I melodrammi di Gaetano Donizetti, secondo prassi generalizzata, si

IL PRELUDIO NEL MELODRAMMA DONIZETTIANO: MORFOLOGIA E FUNZIONE DRAMMATURGICA
DI ERIKA CUNA
I melodrammi di Gaetano Donizetti, secondo prassi generalizzata, si aprono con un brano
strumentale introduttivo, eseguito – in linea di massima – prima che si alzi il sipario: può trattarsi di un preludio
o di una sinfonia. Queste ultime, di regola, si rifanno al modello rossiniano, anche se negli ultimi anni se ne
distaccano nel senso di un avvicinamento ai modelli europei (in Maria di Rohan, ad esempio, si ha una fitta
elaborazione tematica e un’estesa sezione di sviluppo). I preludi sono la maggioranza, hanno una durata in
genere molto breve e bastano per richiamare l’attenzione dell’ascoltatore, per creare l’atmosfera preparatoria
alla prima scena oppure al dramma nel suo complesso. Possono avere una durata minima di cinque battute,
come nel caso di Elvida, o espandersi sino ad un massimo di sessantaquattro battute, come nel caso di Maria
de Rudenz o Dom Sébastien. Il presente studio intende approfondire la conoscenza, sul piano morfologico e
della funzionalità drammatica, dei preludi introduttivi alle opere di Gaetano Donizetti (1797-1848). Vengono
presi in considerazione, perciò, i soli preludi e non le sinfonie ovvero ouvertures, sia per delimitare una materia
troppo vasta, sia perché la logica musicale e drammatica di queste opposte tipologie è assai diversa. Le opere
teatrali sono generalmente introdotte da un brano strumentale di breve o media lunghezza, che prende il nome
di ouverture, sinfonia o preludio1. Il termine ouverture, mutuato dal francese, sta ad indicare un pezzo più o
meno sviluppato, tradizionalmente concepito per orchestra, usato per aprire un balletto, un’opera o un oratorio,
che prese una forma standard alla corte di Luigi XIV, nei lavori di Jean-Baptiste Lully. In precedenza, nell’opera
italiana del Seicento, i drammi iniziavano senza preludio oppure erano preceduti da una breve composizione
strumentale detta ‘sinfonia’: questo termine va inteso in senso generico, poiché si designavano come ‘sinfonia’
tutti i brani strumentali indipendenti, anche quelli destinati ad accompagnare un cambio di scena o il movimento
di una ‘macchina’. In seguito i preludi vennero sviluppati in una breve sonata, ma solo con Lully si arrivò ad una
forma fissa di introduzione drammatica alle opere: la cosiddetta ‘ouverture alla francese’, che avrebbe
influenzato i compositori di tutta Europa ad eccezione dell’Italia (le opere di Händel rappresentate in Inghilterra,
ad esempio, sono di tipo essenzialmente italiano, ma adottano l’ouverture alla francese). Questo tipo di
ouverture presentava una struttura tripartita, con un primo movimento lento, spesso in modo minore e in ritmo
puntato, uno centrale veloce, generalmente in stile fugato, ed un ultimo lento, che nella maggior parte dei casi
fungeva da ripresa.
Contemporaneamente, in Italia, si andava sviluppando una forma diversa di ouverture,
spesso designata col termine di ‘sinfonia avanti l’opera’ o semplicemente ‘sinfonia’. Essa era ugualmente
tripartita, ma a differenza di quella francese presentava tre movimenti indipendenti: veloce-lento-veloce. Il primo
movimento veloce adottava lo schema binario destinato ad evolversi nella cosiddetta forma-sonata; era sempre
in modo maggiore e rivestiva spesso un carattere gioioso, in stile di fanfara. La parte centrale era molto più
melodica e più lirica. L’ultimo movimento, infine, aveva il carattere di danza, come il movimento di una suite.
A partire dalla seconda metà del Settecento l’ouverture/sinfonia subisce l’influenza del
sinfonismo galante e classico, ne adotta lo stile, segue le mutazioni di struttura della forma sonata e può
godere di una diffusione da concerto indipendente dall’opera per cui è stata composta. All’inizio dell’Ottocento
la sinfonia dell’opera italiana trova il suo campione in Gioachino Rossini, le cui sinfonie suscitano nel pubblico
un’attenzione senza precedenti: la loro struttura formale è, a grandi linee, quella di un tempo in forma-sonata
con ampia introduzione lenta, priva di una vera e propria sezione di sviluppo2. Proprio il caso di Rossini, le cui
sinfonie spesso sono sostanzialmente indipendenti dal dramma (e vennero infatti riutilizzate da un’opera
all’altra) pone il problema della relazione fra brano strumentale introduttivo e corpo dell’opera. Nel corso
dell’Ottocento diviene più frequente omettere la sinfonia o l’ouverture in favore di un preludio, che si differenzia
fondamentalmente per la struttura. Infatti i preludi sono in genere più brevi, sebbene di lunghezza assai
variabile, non hanno uno schema fisso e non seguono alcuna regola formale precostituita. Possono essere
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formati da un certo numero di idee tematiche esposte ed elaborate in modo conciso o da poche battute di
semplici figurazioni, scale, arpeggi o accordi, la cui unica funzione è indicare all’ascoltatore che l’opera sta per
avere inizio: una funzione che, prendendo a prestito un termine dalla teoria degli atti comunicativi, possiamo
definire ‘fàtica’3 ovvero tale da stabilire una comunicazione fra chi comunica e chi ascolta. Probabilmente il
ricorso frequente al preludio si può spiegare col fatto che, crescendo l’attenzione verso la funzionalità
drammatica ed espressiva della musica teatrale, la sinfonia/ouverture viene sentita come troppo staccata ed
autonoma rispetto al dramma.
