La civiltà cartaginese Dispensa 12. Lezioni di maggio 2012 Miscellanea a cura di Sandro Caranzano, riservati ai fruitori del corso di archeologia presso l'Università Popolare di Torino 2011–2012 12.1 – La Fondazione di Cartagine Cartagine fu un’importante fondazione coloniale fenicia che la tradizione storiografica attribuisce a un periodo piuttosto remoto della storia antica, ovvero al 814 a.C., dunque con oltre cinquant'anni di anticipo rispetto alla più antica fondazione coloniale greca in Occidente da riconoscersi in Cuma (fondata attorno al 750 a.C.). Le fonti antiche, in verità, ricordano una presenza fenicia in nord Africa ancora più antica, e attribuiscono a Utica (un antico centro situato presso la foce del fiume Medjerda in Tunisia) il primato che coloniale: qui infatti sarebbe sorto un primo centro fenicio attorno al 1101 a.C. Purtroppo, tale informazione non ha ancora trovato una conferma archeologica, ma bisogna considerare che tutta la regione è stata soggetta a ingenti fenomeni alluvionali collegati alla divagazione del fiume stesso, per cui è possibile che in futuro le lacune vengano colmate. È comunque più che probabile che i Fenici, sin dalla fine dell'età del Bronzo, si siano spinti verso Occidente alla ricerca di scali marittimi, baie protette dei venti e rifornite d'acqua, adatte a offrire rifugio alle navi impegnate in lunghe e pericolose rotte commerciali, in un periodo in cui la navigazione procedeva prevalentemente bordeggiando la costa, dato anche il relativamente scarso livello evolutivo delle imbarcazioni. Il nord Africa, in questa fase storica, non poteva offrire molte attrattive, tanto più che il ricco entroterra era saldamente in mano alle popolazioni berbere, mentre la scienza agrimensoria non era ancora giunta ai suoi vertici; tuttavia, la presenza di punti di approdo era quanto mai strategica, dal momento che i Fenici si erano spinti sino allo stretto di Gibilterra – nello specifico a Tartesso – per procurarsi il preziosissimo stagno e il rame, che venivano trasportati in Oriente dove costituivano un ingrediente fondamentale per la metallurgia. Non sembra dunque un caso che Fig. 121 – Carta geografica storica delle aree di influenza politica di il sito di Utica si trovi esattamente a metà Roma e di Cartagine, alla vigilia della Seconda guerra Punica. strada tra la madrepatria e il terminale di tali importanti rotte commerciali. La fondazione di Cartagine appartiene dunque a un “capitolo” successivo; la città sorse in una posizione particolarmente strategica, all'interno di una baia ben protetta dalle mareggiate, con un cordone lagunare che costituiva anche una valida protezione in caso di attacchi ostili. La tradizione antica ricordava una leggenda anche per la fondazione di Cartagine. Secondo quanto riportato dalle fonti greche e romane la fondazione della nuova capitale sarebbe stata opera di Elissa, la figlia del re di Tiro e la sorella del giovane Pigmalione. Alla morte del padre, il regno era stato lasciato in eredità ai due fratelli; la giovane ragazza aveva sposato Acherbas, un aristocratico che rivestiva l'incarico di alto sacerdote di Melqart, il cui prestigio a corte seguiva a ruota quello del principe. 95 L'immensa ricchezza di Acherbas impensierì molto presto Pigmalione che fece uccidere da alcuni sicari il consorte della principessa. Quest'ultima, desiderosa di vendetta, simulò di volersi trasferire presso il palazzo del fratello per poter giustificare l'ammasso repentino delle proprie ricchezze; quindi, dopo avere minacciato di gravi ritorsioni i servitori, prese il largo con tutti i suoi averi e in compagnia di alcuni aristocratici dissidenti, veleggiando in direzione di Cipro. Qui, imbarcò ottanta giovani vergini che si erano recate al santuario di Afrodite per offrire la propria verginità in cambio di una dote (secondo un uso ben attestato nei santuari dedicati a Ishtar nel Vicino Oriente); esse sarebbero state destinate al nuovo santuario di Cartagine, garantendo, al contempo, una discendenza ai giovani che avevano seguito Elissa nella sua avventura. Dopo un lungo periplo, gli esuli raggiunsero dunque il nord Africa, dove esistevano antiche relazioni diplomatiche con la popolazioni locali governate dal re Jarba. Il mito vuole che Jarba avesse concesso ai Fenici un appezzamento di terra non più grande della pelle di un bue; Elissa riuscì ad aggirare la limitazione con lo stratagemma di tagliare la pelle in strisce piccolissime, con cui fu in grado di delimitare un terreno di diversi ettari su cui fondare la città. Il primo spazio prescelto diede, tuttavia, ai sacerdoti cattivi presagi poiché durante l'attività di scavo venne alla luce il cranio di un bue, simbolo di asservimento e dura fatica. Spostata l'attenzione su una baia non molto distante, il dissotterramento del tutto casuale di una testa di cavallo fu interpretata come presagio di un futuro bellicoso. La leggenda riporta che Jarba, affascinato dalla bellezza e dell'intelligenza della giovane regina, le si propose in matrimonio minacciando guerra in caso di rifiuto. Elissa, combattuta tra il desiderio di garantire la pace al proprio popolo e il rammarico per il tradimento della memoria del marito, finse di accettare: fece poi preparare una grande pira per i consueti sacrifici, ma completata l'ecatombe degli animali prescelti, sotto lo sguardo stupefatto dei presenti, immolò se stessa. Per questo motivo Elissa sarebbe stata divinizzata dai Cartaginesi. È noto che il personaggio di Elissa fu Fig. 122 – Carta delle fondazioni coloniali cartaginesi in Nord Africa, Spagna, Sicilia e Sardegna. Si nota con chiarezza la presenza di due grandi poli, concentrati sulla Tunisia cartaginese e la Spagna. trasformato dal poeta romano Virgilio nell'eroina Didone citata nell'Eneide, suicidatasi dopo la partenza imprevista dell'amato Enea. La leggenda originale sembra essere stata elaborata in un ambiente ormai ellenizzato e in un periodo abbastanza tardo: la connessione tra il toponimo di Byrsa e le strisce di pelle sembra motivato dal fatto che tale parola, in greco, significa per l’appunto "pelle di bue", mentre la tradizione del ritrovamento della testa di cavallo potrebbe essere nata dal fatto che il recto delle monete cartaginesi portava, per l’appunto, tale effigie. Sembra però indubitabile la tradizione secondo cui i primi coloni cartaginesi provenissero da Tiro, e anche la citazione del culto di Ercole/Melqart sembra avere un serio fondamento; d'altronde, non possiamo dimenticare che il nome di Cartagine /Qart Hadasht in lingua fenicia si può tradurre come "città nuova", un nome che porta in sé il chiaro ricordo di una città precedente (quella della madrepatria o quella legata all’attività precoloniale?). In ultima analisi, il periodo della fondazione di Cartagine corrisponde, storicamente, a quello dell’inasprimento della pressione militare assira sul Vicino Oriente; sembra dunque naturale che una parte della cittadinanza – forse in polemica con altre fazioni aristocratiche – abbia deciso di intraprendere un'attività coloniale a occidente, in una zona già conosciuta da almeno due secoli a seguito dell'attività mercantile. 96 12.2 – Apogeo e declino di Cartagine La fondazione della "città nuova" si dimostrò una mossa intelligente e fruttifera: da qui i Fenici ebbero la possibilità di colonizzare la costa africana dal Golfo della Sirte fino alle colonne d'Ercole, creando colonie e scali in importanti punti strategici in Spagna, Sicilia e Sardegna, creando una sorta di impero commerciale e militare inimmaginabile per la città madre di Tiro. I Cartaginesi si insediarono in Sicilia prima ancora dei Greci, come testimoniato dagli scavi archeologici di Mozia; la tradizione storiografica, poi, li ricorda in Sardegna già a partire da 654 a.C. Poco dopo troviamo fondazioni cartaginesi sulle isole Baleari (a Ibiza) e nel sud-est della Spagna, in competizione con la colonia fondata dai greci focesi a Marsiglia nel 600 a.C. I Cartaginesi, com'è noto, si trovarono a combattere a fianco degli Etruschi nella famosa battaglia di Alalia del 535 a.C., il cui obiettivo era quello di ostacolare l'insediamento di coloni greci in Corsica, un'isola che rimase per molto tempo appannaggio dei soli Fenici. La potente espansione militare e commerciale fenicia subì un primo contraccolpo negativo solo a partire da 480 a.C., con la sconfitta militare subita a Himera per opera del tiranno di Siracusa Gelone, che riuscì a far colare a picco gran parte della flotta cartaginese. Le fonti di parte greca riferiscono di un’armata cartaginese composta da 300.000 uomini; in realtà, è probabile che il numero degli effettivi comandati dal generale Amilcare non superasse i 30.000, e gran parte dell'esercito era composto da mercenari di origine libica, corsa, iberica e sarda. Questa battaglia, celebrata dalle fonti greche come una vittoria della civiltà sulle barbarie, costò a Cartagine un parziale declino della vitalità economica e sociale, riconoscibile archeologicamente anche nella relativa modestia delle tombe di V sec a.C.Secondo le parole dello storico greco Dione Crisostomo, la reazione cartaginese fu, da un lato, quella di avviare un'attività di colonizzazione dell'entroterra africano, dall'altro di esplorare nuove rotte commerciali, in particolare percorrendo la costa occidentale dell'Africa dove era possibile scambiare chincaglierie di poco valore con importanti materie prime come l'avorio e l’oro. È lo scrittore greco