Dispensa 39 (Cartagine) - Corso di Archeologia

La civiltà cartaginese
Dispensa 12. Lezioni di maggio 2012
Miscellanea a cura di Sandro Caranzano, riservati
ai fruitori del corso di archeologia presso
l'Università Popolare di Torino 2011–2012
12.1 – La Fondazione di Cartagine
Cartagine fu un’importante fondazione coloniale fenicia che la tradizione
storiografica attribuisce a un periodo piuttosto remoto della storia antica, ovvero al
814 a.C., dunque con oltre cinquant'anni di anticipo rispetto alla più antica
fondazione coloniale greca in Occidente da riconoscersi in Cuma (fondata attorno al
750 a.C.).
Le fonti antiche, in verità, ricordano una presenza fenicia in nord Africa ancora più
antica, e attribuiscono a Utica (un antico centro situato presso la foce del fiume
Medjerda in Tunisia) il primato che coloniale: qui infatti sarebbe sorto un primo
centro fenicio attorno al 1101 a.C. Purtroppo, tale informazione non ha ancora
trovato una conferma archeologica, ma bisogna considerare che tutta la regione è
stata soggetta a ingenti fenomeni alluvionali collegati alla divagazione del fiume
stesso, per cui è possibile che in futuro le lacune vengano colmate. È comunque più
che probabile che i Fenici, sin dalla fine dell'età del Bronzo, si siano spinti verso
Occidente alla ricerca di scali marittimi, baie protette dei venti e rifornite d'acqua,
adatte a offrire rifugio alle navi impegnate in lunghe e pericolose rotte commerciali,
in un periodo in cui la navigazione procedeva
prevalentemente bordeggiando la costa, dato
anche il relativamente scarso livello evolutivo
delle imbarcazioni. Il nord Africa, in questa fase
storica, non poteva offrire molte attrattive,
tanto più che il ricco entroterra era saldamente
in mano alle popolazioni berbere, mentre la
scienza agrimensoria non era ancora giunta ai
suoi vertici; tuttavia, la presenza di punti di
approdo era quanto mai strategica, dal
momento che i Fenici si erano spinti sino allo
stretto di Gibilterra – nello specifico a Tartesso
– per procurarsi il preziosissimo stagno e il
rame, che venivano trasportati in Oriente dove
costituivano un ingrediente fondamentale per
la metallurgia. Non sembra dunque un caso che
Fig. 121 – Carta geografica storica delle aree di influenza politica di
il sito di Utica si trovi esattamente a metà
Roma e di Cartagine, alla vigilia della Seconda guerra Punica.
strada tra la madrepatria e il terminale di tali
importanti rotte commerciali.
La fondazione di Cartagine appartiene dunque a un “capitolo” successivo; la città
sorse in una posizione particolarmente strategica, all'interno di una baia ben
protetta dalle mareggiate, con un cordone lagunare che costituiva anche una valida
protezione in caso di attacchi ostili.
La tradizione antica ricordava una leggenda anche per la fondazione di Cartagine.
Secondo quanto riportato dalle fonti greche e romane la fondazione della nuova
capitale sarebbe stata opera di Elissa, la figlia del re di Tiro e la sorella del giovane
Pigmalione. Alla morte del padre, il regno era stato lasciato in eredità ai due fratelli;
la giovane ragazza aveva sposato Acherbas, un aristocratico che rivestiva l'incarico di
alto sacerdote di Melqart, il cui prestigio a corte seguiva a ruota quello del principe.
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L'immensa ricchezza di Acherbas impensierì molto presto Pigmalione che fece
uccidere da alcuni sicari il consorte della principessa. Quest'ultima, desiderosa di
vendetta, simulò di volersi trasferire presso il palazzo del fratello per poter
giustificare l'ammasso repentino delle proprie ricchezze; quindi, dopo avere
minacciato di gravi ritorsioni i servitori, prese il largo con tutti i suoi averi e in
compagnia di alcuni aristocratici dissidenti, veleggiando in direzione di Cipro. Qui,
imbarcò ottanta giovani vergini che si erano recate al santuario di Afrodite per
offrire la propria verginità in cambio di una dote (secondo un uso ben attestato nei
santuari dedicati a Ishtar nel Vicino Oriente); esse sarebbero state destinate al
nuovo santuario di Cartagine, garantendo, al contempo, una discendenza ai giovani
che avevano seguito Elissa nella sua avventura. Dopo un lungo periplo, gli esuli
raggiunsero dunque il nord Africa, dove esistevano antiche relazioni diplomatiche
con la popolazioni locali governate dal re Jarba. Il mito vuole che Jarba avesse
concesso ai Fenici un appezzamento di terra non più grande della pelle di un bue;
Elissa riuscì ad aggirare la limitazione con lo stratagemma di tagliare la pelle in
strisce piccolissime, con cui fu in grado di delimitare un terreno di diversi ettari su
cui fondare la città. Il primo spazio prescelto diede, tuttavia, ai sacerdoti cattivi
presagi poiché durante l'attività di scavo venne alla luce il cranio di un bue, simbolo
di asservimento e dura fatica. Spostata l'attenzione su una baia non molto distante, il
dissotterramento del tutto casuale di una testa di cavallo fu interpretata come
presagio di un futuro bellicoso. La leggenda riporta che Jarba, affascinato dalla
bellezza e dell'intelligenza della giovane regina, le si propose in matrimonio
minacciando guerra in caso di
rifiuto. Elissa, combattuta tra
il desiderio di garantire la
pace al proprio popolo e il
rammarico per il tradimento
della memoria del marito,
finse di accettare: fece poi
preparare una grande pira per
i consueti sacrifici, ma
completata l'ecatombe degli
animali prescelti, sotto lo
sguardo stupefatto dei
presenti, immolò se stessa.
Per questo motivo Elissa
sarebbe stata divinizzata dai
Cartaginesi. È noto che il
personaggio di Elissa fu
Fig. 122 – Carta delle fondazioni coloniali cartaginesi in Nord Africa, Spagna, Sicilia e Sardegna. Si
nota con chiarezza la presenza di due grandi poli, concentrati sulla Tunisia cartaginese e la Spagna.
trasformato dal poeta
romano Virgilio nell'eroina
Didone citata nell'Eneide, suicidatasi dopo la partenza imprevista dell'amato Enea.
La leggenda originale sembra essere stata elaborata in un ambiente ormai
ellenizzato e in un periodo abbastanza tardo: la connessione tra il toponimo di Byrsa
e le strisce di pelle sembra motivato dal fatto che tale parola, in greco, significa per
l’appunto "pelle di bue", mentre la tradizione del ritrovamento della testa di cavallo
potrebbe essere nata dal fatto che il recto delle monete cartaginesi portava, per
l’appunto, tale effigie. Sembra però indubitabile la tradizione secondo cui i primi
coloni cartaginesi provenissero da Tiro, e anche la citazione del culto di
Ercole/Melqart sembra avere un serio fondamento; d'altronde, non possiamo
dimenticare che il nome di Cartagine /Qart Hadasht in lingua fenicia si può tradurre
come "città nuova", un nome che porta in sé il chiaro ricordo di una città precedente
(quella della madrepatria o quella legata all’attività precoloniale?). In ultima analisi,
il periodo della fondazione di Cartagine corrisponde, storicamente, a quello
dell’inasprimento della pressione militare assira sul Vicino Oriente; sembra dunque
naturale che una parte della cittadinanza – forse in polemica con altre fazioni
aristocratiche – abbia deciso di intraprendere un'attività coloniale a occidente, in
una zona già conosciuta da almeno due secoli a seguito dell'attività mercantile.
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12.2 – Apogeo e declino di Cartagine
La fondazione della "città nuova" si dimostrò una mossa intelligente e fruttifera: da
qui i Fenici ebbero la possibilità di colonizzare la costa africana dal Golfo della Sirte
fino alle colonne d'Ercole, creando colonie e scali in importanti punti strategici in
Spagna, Sicilia e Sardegna, creando una sorta di impero commerciale e militare
inimmaginabile per la città madre di Tiro. I Cartaginesi si insediarono in Sicilia
prima ancora dei Greci, come testimoniato dagli scavi archeologici di Mozia; la
tradizione storiografica, poi, li ricorda in Sardegna già a partire da 654 a.C. Poco
dopo troviamo fondazioni cartaginesi sulle isole Baleari (a Ibiza) e nel sud-est della
Spagna, in competizione con la colonia fondata dai greci focesi a Marsiglia nel 600
a.C. I Cartaginesi, com'è noto, si trovarono a combattere a fianco degli Etruschi nella
famosa battaglia di Alalia del 535 a.C., il cui obiettivo era quello di ostacolare
l'insediamento di coloni greci in Corsica, un'isola che rimase per molto tempo
appannaggio dei soli Fenici.
La potente espansione militare e commerciale fenicia subì un primo contraccolpo
negativo solo a partire da 480 a.C., con la sconfitta militare subita a Himera per
opera del tiranno di Siracusa Gelone, che riuscì a far colare a picco gran parte della
flotta cartaginese. Le fonti di parte greca riferiscono di un’armata cartaginese
composta da 300.000 uomini; in realtà, è probabile che il numero degli effettivi
comandati dal generale Amilcare non superasse i 30.000, e gran parte dell'esercito
era composto da mercenari di origine libica, corsa, iberica e sarda. Questa battaglia,
celebrata dalle fonti greche come una vittoria della
civiltà sulle barbarie, costò a Cartagine un parziale
declino della vitalità economica e sociale,
riconoscibile archeologicamente anche nella
relativa modestia delle tombe di V sec
a.C.Secondo le parole dello storico greco Dione
Crisostomo, la reazione cartaginese fu, da un lato,
quella di avviare un'attività di colonizzazione
dell'entroterra africano, dall'altro di esplorare
nuove rotte commerciali, in particolare
percorrendo la costa occidentale dell'Africa dove
era possibile scambiare chincaglierie di poco
valore con importanti materie prime come l'avorio
e l’oro. È lo scrittore greco Erodoto a ricordarci lo
strano rituale che veniva messo in scena dei
mercati cartaginesi: i marinai sbarcavano con
Fig. 123 – Ricostruzione didattica della forma urbana di Cartagine in
delle scialuppe e abbandonavano sulla riva alcune
età romana, quando il detrito alluvionale portato dal fiume Medjerda
mercanzie, accendendo un fuoco per indicare agli
aveva ormai unito la città con la terraferma.
indigeni il proprio arrivo. Risalendo sulla nave, i
Cartaginesi lasciavano che gli africani deponessero sulla spiaggia le materie prime
con cui avrebbero pagato la merce; lo sbarco a terra si ripeteva fino a quando il
valore dei prodotti “esportati” veniva reputato correttamente corrisposto dalle
offerte degli indigeni; un metodo ingegnoso che metteva al riparo visitatori e visitati
da spiacevoli imprevisti, magari dovuti a incomprensioni culturali.
