino' (con avvicinamento probabile a bricco 'asino' attestato proprio nel
grossetano meridionale) al confine col Lazio. Infine una interessante attestazione per
'scapolo' in area appenninica, coesistente col valore di 'trovatello'. Questi dati vanno integrati
con l'attestazione del valore 'trovatello' per il versante senese dell'Amiata fornita da due
vocabolari di area (U. Cagliaritano, Vocabolario senese, 1975 e G. Fatini, Vocabolario
amiatino, 1953) e con birchio 'strabico ...' testimoniato per l'umbro nel Vocabolario del dialetto
di Magione (Perugia) di Giovanni Moretti (1973).
Per quel che riguarda l'etimologia del termine un tempo si pensava (così in Tommaseo) a un
possibile legame con il latino hircus 'capro, montone', ipotesi che troverebbe un qualche
sostegno nel valore di 'maschio della pecora' testimoniato in ALT; più recentemente però si
preferisce metterlo in relazione con bircio 'guercio; strabico; miope; che guarda di traverso (di
persona e di occhi)' forma toscana occidentale e anche italiana; presente dalla seconda
edizione nel Vocabolario degli Accademici della Crusca, bircio è attestato dal XVI nelle
Rime Burlesche di Mattio Franzesi e nelle Lettere familiari di Annibal Caro nel sintagma
occhio bircio, ed è registrato nei dizionari sincronici attuali come "raro" o "toscano". Sia bircio
sia birchio secondo il LEI (Max Pfister e Wolfgang Schweickard, Lessico Etimologico Italiano,
dal 1979) sarebbero riconducibili alla radice *be?-/*be?- che riunisce "voci che suscitano
ripugnanza e disprezzo"; a questa radice si rifanno forme che coprono significati attinenti ai
concetti 'schifo, ribrezzo', 'insetti, animali repellenti' e anche 'persone non simpatiche' e 'cosa
che ostacola la vista', 'vista non normale'; proprio in quest'ultimo raggruppamento di voci
coesistono "con -r- (di guercio < longob. *dwerh) il veneto biertzo 'chi guarda di traverso;
guercio', l'italiano bircio e il toscano birchio". Al riguardo si potrebbe citare l'evoluzione
semantica della forma orbo derivata "dal latino orbu(m) che in epoca classica indicava colui
che aveva subìto una perdita dolorosa (significato particolare nell'ambito delle lingue
indeuropee, condiviso con l'armeno e il greco, dove la voce corrispondente indica l''orfano',
cioè colui che è 'privo' del padre). Da espressioni come orbus lumine (Ovidio) o orbitas luminis
'perdita di un occhio' (Plinio) si passò all'uso assoluto di orbus per 'cieco'" (DELI). Forse anche
per bircio (birchio) si potrebbe ipotizzare come primario il tratto 'privo (di qualcosa di vitale)';
quindi 'privo di un occhio' e 'privo di padre' costituirebbero sviluppi paralleli e non
necessariamente in stretto rapporto di derivazione; ricordiamo anche l'attestazione fornita da
ALT-Web per l'area appenninica, di birchio come 'scapolo' che può intendersi come 'privo di
un rapporto vitale nell'organizzazione della società tradizionale'.
A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
30 ottobre 2009
La variazione linguistica
URL di origine: http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domanderisposte/birchio