Erodoto a ricordarci lo strano rituale che veniva messo in scena dei mercati cartaginesi: i marinai sbarcavano con Fig. 123 – Ricostruzione didattica della forma urbana di Cartagine in delle scialuppe e abbandonavano sulla riva alcune età romana, quando il detrito alluvionale portato dal fiume Medjerda mercanzie, accendendo un fuoco per indicare agli aveva ormai unito la città con la terraferma. indigeni il proprio arrivo. Risalendo sulla nave, i Cartaginesi lasciavano che gli africani deponessero sulla spiaggia le materie prime con cui avrebbero pagato la merce; lo sbarco a terra si ripeteva fino a quando il valore dei prodotti “esportati” veniva reputato correttamente corrisposto dalle offerte degli indigeni; un metodo ingegnoso che metteva al riparo visitatori e visitati da spiacevoli imprevisti, magari dovuti a incomprensioni culturali. Negli stessi anni le cronache ricordano il viaggio intrapreso dal cartaginese Annone con sessanta vascelli a cinquanta remi e la collaborazione di 30.000 compagni (!); Annone lasciò un rendiconto delle sue esplorazioni probabilmente camuffato, per scoraggiare eventuali imitatori; fatto sta che tale documento sembra avvalorare l'idea secondo la quale i Cartaginesi raggiunsero il Golfo della Nuova Guinea e il vulcano del Cameroun. Negli stessi anni viene anche ricordata l'impresa di Imilcone che esplorò l'Europa occidentale alla ricerca di stagno e argento, raggiungendo le isole britanniche. Ripreso fiato, Cartagine si trovò presto a fronteggiare le ambizioni del nuovo tiranno di Siracusa Agatocle, interessato a sloggiare i Fenici dei propri possedimenti siciliani. Assediato a Siracusa dagli stessi Cartaginesi, Agatocle ebbe per primo l'intuizione di portare la guerra nel paese avversario: nel 310 a.C., sbarcato con 14.000 uomini a Capo Bon, egli ordinò ai marinai di dar fuoco alle navi per impedire ai soldati di desistere dal combattere; poi, per circa tre anni, mise a ferro e fuoco il 97 nord Africa senza però riuscire ad ottenere un risultato risolutivo. Una seconda spedizione, progettata nel 289 a.C., fu vanificata dalla morte prematura del sovrano; il blocco cartaginese su Siracusa che ne conseguì, fu risolto solamente grazie all'intervento di Pirro re dell’Epiro, riduce da recenti successi militari sui Romani a favore dei Tarentini. Nonostante tale situazione generale, la potenza cartaginese, in questa fase, sembra aver vissuto una nuova fase di ascesa, soprattutto grazie ai produttivi e dinamici rapporti politici e commerciali intrattenuti con l'Egitto governato dai Tolomei. Nel 269 a.C., Cartagine ebbe la forza di occupare Messina, un atto che mise per la prima volta la potenza africana di fronte a Roma. La Prima Guerra Punica non fu, come spesso si dice, l'esito di un inevitabile scontro tra due potenze nascenti, quella cartaginese e quella romana; per la sua stessa struttura sociale, politica e il tipo di organizzazione militare, Cartagine poteva, infatti,esercitare un'egemonia di tipo politico e commerciale sul Mediterraneo ma non era organizzata in funzione imperialistica; Roma, d'altronde, in tale fase storica, era una forza terrestre, la cui economia si collegava all'agricoltura e al commercio. Così, Roma e Cartagine, dopo avere stabilito un patto di non aggressione nel 509 a.C., messe di fronte alle vicende messinesi, agirono abbastanza lentamente e con circospezione. A Messina, un gruppo di soldati mercenari campani, i Mamertini (cosiddetti dal nome del dio osco Mamer/Marte che veneravano) erano entrati in frizione con Siracusa a seguito dell'occupazione della città; dopo aver richiesto un primo aiuto a Cartagine, la maggioranza di loro decise di puntare su Roma. Nel senato romano due fazioni, capeggiate rispettivamente dai Fabii e dai Claudii, mostravano un diverso orientamento politico: i primi erano favorevoli all'intervento anche per favorire i mercanti campani danneggiati dal blocco della navigazione nello stretto di Messina, i secondi erano invece sfavorevoli alla guerra. Come dimostrato dai fatti, la prima fazione riuscì a far prevalere la propria opinione, portando il caso davanti al popolo romano, preoccupato dallo spauracchio ventilato dei propagandisti di un pericoloso imperialismo cartaginese e attratto dalle ricchezze ottenibili con una veloce vittoria. Nel 264 a.C., senza che vi fosse un’ufficiale dichiarazione di guerra, il console Appio Claudio Caudex giunse con l'esercito a Messina. Il generale cartaginese Annone, in assenza di precisi ordini dalla madrepatria, evacuò la città subendo, per questo, più tardi, un processo a Cartagine che ne portò alla crocifissione. I Cartaginesi si appellarono quindi a Ierone di Siracusa per ricevere un primo aiuto e mandarono ambasciate al Senato di Roma minacciando la guerra. Nella prima fase che durò da Fig. 124 – Ricostruzione didattica della cosiddetta Porta Marina di Cartagine; si noti l'elevato spessore 260 al 241 a.C., si assistette al passaggio di Ierone dalla parte delle mura e la presenza di merli lunati. dei Romani e all'impegno da parte di quest'ultimi per la costruzione di una prima vera e propria flotta navale, resa possibile grazie alla cattura di una nave nemica che fu smontata e studiata nei minimi particolari dai carpentieri romani. Si pone in questa fase il racconto polibiano dei soldati romani, inesperti di navigazione e tecniche navali, istruiti alla voga dei propri centurioni seduti su una panca in mezzo a un prato. La prima battaglia navale fu vinta dai Romani a Milazzo grazie allo stratagemma costituito da alcune passerelle lanciate sulla nave avversaria che permettevano l'arrembaggio, trasformando un combattimento marittimo in uno di terra. Bisognerà però attendere il 256 a.C. per trovare un'azione guerresca navale di un certo impegno da parte di Roma: sulle orme di una strategia inaugurata da Agatocle il secolo precedente, la flotta romana condotta da Marco Attilio Regolo sbarcò a Capo Bon mettendo a ferro e fuoco la regione e spingendo i mercenari berberi alla rivolta contro Cartagine. L'impresa fu tuttavia vanificata da un ufficiale spartano al soldo dei Cartaginesi di nome Xhantippo che, messo insieme un esercito, riuscì a sbaragliare i 15.000 soldati romani permettendo a solo duemila di essi la fuga. La sconfitta di Regolo convinse il Senato romano a concentrare i propri sforzi unicamente sulla Sicilia. Gli anni successivi furono però scoraggianti per i Romani: l'attacco alla flotta punica presso Drepane portò alla distruzione di quella romana con l'eccezione di 27 navi, mentre un convoglio da trasporto romano diretto a Capo 98 Lilibeo (Marsala) passò nelle mani nemiche. Il dominio marittimo cartaginese apparve dunque in questa fase insuperato. Nel 247 a.C. il comando delle truppe cartaginesi fu assegnato ad Amilcare Barca, una scelta a cui Roma reagì imponendo agli aristocratici italici un sacrificio economico finalizzato alla ricostruzione di una potente flotta che portò alla clamorosa vittoria navale presso le isole Egadi del 241 a.C. Terminata la guerra, a Cartagine fu imposta l'evacuazione della Sicilia, l'abbandono delle isole Egadi e di Lipari, e fu imposto il pagamento di un'indennità di guerra di 3200 talenti in tre anni; Cartagine poi si impegnò a non reclutare alcun mercenario tra gli alleati di Roma e nella stessa Sicilia. La ragione della sconfitta cartaginese è stata oggetto di lunghi dibattiti da parte degli storiografi; se da un lato la soverchiante potenza navale cartaginese avrebbe dovuto garantire la vittoria, dall'altro lato, l'inesperienza dei Romani giocò negativamente al pari però dell’estrazione mercenaria delle milizie cartaginesi. È probabile che un ruolo importante sia stato giocato dal cattivo coordinamento tra i comandanti militari cartaginesi e l'apparato governativo: i comandanti cartaginesi sembrano, infatti, aver lasciato per lo più la prima mossa ai nemici, paralizzati dal timore di essere giudicati dal tribunale straordinario che, a Cartagine, aveva il diritto improrogabile di giudicare la conduzione della guerra. La sconfitta militare, la necessità di pagare l'indennità di guerra e i gravi danni subiti dal fertile territorio attorno a Capo Bon misero a dura prova lo stato cartaginese che si trovò, nel contempo, a dover saldare lo stipendio ai 20.000 mercenari ammassati a Capo Lilibeo. Rispettando l'impegno di smobilitare la Sicilia, Cartagine fece l'ingenua mossa di trasferirli in blocco nell'entroterra tunisino, presso l'attuale El Kef (l'antica Sicca) aprendo una trattativa per una riduzione del soldo. La situazione degenerò in una vera e propria rivolta, sostenuta dai Berberi dell'entroterra che lamentavano un eccessivo sfruttamento economico da parte della capitale. La situazione fu aggravata dal fatto che nell'esercito erano confluiti un gran numero di schiavi, affrancati fuggitivi e disertori; la rivolta venne Fig. 125 – Fotografia dell'inizio del ‘900 dei bacini del porto militare e civile di Cartagine prima della speculazione edilizia degli anni ‘60; si noti in lontananza il così ad assumere il carattere di una bacino quadrangolare del koton e, in primo piano, l'isolotto dell'ammiragliato. rivolta sociale, capace di accomunare gli strati sociali più oppressi composti dal proletariato militare e da quello agricolo. Cartagine tentò di tenere sotto controllo la situazione inviando sul posto Giscone che tentò un accordo con i quadri militari intermedi; quest'ultimi, considerati troppo concilianti dei rivoltosi, furono