Negli stessi anni le cronache ricordano il viaggio intrapreso dal cartaginese Annone
con sessanta vascelli a cinquanta remi e la collaborazione di 30.000 compagni (!);
Annone lasciò un rendiconto delle sue esplorazioni probabilmente camuffato, per
scoraggiare eventuali imitatori; fatto sta che tale documento sembra avvalorare
l'idea secondo la quale i Cartaginesi raggiunsero il Golfo della Nuova Guinea e il
vulcano del Cameroun. Negli stessi anni viene anche ricordata l'impresa di Imilcone
che esplorò l'Europa occidentale alla ricerca di stagno e argento, raggiungendo le
isole britanniche.
Ripreso fiato, Cartagine si trovò presto a fronteggiare le ambizioni del nuovo tiranno
di Siracusa Agatocle, interessato a sloggiare i Fenici dei propri possedimenti
siciliani. Assediato a Siracusa dagli stessi Cartaginesi, Agatocle ebbe per primo
l'intuizione di portare la guerra nel paese avversario: nel 310 a.C., sbarcato con
14.000 uomini a Capo Bon, egli ordinò ai marinai di dar fuoco alle navi per impedire
ai soldati di desistere dal combattere; poi, per circa tre anni, mise a ferro e fuoco il
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nord Africa senza però riuscire ad ottenere un risultato risolutivo. Una seconda
spedizione, progettata nel 289 a.C., fu vanificata dalla morte prematura del sovrano;
il blocco cartaginese su Siracusa che ne conseguì, fu risolto solamente grazie
all'intervento di Pirro re dell’Epiro, riduce da recenti successi militari sui Romani a
favore dei Tarentini. Nonostante tale situazione generale, la potenza cartaginese, in
questa fase, sembra aver vissuto una nuova fase di ascesa, soprattutto grazie ai
produttivi e dinamici rapporti politici e commerciali intrattenuti con l'Egitto
governato dai Tolomei. Nel 269 a.C., Cartagine ebbe la forza di occupare Messina, un
atto che mise per la prima volta la potenza africana di fronte a Roma.
La Prima Guerra Punica non fu, come spesso si dice, l'esito di un inevitabile scontro
tra due potenze nascenti, quella cartaginese e quella romana; per la sua stessa
struttura sociale, politica e il tipo di organizzazione militare, Cartagine poteva,
infatti,esercitare un'egemonia di tipo politico e commerciale sul Mediterraneo ma
non era organizzata in funzione imperialistica; Roma, d'altronde, in tale fase storica,
era una forza terrestre, la cui economia si collegava all'agricoltura e al commercio.
Così, Roma e Cartagine, dopo avere stabilito un patto di non aggressione nel 509
a.C., messe di fronte alle vicende messinesi, agirono abbastanza lentamente e con
circospezione. A Messina, un gruppo di soldati mercenari campani, i Mamertini
(cosiddetti dal nome del dio osco Mamer/Marte che veneravano) erano entrati in
frizione con Siracusa a seguito dell'occupazione della città; dopo aver richiesto un
primo aiuto a Cartagine, la maggioranza di loro decise di puntare su Roma. Nel
senato romano due fazioni, capeggiate rispettivamente dai Fabii e dai Claudii,
mostravano un diverso orientamento politico: i primi erano
favorevoli all'intervento anche per favorire i mercanti campani
danneggiati dal blocco della navigazione nello stretto di
Messina, i secondi erano invece sfavorevoli alla guerra. Come
dimostrato dai fatti, la prima fazione riuscì a far prevalere la
propria opinione, portando il caso davanti al popolo romano,
preoccupato dallo spauracchio ventilato dei propagandisti di
un pericoloso imperialismo cartaginese e attratto dalle
ricchezze ottenibili con una veloce vittoria. Nel 264 a.C., senza
che vi fosse un’ufficiale dichiarazione di guerra, il console
Appio Claudio Caudex giunse con l'esercito a Messina. Il
generale cartaginese Annone, in assenza di precisi ordini dalla
madrepatria, evacuò la città subendo, per questo, più tardi, un
processo a Cartagine che ne portò alla crocifissione. I
Cartaginesi si appellarono quindi a Ierone di Siracusa per
ricevere un primo aiuto e mandarono ambasciate al Senato di
Roma minacciando la guerra. Nella prima fase che durò da
Fig. 124 – Ricostruzione didattica della cosiddetta
Porta Marina di Cartagine; si noti l'elevato spessore
260 al 241 a.C., si assistette al passaggio di Ierone dalla parte
delle mura e la presenza di merli lunati.
dei Romani e all'impegno da parte di quest'ultimi per la
costruzione di una prima vera e propria flotta navale, resa possibile grazie alla
cattura di una nave nemica che fu smontata e studiata nei minimi particolari dai
carpentieri romani. Si pone in questa fase il racconto polibiano dei soldati romani,
inesperti di navigazione e tecniche navali, istruiti alla voga dei propri centurioni
seduti su una panca in mezzo a un prato.
La prima battaglia navale fu vinta dai Romani a Milazzo grazie allo stratagemma
costituito da alcune passerelle lanciate sulla nave avversaria che permettevano
l'arrembaggio, trasformando un combattimento marittimo in uno di terra. Bisognerà
però attendere il 256 a.C. per trovare un'azione guerresca navale di un certo
impegno da parte di Roma: sulle orme di una strategia inaugurata da Agatocle il
secolo precedente, la flotta romana condotta da Marco Attilio Regolo sbarcò a Capo
Bon mettendo a ferro e fuoco la regione e spingendo i mercenari berberi alla rivolta
contro Cartagine. L'impresa fu tuttavia vanificata da un ufficiale spartano al soldo
dei Cartaginesi di nome Xhantippo che, messo insieme un esercito, riuscì a
sbaragliare i 15.000 soldati romani permettendo a solo duemila di essi la fuga. La
sconfitta di Regolo convinse il Senato romano a concentrare i propri sforzi
unicamente sulla Sicilia. Gli anni successivi furono però scoraggianti per i Romani:
l'attacco alla flotta punica presso Drepane portò alla distruzione di quella romana
con l'eccezione di 27 navi, mentre un convoglio da trasporto romano diretto a Capo
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Lilibeo (Marsala) passò nelle mani nemiche. Il dominio marittimo cartaginese
apparve dunque in questa fase insuperato.
Nel 247 a.C. il comando delle truppe cartaginesi fu assegnato ad Amilcare Barca, una
scelta a cui Roma reagì imponendo agli aristocratici italici un sacrificio economico
finalizzato alla ricostruzione di una potente flotta che portò alla clamorosa vittoria
navale presso le isole Egadi del 241 a.C.
Terminata la guerra, a Cartagine fu imposta l'evacuazione della Sicilia, l'abbandono
delle isole Egadi e di Lipari, e fu imposto il pagamento di un'indennità di guerra di
3200 talenti in tre anni; Cartagine poi si impegnò a non reclutare alcun mercenario
tra gli alleati di Roma e nella stessa Sicilia. La ragione della sconfitta cartaginese è
stata oggetto di lunghi dibattiti da parte degli storiografi; se da un lato la
soverchiante potenza navale cartaginese avrebbe dovuto garantire la vittoria,
dall'altro lato, l'inesperienza dei Romani giocò negativamente al pari però
dell’estrazione mercenaria delle milizie cartaginesi. È probabile che un ruolo
importante sia stato giocato dal cattivo coordinamento tra i comandanti militari
cartaginesi e l'apparato governativo: i comandanti cartaginesi sembrano, infatti, aver
lasciato per lo più la prima mossa ai nemici, paralizzati dal timore di essere giudicati
dal tribunale straordinario che, a Cartagine, aveva il diritto improrogabile di
giudicare la conduzione della guerra.
La sconfitta militare, la necessità di pagare l'indennità di guerra e i gravi danni subiti
dal fertile territorio attorno a Capo Bon misero a dura prova lo stato cartaginese che
si trovò, nel contempo, a dover saldare
lo stipendio ai 20.000 mercenari
ammassati a Capo Lilibeo. Rispettando
l'impegno di smobilitare la Sicilia,
Cartagine fece l'ingenua mossa di
trasferirli in blocco nell'entroterra
tunisino, presso l'attuale El Kef (l'antica
Sicca) aprendo una trattativa per una
riduzione del soldo. La situazione
degenerò in una vera e propria rivolta,
sostenuta dai Berberi dell'entroterra
che lamentavano un eccessivo
sfruttamento economico da parte della
capitale. La situazione fu aggravata dal
fatto che nell'esercito erano confluiti un
gran numero di schiavi, affrancati
fuggitivi e disertori; la rivolta venne
Fig. 125 – Fotografia dell'inizio del ‘900 dei bacini del porto militare e civile di
Cartagine prima della speculazione edilizia degli anni ‘60; si noti in lontananza il
così ad assumere il carattere di una
bacino quadrangolare del koton e, in primo piano, l'isolotto dell'ammiragliato.
rivolta sociale, capace di accomunare
gli strati sociali più oppressi composti dal proletariato militare e da quello agricolo.