In effetti il problema del rapporto fra sinfonia e dramma era stato sollevato nei circoli che
aspiravano ad una ‘riforma’ del teatro musicale fin dal Settecento, con posizioni anche divergenti. Francesco
Algarotti, nel Saggio sopra l’opera in musica (1755), affermava che il fine principale della sinfonia era quello di
annunciare l’azione, di «preparar l’uditore a quelle impressioni di affetto che risultano dal totale del dramma»4.
Stefano Arteaga, nel saggio Le rivoluzioni del teatro musicale italiano (1785), laddove affrontava il problema
delle cause della decadenza dell’opera, includeva anche la sinfonia fra i difetti correnti del genere, ma riteneva
ch’essa avrebbe dovuto preparare non già a tutto il dramma, bensì alla prima scena; infatti «è impossibile
individuare oggetti e sentimenti diversi e contrari che risultano dal totale di un dramma nel breve spazio di un
quarto d’ora, che al più si impiega nell’apertura». E proseguiva: Lodo l’usanza di suonare gli strumenti avanti
che portano i personaggi, mi sembra necessaria non che opportuna a sedar il confuso mormorio degli uditori, a
svegliar la loro attenzione, e a preparar gli animi al silenzio e alla compostezza. Condanno bensì, che i maestri
non abbiano cavato da siffatto principio tutti i vantaggi che ne potevano, e che riflettuto non abbiano qualmente
la sinfonia preliminare, oltre l’eccitar la curiosità dell’udienza, ha per iscopo eziando l’esporre come in breve
argomento l’indole dell’affetto, che regnerà nella prima scena5. Inoltre secondo Arteaga la prassi consueta, se
mantenuta, avrebbe condotto ben presto la musica teatrale ad una monotonia sgradevole, che avrebbe
dominato per tutto il dramma. In questa maniera l’autore sarebbe stato costretto ad ascoltare quel genere
d’armonia dall’inizio alla fine dell’opera. Arteaga si dimostrava piuttosto in piena sintonia con la tesi di Antonio
Planelli, il quale aveva sostenuto che «vuol dunque l’apertura avere intima connessione colla prima scena del
dramma»6.
Donizetti nel mondo teatrale italiano - Nel teatro della prima metà dell’Ottocento la
figura centrale è l’impresario, unico proprietario delle opere scritte dai compositori. Dopo l’impresario, vero
motore dell’organizzazione teatrale, il cantante rappresenta il centro intorno a cui gravita la produzione
operistica, fatto confermato anche dall’importo degli ingaggi dei cantanti, che risultano essere i più onerosi. Il
compositore occupa un posto di relativo prestigio nella gerarchia musicale: è considerato un semplice
prestatore d’opera a cui viene richiesto il compito di scrivere della musica che valorizzi le voci dei cantanti.
Inoltre, il lavoro, una volta terminato, non rimane di sua proprietà, poiché viene ceduto all’impresario o al teatro
che lo aveva commissionato. Nella composizione dell’opera egli è costretto ad attenersi ad una serie di
convenzioni dalle quali difficilmente si può astenere. Ad esempio è condizionato dalla scelta del soggetto da
musicare, dai termini del contratto, dalla scaletta dell’opera stabilita col librettista, il quale inoltre decide, in base
alle consuetudini e ai gusti del pubblico, la struttura linguistico–musicale in rapporto all’azione teatrale. Inoltre il
compositore deve rispettare le esigenze vocali dei cantanti, adattarsi agli organici strumentali e corali che
possono variare da teatro a teatro e adeguarsi ai gusti del pubblico. In realtà tutto ciò non può essere esteso
anche alla scrittura dei preludi e delle ouverture per il semplice fatto che, essendo questi dei brani
esclusivamente strumentali e trovandosi all’inizio dell’opera, prima della rappresentazione di una qualsiasi
scena, non hanno l’obbligo di seguire la struttura del libretto e non subiscono il condizionamento da parte dei
cantanti.
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La scelta di esaminare i preludi delle opere di Donizetti si deve alla curiosità per un corpus così ampio
numericamente e così vario. Pienamente inserito nei meccanismi produttivi frenetici del teatro musicale
ottocentesco, Donizetti frequenta numerose piazze operistiche italiane ed europee e pratica i generi teatrali più
disparati: opera seria, comica, semiseria; farsa dialettale; opéra-comique e grand-opéra. Questa ricchezza di
esperienze è importante, dal momento che gli permette di mettere a frutto «una delle spiccate peculiarità del
suo ingegno: la prontezza nel captare e far proprie le più disparate sollecitazioni del pianeta
melodrammatico»7.