deposti e sostituiti al comando da un vecchio schiavo romano di nome Spendios e da un mercenario berbero di nome Matho. Il nuovo consiglio, piuttosto intransigente, decise il massacro sistematico di tutti quegli ufficiali che avevano accettato di negoziare con i Cartaginesi e con Giscone. I Libici risposero all'appello di Matho inviando 70.000 soldati e giustiziando 3000 disertori berberi che erano stati rimandati in patria da Roma; in una sorta di sforzo collettivo per la libertà, le donne berbere si privarono dei propri gioielli per raccogliere il denaro necessario a saldare quanto dovuto ai mercenari; furono poi mandate ambascerie alle città commerciali concorrenti di Cartagine affinché si unissero alla rivolta. Cartagine, rimasta senza mercenari e senza alleati, con uno sforzo straordinario mobilitò i cittadini e arruolò nuovi mercenari posti sotto il comando di Annone, con il primo obiettivo di difendere le città di Utica e Hyppo Diarrhytus (Bizerte) assediate dei rivoltosi. Spendios fu battuto, attirando verso Cartagine l'amicizia del capo berbero Naravas; l'atteggiamento particolarmente clemente di Annone verso i soldati vinti era funzionale ad attrarre nelle file cartaginesi il maggior numero possibile di forze; i rivoltosi, risposero con molta energia, massacrando 99 Giscone e settecento prigionieri cartaginesi, creando in tal modo una frattura insanabile tra le due parti. Le grandi potenze mediterranee, nel frattempo, si erano rese conto che la destabilizzazione di Cartagine avrebbe creato una reazione a catena molto pericolosa per il mantenimento dello status quo. Con l'appoggio di Siracusa e di Roma fu impedito ai commercianti di rifornire i rivoltosi, mentre beni alimentari di soccorso furono venduti a Cartagine. L’armata di Spendios fu definitivamente battuta presso Zaghouan e i 40.000 sopravvissuti furono fatti travolgere dagli elefanti; più avanti, anche Matho fu vinto presso Lemta (Leptis Minus) e atrocemente suppliziato. Con la resa di Bizerte e Utica, Cartagine e riuscì ristabilire il proprio dominio militare e politico sui Libii. 12.3 – La Seconda Guerra Punica Amilcare Barca fu il personaggio politico che uscì più rafforzato dalla soluzione della rivolta mercenaria; egli si era reso conto della necessità di una riforma costituzionale che permettesse ai comandanti militari un maggior grado di autonomia e, soprattutto, di instaurare un rapporto personale di fiducia con l'esercito, sul modello di quanto sperimentato negli stessi anni dalle grandi monarchie ellenistiche della Grecia. Per avviare questo processo, Amilcare si appoggiò al partito democratico, sempre più desideroso di partecipare alla vita politica, e scelse come base per la propria personale ascesa la Spagna, sufficientemente lontana da Roma e da Cartagine, ma sufficientemente ricca per poter sostenere il costo di un grande esercito. In Spagna, Amilcare, portò avanti una politica di espansione coloniale ispirata alla mistica di Alessandro Magno, presentandosi ai soldati come un capo ispirato e invincibile, cercando di assimilare, al contempo, la popolazione indigena nella compagine sociale cartaginese. Asdrubale, genero e successore di Amilcare, fondò non a caso, in Spagna, una “Nuova Cartagine”, edificando poi un palazzo e facendosi salutare con il titolo di re. Stravolgendo una tradizione consolidata, si scelse di sottrarre al Senato di Cartagine e all'Assemblea popolare la scelta dei generali, facendo diventare tale opzione appannaggio dello stesso esercito. La crescita personale del potere dei Barcidi (la famiglia a cui appartenevano Asdrubale e Amilcare) impensierì soprattutto la vicina Marsiglia che, nel 226 a.C., sigillò un trattato di non belligeranza con le colonie cartaginesi di Spagna in cui si stabiliva la demarcazione del confine in corrispondenza del corso del fiume Ebro. Alla morte di Amilcare il potere passò ad Annibale, che si trovò alla testa di uno stato fortemente rafforzato, sia dal punto di vista economico che militare. Lo scoppio della Seconda Guerra Punica scaturì Fig. 126– Ricostruzione del porto militare di Cartagine e dell'impianto dall'intervento politico di Roma e di Marsiglia negli urbano raccolto concentricamente attorno alla collina di Byrsa affari interni della piccola città spagnola di Sagunto (una centro, in verità, situato a sud del fiume Ebro e dunque nell'area di influenza cartaginese), dove fu portata al potere una fazione ostile ai Cartaginesi. La piccola città, molto presto entrò in conflitto con una città contermine alleata di Cartagine, atto che determinò la ferma reazione di Annibale. L'attacco da parte dei Cartaginesi di una città alleata di Roma fu interpretata dai Romani come una violazione del trattato di 226 a.C., e l'occasione fu sfruttata da Roma per inviare un richiamo formale al Senato cartaginese contro lo stesso Annibale, una missione diplomatica a cui seguì la guerra. La situazione rispetto a cinquant'anni prima era però fortemente cambiata: Roma disponeva di una flotta molto forte con cui pensava di attuare un'azione decisiva in nord Africa e in Spagna; Annibale, da parte sua, poteva contare su un potente esercito di terra e sul sostegno delle popolazioni celtiche europee, tendenzialmente 100 maldisposte verso il crescente potere imperialistico di Roma. All'inizio del 218 a.C., con una mossa a sorpresa, Annibale si avviò verso l'Italia con un esercito composto da 50.000 fanti, 9000 cavalieri e 37 elefanti; attraversata la Gallia, dopo aver concluso un'avventurosa traversata delle Alpi, nel settembre del 218 era ormai in Val Padana con una armata ridottasi a 20.000 fanti, 6000 cavalieri e 21 elefanti. L'attraversamento delle Alpi – avvenuto con ogni probabilità attraverso i passi del Monginevro o del Moncenisio – fu un'impresa del tutto inusitata e impressionante per l'epoca, che è stata tratteggiata con grande vivacità da Polibio e da Tito Livio; Annibale dovette far fronte allo scoraggiamento dei suoi soldati (per lo più di provenienza africana e spagnola), ma soprattutto alle difficoltà e asperità delle piste alpine, in un tragitto ostacolato dalla persistenza della neve e dei continui attacchi dei guerriglieri delle piccole tribù celtiche montane. La storia dei travolgenti e incalzanti successi militari di Annibale è nota, a partire dalla prima vittoria sul Ticino, per seguire con quella sul fiume Trebbia nei pressi di Piacenza, fino alla terribile sconfitta subita il 21 giugno 217 da Gaio Flaminio sul Lago Trasimeno in cui persero la vita a 15.000 Romani ed altri 15.000 furono fatti prigionieri, mentre il console stesso perse la vita in battaglia. I Romani, preso atto del genio militare del comandante cartaginese, da questo momento portarono avanti una strategia temporeggiatrice, spedendo un convoglio militare in Spagna nel tentativo di bloccare la sorgente del sostegno economico e militare di Annibale. Quest'ultimo, da parte sua, scelse di non attaccare direttamente a Roma, troppo grande e ben munita di fortificazioni per il suo esercito, ma di accumulare una serie di successi militari atti a far passare dalla sua parte le popolazioni italiche ostili a Roma. Il 2 agosto del 216 a.C. si svolse la famosa battaglia di Canne (Puglia) in cui un’armata di 80.000 fanti 6000 cavalieri Romani fu battuta sonoramente dai Cartaginesi, complice un'accurata scelta da parte di Annibale del luogo dello scontro (pianeggiante e favorevole alla sua cavalleria). Ma fu soprattutto la strategia campale geniale (e ancora oggi oggetto di studio nelle accademie militari) a garantire ad Annibale la definitiva vittoria: dopo un primo attacco di disturbo da parte dei frombolieri delle Baleari, Annibale schierò su una sola linea l'intero esercito, disponendo sull'ala sinistra la cavalleria gallica e spagnola e su quella destra quella africana, lasciando il centro alle più deboli e demotivate truppe galliche mercenarie; il console Aulo Terenzio Varrone, preso dalla foga, sfondò con la fanteria il blocco centrale, consentendo però alle ali di cavalleria di Annibale di accerchiarlo e sbaragliarlo. Il bilancio della battaglia fu estremamente incoraggiante per il generale cartaginese che, con 40.000 soldati, era riuscito a vincere un esercito di dimensioni doppie; Annibale Fig. 127 – Planimetria dei porti civile e perse 3000 galli, 300 Numidi e 1500 tra Spagnoli e Africani; Tito militare di Cartagine dopo gli scavi Livio riporta che «45.000 mila fanti, 2.700 cavalieri, metà internazionali degli anni ‘60. romani e metà alleati, caddero uccisi: tra essi i due questori dei consoli: Lucio Atilio e Lucio Furio Bibàculo, e ventinove tribuni dei soldati, alcuni consolari e già stati pretori o edili; inoltre persero la vita ottanta senatori o eleggibili senatori per le cariche già esercitate, i quali si erano arruolati come volontari. Furono fatti prigionieri anche 3.000 fanti e 1.500 cavalieri.» Annibale, rafforzato da questa vittoria, scelse ancora una volta di non attaccare Roma, cercando il sostegno delle popolazioni italiche degli Apuli, dei Sanniti, dei Lucani e dei Bruzi; la potente città di Capua gli aprì le porte accogliendolo come un trionfatore e Filippo V di Macedonia gli assicurò la sua alleanza. La risposta di Roma si fece sentire: radunate tutte le forze e impegnando tutte le risorse economiche e umane disponibili, Roma, ricostruì l'esercito e si affidò alle doti di Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore; costui, evitando lo scontro diretto con l'esercito