Cartagine tentò di tenere sotto controllo la situazione inviando sul posto Giscone che
tentò un accordo con i quadri militari intermedi; quest'ultimi, considerati troppo
concilianti dei rivoltosi, furono deposti e sostituiti al comando da un vecchio schiavo
romano di nome Spendios e da un mercenario berbero di nome Matho. Il nuovo
consiglio, piuttosto intransigente, decise il massacro sistematico di tutti quegli
ufficiali che avevano accettato di negoziare con i Cartaginesi e con Giscone. I Libici
risposero all'appello di Matho inviando 70.000 soldati e giustiziando 3000 disertori
berberi che erano stati rimandati in patria da Roma; in una sorta di sforzo collettivo
per la libertà, le donne berbere si privarono dei propri gioielli per raccogliere il
denaro necessario a saldare quanto dovuto ai mercenari; furono poi mandate
ambascerie alle città commerciali concorrenti di Cartagine affinché si unissero alla
rivolta. Cartagine, rimasta senza mercenari e senza alleati, con uno sforzo
straordinario mobilitò i cittadini e arruolò nuovi mercenari posti sotto il comando di
Annone, con il primo obiettivo di difendere le città di Utica e Hyppo Diarrhytus
(Bizerte) assediate dei rivoltosi. Spendios fu battuto, attirando verso Cartagine
l'amicizia del capo berbero Naravas; l'atteggiamento particolarmente clemente di
Annone verso i soldati vinti era funzionale ad attrarre nelle file cartaginesi il maggior
numero possibile di forze; i rivoltosi, risposero con molta energia, massacrando
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Giscone e settecento prigionieri cartaginesi, creando in tal modo una frattura
insanabile tra le due parti.
Le grandi potenze mediterranee, nel frattempo, si erano rese conto che la
destabilizzazione di Cartagine avrebbe creato una reazione a catena molto pericolosa
per il mantenimento dello status quo. Con l'appoggio di Siracusa e di Roma fu
impedito ai commercianti di rifornire i rivoltosi, mentre beni alimentari di soccorso
furono venduti a Cartagine. L’armata di Spendios fu definitivamente battuta presso
Zaghouan e i 40.000 sopravvissuti furono fatti travolgere dagli elefanti; più avanti,
anche Matho fu vinto presso Lemta (Leptis Minus) e atrocemente suppliziato. Con la
resa di Bizerte e Utica, Cartagine e riuscì ristabilire il proprio dominio militare e
politico sui Libii.
12.3 – La Seconda Guerra Punica
Amilcare Barca fu il personaggio politico che uscì più rafforzato dalla soluzione della
rivolta mercenaria; egli si era reso conto della necessità di una riforma costituzionale
che permettesse ai comandanti militari un maggior grado di autonomia e,
soprattutto, di instaurare un rapporto personale di fiducia con l'esercito, sul modello
di quanto sperimentato negli stessi anni dalle grandi monarchie ellenistiche della
Grecia. Per avviare questo processo, Amilcare si appoggiò al partito democratico,
sempre più desideroso di partecipare alla vita politica, e scelse come base per la
propria personale ascesa la Spagna, sufficientemente lontana da Roma e da
Cartagine, ma sufficientemente ricca per poter sostenere il costo di un grande
esercito. In Spagna, Amilcare, portò avanti una politica di espansione coloniale
ispirata alla mistica di Alessandro Magno, presentandosi ai soldati come un capo
ispirato e invincibile, cercando di assimilare, al contempo, la popolazione indigena
nella compagine sociale cartaginese. Asdrubale, genero e successore di Amilcare,
fondò non a caso, in Spagna, una “Nuova Cartagine”, edificando poi un palazzo e
facendosi salutare con il titolo di re. Stravolgendo una tradizione consolidata, si
scelse di sottrarre al Senato di Cartagine e
all'Assemblea popolare la scelta dei generali,
facendo diventare tale opzione appannaggio dello
stesso esercito.
La crescita personale del potere dei Barcidi (la
famiglia a cui appartenevano Asdrubale e
Amilcare) impensierì soprattutto la vicina
Marsiglia che, nel 226 a.C., sigillò un trattato di
non belligeranza con le colonie cartaginesi di
Spagna in cui si stabiliva la demarcazione del
confine in corrispondenza del corso del fiume
Ebro. Alla morte di Amilcare il potere passò ad
Annibale, che si trovò alla testa di uno stato
fortemente rafforzato, sia dal punto di vista
economico che militare.
Lo scoppio della Seconda Guerra Punica scaturì
Fig. 126– Ricostruzione del porto militare di Cartagine e dell'impianto dall'intervento politico di Roma e di Marsiglia negli
urbano raccolto concentricamente attorno alla collina di Byrsa
affari interni della piccola città spagnola di Sagunto
(una centro, in verità, situato a sud del fiume Ebro
e dunque nell'area di influenza cartaginese), dove fu portata al potere una fazione
ostile ai Cartaginesi. La piccola città, molto presto entrò in conflitto con una città
contermine alleata di Cartagine, atto che determinò la ferma reazione di Annibale.
L'attacco da parte dei Cartaginesi di una città alleata di Roma fu interpretata dai
Romani come una violazione del trattato di 226 a.C., e l'occasione fu sfruttata da
Roma per inviare un richiamo formale al Senato cartaginese contro lo stesso
Annibale, una missione diplomatica a cui seguì la guerra.
La situazione rispetto a cinquant'anni prima era però fortemente cambiata: Roma
disponeva di una flotta molto forte con cui pensava di attuare un'azione decisiva in
nord Africa e in Spagna; Annibale, da parte sua, poteva contare su un potente
esercito di terra e sul sostegno delle popolazioni celtiche europee, tendenzialmente
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maldisposte verso il crescente potere imperialistico di Roma. All'inizio del 218 a.C.,
con una mossa a sorpresa, Annibale si avviò verso l'Italia con un esercito composto
da 50.000 fanti, 9000 cavalieri e 37 elefanti; attraversata la Gallia, dopo aver
concluso un'avventurosa traversata delle Alpi, nel settembre del 218 era ormai in Val
Padana con una armata ridottasi a 20.000 fanti, 6000 cavalieri e 21 elefanti.
L'attraversamento delle Alpi – avvenuto con ogni probabilità attraverso i passi del
Monginevro o del Moncenisio – fu un'impresa del tutto inusitata e impressionante
per l'epoca, che è stata tratteggiata con grande vivacità da Polibio e da Tito Livio;
Annibale dovette far fronte allo scoraggiamento dei suoi soldati (per lo più di
provenienza africana e spagnola), ma soprattutto alle difficoltà e asperità delle piste
alpine, in un tragitto ostacolato dalla persistenza della neve e dei continui attacchi
dei guerriglieri delle piccole tribù celtiche montane. La storia dei travolgenti e
incalzanti successi militari di Annibale è nota, a partire dalla prima vittoria sul
Ticino, per seguire con quella sul fiume Trebbia nei pressi di Piacenza, fino alla
terribile sconfitta subita il 21 giugno 217 da Gaio Flaminio sul Lago Trasimeno in cui
persero la vita a 15.000 Romani ed altri 15.000 furono fatti prigionieri, mentre il
console stesso perse la vita in battaglia. I Romani, preso atto del genio militare del
comandante cartaginese, da questo momento portarono avanti una strategia
temporeggiatrice, spedendo un convoglio militare in Spagna nel tentativo di bloccare
la sorgente del sostegno economico e militare di Annibale. Quest'ultimo, da parte
sua, scelse di non attaccare direttamente a Roma, troppo grande e ben munita di
fortificazioni per il suo esercito, ma di accumulare una serie di
successi militari atti a far passare dalla sua parte le popolazioni
italiche ostili a Roma.
Il 2 agosto del 216 a.C. si svolse la famosa battaglia di Canne
(Puglia) in cui un’armata di 80.000 fanti 6000 cavalieri Romani
fu battuta sonoramente dai Cartaginesi, complice un'accurata
scelta da parte di Annibale del luogo dello scontro (pianeggiante e
favorevole alla sua cavalleria). Ma fu soprattutto la strategia
campale geniale (e ancora oggi oggetto di studio nelle accademie
militari) a garantire ad Annibale la definitiva vittoria: dopo un
primo attacco di disturbo da parte dei frombolieri delle Baleari,
Annibale schierò su una sola linea l'intero esercito, disponendo
sull'ala sinistra la cavalleria gallica e spagnola e su quella destra
quella africana, lasciando il centro alle più deboli e demotivate
truppe galliche mercenarie; il console Aulo Terenzio Varrone,
preso dalla foga, sfondò con la fanteria il blocco centrale,
consentendo però alle ali di cavalleria di Annibale di accerchiarlo
e sbaragliarlo. Il bilancio della battaglia fu estremamente
incoraggiante per il generale cartaginese che, con 40.000 soldati,
era riuscito a vincere un esercito di dimensioni doppie; Annibale
Fig. 127 – Planimetria dei porti civile e
perse 3000 galli, 300 Numidi e 1500 tra Spagnoli e Africani; Tito
militare di Cartagine dopo gli scavi
Livio riporta che «45.000 mila fanti, 2.700 cavalieri, metà
internazionali degli anni ‘60.
romani e metà alleati, caddero uccisi: tra essi i due questori dei
consoli: Lucio Atilio e Lucio Furio Bibàculo, e ventinove tribuni dei soldati, alcuni
consolari e già stati pretori o edili; inoltre persero la vita ottanta senatori o eleggibili
senatori per le cariche già esercitate, i quali si erano arruolati come volontari.
Furono fatti prigionieri anche 3.000 fanti e 1.500 cavalieri.»