La produzione teatrale di Donizetti si suole dividere, a grandi linee, in tre periodi. Il primo va dal 1818
(data di composizione della sua prima opera rappresentata Enrico di Borgogna) al 1830 ed è caratterizzato
dall’influenza di due figure di grande importanza: Simone Mayr, suo maestro a Bergamo, che gli schiude la
conoscenza del mondo musicale europeo, e Gioachino Rossini, il cui influsso avrebbe condizionato la
produzione giovanile di Donizetti. Tra il 1818 e il 1822, periodo dei veri e propri esordi, Donizetti compone due
opere comiche, una farsa, un’opera semiseria e una seria per Venezia e Roma. Dal 1822, anno del
trasferimento a Napoli, fino al 1828 scrive quattro opere serie, quattro semiserie, quattro comiche e due farse:
di queste, undici vengono rappresentate a Napoli e una a Roma. Da tali prime, brevi indicazioni emergono
alcuni elementi degni di nota. Innanzitutto Donizetti è lombardo di nascita, ma la sua fortuna decolla nei centri
operistici centro meridionali, Napoli e Roma: si potrebbe fare un paragone con Bellini, che invece, pur essendo
di origini meridionali (siciliano di formazione napoletana) ottiene successo in Italia settentrionale, in particolar
modo a Milano.
Altro elemento significativo in questo primo periodo è la prevalenza del genere buffo e semiserio su
quello serio. L’iniziale preferenza per le opere buffe è dovuta non solo alla forte vitalità del genere negli anni
venti e ad una vena comica che il compositore avrebbe manifestato fino alla fine della sua produzione, ma
anche e soprattutto al fatto che Donizetti è in quel periodo ancora agli inizi della carriera e, per un compositore
non ancora affermato, era normale ‘farsi le ossa’ nei teatri minori con il genere comico. La scelta del filone
semiserio è invece legata al fatto che a Donizetti piaccia combinare elementi comici e patetici all’interno della
stessa opera, un tratto che poi avrebbe saputo sfruttare nelle opere romantiche più aggiornate.
Il 1830 è una data importante per la carriera del musicista: compone a Milano Anna Bolena, che segna
l’inizio della fase centrale e matura della sua produzione. In questo secondo periodo è ancora Napoli, città dove
viene rappresentato il maggior numero delle sue opere, ma inizia ad ottenere successo anche nei centri
dell’Italia settentrionale: scrive infatti quattro opere per Milano e tre per Venezia. Quello che cambia
radicalmente in questi anni è il rapporto fra i generi: si nota una netta prevalenza del serio e semiserio sul
buffo, che dominava in precedenza (tra il 1828 e il 1838 scrive 21 opere serie, 5 semiserie, 5 farse, 2 comiche).
Con il 1835 Donizetti si avvia al successo internazionale: inizia infatti a scrivere per i teatri parigini e viennesi.
La prima opera destinata a Parigi è il Marin Faliero (1835), ma solo con il 1838 si può parlare di un vero e
proprio periodo internazionale per il musicista. In seguito alla mancata nomina a direttore del conservatorio di
Napoli e alla morte della moglie, contrariato inoltre dalla censura napoletana che proibisce la rappresentazione
di Poliuto, egli si trasferisce a Parigi, dove conclude la sua ultima fase di produzione scrivendo La favorite,
Linda di Chamounix, Maria di Rohan (queste ultime due per Vienna), Don Pasquale e Dom Sébastien. Con
queste opere si completa la parabola creativa donizettiana. Il musicista nel 1845, già ammalato, deve
interrompere ogni sua attività musicale per il sopraggiungere di una grave crisi: viene dapprima internato
nell’ospedale psichiatrico di Ivry, nelle vicinanze di Parigi, e rientra poi in Italia, ospitato a Bergamo dalla
baronessa Rosa Rota Basoni. Nel palazzo della nobildonna si spegne l’8 aprile 1848.
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Lo studio della produzione donizettiana incontra notevoli difficoltà per la vastità del corpus ed è reso ancora più
complesso dalla consueta prassi dei rimaneggiamenti. Al pari deisuoi contemporanei, Donizetti è solito
apportare modifiche e rifacimenti ogni volta che rimette in scena un’opera e non abbandona mai, nell’arco della
sua carriera, la prassi consolidata di riutilizzare materiale da precedenti partiture. La partitura di un’opera non
era infatti all’epoca un’entità definita, ma una concatenazione di brani per certi aspetti intercambiabili. Se
un’opera alla prima rappresentazione non aveva ottenuto successo o era rimasta sulla scena per breve tempo
con poche speranze di ripresa, le parti più importanti di essa potevano essere tranquillamente recuperate e
riutilizzate in nuove opere, trascrivendole integralmente o apportandovi delle modifiche. Tutto ciò era possibile
perché le opere venivano scritte utilizzando delle solide convenzioni formali e perché, nel caso di Donizetti, il
musicista possedeva una grande adattabilità nell’uso di queste convenzioni, oltre alla capacità di trovare
sempre le soluzioni ai problemi che di volta in volta gli ambienti teatrali gli proponevano. Come risultato di
questa prassi, praticamente ogni melodramma donizettiano ci è giunto in più versioni, tanto manoscritte che a
stampa, i cui rapporti sono spesso difficili da tracciare; non è neppure agevole stabilire quali varianti siano
riconducibili all’autore e quali (ad esempio nelle riduzioni a stampa per canto e piano) siano opera d’estranei.