cartaginese, attuò una sistematica azione di smantellamento delle posizioni cartaginesi in Italia riuscendo, infine, ad espugnare Capua, un evento che lasciò fortemente impressionati gli Italici ostili a Roma. Annibale fu anche messo in difficoltà dall'inferiorità della flotta cartaginese e dall'incapacità del generale Bomilcare di inviargli i necessari rinforzi in Italia e in Sicilia. Il termine 101 dell’incredibile avventura annibalica fu sancito dalla missione militare condotta da Scipione l'Africano contro la stessa Cartagine, il cui obiettivo era quello di spingere Annibale ad abbandonare l'Italia e, al contempo, abbattere definitivamente la potenza nord africana. Roma poté contare anche sull'appoggio del principe numidico Massinissa, entrato in conflitto con il fratello Syphax per la successione al trono. Il piano riuscì alla perfezione e Annibale, richiamato urgentemente in patria, fu costretto a sbarcare a Leptis Minus (Lemta) per scontrarsi con l'armata romana presso Zama, ove fu sconfitto anche a causa dell'ostilità della cavalleria numidica. Nel 201 a.C., Cartagine fu costretta a firmare il trattato di pace che la obbligava a corrispondere un’indennità di guerra di 10.000 talenti nell'arco di cinquant'anni, a amnatellare la propria flotta e gli squadroni di elefanti, pur potendo conservare i propri possedimenti in Nord Africa ad eccezione dei territori dell'entroterra assegnati a Massinissa; si impediva poi a Cartagine di condurre qualunque guerra anche difensiva in Africa senza il consenso di Roma. In tal modo, Cartagine perdeva la sua libertà d'azione politica e vedeva sminuito il suo ruolo di potenza mediterranea. Il pagamento dell'indennità di guerra fu reso difficile dalla corruzione dilagante dell'aristocrazia cartaginese: con il sostegno del malcontento popolare, Annibale fu scelto come console suffeto nel 196 a.C.; sotto il suo governo furono duramente represse le concussioni e le malversazioni nel tentativo di risanare le finanze pubbliche. Fu inoltre messa mano a una riforma della costituzione cartaginese funzionale a ridurre l'onnipotenza del partito aristocratico e all'introduzione di riforme democratiche. L'impresa di Annibale fu ostacolata dal desiderio da parte delle forze conservatrici di mantenere i propri privilegi; denunciato a Roma per presunti progetti sovversivi e accusato di preparare una nuova guerra offensiva, Annibale fu costretto all'esilio; ospitato in Oriente dal re di Bitinia, Annibale dedicò gli ultimi anni della sua vita al tentativo di mettere assieme una serie di forze ostili a Roma, ma braccato dai messi romani fu costretto al suicidio nel 181 a.C., mettendo fine ad una carriera strepitosa che ne ha eternato il nome nei secoli. 12.4 – Società, esercito e costituzione cartaginese Il nerbo della potenza militare cartaginese fu principalmente costituito dalla flotta, composta di oltre mille navi da guerra costruite da carpentieri esperti e affidabili. Lo statuto cartaginese riservava le attività di marineria militare esclusivamente a coloro che fossero dotati della cittadinanza, attribuendo invece agli alleati e alle popolazioni amiche il nerbo della fanteria, che rimase dunque prevalentemente a carattere mercenario. I marinai cartaginesi godevano di una grande esperienza pratica, ed erano in grado di seguire con precisione le rotte commerciali e militari anche senza conoscere la bussola, sfruttando per esempio l'osservazione delle stelle, in particolare l'Orsa maggiore (denominata nel mondo antico non a caso "stella fenicia"). Fig. 128 – L'androne di una casa di Karkuan con la In tempo di pace la marineria cartaginese era rappresentazione sul pavimento del cosiddetto segno di Tanit. impiegata nel controllo delle rotte commerciali e nella soppressione della pirateria marittima. Esisteva anche un corpo di fanteria scelta composto da 2500 i giovani aristocratici che formavano il "battaglione sacro", ma il loro intervento era riservato ai casi di estremo pericolo dal momento che l'esercito di fanteria fu sempre mercenario; le truppe cartaginesi dovevano pertanto presentarsi ad un osservatore esterno come un mosaico di lingue, costumi e tradizioni diverse. In tale contesto, fu sempre particolarmente significativo il contributo della cavalleria numidica. 102 Anello debole del sistema organizzativo militare cartaginese fu invece l'elevato costo del mercenariato, a cui si affiancava il problema del difficile rapporto tra i comandanti militari e gli organi legislativi e giudiziari. La costituzione in uso a Cartagine è svelata un po' confusamente da Aristotele che, nella sua Politica, la descrive entusiasticamente indicandola come un sistema equilibrato, in cui vengono stemperati principi monarchici, aristocratici e democratici. Da quanto è stato possibile ricostruire, un primitivo sistema monarchico era stato soggetto a una lenta evoluzione storica che aveva portato alla definizione della carica del suffeto; i suffeti erano magistrati eletti annualmente dall'Assemblea popolare e dei veri e propri leaders politici provenienti, con ogni probabilità, dalle classi più abbienti. La loro funzione era quella di presiedere le riunioni del Senato e dell'Assemblea popolare esercitando il potere giudiziario, pur non avendo alcuna attribuzione in materia militare. Il comando dell'esercito veniva normalmente affidato, a tempo determinato (ad esempio la durata di una guerra), a comandanti di provata esperienza: se dal punto di vista teorico qualunque cittadino avrebbe potuto ricoprire questo incarico, è evidente che l'esperienza necessaria veniva acquisita solamente dei rampolli delle più grandi e potenti famiglie cartaginesi, come i Magonidi e i Barcidi. Il Senato, era composto di 300 membri scelti all'interno dell'aristocrazia per cooptazione: la sua funzione era quella di discutere sulla politica estera, la guerra e la pace, il reclutamento degli eserciti e l'amministrazione delle colonie. In caso di conflitto tra il Senato e i suffeti, la divergenza veniva sottoposta al giudizio dell'Assemblea popolare. L'epigrafia e le fonti antiche alludono anche a un collegio composto di cinque membri (pentarchia) la cui funzione doveva essere quella di esercitare un controllo in ambito amministrativo. Tutta la vita politica punica era poi soggetta alla stretta sorveglianza di un tribunale detto “dei centoquattro” la cui funzione potrebbe essere paragonabile a quella degli efori a Sparta. Funzione principale di tale tribunale era quello di intercettare in tempo utile e ostacolare qualunque forma di colpo di stato o di tirannia. Purtroppo, il funzionamento dell'organizzazione dell'Assemblea popolare non è ben chiaro; è probabile che il suo compito fosse quello di eleggere i suffeti e i comandanti militari, nonché di arbitrare eventuali conflitti tra Senato e suffeti. Nonostante l'organizzazione particolarmente articolata e dotata di molteplici meccanismi di controllo, l'attribuzione di caratteri democratici alla costituzione cartaginese espressa da Aristotele è probabilmente un’esagerazione motivata dal fatto che Aristotele stesso proveniva da un ambiente oligarchico. 12.5 – Archeologia di Cartagine Cartagine, nel momento del suo apogeo poteva considerarsi una delle città più grandi e ricche del Mediterraneo. Le tracce della città di età classica e primo ellenistica sono state riconosciute per la prima volta in occasione delle campagne di scavo internazionali avviate in Tunisia nel 1972; sin dal primo momento è stato possibile verificare che la città, prima della distruzione operata dei Romani nel 146 a.C., era dotata di un piano regolatore urbano che le conferiva un impianto a scacchiera. Un’acropoli corrispondente all'attuale collina di Byrsa ospitava un tempio dedicato a Eschmoun ricordato dalle fonti per la sua grandezza; l'area dell'acropoli è stata solo parzialmente indagata, dimostrando che i Romani rioccuparono la collina fondandovi una colonia augustea non prima di avere rialzato il piano di calpestio tramite un'imponente opera di terrazzamento ed il riporto di terriccio; in età romana, l’antica acropoli fu Fig. 129 – Il tophet di Cartagine; ognuno dei piloncini in pietra infatti ricostruita e occupata da un foro affiancato corrisponde a una tomba a incinerazione infantile. da una basilica. 