Annibale, rafforzato da questa vittoria, scelse ancora una volta di non attaccare
Roma, cercando il sostegno delle popolazioni italiche degli Apuli, dei Sanniti, dei
Lucani e dei Bruzi; la potente città di Capua gli aprì le porte accogliendolo come un
trionfatore e Filippo V di Macedonia gli assicurò la sua alleanza.
La risposta di Roma si fece sentire: radunate tutte le forze e impegnando tutte le
risorse economiche e umane disponibili, Roma, ricostruì l'esercito e si affidò alle
doti di Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore; costui, evitando lo scontro
diretto con l'esercito cartaginese, attuò una sistematica azione di smantellamento
delle posizioni cartaginesi in Italia riuscendo, infine, ad espugnare Capua, un evento
che lasciò fortemente impressionati gli Italici ostili a Roma. Annibale fu anche
messo in difficoltà dall'inferiorità della flotta cartaginese e dall'incapacità del
generale Bomilcare di inviargli i necessari rinforzi in Italia e in Sicilia. Il termine
101
dell’incredibile avventura annibalica fu sancito dalla missione militare condotta da
Scipione l'Africano contro la stessa Cartagine, il cui obiettivo era quello di spingere
Annibale ad abbandonare l'Italia e, al contempo, abbattere definitivamente la
potenza nord africana. Roma poté contare anche sull'appoggio del principe
numidico Massinissa, entrato in conflitto con il fratello Syphax per la successione al
trono. Il piano riuscì alla perfezione e Annibale, richiamato urgentemente in patria,
fu costretto a sbarcare a Leptis Minus (Lemta) per scontrarsi con l'armata romana
presso Zama, ove fu sconfitto anche a causa dell'ostilità della cavalleria numidica.
Nel 201 a.C., Cartagine fu costretta a firmare il trattato di pace che la obbligava a
corrispondere un’indennità di guerra di 10.000 talenti nell'arco di cinquant'anni, a
amnatellare la propria flotta e gli squadroni di elefanti, pur potendo conservare i
propri possedimenti in Nord Africa ad eccezione dei territori dell'entroterra
assegnati a Massinissa; si impediva poi a Cartagine di condurre qualunque guerra
anche difensiva in Africa senza il consenso di Roma. In tal modo, Cartagine perdeva
la sua libertà d'azione politica e vedeva sminuito il suo ruolo di potenza
mediterranea. Il pagamento dell'indennità di guerra fu reso difficile dalla corruzione
dilagante dell'aristocrazia cartaginese: con il sostegno del malcontento popolare,
Annibale fu scelto come console suffeto nel 196 a.C.; sotto il suo governo furono
duramente represse le concussioni e le malversazioni nel tentativo di risanare le
finanze pubbliche. Fu inoltre messa mano a una riforma della costituzione
cartaginese funzionale a ridurre l'onnipotenza del partito aristocratico e
all'introduzione di riforme democratiche. L'impresa di Annibale fu ostacolata dal
desiderio da parte delle forze conservatrici di mantenere i propri privilegi;
denunciato a Roma per presunti progetti sovversivi e accusato di preparare una
nuova guerra offensiva, Annibale fu costretto all'esilio; ospitato in Oriente dal re di
Bitinia, Annibale dedicò gli ultimi anni della sua vita al tentativo di mettere assieme
una serie di forze ostili a Roma, ma braccato dai messi romani fu costretto al suicidio
nel 181 a.C., mettendo fine ad una carriera strepitosa che ne ha eternato il nome nei
secoli.
12.4 – Società, esercito e costituzione cartaginese
Il nerbo della potenza militare cartaginese fu
principalmente costituito dalla flotta, composta di
oltre mille navi da guerra costruite da carpentieri
esperti e affidabili. Lo statuto cartaginese riservava
le attività di marineria militare esclusivamente a
coloro che fossero dotati della cittadinanza,
attribuendo invece agli alleati e alle popolazioni
amiche il nerbo della fanteria, che rimase dunque
prevalentemente a carattere mercenario. I marinai
cartaginesi godevano di una grande esperienza
pratica, ed erano in grado di seguire con precisione
le rotte commerciali e militari anche senza
conoscere la bussola, sfruttando per esempio
l'osservazione delle stelle, in particolare l'Orsa
maggiore (denominata nel mondo antico non a caso
"stella fenicia").
Fig. 128 – L'androne di una casa di Karkuan con la
In tempo di pace la marineria cartaginese era
rappresentazione sul pavimento del cosiddetto segno di Tanit.
impiegata nel controllo delle rotte commerciali e
nella soppressione della pirateria marittima.
Esisteva anche un corpo di fanteria scelta composto da 2500 i giovani aristocratici
che formavano il "battaglione sacro", ma il loro intervento era riservato ai casi di
estremo pericolo dal momento che l'esercito di fanteria fu sempre mercenario; le
truppe cartaginesi dovevano pertanto presentarsi ad un osservatore esterno come un
mosaico di lingue, costumi e tradizioni diverse. In tale contesto, fu sempre
particolarmente significativo il contributo della cavalleria numidica.
102
Anello debole del sistema organizzativo militare cartaginese fu invece l'elevato costo
del mercenariato, a cui si affiancava il problema del difficile rapporto tra i
comandanti militari e gli organi legislativi e giudiziari.
La costituzione in uso a Cartagine è svelata un po' confusamente da Aristotele che,
nella sua Politica, la descrive entusiasticamente indicandola come un sistema
equilibrato, in cui vengono stemperati principi monarchici, aristocratici e
democratici. Da quanto è stato possibile ricostruire, un primitivo sistema
monarchico era stato soggetto a una lenta evoluzione storica che aveva portato alla
definizione della carica del suffeto; i suffeti erano magistrati eletti annualmente
dall'Assemblea popolare e dei veri e propri leaders politici provenienti, con ogni
probabilità, dalle classi più abbienti. La loro funzione era quella di presiedere le
riunioni del Senato e dell'Assemblea popolare esercitando il potere giudiziario, pur
non avendo alcuna attribuzione in materia militare.
Il comando dell'esercito veniva normalmente affidato, a tempo determinato (ad
esempio la durata di una guerra), a comandanti di provata esperienza: se dal punto
di vista teorico qualunque cittadino avrebbe potuto ricoprire questo incarico, è
evidente che l'esperienza necessaria veniva acquisita solamente dei rampolli delle
più grandi e potenti famiglie cartaginesi, come i Magonidi e i Barcidi.
Il Senato, era composto di 300 membri scelti all'interno dell'aristocrazia per
cooptazione: la sua funzione era quella di discutere sulla politica estera, la guerra e
la pace, il reclutamento degli eserciti e l'amministrazione delle colonie. In caso di
conflitto tra il Senato e i suffeti, la divergenza veniva sottoposta al giudizio
dell'Assemblea popolare. L'epigrafia e le fonti antiche alludono anche a un collegio
composto di cinque membri (pentarchia) la cui funzione doveva essere quella di
esercitare un controllo in ambito amministrativo. Tutta la vita politica punica era poi
soggetta alla stretta sorveglianza di un tribunale detto “dei centoquattro” la cui
funzione potrebbe essere paragonabile a quella degli efori a Sparta. Funzione
principale di tale tribunale era quello di intercettare in tempo utile e ostacolare
qualunque forma di colpo di stato o di tirannia.
Purtroppo, il funzionamento dell'organizzazione dell'Assemblea popolare non è ben
chiaro; è probabile che il suo compito fosse quello di eleggere i suffeti e i comandanti
militari, nonché di arbitrare eventuali conflitti tra Senato e suffeti. Nonostante
l'organizzazione particolarmente articolata e dotata di molteplici meccanismi di
controllo, l'attribuzione di caratteri democratici alla costituzione cartaginese
espressa da Aristotele è probabilmente un’esagerazione motivata dal fatto che
Aristotele stesso proveniva da un ambiente oligarchico.
12.5 – Archeologia di Cartagine
Cartagine, nel momento del suo apogeo poteva considerarsi una delle città più
grandi e ricche del Mediterraneo. Le tracce della città di età classica e primo
ellenistica sono state riconosciute per la prima
volta in occasione delle campagne di scavo
internazionali avviate in Tunisia nel 1972; sin dal
primo momento è stato possibile verificare che la
città, prima della distruzione operata dei Romani
nel 146 a.C., era dotata di un piano regolatore
urbano che le conferiva un impianto a scacchiera.
Un’acropoli corrispondente all'attuale collina di
Byrsa ospitava un tempio dedicato a Eschmoun
ricordato dalle fonti per la sua grandezza; l'area
dell'acropoli è stata solo parzialmente indagata,
dimostrando che i Romani rioccuparono la collina
fondandovi una colonia augustea non prima di
avere rialzato il piano di calpestio tramite
un'imponente opera di terrazzamento ed il riporto
di terriccio; in età romana, l’antica acropoli fu
Fig. 129 – Il tophet di Cartagine; ognuno dei piloncini in pietra
infatti ricostruita e occupata da un foro affiancato
corrisponde a una tomba a incinerazione infantile.
da una basilica.
103
Cartagine, megalopoli situata al vertice di una complessa organizzazione militare e
politica, era difesa da un potente muro di cinta lungo 34 km e dell'altezza media di
13 m. Le fonti antiche ci ricordano come il muro fosse intervallato ogni 60 m da una
torre difensiva, e lo spessore del muro, valutabile in 8 m, permetteva l'alloggiamento
di una serie di concamerazioni in cui erano riparati 300 elefanti da guerra e 4000
cavalli. Proprio gli elefanti furono una delle caratteristiche più innovative
dell'apparato bellico cartaginese: resi furiosi con alcuni stratagemmi segreti, gli
elefanti potevano trasformarsi in una vera e propria macchina di sfondamento con
effetti devastanti sui nemici, anche dal punto di vista psicologico.
Questa cinta monumentale fu l'esito di una lunga attività costruttiva e di successive
espansioni edilizie cittadine, conclusesi attorno al IV sec a.C. con la "colonizzazione"
del litorale marittimo ove sorse un quartiere aristocratico composto di suntuose
abitazioni affacciate sul mare, con un’estensione oscillante tra il 1000 e i 1500 m2,
dotate di peristili, passeggi coperti e giardini.