Le difficoltà sono acuite dal fatto che le fonti sono mal catalogate, disperse in numerose sedi, alcune delle quali
di difficile accesso. Naturalmente i problemi evidenziati condizionano anche uno studio che voglia prendere in
considerazione l’intero corpus dei preludi, studio che risulta quindi più un punto di partenza, da integrare e
precisare, che una trattazione definitiva.
Forme, funzioni, drammaturgia dei preludi donizettiani - I preludi, come si è visto, non
seguono uno schema musicale fisso8. La maggioranza di essi termina con una cadenza di dominante che li
collega direttamente all’introduzione, termine con cui si designa il primo e talora assai vasto numero chiuso
dell’opera, spesso aperto dal coro, che giunge sino al primo recitativo. Anche in base della loro durata,
oscillante dalle cinque alle sessanta battute, i preludi possono consistere: in alcune semplici sequenze di
accordi, arpeggi o scale, talvolta inframmezzati da frammenti di carattere melodico nell’esposizione di brevi
motivi conclusi che possono anche essere sottoposti ad un’elaborazione in vere e proprie sezioni tematiche
estese, con un’organizzazione formale interna. Nella produzione donizettiana i preludi sono strettamente
collegati alle introduzioni: infatti, per la maggior parte dei casi, si trovano nella stessa tonalità o in tonalità
vicine, molto spesso nel modo relativo oppure nel corrispondente (maggiore oppure minore sulla stessa tonica).
In rarissimi casi non hanno nessun collegamento, ma presentano invece una discontinuità. Si possono citare
ad esempio Otto mesi in due ore, in cui il preludio è in re maggiore e l’introduzione in do maggiore, e Torquato
Tasso, che presenta il preludio in la maggiore e l’introduzione in fa maggiore. Quanto alla scelta fra preludi e
sinfonie, non sembra che Donizetti abbia in generale una particolare preferenza per l’uno o l’altro genere, che
usa indifferentemente. La decisione pare non essere determinata né dal genere né tanto meno dal periodo di
composizione. Opere serie di grande peso come Lucia di Lammermoor, Lucrezia Borgia o Dom Sébastien
(quest’ultimo un grand-opéra parigino) risultano essere introdotte da preludi, mentre Anna Bolena, Gemma di
Vergy, Maria di Rohan oppure La favorite e Les martyrs (nel campo del grand-opéra) vengono introdotte da
sinfonie. La stessa cosa succede nell’ambito comico: per restare ai titoli più celebri, L’elisir d’amore è introdotta
da un preludio, Don Pasquale invece da una sinfonia. Per quanto riguarda il genere semiserio, Emilia di
Liverpool, Il Furioso all’isola di San Domingo e Torquato Tasso sono precedute da un preludio (la seconda, fra
l’altro, riutilizza quello della prima), Chiara e Serafina oppure Linda di Chamounix sono anch’esse opere
semiserie, ma sono precedute da sinfonie.Anche il periodo di composizione sembra non rivestire particolare
importanza nella scelta. Il pigmalione, La zingara, Emilia di Liverpool, La lettera anonima sono tutte
composizioni giovanili precedute da preludi. Enrico di Borgogna, Alahor in Granada, Alfredo il grande
appartengono allo stesso periodo creativo ma sono precedute da sinfonie. Se ci spostiamo un po’ avanti negli
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anni, ci rendiamo conto che il quadro non muta. Infatti Maria de Rudenz, Caterina Cornaro, Maria Padilla, tutte
appartenenti alla maturità creativa di Donizetti, sono opere introdotte da preludi, mentre altre come La fille du
régiment, La favorite, Maria di Rohan sono opere introdotte da sinfonie. Sembra invece che un fattore
determinante nella scelta delle introduzioni orchestrali ai drammi sia costituito dalla piazza di composizione,
ovvero dalla città e dal teatro in cui l’opera doveva essere rappresentata. Infatti per il pubblico viennese
Donizetti compone due sole opere, entrambe introdotte da splendide sinfonie, come Linda di Chamounix, nel
1842, anno in cui ottiene il posto di maestro di cappella a corte, e Maria di Rohan, del 1843, la cui sinfonia
risulta forse la più complessa e riuscita tra tutte quelle scritte dal compositore. Sebbene in misura minore,
sembra che anche per il pubblico parigino Donizetti sia incline a comporre delle sinfonie. Infatti, per Parigi
scrive Marino Faliero, Les martyrs, La favorite, La fille du régiment, Don Pasquale e Dom Sebastien, tutte
opere introdotte da sinfonie, ad eccezione di Marino Faliero (destinato, peraltro, al Théâtre italien) e Dom
Sébastien (il cui preludio, forse non a caso, è uno tra i più lunghi fra tutti quelli da lui composti). Certamente, di
fronte a pubblici colti ed abituati a gustare anche il repertorio sinfonico, come quelli di Parigi e Vienna, Donizetti
vuole mostrare la sua capacità di comporre ampi brani strumentali autonomi.