103 Cartagine, megalopoli situata al vertice di una complessa organizzazione militare e politica, era difesa da un potente muro di cinta lungo 34 km e dell'altezza media di 13 m. Le fonti antiche ci ricordano come il muro fosse intervallato ogni 60 m da una torre difensiva, e lo spessore del muro, valutabile in 8 m, permetteva l'alloggiamento di una serie di concamerazioni in cui erano riparati 300 elefanti da guerra e 4000 cavalli. Proprio gli elefanti furono una delle caratteristiche più innovative dell'apparato bellico cartaginese: resi furiosi con alcuni stratagemmi segreti, gli elefanti potevano trasformarsi in una vera e propria macchina di sfondamento con effetti devastanti sui nemici, anche dal punto di vista psicologico. Questa cinta monumentale fu l'esito di una lunga attività costruttiva e di successive espansioni edilizie cittadine, conclusesi attorno al IV sec a.C. con la "colonizzazione" del litorale marittimo ove sorse un quartiere aristocratico composto di suntuose abitazioni affacciate sul mare, con un’estensione oscillante tra il 1000 e i 1500 m2, dotate di peristili, passeggi coperti e giardini. Le fonti antiche – in particolare Appiano – ricordano la presenza di un foro nella zona pianeggiante presso cui sorgeva un santuario dedicato a Reschef (Apollo); resti di questo edificio sembrano essere stati individuati da un'equipe archeologica tedesca che ha raccolto sul posto resti di grandi capitelli stuccati, e sigilli in argilla con cartigli egizi e gemme greche destinati a sigillare documenti e papiri andati distrutti nell'incendio del 146 a.C. Appiano ricorda che le pareti del tempio erano rivestite in foglie d'oro e che al suo interno era conservata un'importante statua di culto poi trasportata a Roma ed esposta nel Circo Flaminio, dove era ancora visibile nel II sec d.C. L’elemento che ancor oggi colpisce chiunque si appresti a visitare l'antica Cartagine è il complesso del porto civile e militare, una realizzazione di assoluta avanguardia realizzata a cavallo tra III e II sec a.C. Esso si compone di un primo bacino rettangolare che copre la superficie di 7 ha e raggiunge la profondità di 2,50 m (koton) la cui funzione era quella di permettere l'approdo dei più importanti convogli mercantili; tale porto era affiancato dal cosiddetto quadrilatero di Falbe, un pontile attrezzato per il carico e lo scarico delle merci, la cui funzione era anche quella di proteggere i convogli dei venti dominanti. Un canale della larghezza di 20 m, sbarrato con paratie e catene, metteva poi in comunicazione il porto mercantile con quello militare, composto da un bacino Fig. 130– Segnacolo tombale in pietra dal tophet di Cartagine con la perfettamente circolare al cui centro sorgeva rappresentazione a rilievo di un betilo nel riquadro centrale. l'isolotto dell'ammiragliato, sormontato da una torre da cui era possibile controllare il traffico nel porto e lo spazio di mare antistante la città. Lungo il perimetro di tale bacino erano poi disposti una serie di hangars in muratura della lunghezza oscillante tra i 30 e i 50 m destinati ad ospitare 220 navi da guerra; ogni hangar era dotato di una rampa con traverse in legno che permetteva l'alaggio delle imbarcazioni, necessario soprattutto nel periodo invernale per le riparazioni e la manutenzione. Lo storico greco Strabone stima la popolazione della città dell'epoca in 700.000 abitanti, una cifra ridimensionata dagli storici e dagli archeologi moderni a 300/400.000. 12.6 – Religiosità e culti Il pantheon fenicio era modellato su una molteplicità di divinità di ascendenza orientale per molti versi simili a quelle venerate nella madrepatria (ad esempio a Tiro), contaminate, tuttavia, da influenze mediterranee e africane. La divinità protettrice di Cartagine era Melqart, assimilabile secondo i Greci a Ercole; le fonti antiche ricordano poi la presenza alla sommità della collina di Byrsa di un grande tempio dedicato a Eshmoun, dio della medicina simile ad Asclepio. Massime divinità del pantheon cartaginese erano poi Baâl Hammon e Tanit; dal momento che tali 104 divinità non sono presenti in madrepatria, e soprattutto considerando il conservatorismo religioso dei Fenici, sembra plausibile di dover riconoscere in questi due nomi dei semplici epiteti capaci di rimandare mentalmente alle divinità primordiali; d'altronde è noto come nell'antichità, spesso si evitasse di pronunciare il nome delle divinità invano, limitandosi ad evocarle attraverso i loro attributi personali; su questa base si è proposto di riconoscere in Baâl il dio mediorientale El (massima divinità del pantheon fenicio), e in Tanit la dea dell'amore e della guerra Asherat. Si è anche proposto di riconoscere nel nome di Baâl il significato etimologico di "signore degli altari e dei profumi"; Baâl, in età romana, verrà assimilato regolarmente a Saturno. Benché le popolazioni di origine semitica abbiano sempre mostrato una certa avversione per la rappresentazione della divinità in forma antropomorfa (cosa che portò al diffondersi nel Vicino Oriente dei cosiddetti betili), presso il santuario di Thinissut (nelle vicinanze di Bir Bou Reghba) è stata portata alla luce una statuetta in terracotta rappresentante Baâl: il dio solare e protettore della città, è rappresentato come un uomo barbuto seduto su un trono affiancato da due sfingi; egli porta con sul capo una corona con piume di struzzo stilizzata alla moda egizia. Baâl è poi esplicitamente menzionato in alcune iscrizioni di Salambò come la divinità più importante del pantheon fenicio, a cui veniva affiancata la paredra Tanit. Tanit sembra essere nata dalla fusione tra una dea e dell'amore e della fertilità orientale (forse Asherat oppure Elat) e una divinità topica africana; d’altronde sappiamo che i nomi femminili inizianti e terminanti in T sono tipici dell'onomastica berbera. I Greci la identificarono con Hera adorandola come dea della fecondità e protettrice delle puerpere; il suo carattere ctonio e rigenerativo si ripropone nei simboli a cui spesso è associata, come il melograno, la palma, la colomba e il pesce. Per i suoi caratteri celesti, Tanit è spesso associata al simbolo lunare, e in età tardo ellenistica romana il suo culto si trova associato a quello di Iside. Anche se non vi è certezza matematica, si attribuiscono a Tanit alcune statuette in argilla rappresentanti una donna che porta le mani al seno e quelle che presentano una donna seduta su un trono sui cui braccioli sono scolpite delle sfingi. È poi attribuito a Tanit un particolare simbolo riprodotto frequente nelle stele e nei mosaici cartaginesi composto da un triangolo sormontato da un cerchio, con interposta una linea spezzata; l'immagine che sembrerebbe rimandare a una schematizzazione di una figura di donna con le braccia sollevate è più correttamente da collegarsi alla stilizzazione del simbolo vita egizio dell’ankh; è noto, d'altronde, che i Cartaginesi intrattennero rapporti Figg. 131/ 132– Statuette di terracotta di politici ed economici strettissimi con l'Egitto, fungendo da carattere votivo rappresentanti una figura intermediari tra la cultura della valle del Nilo e quella dei popoli del barbuta in trono (Baal) e una figura Mediterraneo (anche grazie al commercio) per tutto il periodo femminile con le mani portate al seno nell'atto di reggere un tamburello , ellenistico. Tra le divinità minori egiziane ampiamente venerate (Tanit/Asherad) soprattutto tra i ceti medio-bassi si annoverano non a caso Iside, Osiride e il nanetto Bes, a cui si attribuiva il ruolo di genietto protettore delle tombe e la profilassi dal malocchio. Altre divinità adorate dei Cartaginesi furono Astarte (Afrodite), Reschef (Apollo), Shadrapa (Bacco), Yam (Posidone) e Hadad (Giove). I sacerdoti venivano normalmente reclutati tra le famiglie aristocratiche e tra di loro figuravano molte donne; non sembra che la classe sacerdotale abbia esercitato un'importante influenza sulla politica, e che tantomeno abbia esercitato un ruolo portante nei campi dell'istruzione, del controllo delle coscienze e della morale; il ruolo del clero era forse solo quello di garantire la corretta celebrazione dei sacrifici all'interno dei templi e di presiedere alle cerimonie religiose e ai sacrifici. Uno degli aspetti più controversi e suggestivi della vita religiosa fenicia è certamente costituito dalla tradizione secondo la quale i Cartaginesi erano soliti sacrificare i primogeniti in caso di gravi calamità o di pericolo. Questo costume è confermato, 105 per la prima età del Ferro, da una serie di documenti scoperti nel Vicino Oriente quali la stele del re Mesha (VII sec a.C.) dalla valle del Giordano in cui il re di Moab, attaccato da una coalizione di Ammoniti e Israeliti, si vanta di aver rovesciato le sorti della battaglia dopo aver immolato il primogenito sulle mura di Eshbon. All'interno della stessa Bibbia viene poi fatto un esplicito riferimento all'orrore suscitato dei sacrifici umani: la tradizione del montone sacrificato da Abramo al posto di Isacco sembra inserirsi in una polemica contro tale forma di ritualità. Il tema del sacrificio è d'altronde presente nella stessa leggenda di fondazione di Cartagine, laddove viene ricordato quello di Elissa che, per garantire il benessere della città, non esita a sacrificarsi gettandosi sul una pira. Diodoro Siculo racconta che i Cartaginesi, attorno 310 a.C., immolarono due giovani fanciulli di estrazione aristocratica al fine di placare l'ira delle divinità nel momento in cui Agatocle si apprestava ad attaccare militarmente l’Africa; il loro esempio fu seguito da oltre trecento cittadini che offrirono anch'essi i propri figli per un olocausto consumato su una grande pira. Ancora in età romana, Tertulliano ricordava che l'imperatore Tiberio aveva fatto crocifiggere alcuni sacerdoti cartaginesi rei di essersi resi artefici di empietà simili. La questione della veridicità di questa tradizione storiografica è stata oggetto di ampi dibattiti nel corso del Novecento: benché i sacrifici umani, in casi di grave emergenza, fossero praticati anche ai Greci e dai Romani, il principale sospetto è quello relativo ad una possibile esaltazione di questa pratica a scopo polemico da parte degli scrittori avversi a Cartegine. A questa problematica si collega poi la scoperta archeologica dei cosiddetti tophet, cimiteri riservati agli infanti individuati ripetutamente in prossimità delle città puniche, anche coloniali. Quello di Cartagine, portato alla luce presso Salambò (nome che ispirò anche il famoso romanzo di Fleubert) fu costruito in prossimità di un’edicola templare del VIII sec a.C. posta in corrispondenza della tomba di un importante