Le fonti antiche – in particolare Appiano – ricordano la presenza di un foro nella
zona pianeggiante presso cui sorgeva un santuario dedicato a Reschef (Apollo); resti
di questo edificio sembrano essere stati individuati da un'equipe archeologica
tedesca che ha raccolto sul posto resti di grandi capitelli stuccati, e sigilli in argilla
con cartigli egizi e gemme greche destinati a sigillare documenti e papiri andati
distrutti nell'incendio del 146 a.C. Appiano ricorda che le pareti del tempio erano
rivestite in foglie d'oro e che al suo interno era conservata un'importante statua di
culto poi trasportata a Roma ed esposta nel Circo Flaminio, dove era ancora visibile
nel II sec d.C.
L’elemento che ancor oggi colpisce chiunque si
appresti a visitare l'antica Cartagine è il complesso
del porto civile e militare, una realizzazione di
assoluta avanguardia realizzata a cavallo tra III e II
sec a.C. Esso si compone di un primo bacino
rettangolare che copre la superficie di 7 ha e
raggiunge la profondità di 2,50 m (koton) la cui
funzione era quella di permettere l'approdo dei più
importanti convogli mercantili; tale porto era
affiancato dal cosiddetto quadrilatero di Falbe, un
pontile attrezzato per il carico e lo scarico delle
merci, la cui funzione era anche quella di proteggere i
convogli dei venti dominanti. Un canale della
larghezza di 20 m, sbarrato con paratie e catene,
metteva poi in comunicazione il porto mercantile con
quello militare, composto da un bacino
Fig. 130– Segnacolo tombale in pietra dal tophet di Cartagine con la
perfettamente circolare al cui centro sorgeva
rappresentazione a rilievo di un betilo nel riquadro centrale.
l'isolotto dell'ammiragliato, sormontato da una torre
da cui era possibile controllare il traffico nel porto e
lo spazio di mare antistante la città. Lungo il perimetro di tale bacino erano poi
disposti una serie di hangars in muratura della lunghezza oscillante tra i 30 e i 50 m
destinati ad ospitare 220 navi da guerra; ogni hangar era dotato di una rampa con
traverse in legno che permetteva l'alaggio delle imbarcazioni, necessario soprattutto
nel periodo invernale per le riparazioni e la manutenzione. Lo storico greco Strabone
stima la popolazione della città dell'epoca in 700.000 abitanti, una cifra
ridimensionata dagli storici e dagli archeologi moderni a 300/400.000.
12.6 – Religiosità e culti
Il pantheon fenicio era modellato su una molteplicità di divinità di ascendenza
orientale per molti versi simili a quelle venerate nella madrepatria (ad esempio a
Tiro), contaminate, tuttavia, da influenze mediterranee e africane. La divinità
protettrice di Cartagine era Melqart, assimilabile secondo i Greci a Ercole; le fonti
antiche ricordano poi la presenza alla sommità della collina di Byrsa di un grande
tempio dedicato a Eshmoun, dio della medicina simile ad Asclepio. Massime divinità
del pantheon cartaginese erano poi Baâl Hammon e Tanit; dal momento che tali
104
divinità non sono presenti in madrepatria, e soprattutto considerando
il conservatorismo religioso dei Fenici, sembra plausibile di dover
riconoscere in questi due nomi dei semplici epiteti capaci di rimandare
mentalmente alle divinità primordiali; d'altronde è noto come
nell'antichità, spesso si evitasse di pronunciare il nome delle divinità
invano, limitandosi ad evocarle attraverso i loro attributi personali; su
questa base si è proposto di riconoscere in Baâl il dio mediorientale El
(massima divinità del pantheon fenicio), e in Tanit la dea dell'amore e
della guerra Asherat. Si è anche proposto di riconoscere nel nome di
Baâl il significato etimologico di "signore degli altari e dei profumi";
Baâl, in età romana, verrà assimilato regolarmente a Saturno.
Benché le popolazioni di origine semitica abbiano sempre mostrato
una certa avversione per la rappresentazione della divinità in forma
antropomorfa (cosa che portò al diffondersi nel Vicino Oriente dei
cosiddetti betili), presso il santuario di Thinissut (nelle vicinanze di Bir
Bou Reghba) è stata portata alla luce una statuetta in terracotta
rappresentante Baâl: il dio solare e protettore della città, è
rappresentato come un uomo barbuto seduto su un trono affiancato da
due sfingi; egli porta con sul capo una corona con piume di struzzo
stilizzata alla moda egizia. Baâl è poi esplicitamente menzionato in
alcune iscrizioni di Salambò come la divinità più importante del
pantheon fenicio, a cui veniva affiancata la paredra Tanit.
Tanit sembra essere nata dalla fusione tra una dea e dell'amore e della
fertilità orientale (forse Asherat oppure Elat) e una divinità topica
africana; d’altronde sappiamo che i nomi femminili inizianti e
terminanti in T sono tipici dell'onomastica berbera. I Greci la
identificarono con Hera adorandola come dea della fecondità e
protettrice delle puerpere; il suo carattere ctonio e rigenerativo si
ripropone nei simboli a cui spesso è associata, come il melograno, la
palma, la colomba e il pesce. Per i suoi caratteri celesti, Tanit è spesso
associata al simbolo lunare, e in età tardo ellenistica romana il suo
culto si trova associato a quello di Iside. Anche se non vi è certezza
matematica, si attribuiscono a Tanit alcune statuette in argilla
rappresentanti una donna che porta le mani al seno e quelle che
presentano una donna seduta su un trono sui cui braccioli sono
scolpite delle sfingi. È poi attribuito a Tanit un particolare simbolo
riprodotto frequente nelle stele e nei mosaici cartaginesi composto da
un triangolo sormontato da un cerchio, con interposta una linea
spezzata; l'immagine che sembrerebbe rimandare a una
schematizzazione di una figura di donna con le braccia sollevate è più
correttamente da collegarsi alla stilizzazione del simbolo vita egizio
dell’ankh; è noto, d'altronde, che i Cartaginesi intrattennero rapporti
Figg. 131/ 132– Statuette di terracotta di
politici ed economici strettissimi con l'Egitto, fungendo da
carattere votivo rappresentanti una figura
intermediari tra la cultura della valle del Nilo e quella dei popoli del
barbuta in trono (Baal) e una figura
Mediterraneo (anche grazie al commercio) per tutto il periodo
femminile con le mani portate al seno
nell'atto di reggere un tamburello ,
ellenistico. Tra le divinità minori egiziane ampiamente venerate
(Tanit/Asherad)
soprattutto tra i ceti medio-bassi si annoverano non a caso Iside,
Osiride e il nanetto Bes, a cui si attribuiva il ruolo di genietto protettore delle tombe
e la profilassi dal malocchio.
Altre divinità adorate dei Cartaginesi furono Astarte (Afrodite), Reschef (Apollo),
Shadrapa (Bacco), Yam (Posidone) e Hadad (Giove).
I sacerdoti venivano normalmente reclutati tra le famiglie aristocratiche e tra di loro
figuravano molte donne; non sembra che la classe sacerdotale abbia esercitato
un'importante influenza sulla politica, e che tantomeno abbia esercitato un ruolo
portante nei campi dell'istruzione, del controllo delle coscienze e della morale; il
ruolo del clero era forse solo quello di garantire la corretta celebrazione dei sacrifici
all'interno dei templi e di presiedere alle cerimonie religiose e ai sacrifici.
Uno degli aspetti più controversi e suggestivi della vita religiosa fenicia è certamente
costituito dalla tradizione secondo la quale i Cartaginesi erano soliti sacrificare i
primogeniti in caso di gravi calamità o di pericolo. Questo costume è confermato,
105
per la prima età del Ferro, da una serie di documenti scoperti nel Vicino Oriente
quali la stele del re Mesha (VII sec a.C.) dalla valle del Giordano in cui il re di Moab,
attaccato da una coalizione di Ammoniti e Israeliti, si vanta di aver rovesciato le sorti
della battaglia dopo aver immolato il primogenito sulle mura di Eshbon. All'interno
della stessa Bibbia viene poi fatto un esplicito riferimento all'orrore suscitato dei
sacrifici umani: la tradizione del montone sacrificato da Abramo al posto di
Isacco sembra inserirsi in una polemica contro tale forma di ritualità. Il
tema del sacrificio è d'altronde presente nella stessa leggenda di fondazione
di Cartagine, laddove viene ricordato quello di Elissa che, per garantire il
benessere della città, non esita a sacrificarsi gettandosi sul una pira. Diodoro
Siculo racconta che i Cartaginesi, attorno 310 a.C., immolarono due giovani
fanciulli di estrazione aristocratica al fine di placare l'ira delle divinità nel
momento in cui Agatocle si apprestava ad attaccare militarmente l’Africa; il
loro esempio fu seguito da oltre trecento cittadini che offrirono anch'essi i
propri figli per un olocausto consumato su una grande pira. Ancora in età
romana, Tertulliano ricordava che l'imperatore Tiberio aveva fatto
crocifiggere alcuni sacerdoti cartaginesi rei di essersi resi artefici di empietà
simili.
La questione della veridicità di questa tradizione storiografica è stata oggetto
di ampi dibattiti nel corso del Novecento: benché i sacrifici umani, in casi di
grave emergenza, fossero praticati anche ai Greci e dai Romani, il principale
sospetto è quello relativo ad una possibile esaltazione di questa pratica a
scopo polemico da parte degli scrittori avversi a Cartegine.