Il pubblico italiano, in genere, non dimostrava particolari preferenze e a volte Donizetti sostituisce il
preludio con una sinfonia prima di rappresentare l’opera in un’occasione successiva o per un diverso teatro. E’
questo il caso di Maria Stuarda (preludio per Napoli, 1834), Marino Faliero (preludio per Parigi, 1835), Le
convenienze ed inconvenienze teatrali (preludio per Napoli, 1827), Roberto Devereux (preludio per Napoli,
1837), Otto mesi in due ore (preludio per Napoli, 1827) e L’Ajo nell’imbarazzo (preludio per Roma, 1824). Nel
caso di quest’ultima opera, sebbene William Ashbrook9 parli di un preludio che sarebbe stato successivamente
sostituito da una sinfonia, dalle ricerche da me svolte non risulta la sua presenza: infatti anche il manoscritto
autografo nel Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli contiene una sinfonia. Potremmo anche avanzare
l’ipotesi che, almeno in certi casi, data la fretta con cui Donizetti era costretto a comporre e provare l’opera, gli
mancasse il tempo per stendere una vera sinfonia (la cui composizione avveniva solitamente dopo la stesura
dell’opera); e che solo successivamente, meditando una ripresa dell’opera, trovasse poi il tempo e la
concentrazione per completare il lavoro. Infatti, se esistono casi in cui il preludio originario è stato sostituito da
una sinfonia, non risulta mai il caso contrario. Tutte le opere originariamente scritte con una sinfonia la
conservano nelle versioni e varianti successive. Un caso anomalo può essere costituito da Poliuto: pare che
Donizetti lo abbia composto con un preludio iniziale e in seguito abbia aggiunto una sinfonia, utilizzata anche
per la versione francese Les martyrs, lasciando solo il Largo finale, che serve come collegamento
all’introduzione. E’ interessante notare che molte delle opere prima citate sono state scritte per Napoli come
dotate di preludio ed hanno avuto l’aggiunta della sinfonia quando sono state rappresentate in altre piazze
italiane. Forse a Napoli, culla dell’antica civiltà italiana del bel canto, non si dava troppa importanza ai pezzi
strumentali puri. Quando Donizetti, nel 1844, porta a Napoli Maria di Rohan, un recensore dell’”Omnibus” si
lamenta che la sinfonia, pur parendogli bella, pecca di lunghezza10. A questo proposito va ricordato che anche
Rossini, negli anni in cui è a Napoli, evita tendenzialmente le sinfonie in piena regola11; mentre, ritornato a
Venezia per la sua ultima opera italiana – Semiramide – ne compone una fra le più imponenti e popolari. In
genere i materiali tematici presenti nella sinfonia tendono almeno in parte a ritornare nel corso dell’opera; o per
meglio dire – dal momento che le sinfonie vengono generalmente scritte per ultime – le sinfonie tendono a
riprendere la musica caratteristica di alcuni momenti del dramma. Con Donizetti ciò accade ad esempio in
Poliuto, dove l’inno cristiano, che poi rappresenta il secondo tema della sinfonia, viene riascoltato nel primo atto
alla quarta scena, nel secondo atto nella scena finale e nel terzo atto nel preludio che precede la scena finale,
nella cella del protagonista.
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E’ abbastanza inconsueto che ciò accada nei preludi, ma ci sono dei casi in cui anche i semplici materiali
motivici del preludio sono estratti dal dramma. Ad esempio, il preludio del Torquato Tasso è costruito su un
passaggio di transizione nel tempo di mezzo dell’aria del protagonista nel terzo atto, quando il Tasso è liberato
di prigione e chiamato sul Campidoglio per essere incoronato poeta,
o ancora nel Marin Faliero, dove il preludio riprende la canzone del gondoliere «siamo figli della notte / che
voghiam per l’onda bruna» posta all’inizio del secondo atto
o stesso tema è utilizzato da Donizetti anche nell’opera Il campanello nel momento in cui Enrico,
travestito da cantante, si reca in casa di don Annibale e, dopo aver preso delle pillole, fa sfoggio delle sue
qualità canore. Il vasto preludio del Dom Sébastien costituisce invece una citazione della scena funebre del
terzo atto. In questi casi il rinvio ha anche un valore simbolico: alludere ad un momento particolarmente
significativo del dramma. Sia in Marino Faliero che in Dom Sébastien il brano ripreso nel preludio è una musica
di scena, particolarmente importante nel definire l’atmosfera dell’opera. Poiché la grande importanza delle
musiche di scena è da sempre una caratteristica dell’opera francese, non stupisce che queste due opere siano
state scritte per Parigi.