personaggio pubblico o di un re; all'atto della sua scoperta il cimitero fu interpretato come il luogo di sepoltura dei fanciulli immolati dei sacerdoti. A titolo preliminare può essere interessante ricordare che l'etimologia della parola tophet ha un'origine biblica: essa serviva, infatti, ad identificare un quartiere suburbano di Gerusalemme in cui avveniva il sacrificio dei fanciulli e per questo criticato dalla Bibbia. Il termine Moloch, invece, (che è spesso associato alle stele votive dei tophet) non corrisponde, come si credeva un tempo, al nome di una divinità, ma può tradursi semplicemente come "sacrificio". Il grande tophet di Cartagine rimase in uso per molti secoli, dando luogo a una stratificazione archeologica molto complessa che è stato possibile preservare in parte e rendere visibile ai visitatori. Le urne cinerarie contenenti i resti cremati dei bambini erano poste in una Fig. 133 – La famosa stele del piccola fossa terrigna sormontate da una stele lapidea; quest'ultima fu Museo del Bardo con una soggetta a un'evoluzione stilistica direttamente collegata all'evoluzione delle rappresentazione inequivocabile mode e delle influenze culturali delle civiltà vicine. Nel VI sec a.C. era diffuso di un sacerdote portante con in braccio un fanciullo. un cippo in pietra la cui sagoma imitava il profilo dei templi egiziani, su cui era generalmente scolpito un trono su cui era appoggiato un betilo. Nel corso del V sec a.C., l'aumentata influenza della cultura greca (veicolata dai commerci internazionali) incominciò a manifestarsi con la presenza di cippi in pietra decorati con pilastrini sormontati da capitelli ionici. Gli strati più recenti vedono predominare le stele e i piloni litici iscritti, spesso accompagnati da incisioni di carattere religioso profilattiche, immagini di animali, oggetti di culto, simboli e attributi divini, il simbolo della bottiglia e il sigillo di Tanit. Una stele particolarmente importante è conservata nel Museo Archeologico del Bardo di Tunisi: in essa si vede esplicitamente la sagoma di un sacerdote con un particolare copricapo nell'atto di incedere verso sinistra portando in grembo un giovane fanciullo destinato al sacrificio. Se dunque rimangono serie probabilità che, in alcuni casi eccezionali, il terribile rituale abbia corrisposto alla realtà, è del tutto superata l'idea che i tophet coincidano in toto al luogo degli olocausti: l'eccessivo numero di tombe infantili sembra, infatti, assolutamente sproporzionato alla realtà storica; 106 d'altronde, sembra strano che autori greci e latini come Erodoto, Tucidide, Polibio e Tito Livio non abbiano fatto alcun accenno a tali pratiche nei propri scritti se esse avessero avuto un carattere così massiccio. Se è comunque probabile che la pratica del sacrificio del primogenito sia stata praticata dai Cartaginesi, essa deve aver corrisposto a un evento eccezionale e ben circoscritto. I tophet sembrano piuttosto interpretabili come dei semplici cimiteri destinati ai bambini morti prematuramente, a cui erano riservate speciali cure e attenzioni religiose. Quello che è certo è che le sepolture degli adulti seguono un'evoluzione formale e cultuale diversa da quella attestata presso i tophet: le tombe scoperte a più riprese sull'acropoli di Byrsa e nei dintorni di Cartagine dimostrano che, tradizionalmente, era uso seppellire i defunti all'interno di piccole camere sotterranee scavate nella roccia, rese accessibili tramite una piccola scalinata o un pozzo verticale; al loro interno i defunti erano deposti all'interno di sarcofagi in legno o in pietra. A partire dal V sec a.C., su influenza greca, a lato delle inumazioni incominciarono ad essere praticate anche le cremazioni. Nel periodo ellenistico, sempre su influenza greca, si diffuse l'uso di realizzare grandi sarcofagi con il coperchio figurato, normalmente deposte all'interno di mausolei di una certa qualità architettonica. Nelle zone più periferiche, per esempio presso Sahel e Capo Bon, i defunti furono per lungo tempo deposti in posizione rannicchiata dopo essere stati ricoperti di uno strato ocra rossastra che ha lasciato chiare tracce sulle ossa dopo la degradazione delle parti molli; sia la posizione rannicchiata, sia l'uso di ridare vigore al corpo del defunto tramite tale colorazione artificiale, sono estranei ai costumi e alla tradizione fenicia, e sembrano più facilmente spiegabili tenendo in considerazione l'influsso della cultura locale berbera e africana. In linea di massima i corredi delle tombe non si mostrano mai particolarmente ricchi, e presentano corredi composti di oggetti correnti come ceramiche, statuette e amuleti. Le nostre conoscenze sulle ideologie funerarie cartaginesi sono molto modeste; è possibile però che su influenza egiziana, i Fenici credessero in una vita dopo la morte; la conoscenza dei culti iniziatici greci dedicati a Dionisio, Afrodite e Demetra possono avere introdotto nella cultura cartaginese una primordiale sapienza "misterica", offrendo nuove prospettive filosofiche e religiose capaci di prospettare una vita migliore dopo la morte. Siamo comunque certi del fatto che i Punici importarono dalla Sicilia il culto di Demetra, Kore e di Dioniso (che fu assimilato a Shadrapa), i cui simboli si ritrovano all'interno dei tophet associati alle divinità tradizionali Baâl Hammon e Tanit. 12.7 – La città fenicia di Kerkuan Il sito di Kerkuan riveste una particolare importanza qualificandosi come l'unico insediamento civile punico scavato in estensione in nord Africa. L'insediamento sorge fra il Jebel Sidi Labdiah, a nord, e il Capo Kèlibia, a sud, in una regione ricca d’acqua grazie a una falda poco profonda anche se non molto abbondante; la terra presenta però un grado di fertilità non eccezionale, dal momento che l'aria salmastra è nociva per qualsiasi vegetazione fatta eccezione per alcune essenze alofile come le tamerici; la zona, però, poteva approfittare della vicinanza del mare e beneficiare dei suoi prodotti. Il sito è noto per alcuni importanti eventi storici avvenuti nelle sue pertinenze: qui sbarcò l'esercito di Agatocle, il tiranno di Siracusa che aveva progettato una spedizione contro la metropoli punica come narrato da Diodoro Siculo; secondo le parole di quest'ultimo "la contrada era disseminata di giardini e orti irrigati da svariate sorgenti e canali”. Le case erano costruite a regola d'arte, utilizzando calce e rivelavano una ricchezza diffusa, colme come erano di quanto potesse rendere la vita piacevole, grazie a un lungo periodo di pace. La stessa regione fu oggetto dello sbarco nel 256 a.C. dai consoli Lucio Manlio Vulso e Marco Attilio Regolo nel corso della Prima Guerra Punica; i Romani, impossessatisi della cittadella di Aspsis si diedero a devastare i campi circostanti distruggendo la regione senza incontrare resistenza, appropriandosi di un'enorme quantità di bestiame e di più di 20.000 schiavi. Il sito è stato scoperto attorno 1952 e scavato tra il 1957 e il 1961 da un’equipe internazionale coordinata dagli archeologi tunisini. 107 Fig. 134 – Planimetria archeologica del sito di Kerkuan: la strada esterna asseconda l'andamento circolare della baia; in centro, a sinistra, si riconosce l'area sacra. A giudicare dai dati attualmente disponibili, Kerkuan si presentava come una città ben aerata, in cui si circolava agevolmente a piedi grazie a strade spaziose della larghezza oscillante tra i 3 e i 4,8 m. La planimetria del sito rispetta una sensibilità lontana da quella greca e romana, ma ben attestata nel Vicino Oriente: le strade partizionano i diversi quartieri in isolati, snodandosi secondo una planimetria concentrica che asseconda la linea di costa; all'interno di questa maglia urbana in linea di massima ortogonale, piccoli slarghi o piazzette diventano snodo di scambio e raccolta; curiosamente molte di esse sono separate da un brevissimo spazio (spesso un semplice isolato abitativo), probabilmente perché erano concentrate in zone particolarmente significative dal punto di vista economico e commerciale. Il mondo punico non conosceva l'agorà dei Greci e il foro dei Romani; presso di loro si trovava una tipologia denominata Maqom, i cui omologhi possono essere ricercati nelle antiche città orientali, ad esempio a Mari in Siria, dove alcune abitazioni sono riunite in blocchi compatti presso una piccola piazza destinata alle necessità socioeconomiche della popolazione. Per quanto concerne Cartagine, siamo anche al corrente dell'esistenza di magistrati responsabili della stesura dei piani regolatori e della concessione delle autorizzazioni a costruire; nel mondo semitico questi magistrati vengono chiamati Mehashébim (ovvero "controllori" o "contabili" ). La fondazione dell'impianto urbano di Kerkuan non è fissabile cronologicamente con certezza, ma i dati stratigrafici dimostrano che tale azione fu antecedente all'invasione di Agatocle del 310 a.C. La distruzione definitiva della città può invece essere fissata alla metà del III sec a.C., probabilmente in connessione con l'attacco condotto da Attilio Regolo. Gli edifici portati alla luce sino a oggi presentano una notevole cura costruttiva: i muri portanti sono realizzati con il caratteristico opus africanus (così definito dall'architetto romano Vitruvio) con grandi ortostati portanti disposti a intervalli regolari, colmati nello spazio di risulta con pietre unite da malta, in modo da creare una rete strutturale portante rinforzata; tale tecnica è caratteristica