A questa problematica si collega poi la scoperta archeologica dei cosiddetti
tophet, cimiteri riservati agli infanti individuati ripetutamente in prossimità
delle città puniche, anche coloniali. Quello di Cartagine, portato alla luce
presso Salambò (nome che ispirò anche il famoso romanzo di Fleubert) fu
costruito in prossimità di un’edicola templare del VIII sec a.C. posta in
corrispondenza della tomba di un importante personaggio pubblico o di un
re; all'atto della sua scoperta il cimitero fu interpretato come il luogo di
sepoltura dei fanciulli immolati dei sacerdoti.
A titolo preliminare può essere interessante ricordare che l'etimologia della
parola tophet ha un'origine biblica: essa serviva, infatti, ad identificare un
quartiere suburbano di Gerusalemme in cui avveniva il sacrificio dei
fanciulli e per questo criticato dalla Bibbia. Il termine Moloch, invece, (che è
spesso associato alle stele votive dei tophet) non corrisponde, come si
credeva un tempo, al nome di una divinità, ma può tradursi semplicemente
come "sacrificio".
Il grande tophet di Cartagine rimase in uso per molti secoli, dando luogo a
una stratificazione archeologica molto complessa che è stato possibile
preservare in parte e rendere visibile ai visitatori.
Le urne cinerarie contenenti i resti cremati dei bambini erano poste in una
Fig. 133 – La famosa stele del
piccola fossa terrigna sormontate da una stele lapidea; quest'ultima fu
Museo del Bardo con una
soggetta a un'evoluzione stilistica direttamente collegata all'evoluzione delle
rappresentazione inequivocabile
mode e delle influenze culturali delle civiltà vicine. Nel VI sec a.C. era diffuso
di un sacerdote portante con in
braccio un fanciullo.
un cippo in pietra la cui sagoma imitava il profilo dei templi egiziani, su cui
era generalmente scolpito un trono su cui era appoggiato un betilo. Nel corso del V
sec a.C., l'aumentata influenza della cultura greca (veicolata dai commerci
internazionali) incominciò a manifestarsi con la presenza di cippi in pietra decorati
con pilastrini sormontati da capitelli ionici. Gli strati più recenti vedono
predominare le stele e i piloni litici iscritti, spesso accompagnati da incisioni di
carattere religioso profilattiche, immagini di animali, oggetti di culto, simboli e
attributi divini, il simbolo della bottiglia e il sigillo di Tanit. Una stele
particolarmente importante è conservata nel Museo Archeologico del Bardo di
Tunisi: in essa si vede esplicitamente la sagoma di un sacerdote con un particolare
copricapo nell'atto di incedere verso sinistra portando in grembo un giovane
fanciullo destinato al sacrificio. Se dunque rimangono serie probabilità che, in alcuni
casi eccezionali, il terribile rituale abbia corrisposto alla realtà, è del tutto superata
l'idea che i tophet coincidano in toto al luogo degli olocausti: l'eccessivo numero di
tombe infantili sembra, infatti, assolutamente sproporzionato alla realtà storica;
106
d'altronde, sembra strano che autori greci e latini come Erodoto, Tucidide, Polibio e
Tito Livio non abbiano fatto alcun accenno a tali pratiche nei propri scritti se esse
avessero avuto un carattere così massiccio. Se è comunque probabile che la pratica
del sacrificio del primogenito sia stata praticata dai Cartaginesi, essa deve aver
corrisposto a un evento eccezionale e ben circoscritto. I tophet sembrano piuttosto
interpretabili come dei semplici cimiteri destinati ai bambini morti
prematuramente, a cui erano riservate speciali cure e attenzioni religiose.
Quello che è certo è che le sepolture degli adulti seguono un'evoluzione formale e
cultuale diversa da quella attestata presso i tophet: le tombe scoperte a più riprese
sull'acropoli di Byrsa e nei dintorni di Cartagine dimostrano che, tradizionalmente,
era uso seppellire i defunti all'interno di piccole camere sotterranee scavate nella
roccia, rese accessibili tramite una piccola scalinata o un pozzo verticale; al loro
interno i defunti erano deposti all'interno di sarcofagi in legno o in pietra. A partire
dal V sec a.C., su influenza greca, a lato delle inumazioni incominciarono ad essere
praticate anche le cremazioni. Nel periodo ellenistico, sempre su influenza greca, si
diffuse l'uso di realizzare grandi sarcofagi con il coperchio figurato, normalmente
deposte all'interno di mausolei di una certa qualità architettonica. Nelle zone più
periferiche, per esempio presso Sahel e Capo Bon, i defunti furono per lungo tempo
deposti in posizione rannicchiata dopo essere stati ricoperti di uno strato ocra
rossastra che ha lasciato chiare tracce sulle ossa dopo la degradazione delle parti
molli; sia la posizione rannicchiata, sia l'uso di ridare vigore al corpo del defunto
tramite tale colorazione artificiale, sono estranei ai costumi e alla tradizione fenicia,
e sembrano più facilmente spiegabili tenendo in considerazione l'influsso della
cultura locale berbera e africana. In linea di massima i corredi delle tombe non si
mostrano mai particolarmente ricchi, e presentano corredi composti di oggetti
correnti come ceramiche, statuette e amuleti. Le nostre conoscenze sulle ideologie
funerarie cartaginesi sono molto modeste; è possibile però che su influenza egiziana,
i Fenici credessero in una vita dopo la morte; la conoscenza dei culti iniziatici greci
dedicati a Dionisio, Afrodite e Demetra possono avere introdotto nella cultura
cartaginese una primordiale sapienza "misterica", offrendo nuove prospettive
filosofiche e religiose capaci di prospettare una vita migliore dopo la morte. Siamo
comunque certi del fatto che i Punici importarono dalla Sicilia il culto di Demetra,
Kore e di Dioniso (che fu assimilato a Shadrapa), i cui simboli si ritrovano
all'interno dei tophet associati alle divinità tradizionali Baâl Hammon e Tanit.
12.7 – La città fenicia di Kerkuan
Il sito di Kerkuan riveste una particolare importanza qualificandosi come l'unico
insediamento civile punico scavato in estensione in nord Africa. L'insediamento
sorge fra il Jebel Sidi Labdiah, a nord, e il Capo Kèlibia, a sud, in una regione ricca
d’acqua grazie a una falda poco profonda anche se non molto abbondante; la terra
presenta però un grado di fertilità non eccezionale, dal momento che l'aria salmastra
è nociva per qualsiasi vegetazione fatta eccezione per alcune essenze alofile come le
tamerici; la zona, però, poteva approfittare della vicinanza del mare e beneficiare dei
suoi prodotti.
Il sito è noto per alcuni importanti eventi storici avvenuti nelle sue pertinenze: qui
sbarcò l'esercito di Agatocle, il tiranno di Siracusa che aveva progettato una
spedizione contro la metropoli punica come narrato da Diodoro Siculo; secondo le
parole di quest'ultimo "la contrada era disseminata di giardini e orti irrigati da
svariate sorgenti e canali”. Le case erano costruite a regola d'arte, utilizzando calce e
rivelavano una ricchezza diffusa, colme come erano di quanto potesse rendere la vita
piacevole, grazie a un lungo periodo di pace.
La stessa regione fu oggetto dello sbarco nel 256 a.C. dai consoli Lucio Manlio Vulso
e Marco Attilio Regolo nel corso della Prima Guerra Punica; i Romani,
impossessatisi della cittadella di Aspsis si diedero a devastare i campi circostanti
distruggendo la regione senza incontrare resistenza, appropriandosi di un'enorme
quantità di bestiame e di più di 20.000 schiavi.
Il sito è stato scoperto attorno 1952 e scavato tra il 1957 e il 1961 da un’equipe
internazionale coordinata dagli archeologi tunisini.
107
Fig. 134 – Planimetria
archeologica del sito
di Kerkuan: la strada
esterna asseconda
l'andamento circolare
della baia; in centro, a
sinistra, si riconosce
l'area sacra.
A giudicare dai dati attualmente disponibili, Kerkuan si presentava come una città
ben aerata, in cui si circolava agevolmente a piedi grazie a strade spaziose della
larghezza oscillante tra i 3 e i 4,8 m. La planimetria del sito rispetta una sensibilità
lontana da quella greca e romana, ma ben attestata nel Vicino Oriente: le strade
partizionano i diversi quartieri in isolati, snodandosi secondo una planimetria
concentrica che asseconda la linea di costa; all'interno di questa maglia urbana in
linea di massima ortogonale, piccoli slarghi o piazzette diventano snodo di scambio e
raccolta; curiosamente molte di esse sono separate da un brevissimo spazio (spesso
un semplice isolato abitativo), probabilmente perché erano concentrate in zone
particolarmente significative dal punto di vista economico e commerciale. Il mondo
punico non conosceva l'agorà dei Greci e il foro dei Romani; presso di loro si
trovava una tipologia denominata Maqom, i cui omologhi possono essere ricercati
nelle antiche città orientali, ad esempio a Mari in Siria, dove alcune abitazioni sono
riunite in blocchi compatti presso una piccola piazza destinata alle necessità socioeconomiche della popolazione. Per quanto concerne Cartagine, siamo anche al
corrente dell'esistenza di magistrati responsabili della stesura dei piani regolatori e
della concessione delle autorizzazioni a costruire; nel mondo semitico questi
magistrati vengono chiamati Mehashébim (ovvero "controllori" o "contabili" ). La
fondazione dell'impianto urbano di Kerkuan non è fissabile cronologicamente con
certezza, ma i dati stratigrafici dimostrano che tale azione fu antecedente
all'invasione di Agatocle del 310 a.C.
La distruzione definitiva della città può invece essere fissata alla metà del III sec
a.C., probabilmente in connessione con l'attacco condotto da Attilio Regolo.
Gli edifici portati alla luce sino a oggi presentano una notevole cura costruttiva: i
muri portanti sono realizzati con il caratteristico opus africanus (così definito
dall'architetto romano Vitruvio) con grandi ortostati portanti disposti a intervalli
regolari, colmati nello spazio di risulta con pietre unite da malta, in modo da creare
una rete strutturale portante rinforzata; tale tecnica è caratteristica dell'area
cartaginese e si ritrova frequentemente nelle colonie cartaginesi siceliote e sarde.