nche in Imelda de’ Lambertazzi si riascolta il motivo del preludio in diversi punti dell’opera. Elvida, pur
avendo un preludio brevissimo (solo cinque battute formate da una sequenza di accordi in Do minore),
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presenta in vari punti (terza e decima scena) una variante delle prime due battute. Rita è un caso particolare:
infatti qui il tema del preludio non è riproposto nel corso dell’opera, ma solo durante l’introduzione. Il preludio,
pur essendo abbastanza breve, è diviso in due momenti e presenta due temi che vengono riesposti la seconda
volta in modo contrario. Nell’introduzione, dopo l’entrata di Rita, si ha l’ultimo tema del preludio in modo
contrario. E’ come se il preludio non fosse finito e fosse collegato all’introduzione, tanto che entrambi si trovano
nella stessa tonalità. Il motivo corrispondente all’entrata di Rita sostituisce il materiale su cui si basa
l’introduzione. A parte Rita, sia Elvida che Imelda de’ Lambertazzi sono opere serie; non è escluso che proprio
in questo genere Donizetti cercasse una più intima connessione fra preludio e dramma.
elle trentasei opere prese in esame contenenti preludi introduttivi, sei presentano un preludio che si
riconnette direttamente all’introduzione, al punto da costituirne parte integrante e mancare quindi di una propria
autonomia: Pigmalione, L’esule di Roma, Francesca di Foix, La romanzesca e l’uomo nero, Imelda de
Lambertazzi e Gabriella di Vergy. Queste sei opere sono state rappresentate a Napoli ad eccezione del
Pigmalione, composto a Bologna nel 1816, che non è per Donizetti una vera e propria opera ma una semplice
esercitazione scolastica. In questo caso quindi è la piazza di composizione che accomuna queste opere e non
più il genere, dato che Imelda, Gabriella e L’esule di Roma sono opere serie, Francesca di Foix è un’opera
semiseria e La romanzesca è una farsa. Si confermerebbe, insomma, la tendenza ad evitare l’utilizzo di brani
strumentali di un certo peso per le opere da rappresentare a Napoli. Nelle opere in cui il preludio è strettamente
collegato all’introduzione, sempre entrambi sono nella stessa tonalità. Gli unici casi in cui ciò non si verifica
sono Imelda de Lambertazzi, dove il preludio, pur essendo collegato all’introduzione, è nel corrispondente
maggiore (si passa quindi dalla tonalità di fa maggiore del preludio a quella di fa minore ell’introduzione), e
Gabriella, dove il preludio è nella tonalità di fa maggiore e l’introduzione in quella di do maggiore. Imelda de
Lambertazzi inoltre presenta una caratteristica interessante: è l’unica opera scritta da Donizetti contenente
l’introduzione in minore, tutte le altre sono in modo maggiore.
n altre undici opere di Donizetti il preludio, pur essendo indipendente dall’introduzione, è nella stessa
tonalità di quest’ultima. E’ il caso di La lettera anonima, Le convenienze teatrali, Il paria, Il giovedì grasso,
Marino Faliero, Il campanello, Betly, L’assedio di Calais, Rita, I pazzi per progetto e Pia de’ Tolomei. E’
interessante notare che tutti questi preludi sono nella tonalità maggiore e che tutte queste opere, lasciando a
parte Marino Faliero e Rita scritte per periodo parigino e Pia de’ Tolomei scritta per Venezia, sono state
composte a Napoli. Esse appartengono però a generi diversi (cinque sono farse, quattro seguono il genere
serio e una quello buffo). La maggioranza dei preludi composti da Donizetti è in modo maggiore, quelli in
minore sono assai pochi. In quest’ultimo caso è da sottolineare la relazione tonale con l’introduzione: nel
Furioso all’isola di San Domingo e in Maria de Rudenz (opere appartenenti a generi diversi e scritte per piazze
diverse) il preludio è composto in modo minore e l’introduzione nella relativa maggiore. E’ estremamente
interessante che ciò accada sempre con le stesse tonalità, ossia con la relazione fra un preludio in re minore e
l’introduzione in fa maggiore. In altri sette casi la relazione oppone un preludio in modo minore ad
un’introduzione nel corrispondente maggiore, e non nella relativa, spesso grazie alla funzione bivalente
dell’accordo di dominante12. E’ il caso di Gianni di Calais e della Zingara, che presentano il preludio in sol
minore e l’introduzione in sol maggiore, di Elisabetta al castello di Kenilworth e Lucrezia Borgia, entrambe con il
preludio in re minore e l’introduzione in re maggiore, di Sancia di Castiglia, con il preludio in mi bemolle minore
e l’introduzione in mi bemolle maggiore, di Emilia di Liverpool, che ha il preludio in fa minore e l’introduzione in
fa maggiore, e, per concludere, di Lucia di Lammermoor, il cui preludio è in si bemolle minore e l’introduzione in
si bemolle maggiore. Tutte queste opere, ad eccezione di Gianni di Calais, di Emilia e della Zingara,
appartengono al genere serio: la scelta del minore iniziale, insomma è un modo per collegare il preludio non
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tanto alla prima scena (come avrebbero voluto Planelli e Arteaga) quanto all’insieme della vicenda, fungendo
da presagio dello scioglimento luttuoso. Lucrezia e Lucia, in particolare, hanno preludi abbastanza simili anche
per caratteristiche musicali (si vedano le lugubri frasi dei corni sui rintocchi del «motivo della morte»13) e
puntano quindi a preparare l’ascoltatore al carattere tragico della vicenda. Lucrezia contiene un preludio dal
carattere cupo e tragico che inizia con un funereo rullo di timpani e prosegue con un tema lento, esposto prima
dai corni e successivamente dai clarinetti
tutto viene subito dopo riascoltato alla dominante. Successivamente vi è un’elaborazione
di questo primo tema con una progressione al basso e una scala discendente affidata ai fiati di grande effetto
drammatico, che termina con una cadenza verso re maggiore (corrispondente maggiore del preludio). Il
secondo tema è veloce e in ritmo puntato e questa figura a volte si ripresenta nel corso dell’opera, soprattutto
quando Lucrezia si rivolge al figlio. Il preludio termina con una cadenza sul V di re e si collega all’introduzione
tramite un allegro di otto battute contenente un tremolo su un pedale di dominante. Si passa così
all’introduzione, un Vivace in 6/8 nella tonalità di re maggiore, corrispondente maggiore di quella del preludio.