dell'area cartaginese e si ritrova frequentemente nelle colonie cartaginesi siceliote e sarde. Diverse partiture architettoniche portate alla luce durante gli scavi mostrano la cura 108 con cui furono realizzati gli edifici: i cornicioni in materiale calcareo presentano un profilo a gola di tipo egiziano, alcuni blocchi portanti in pietra sono uniti tra loro da grappe metalliche a coda di rondine, mentre il cortile di molti edifici e alcune stanze interne sono lastricati di cocciopesto con tasselli di mosaico immorsati e piccole decorazioni applicate. Sono anche noti capitelli ionici in calcare, grondaie in pietra terminanti a protome di toro, chiaramente destinate al deflusso dell'acqua piovana dai tetti verso la strada. Alcuni blocchi architettonici Fig. 135 – La spaziosa intercapedine ricavata tra i due muri di cinta delle fortificazioni di appartenenti ai tetti sono Kerkuan, completati in occasione dell'assedio romano della Prima Guerra Punica. caratterizzati da profonde scanalature e sembrano essere state destinati a sorreggere le travi del soffitto. Ambienti costruiti in materiale effimero come il legno avevano la base avvolta da fondi di anfora, così da proteggere il legno dall'umidità del terreno. La cinta della città è composta di due muri affiancati e intervallati tra loro da un corridoio largo tre 7,5 e i 13 m, destinato alla circolazione delle truppe, allo stoccaggio delle munizioni e delle macchine da guerra; in tale intercapedine erano anche sistemate le scale che permettevano di raggiungere il cammino di ronda, gli alloggi dei militari e alcuni magazzini. Durante gli scavi fu possibile portare in luce una porta posterla ingegnosamente realizzata nella forma di una fenditura obliqua ricavata nello spessore del muro, così da esporre il lato degli assalitori ai colpi dei militari disposti sugli spalti. La Porta del Calante si presenta invece parallela alle mura che però si incurvano in modo tale da mettere in difficoltà gli assalitori; tale stratagemma costruttivo è noto in Palestina presso la porta di Tella Nasbeh databile al X sec a.C. Il detrito evidenziato alla base delle mura sembra dimostrare che al di sopra della zoccolatura in pietra, gran parte del muro di difesa era realizzato in mattone crudo; le mura erano quasi sicuramente sormontate da merli alternati a feritoie; i rilievi assiri e la toreutica fenicio-cipriota raffigurano frequentemente mura dotate di merli rettangolari, come testimoniato anche nelle colonie di Erice, Mozia, e Tharros. La cinta che vediamo oggi non appartiene comunque alla fase più antica della storia cittadina: gli scavi hanno dimostrato che la torre Nord (torre A) fu costruita a scapito di mura più antiche (il cui profilo corrispondeva a quello dell'attuale cinta interna); in esse ricorreva la tecnica di costruzione detta “a lisca di pesce”, importata dall'Oriente dei Fenici. Se ne dedurrebbe che una primitiva “cinta semplice” fu affiancata, in un secondo tempo, da una cinta esterna; è probabile che tale azione sia connessa alla necessità di rafforzare la città nel periodo dell'assedio romano della Prima Guerra Punica. In questa fase, dunque, si progettò la realizzazione di un complesso difensivo composto di due cinte parallele, separate da un corridoio relativamente vasto, destinato alla circolazione delle truppe e alle infrastrutture. A suffragio di tale processo, parla il ritrovamento di alcune installazioni artigianali (tra cui un forno per la fusione dei metalli) distrutti e invasi dalle fondazioni dei muri della nuova cinta. Le mura dovevano presentarsi ben rifinite, con un’intonacatura a calce sul lato esterno di cui sono trovate tracce; l'intonaco aveva la funzione di compattare i materiali costruttivi e di proteggere il muro dalle intemperie. Le singole case di abitazione presentano uno schema semplice e abbastanza ripetitivo: vi si accedeva da un vestibolo che effettuava uno scarto netto a fondo corsa, in modo da impedire a chi passava per la strada di scorgere quanto avveniva all'interno dell'edificio. Quest'ultimo era organizzato su un cortile centrale spesso dotato di un pozzo, attorno a cui si disponevano ambienti di varia dimensione destinati ai pasti comuni, alla ricezione degli ospiti, a camera da letto e soggiorno. La presenza di scale dimostra l'esistenza di un piano superiore. Spesso, i singoli ambienti erano separati facendo uso di tendaggi; le pareti erano stuccate, i 109 Fig. 136 – Ricostruzione didattica della forma di una casa tipo cartaginese a Karkuan. Fig. 137 – Planimetria di una casa fenicia di Kerkuan rispondente per molti versi a quanto attestato nel Vicino Oriente. pavimenti realizzati in calcestruzzo molto solido, ben resistente alle intemperie. Particolarmente diffusa doveva essere la presenza di terrazze al primo o al secondo piano; queste erano utilizzate soprattutto in estate per la stesura dei panni ma anche per attività sociali. L'elemento più impressionante dell'abitato di Kerkuan è la costante presenza di sale da bagno anche in edifici non particolarmente opulenti. Il bagno tipo è costituito da una vasca da bagno con sedile e braccioli, più una vasca lavandino quadrangolare destinata alle abluzioni e all'alimentazione della vasca principale. Le pareti della vasca da bagno sono costruite con pietre ben cementate, rivestite di uno strato di stucco idrofugo. Il pavimento era spesso impermeabilizzato con uno strato di opus igninum magari decorato con scagliette di marmo bianco, di calcare nero o arenaria. Condotte ben congegnate assicuravano la circolazione dell'acqua, tanto per l'alimentazione che per l'evacuazione. L'interesse costante per le abluzioni rituali è un elemento ricorrente tra le popolazioni semitiche e orientali, che trova notevoli riscontri nell'ambiente siro-palestinese ed ebraico sino all'età romana, come testimoniato dalla prolificazione nella Gerusalemme erodiana del tipico mikveh destinato alle abluzioni. Tra gli edifici pubblici scavati, uno presenta caratteri piuttosto eccezionali che lo rendono degno di citazione; si tratta di un edificio piuttosto spazioso destinato al culto, situato in quella che è stata battezzata "strada del Tempio". Vi si accedeva da un breve vestibolo che dava accesso a un cortile su cui si affacciavano molteplici stanze allineate lungo il perimetro. Al centro dell'area, un blocco ricavato nel grés rivestito da un intonaco in calcare bianco raffinato costituiva l'altare di culto. Alle spalle dell'altare, lungo la parete di fondo del lato breve del cortile, due piccoli podi servivano con ogni probabilità per l'esposizione dei sacra, ovvero delle immagini di culto. Sul lato lungo del cortile si allineava poi una serie di ambienti affiancati paratatticamente in cui si sono riconosciuti un deposito per l'argilla, una vasca di forma quadrangolare di 2 x 1,5 m dotata di una canalizzazione per l'evacuazione dell'acqua e destinata alla preparazione dell'argilla figlina, un'aula destinata alla modellazione delle statuette e degli oggetti di culto in terracotta, più un forno di cottura dell'argilla. Tali ambienti sembrano avvalorare la tesi secondo la quale all'interno del santuario venivano prodotti oggetti di culto in terracotta poi venduti ai pellegrini così da finanziare le attività di culto; tale interpretazione è confortata dal ritrovamento di frammenti di statue in terracotta all'interno della cenere di cottura, a fianco di ossa di animali e di resti di mattoni a forma di losanga. Il grande ambiente rettangolare situato a fianco dell'ingresso e dotato di un lungo bancale lungo le pareti potrebbe essere inteso come un salone d'attesa per i visitatori del santuario, ma anche come sala destinata all'esposizione degli oggetti sacri posti in vendita. Un secondo settore dell'edificio, agibile tramite una porta secondaria, è costituito da un cortile in cui si sono trovate tracce di cenere frammista a una notevole quantità di ossa animali, vasellame, oggetti in metallo e monete. La presenza di tale concentrazione di ceneri e scarti fa pensare che tale cortile fosse destinato pasti rituali. Nell'angolo nord-ovest è stato poi possibile portare alla luce un cumulo di ciottoli di forma ellittica opportunamente selezionati, dal diametro oscillante tra i 18 e i 23 cm, collocati su uno strato di cenere mista a carbone, ossa animali, cocci di ceramica e monete. Gli scavatori hanno interpretato tale cumulo di pietre come intenzionale, connettendolo a una tradizione religiosa litolatrica ben attestata in Tunisia sin dall'età della pietra (mousteriano). Si tratterebbe dunque dell'espressione materiale di una preghiera e della rappresentazione fisica di un 110 voto. La bipartizione del tempio in due cortili lascia intendere che il primo fosse più facilmente accessibile e frequentato dei pellegrini, mentre il secondo era riservato a sacrifici animali e ai pasti rituali. La fondazione dell'edificio sembra attuarsi già nel corso del IV sec d.C., con l'esecuzione di lavori di ristrutturazione dopo l'assedio di Agatocle. L'attribuzione del culto non è certa: negli strati archeologici è stato possibile portare alla luce statuette in terracotta di due divinità maschili, una barbuta e l'altra glabra, forse immagini di Baâl, Hammon, Fig. 138 – Le vasche da bagno e i bacini per le abluzioni sono una costante all'interno delle case private scoperte a Kerkuan, nel rispetto di una tradizione Eshmoun o Melqart. Un'altra culturale e religiosa ben attestata in Oriente. immagine rappresentante un giovane dio con capello conico potrebbe essere collegata al culto di Cid, il dio della caccia e della pesca. Alcune statuette a forma di campana e la presenza dell'acqua, suggerirebbero anche la presenza di una divinità guaritrice. In linea di massima si può asserire che il santuario di Kerkuan aveva carattere poliade. Un problema che deve ancora essere risolto è, infine, quello relativo all'ubicazione dell'antico porto di Kerkuan; il sito, posto in prossimità di un approdo soggetto a violenti mareggiate non sembra particolarmente adatto all'attracco di grandi navi da trasporto e militari. La costa è poi esposta ai venti e sottoposta a una risacca implacabile, mentre la presenza di bassi fondali non consente l'approdo di grosse unità. Non lontano dalla città, al di fuori della cinta, nel settore settentrionale, due piccole insenature sembrano però aver potuto accogliere le barche dei pescatori. È probabile che le navi di grandi dimensioni facessero scalo leggermente più a sud, presso il sito di Aspis, citato non a caso dalle fonti antiche. 