Diverse partiture architettoniche portate alla luce durante gli scavi mostrano la cura
108
con cui furono realizzati gli edifici: i
cornicioni in materiale calcareo
presentano un profilo a gola di tipo
egiziano, alcuni blocchi portanti in
pietra sono uniti tra loro da grappe
metalliche a coda di rondine, mentre
il cortile di molti edifici e alcune
stanze interne sono lastricati di
cocciopesto con tasselli di mosaico
immorsati e piccole decorazioni
applicate. Sono anche noti capitelli
ionici in calcare, grondaie in pietra
terminanti a protome di toro,
chiaramente destinate al deflusso
dell'acqua piovana dai tetti verso la
strada. Alcuni blocchi architettonici
Fig. 135 – La spaziosa intercapedine ricavata tra i due muri di cinta delle fortificazioni di
appartenenti ai tetti sono
Kerkuan, completati in occasione dell'assedio romano della Prima Guerra Punica.
caratterizzati da profonde
scanalature e sembrano essere state destinati a sorreggere le travi del soffitto.
Ambienti costruiti in materiale effimero come il legno avevano la base avvolta da
fondi di anfora, così da proteggere il legno dall'umidità del terreno.
La cinta della città è composta di due muri affiancati e intervallati tra loro da un
corridoio largo tre 7,5 e i 13 m, destinato alla circolazione delle truppe, allo
stoccaggio delle munizioni e delle macchine da guerra; in tale intercapedine erano
anche sistemate le scale che permettevano di raggiungere il cammino di ronda, gli
alloggi dei militari e alcuni magazzini. Durante gli scavi fu possibile portare in luce
una porta posterla ingegnosamente realizzata nella forma di una fenditura obliqua
ricavata nello spessore del muro, così da esporre il lato degli assalitori ai colpi dei
militari disposti sugli spalti.
La Porta del Calante si presenta invece parallela alle mura che però si incurvano in
modo tale da mettere in difficoltà gli assalitori; tale stratagemma costruttivo è noto
in Palestina presso la porta di Tella Nasbeh databile al X sec a.C.
Il detrito evidenziato alla base delle mura sembra dimostrare che al di sopra della
zoccolatura in pietra, gran parte del muro di difesa era realizzato in mattone crudo;
le mura erano quasi sicuramente sormontate da merli alternati a feritoie; i rilievi
assiri e la toreutica fenicio-cipriota raffigurano frequentemente mura dotate di merli
rettangolari, come testimoniato anche nelle colonie di Erice, Mozia, e Tharros.
La cinta che vediamo oggi non appartiene comunque alla fase più antica della storia
cittadina: gli scavi hanno dimostrato che la torre Nord (torre A) fu costruita a
scapito di mura più antiche (il cui profilo corrispondeva a quello dell'attuale cinta
interna); in esse ricorreva la tecnica di costruzione detta “a lisca di pesce”, importata
dall'Oriente dei Fenici. Se ne dedurrebbe che una primitiva “cinta semplice” fu
affiancata, in un secondo tempo, da una cinta esterna; è probabile che tale azione sia
connessa alla necessità di rafforzare la città nel periodo dell'assedio romano della
Prima Guerra Punica. In questa fase, dunque, si progettò la realizzazione di un
complesso difensivo composto di due cinte parallele, separate da un corridoio
relativamente vasto, destinato alla circolazione delle truppe e alle infrastrutture. A
suffragio di tale processo, parla il ritrovamento di alcune installazioni artigianali (tra
cui un forno per la fusione dei metalli) distrutti e invasi dalle fondazioni dei muri
della nuova cinta. Le mura dovevano presentarsi ben rifinite, con un’intonacatura a
calce sul lato esterno di cui sono trovate tracce; l'intonaco aveva la funzione di
compattare i materiali costruttivi e di proteggere il muro dalle intemperie.
Le singole case di abitazione presentano uno schema semplice e abbastanza
ripetitivo: vi si accedeva da un vestibolo che effettuava uno scarto netto a fondo
corsa, in modo da impedire a chi passava per la strada di scorgere quanto avveniva
all'interno dell'edificio. Quest'ultimo era organizzato su un cortile centrale spesso
dotato di un pozzo, attorno a cui si disponevano ambienti di varia dimensione
destinati ai pasti comuni, alla ricezione degli ospiti, a camera da letto e soggiorno. La
presenza di scale dimostra l'esistenza di un piano superiore. Spesso, i singoli
ambienti erano separati facendo uso di tendaggi; le pareti erano stuccate, i
109
Fig. 136 –
Ricostruzione
didattica della
forma di una casa
tipo cartaginese a
Karkuan. Fig. 137 –
Planimetria di una
casa fenicia di
Kerkuan
rispondente per
molti versi a quanto
attestato nel Vicino
Oriente.
pavimenti realizzati in calcestruzzo molto solido,
ben resistente alle intemperie. Particolarmente
diffusa doveva essere la presenza di terrazze al
primo o al secondo piano; queste erano utilizzate
soprattutto in estate per la stesura dei panni ma
anche per attività sociali. L'elemento più
impressionante dell'abitato di Kerkuan è la costante
presenza di sale da bagno anche in edifici non
particolarmente opulenti. Il bagno tipo è costituito
da una vasca da bagno con sedile e braccioli, più
una vasca lavandino quadrangolare destinata alle
abluzioni e all'alimentazione della vasca principale.
Le pareti della vasca da bagno sono costruite con
pietre ben cementate, rivestite di uno strato di
stucco idrofugo.
Il pavimento era spesso impermeabilizzato con uno
strato di opus igninum magari decorato con scagliette di marmo
bianco, di calcare nero o arenaria. Condotte ben congegnate
assicuravano la circolazione dell'acqua, tanto per l'alimentazione che
per l'evacuazione. L'interesse costante per le abluzioni rituali è un
elemento ricorrente tra le popolazioni semitiche e orientali, che trova
notevoli riscontri nell'ambiente siro-palestinese ed ebraico sino all'età
romana, come testimoniato dalla prolificazione nella Gerusalemme
erodiana del tipico mikveh destinato alle abluzioni.
Tra gli edifici pubblici scavati, uno presenta caratteri piuttosto
eccezionali che lo rendono degno di citazione; si tratta di un edificio
piuttosto spazioso destinato al culto, situato in quella che è stata
battezzata "strada del Tempio". Vi si accedeva da un breve vestibolo
che dava accesso a un cortile su cui si affacciavano molteplici stanze
allineate lungo il perimetro. Al centro dell'area, un blocco ricavato nel
grés rivestito da un intonaco in calcare bianco raffinato costituiva
l'altare di culto. Alle spalle dell'altare, lungo la parete di fondo del lato
breve del cortile, due piccoli podi servivano con ogni probabilità per
l'esposizione dei sacra, ovvero delle immagini di culto. Sul lato lungo
del cortile si allineava poi una serie di ambienti affiancati
paratatticamente in cui si sono riconosciuti un deposito per l'argilla,
una vasca di forma quadrangolare di 2 x 1,5 m dotata di una
canalizzazione per l'evacuazione dell'acqua e destinata alla
preparazione dell'argilla figlina, un'aula destinata alla modellazione
delle statuette e degli oggetti di culto in terracotta, più un forno di
cottura dell'argilla. Tali ambienti sembrano avvalorare la tesi secondo
la quale all'interno del santuario venivano prodotti oggetti di culto in
terracotta poi venduti ai pellegrini così da finanziare le attività di culto; tale
interpretazione è confortata dal ritrovamento di frammenti di statue in terracotta
all'interno della cenere di cottura, a fianco di ossa di animali e di resti di mattoni a
forma di losanga. Il grande ambiente rettangolare situato a fianco dell'ingresso e
dotato di un lungo bancale lungo le pareti potrebbe essere inteso come un salone
d'attesa per i visitatori del santuario, ma anche come sala destinata all'esposizione
degli oggetti sacri posti in vendita.
Un secondo settore dell'edificio, agibile tramite una porta secondaria, è costituito da
un cortile in cui si sono trovate tracce di cenere frammista a una notevole quantità di
ossa animali, vasellame, oggetti in metallo e monete. La presenza di tale
concentrazione di ceneri e scarti fa pensare che tale cortile fosse destinato pasti
rituali. Nell'angolo nord-ovest è stato poi possibile portare alla luce un cumulo di
ciottoli di forma ellittica opportunamente selezionati, dal diametro oscillante tra i 18
e i 23 cm, collocati su uno strato di cenere mista a carbone, ossa animali, cocci di
ceramica e monete. Gli scavatori hanno interpretato tale cumulo di pietre come
intenzionale, connettendolo a una tradizione religiosa litolatrica ben attestata in
Tunisia sin dall'età della pietra (mousteriano). Si tratterebbe dunque
dell'espressione materiale di una preghiera e della rappresentazione fisica di un
110
voto. La bipartizione del tempio in due
cortili lascia intendere che il primo
fosse più facilmente accessibile e
frequentato dei pellegrini, mentre il
secondo era riservato a sacrifici
animali e ai pasti rituali. La
fondazione dell'edificio sembra
attuarsi già nel corso del IV sec d.C.,
con l'esecuzione di lavori di
ristrutturazione dopo l'assedio di
Agatocle. L'attribuzione del culto non
è certa: negli strati archeologici è stato
possibile portare alla luce statuette in
terracotta di due divinità maschili, una
barbuta e l'altra glabra, forse
immagini di Baâl, Hammon,
Fig. 138 – Le vasche da bagno e i bacini per le abluzioni sono una costante
all'interno delle case private scoperte a Kerkuan, nel rispetto di una tradizione
Eshmoun o Melqart. Un'altra
culturale e religiosa ben attestata in Oriente.
immagine rappresentante un giovane
dio con capello conico potrebbe essere collegata al culto di Cid, il dio della caccia e
della pesca. Alcune statuette a forma di campana e la presenza dell'acqua,
suggerirebbero anche la presenza di una divinità guaritrice. In linea di massima si
può asserire che il santuario di Kerkuan aveva carattere poliade.