Particolarmente forte, in Lucrezia, il passaggio dall’atmosfera tragica del preludio a quella festosa, con tanto di
banda in scena, dell’introduzione, secondo una tipologia che in seguito verrà ripresa da tanti capolavori del
romanticismo italiano (pensiamo a Rigoletto). Questa estetica dei contrasti taglienti ha sicuramente a che fare
con la penetrazione delle idee di Victor Hugo, autore della fonte letteraria di Lucrezia Borgia (e, guarda caso,
anche di quella di Rigoletto)14. Il preludio di Lucia sotto molti punti di vista sembra ricordare quello di Lucrezia.
Anch’esso è introdotto da un rullo di timpani e prosegue con un tema esposto inizialmente dai corni e
successivamente dai clarinetti.
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Anche qui il primo tema viene poi riproposto in maniera leggermente elaborata alla dominante.
Successivamente tre battute con degli accordi in fortissimo senza preparazione sorprendono le aspettative
dell’ascoltatore. Riprende subito un motivo funebre in ritmo puntato che si riascolterà al primo atto, nel
momento in cui entra per la prima volta Lucia.
Il preludio si conclude con un accordo di settima di dominante e passa poi
all’introduzione. Quest’ultima è un Allegro giusto in si bemolle maggiore (corrispondente maggiore del preludio),
caso analogo a quello di Lucrezia. Una differenza notevole tra i due preludi è costituita dal fatto che in quello di
Lucia si passa direttamente dal Larghetto del preludio all’Allegro dell’introduzione, mentre in Lucrezia ci sono
otto battute di Allegro che preparano l’introduzione. Nel preludio di Lucia Donizetti fa ampio uso degli strumenti
a fiato: in particolar modo i corni e gli altri ottoni riescono a creare un effetto tipicamente romantico. Il corno è
spesso usato sia come sostegno armonico (ha un suono abbastanza dolce da poter essere facilmente adattato
ad ogni impasto strumentale) sia come strumento solistico.
Anche Emilia di Liverpool e il Furioso hanno preludi molto simili. Quello di Emilia, nella
tonalità di fa minore, è composto da tre diversi motivi tematici il primo dei quali, molto lirico, è affidato ai violini.
Il secondo presenta un accordo in fortissimo e una serie di cromatismi che determinano
uno stato di forte tensione
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Il terzo, molto melodico, è caratterizzato da un dialogo tra i violini che espongono il tema
e i clarinetti che eseguono le risposte.
Seguono cinque battute con un disegno cromatico di semicrome e una sezione cadenzale su V grado.
Il preludio del Furioso sembra essere lo stesso di quello di Emilia di Liverpool, in una
versione un po’ più breve ed in effetti queste due opere presentano delle caratteristiche simili. Entrambe
semiserie, con forte carattere patetico, hanno delle somiglianze anche riguardo alla trama: l’innamorato fedele
che si è ritirato a vita solitaria; l’infedele che giunge; bufere e tempeste; riunificazione, ecc.
Anche nel Furioso il preludio presenta tre diversi temi, il primo dei quali è esposto inizialmente dai violini e
successivamente viene raddoppiato dai corni.
Un accordo secco da parte dei fiati realizza il ‘colpo di tuono’ e dei cromatismi da parte dei legni determinano
uno stato di tensione. Dopo uno scambio tra relativo minore e maggiore, l’accordo conclusivo di dominante di
re minore prepara il fa maggiore dell’introduzione. I preludi più corti risultano essere quelli di Elvida, inque
battute consistenti in una serie di accordi ‘fàtici’ che segnalano l’inizio della rappresentazione, e L’Assedio di
Calais di sette battute in mi bemolle maggiore, stessa tonalità dell’introduzione. Il preludio di quest’opera è
molto particolare: consiste in una scala ascendente in crescendo e una scala discendente in decrescendo e si
conclude con tre accordi in sospensione, dai quali si passa direttamente al Larghetto dell’introduzione.
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Va però segnalato che prima del coro introduttivo propriamente detto si snoda un lungo brano strumentale che
ha l’insolita funzione di pantomima: durante il suo svolgimento, a sipario aperto, il protagonista si cala
silenzioso dalle mura della città assediata per procurare dei viveri, viene scoperto dalle guardie nemiche e
fugge. Il campanello ha un preludio formato da undici battute molto interessanti, di tipo realistico e allusivo:
quattro accordi in Fortissimo frapposti da alcuni squilli di campanello, che torneranno nel corso dell’opera on
una funzione comica fondamentale. Infine si hanno tre battute di sezione cadenzale che preparano
all’introduzione in sol maggiore, stessa tonalità del preludio.