12.8 – La Terza Guerra Punica e la fine di Cartagine Il grande regno numidico di Massinissa – che occupava l'enorme e fertile entroterra di Cartagine – era governato da una dinastia reale che tendeva a trasmettere il potere di padre in figlio, e in cui il re esercitava il proprio potere in ragione del proprio prestigio personale, in un sistema tendenzialmente tribale. A partire da Massinissa però, anche il regno numidico fu soggetto ad una modernizzazione, probabilmente ispirata al modello messo a punto a Cartagine da Annibale. Massinissa, durante il suo lungo regno fu capace di mettere assieme un’armata permanente di 50.000 fanti a cui si dovevano giungere contingenti forniti dalla tribù alleate. Dopo l'esilio di Annibale, lo stato cartaginese, indebolito nella sua politica interna ed estera, dovette confrontarsi con le ambizioni espansionistiche di Massinissa che, forte del trattato di non belligeranza stipulato da Roma e Cartagine, rivendicava a giusto diritto il possesso degli edifici, delle terre, delle città e “di tutto quello che era appartenuto ai Numidi fin dai tempi più remoti”. Cartagine, come si è detto, si vide impedita di ogni possibilità d’intervento militare, anche perché Massinissa, forte dell'aiuto dato ai Romani nelle ultime fasi della Seconda Guerra Punica, era considerato amico di Roma. Tra il 201 e il 195 a.C. il sovrano numida si prese cura della riorganizzazione del proprio regno, evitando di sfidare troppo apertamente Cartagine ancora governata da Annibale. In una prima fase, i suoi sforzi si diressero quindi verso la Cirenaica dove venne rovesciato un capo ribelle di nome Aphter. Nel 193 a.C., dopo la dipartita di Annibale per la Bitinia, Massinissa scelse di agire in modo più diretto, occupando militarmente la piccola Sirte e sottraendo a Cartagine alcuni villaggi e i relativi proventi delle tasse. Tale atteggiamento aggressivo si intensificò negli anni successivi quando Massinissa iniziò a puntare alla conquista di siti maggiormente strategici come Leptis Magna, che fu annessa allo stato numidico 111 Fig. 139 – Planimetria del tempio scoperto a Kerkuan, con chiara indicazione dei diversi ambienti e della loro funzione. nel 162 a.C. Tra il 153 e il 152 a.C., Massinissa mise le mani sulla fertile valle del Medjerda e sul territorio di Tusca, un entroterra fertilissimo da cui Cartagine traeva le risorse cerealicole necessarie alla sua sopravvivenza. Cartagine, impotente, in un primo tempo decise di espellere dalla città tutti coloro che dimostravano un atteggiamento complice con il sovrano numidico; quest’ultimo reagì accogliendo gli esuli e inviando i figli Micipsa e Gulussa in qualità di ambasciatori a chiedere conto a Cartagine del suo comportamento. La situazione degenerò con l’assedio condotto da Massinissa alla città di Oroscopa (non ancora identificata), dando il via, nel 150 a.C., alla guerra con Cartagine. Il re numidico riuscì a mettere a segno una vittoria sull'armata cartaginese, imponendo condizioni molto dure; la capitale punica, con tale atto di guerra, aveva però nel frattempo violato il trattato del 201 a.C., dando lo spunto Roma per un intervento militare. Nel 153 a.C. Catone si recò in Africa alla testa di una commissione d’indagine presentandosi pochi giorni più tardi al Senato di Roma con un fico fresco raccolto nella capitale africana per dimostrare, in modo inequivocabile, la vicinanza e il pericolo costituito dalla potenza nemica. Il progetto romano era probabilmente quello di unificare i territori del nord Africa in modo definitivo sotto il proprio controllo; Cartagine, privata del proprio esercito e della propria marina non poteva in effetti costituire un serio pericolo per Roma. Di fronte all'aggressività romana, Cartagine rispose mettendo a morte – a scopo dimostrativo – i fautori della guerra contro Massinissa e dichiarando di accettare tutte le condizioni imposte da Roma. Quest’ultima, tuttavia, nel 149 a.C. decise di non dare ascolto all'ambasceria cartaginese e inviò in Africa 80.000 fanti, 4000 cavalieri e una flotta di 55 quinqueremi oltre a 100 ulteriori navi da guerra. Cartagine, posta alle strette, consegnò ai Romani 200.000 armi, 2000 macchine da guerra e 300 giovani aristocratici in qualità di ostaggi. Il Senato di Roma rispose intimando ai Cartaginesi di abbandonare la città ormai destinata alla distruzione. Cartagine, non potendo accettare tali condizioni, si organizzò per una difesa disperata ed eroica, in uno stato generale di esaltazione. La tradizione storiografica racconta che le donne cartaginesi sacrificarono le proprie chiome per ricavarne corde per catapulta e ci si apprestò a fabbricare armi da guerra in quantità. Rimasero fedeli a Cartagine solo Hyppo Diarrhytus (Bizerte), Clupea (Kélibia) e Neapolis (Nabeul), mentre gran parte delle altre città defezionò a favore di Roma. I Romani posero alla testa delle proprie truppe Scipione l'Emiliano, il figlio di Lucio Emilio Paolo (il console battuto con Varrone a Canne) e figlio adottivo di Scipione l’Africano. Nel 146 a.C. Romani sferrarono l'attacco decisivo impadronendosi del porto militare di Cartagine, trasferendo i combattimenti per le strade della città fino all'acropoli dove, in prossimità del tempio di Ashmoun si erano rifugiati i rivoltosi più determinati a resistere. Dopo sei giorni e sei notti di assedio, 55.000 abitanti di Cartagine si arresero e Asdrubale, capo delle truppe cartaginesi, si consegnò a Scipione chiedendo di essere risparmiato, mentre sua moglie Sofonisba si gettava nelle fiamme assieme ai suoi due figli. La città fu completamente distrutta da un poderoso incendio che si propagò per oltre dieci giorni; gran parte dei sopravvissuti fu tratto in schiavitù, e l’area in cui era prosperata la città fu considerata maledetta, cosparsa di sale con il divieto per chiunque di costruirvi alcunché. Tutte le città fedeli a Cartagine furono condannate alla distruzione, quelle amiche di Roma furono dichiarate libere e i loro territori ingranditi a scapito delle vicine. Massinissa, ammantato di un carisma di tipo quasi sacrale, pur non essendo venerato in vita, subì l'apoteosi dopo la morte. Utica fu premiata per la defezione con l'acquisizione delle terre coltivabili fino a Bizerte a nord, e alle porte di Cartagine sud, diventando, successivamente, capitale della Provincia d'Africa. Il territorio di tale provincia, inizialmente, fu piuttosto ristretto e stimabile in un'area di 25.000 km²: i suoi confini erano delimitati dalla cosiddetta fossa regia fatta scavare da Scipione l'Emiliano. Tale frontiera partiva da Tabarka in direzione sud-orientale passando a est della regione di Béja, Téboursouk 112 e Dougga, attraversando il Jebel Frikin evitando così la steppa, congiungendosi alla costa orientale della Tunisia fino a sud di Thaene (Thina). All'indomani della conquista, il suolo fu centuriato e partizionato in apprezzamenti di 50 ha; qui, già a partire da 122 a.C., furono fatti alcuni tentativi di assegnazione e coltivazione della terra a favore di coloni italici, ad esempio al tempo dei Gracchi; tale iniziativa trovò l'opposizione dei gruppi più conservatori che reputavano il tentativo di impiantare una colonia sul suolo maledetto di Cartagine un affronto agli dei (Colonia Iunonia Kartago). La popolazione autoctona fu costretta a pagare un tributo fisso per poter mantenere la propria proprietà terriera mentre gran parte del terreno coltivabile fu trasformato in ager publicus. Roma, a partire dall'età di Silla, assegnò il governo della Provincia un magistrato di rango proconsolare, assistito da un legato e da un questore designati dal Senato; nominato per estrazione a sorte per la durata di un anno, il proconsole aveva il compito di governare la provincia, difenderne le frontiere e mantenere l'ordine e la sicurezza. Aveva in questo modo definitivamente fine la secolare avventura della colonia fenicia di Tiro in nord Africa, anche se per molto tempo importanti magistrature furono rivestite da maggiorenti di origine punica, come dimostrato dai gentilizi tipicamente fenici che ricorrono nelle epigrafi di età imperiale. Sandro Caranzano Fig. 140 – I forni per la cottura della ceramica scoperti nel tempio di Kerkuan; Fig. 141 – Vasca per la preparazione dell'argilla all'interno del complesso templare; Fig. 142 – Le curiose pietre sferiche scoperte nel secondo cortile, probabilmente collegate a una antica forma di litolatria. 113