Un problema che deve ancora essere risolto è, infine, quello relativo all'ubicazione
dell'antico porto di Kerkuan; il sito, posto in prossimità di un approdo soggetto a
violenti mareggiate non sembra particolarmente adatto all'attracco di grandi navi da
trasporto e militari. La costa è poi esposta ai venti e sottoposta a una risacca
implacabile, mentre la presenza di bassi fondali non consente l'approdo di grosse
unità. Non lontano dalla città, al di fuori della cinta, nel settore settentrionale, due
piccole insenature sembrano però aver potuto accogliere le barche dei pescatori. È
probabile che le navi di grandi dimensioni facessero scalo leggermente più a sud,
presso il sito di Aspis, citato non a caso dalle fonti antiche.
12.8 – La Terza Guerra Punica e la fine di Cartagine
Il grande regno numidico di Massinissa – che occupava l'enorme e fertile entroterra
di Cartagine – era governato da una dinastia reale che tendeva a trasmettere il
potere di padre in figlio, e in cui il re esercitava il proprio potere in ragione del
proprio prestigio personale, in un sistema tendenzialmente tribale. A partire da
Massinissa però, anche il regno numidico fu soggetto ad una modernizzazione,
probabilmente ispirata al modello messo a punto a Cartagine da Annibale.
Massinissa, durante il suo lungo regno fu capace di mettere assieme un’armata
permanente di 50.000 fanti a cui si dovevano giungere contingenti forniti dalla tribù
alleate.
Dopo l'esilio di Annibale, lo stato cartaginese, indebolito nella sua politica interna ed
estera, dovette confrontarsi con le ambizioni espansionistiche di Massinissa che,
forte del trattato di non belligeranza stipulato da Roma e Cartagine, rivendicava a
giusto diritto il possesso degli edifici, delle terre, delle città e “di tutto quello che era
appartenuto ai Numidi fin dai tempi più remoti”. Cartagine, come si è detto, si vide
impedita di ogni possibilità d’intervento militare, anche perché Massinissa, forte
dell'aiuto dato ai Romani nelle ultime fasi della Seconda Guerra Punica, era
considerato amico di Roma. Tra il 201 e il 195 a.C. il sovrano numida si prese cura
della riorganizzazione del proprio regno, evitando di sfidare troppo apertamente
Cartagine ancora governata da Annibale. In una prima fase, i suoi sforzi si diressero
quindi verso la Cirenaica dove venne rovesciato un capo ribelle di nome Aphter. Nel
193 a.C., dopo la dipartita di Annibale per la Bitinia, Massinissa scelse di agire in
modo più diretto, occupando militarmente la piccola Sirte e sottraendo a Cartagine
alcuni villaggi e i relativi proventi delle tasse. Tale atteggiamento aggressivo si
intensificò negli anni successivi quando Massinissa iniziò a puntare alla conquista di
siti maggiormente strategici come Leptis Magna, che fu annessa allo stato numidico
111
Fig. 139 –
Planimetria del
tempio scoperto a
Kerkuan, con chiara
indicazione dei
diversi ambienti e
della loro funzione.
nel 162 a.C. Tra il 153 e il 152 a.C., Massinissa mise le mani sulla fertile
valle del Medjerda e sul territorio di Tusca, un entroterra fertilissimo da
cui Cartagine traeva le risorse cerealicole necessarie alla sua
sopravvivenza. Cartagine, impotente, in un primo tempo decise di
espellere dalla città tutti coloro che dimostravano un atteggiamento
complice con il sovrano numidico; quest’ultimo reagì accogliendo gli
esuli e inviando i figli Micipsa e Gulussa in qualità di ambasciatori a
chiedere conto a Cartagine del suo comportamento. La situazione
degenerò con l’assedio condotto da Massinissa alla città di Oroscopa
(non ancora identificata), dando il via, nel 150 a.C., alla guerra con
Cartagine. Il re numidico riuscì a mettere a segno una vittoria
sull'armata cartaginese, imponendo condizioni molto dure; la capitale
punica, con tale atto di guerra, aveva però nel frattempo violato il
trattato del 201 a.C., dando lo spunto Roma per un intervento militare.
Nel 153 a.C. Catone si recò in Africa alla testa di una commissione
d’indagine presentandosi pochi giorni più tardi al Senato di Roma con
un fico fresco raccolto nella capitale africana per dimostrare, in modo
inequivocabile, la vicinanza e il pericolo costituito dalla potenza nemica.
Il progetto romano era probabilmente quello di unificare i territori del
nord Africa in modo definitivo sotto il proprio controllo; Cartagine,
privata del proprio esercito e della propria marina non poteva in effetti
costituire un serio pericolo per Roma. Di fronte all'aggressività romana,
Cartagine rispose mettendo a morte – a scopo dimostrativo – i fautori
della guerra contro Massinissa e dichiarando di accettare tutte le
condizioni imposte da Roma. Quest’ultima, tuttavia, nel 149 a.C. decise
di non dare ascolto all'ambasceria cartaginese e inviò in Africa 80.000
fanti, 4000 cavalieri e una flotta di 55 quinqueremi oltre a 100 ulteriori
navi da guerra. Cartagine, posta alle strette, consegnò ai Romani
200.000 armi, 2000 macchine da guerra e 300 giovani aristocratici in
qualità di ostaggi. Il Senato di Roma rispose intimando ai Cartaginesi di
abbandonare la città ormai destinata alla distruzione. Cartagine, non
potendo accettare tali condizioni, si organizzò per una difesa disperata
ed eroica, in uno stato generale di esaltazione. La tradizione storiografica
racconta che le donne cartaginesi sacrificarono le proprie chiome per
ricavarne corde per catapulta e ci si apprestò a fabbricare armi da guerra
in quantità. Rimasero fedeli a Cartagine solo Hyppo Diarrhytus
(Bizerte), Clupea (Kélibia) e Neapolis (Nabeul), mentre gran parte delle
altre città defezionò a favore di Roma. I Romani posero alla testa delle
proprie truppe Scipione l'Emiliano, il figlio di Lucio Emilio Paolo (il
console battuto con Varrone a Canne) e figlio adottivo di Scipione l’Africano.
Nel 146 a.C. Romani sferrarono l'attacco decisivo impadronendosi del porto militare
di Cartagine, trasferendo i combattimenti per le strade della città fino all'acropoli
dove, in prossimità del tempio di Ashmoun si erano rifugiati i rivoltosi più
determinati a resistere. Dopo sei giorni e sei notti di assedio, 55.000 abitanti di
Cartagine si arresero e Asdrubale, capo delle truppe cartaginesi, si consegnò a
Scipione chiedendo di essere risparmiato, mentre sua moglie Sofonisba si gettava
nelle fiamme assieme ai suoi due figli. La città fu completamente distrutta da un
poderoso incendio che si propagò per oltre dieci giorni; gran parte dei sopravvissuti
fu tratto in schiavitù, e l’area in cui era prosperata la città fu considerata maledetta,
cosparsa di sale con il divieto per chiunque di costruirvi alcunché. Tutte le città
fedeli a Cartagine furono condannate alla distruzione, quelle amiche di Roma furono
dichiarate libere e i loro territori ingranditi a scapito delle vicine. Massinissa,
ammantato di un carisma di tipo quasi sacrale, pur non essendo venerato in vita,
subì l'apoteosi dopo la morte.
Utica fu premiata per la defezione con l'acquisizione delle terre coltivabili fino a
Bizerte a nord, e alle porte di Cartagine sud, diventando, successivamente, capitale
della Provincia d'Africa. Il territorio di tale provincia, inizialmente, fu piuttosto
ristretto e stimabile in un'area di 25.000 km²: i suoi confini erano delimitati dalla
cosiddetta fossa regia fatta scavare da Scipione l'Emiliano. Tale frontiera partiva da
Tabarka in direzione sud-orientale passando a est della regione di Béja, Téboursouk
112
e Dougga, attraversando il Jebel Frikin evitando così la steppa, congiungendosi alla
costa orientale della Tunisia fino a sud di Thaene (Thina).
All'indomani della conquista, il suolo fu centuriato e partizionato in apprezzamenti
di 50 ha; qui, già a partire da 122 a.C., furono fatti alcuni tentativi di assegnazione e
coltivazione della terra a favore di coloni italici, ad esempio al tempo dei Gracchi;
tale iniziativa trovò l'opposizione dei gruppi più conservatori che reputavano il
tentativo di impiantare una colonia sul suolo maledetto di Cartagine un affronto agli
dei (Colonia Iunonia Kartago). La popolazione autoctona fu costretta a pagare un
tributo fisso per poter mantenere la propria proprietà terriera mentre gran parte del
terreno coltivabile fu trasformato in ager publicus. Roma, a partire dall'età di Silla,
assegnò il governo della Provincia un magistrato di rango proconsolare, assistito da
un legato e da un questore designati dal Senato; nominato per estrazione a sorte per
la durata di un anno, il proconsole aveva il compito di governare la provincia,
difenderne le frontiere e mantenere l'ordine e la sicurezza. Aveva in questo modo
definitivamente fine la secolare avventura della colonia fenicia di Tiro in nord Africa,
anche se per molto tempo importanti magistrature furono rivestite da maggiorenti
di origine punica, come dimostrato dai gentilizi tipicamente fenici che ricorrono
nelle epigrafi di età imperiale.
Sandro Caranzano
Fig. 140 – I forni per la cottura della ceramica
scoperti nel tempio di Kerkuan; Fig. 141 –
Vasca per la preparazione dell'argilla
all'interno del complesso templare; Fig. 142 –
Le curiose pietre sferiche scoperte nel
secondo cortile, probabilmente collegate a
una antica forma di litolatria.
113