Altro preludio interessante e particolare è ne L’elisir d’amore, formato da ben
cinquantadue battute nella tonalità di re maggiore. Dopo una prima esposizione di accordi in Fortissimo che
annunciano l’inizio dell’opera,
si ascolta un tema molto lirico in tempo di Larghetto che viene riproposto tre volte sotto forma di variazioni
della durata di nove battute ciascuna, la seconda delle quali è in modo minore. Questo sembrerebbe l’unico
caso in cui Donizetti utilizza variazioni all’interno di un preludio. Lo strumento protagonista è il flauto, che si
slancia in variazioni di grande bravura e difficoltà, che fanno da ornamentazione e contorno al tema principale.
L’introduzione è indipendente dal preludio ed è in fa maggiore. Otto mesi in due ore è un dramma semiserio
che porta la denominazione di ‘opera romantica’ per indicare il suo carattere romanzesco e la netta infrazione
delle unità drammatiche (che fornisce persino il titolo). In tre atti, appartiene a quel gruppo di opere composte
inizialmente con un preludio sostituito poi da una sinfonia. Il preludio è formato da quarantadue battute nella
tonalità di re maggiore e presenta due temi. Nelle prime sei battute viene introdotta dal tamburo una figurazione
ritmica che rimarrà fino alla fine del preludio. Alla settima battuta la «banda sul palco» presenta il primo tema
con la stessa figurazione ritmica del basso. Termina con un lunghissimo pedale di dominante. L’introduzione è
indipendente dal preludio ed è in do maggiore: questa discontinuità può essere significativa nel contesto di un
dramma che rifiuta appunto la continuità dell’unità di tempo. La sinfonia che prende il posto del preludio fu
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scritta nel 1833. Infine, una curiosità su La romanzesca e l’uomo nero, farsa scritta nella primavera del 1831. Il
titolo di questo lavoro è sempre stato citato come La romanziera e l’uomo nero, in quanto anche nella partitura
autografa conservata al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli Donizetti usa il titolo abbreviato La
romanziera: solo di recente è stato ristabilito il titolo corretto15. Purtroppo il libretto di quest’opera è andato
perduto e non è sopravvissuta nessuna copia di spartito per canto e pianoforte contenente il dialogo parlato. Il
preludio, nella tonalità di do maggiore e direttamente collegato all’introduzione, è costituito sugli sviluppi di un
motivo iniziale, basato sul contrasto tra una figurazione legata di semiminime e le semicrome staccate in
Leggerissimo, di stile comico, affidate ai violini primi.
1
S. C. FISHER, vocem Prelude, in The New Grove Dictionary of Opera, London, 1992, vol.III, p.1091.
cfr. P. GOSSETT, The overtures of Rossini, in “19th century music”, 1979, III, p. 3-31.
3
La funzione fàtica riguarda la verifica del canale o contatto fra mittente e destinatario. A. MARCHESE, Dizionario di
retorica e di stilistica, Milano, 1984, p.113.
4
F. ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica, Venezia, 1755, p. 14.
5
S. ARTEAGA, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano, Venezia, 1785.
6
A. PLANELLI, Dell’opera in musica, Napoli, 1777. Nuova edizione a cura di F. Degrada, Fiesole, Discanto, 1981.
7
G. CARLI BALLOLA, Il primo Ottocento, in Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale, diretta da A. Basso,
Torino, 1996, vol. II, p. 273-337.
8
Nel corso della trattazione prenderò in considerazione solo alcuni fra i più significativi preludi delle opere donizettiane;
per un’analisi più completa sia dei preludi citati che di quelli relativi ad opere non citate si può fare riferimento a E. CUNA,
I preludi nei melodrammi donizettiani: morfologia e funzioni drammaturgiche, tesi di laurea, Università degli studi di
Lecce, a.a.1998/99.
9
W. ASHBROOK, Donizetti and his operas, Cambridge, 1982 (trad. it. L. Della Croce, Donizetti: le opere Torino, 1987).
10
cfr. Maria di Rohan nella stampa dell’epoca, in Gaetano Donizetti “ Maria di Rohan”, programma di sala, Teatro La
Fenice, Venezia, 1999, p. 83.
11
cfr. P. GOSSETT, The overtures…, cit., passim.
12
cfr. B. ZANOLINI, L’armonia come espressione drammaturgica in Gaetano Donizetti, in Atti del 1° Convegno
internazionale di studi donizettiani, Bergamo, 1983, vol. II, p.775-823.
13
cfr. F. NOSKE, Il motivo esogeno della morte nei drammi musicali di Richard Wagner, in La drammaturgia musicale a
cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, 1986, p. 255-278.
2
14 cfr.
P. WEISS, Verdi e la fusione dei generi, in La drammaturgia musicale, cit., p. 75-92.
Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di A. Bini e J. Commons, Roma,
1997, p. 262-263.
15
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